AGGIORNAMENTO ALL'11.04.2024 |
Sulla ristrutturazione edilizia di un
fabbricato "rurale"
[censito al Catasto Terreni e, comunque, avente
(o che aveva) destinazione residenziale] che diventerà un
fabbricato "residenziale"
(da censire al
Catasto Fabbricati):
sconta,
o meno, il versamento del contributo di costruzione?
Risposta: SÌ
(...anche
se con alcuni distinguo). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
“ratio” dell’esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lett.
b), del TUE è quella di favorire gli edifici unifamiliari,
quindi la piccola proprietà immobiliare, meritevole di un
trattamento contributivo differenziato per agevolare
interventi di ristrutturazione o di limitato ampliamento di
unità immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni
abitativi di una famiglia; insomma si tratta di un’esenzione
da contributo per finalità di carattere eminentemente
sociale.
---------------
Nel caso di specie, dalla documentazione versata in giudizio
appare evidente che l’immobile di cui è causa non può essere
minimamente ricondotto all’ipotesi di cui al succitato art.
17 del TUE.
Il complesso immobiliare ricade in zona A1 agricola ed è
costituito da un fabbricato principale un tempo destinato ad
abitazione del coltivatore diretto e da un altro fabbricato
ad uso stalla o deposito.
L’intervento assentito con il PdC di cui è causa comporta la
ristrutturazione con cambio d’uso da rurale a residenziale,
la creazione di un pergolato ad uso parcheggio, la
sistemazione dell’area esterna con realizzazione di un
cancello carrabile sulla via ....
La relazione tecnica di progetto ammette che quest’ultimo
riguarda “la ristrutturazione dell’esistente fabbricato
rurale allo scopo di renderlo idoneo all’uso abitativo”.
Inoltre, se il fabbricato principale è considerato in
“discrete condizioni”, quello accessorio è definito come
fatiscente e in parte crollato, sicché sullo stesso dovranno
realizzarsi interventi importanti per creare un’unità
abitativa, con nuovi locali ad uso bagno e lavanderia.
A ciò si aggiunga che il complesso immobiliare non può
certamente qualificarsi come edificio unifamiliare; è
sufficiente a tale proposito ancora la lettura della
relazione di progetto e delle fotografie allegate, che
individuano con chiarezza due strutture distinte.
Anche la documentazione catastale evidenzia due diverse
unità immobiliari.
Non si tratta, quindi, di un edificio unifamiliare, senza
contare che la trasformazione in residenza del vecchio
edificio fatiscente un tempo adibito ad uso stalla e fienile
implica un aumento della superficie utile ben superiore alla
misura di legge del 20%.
Nello stesso ricorso principale l’esponente ammette peraltro
che l’immobile è composto da ben nove vani per una
superficie abitabile di circa 200 metri quadrati, il che
appare di per sé incompatibile con la nozione di “edificio
unifamiliare”.
Non può neppure sostenersi che l’intervento edilizio non
darebbe luogo ad aumento del carico urbanistico in quanto
anche il vecchio edificio abitato dal coltivatore diretto
aveva comunque destinazione residenziale.
L’argomento difensivo è privo di pregio, considerato che si
realizza la trasformazione ad uso abitativo del fabbricato
ad uso deposito (stalla e fienile), senza contare che la
vecchia casa del coltivatore diretto è ormai di fatto non
più abitabile, sicché la creazione della nuova e più ampia
residenza darà luogo ad incremento del carico urbanistico.
---------------
... per l'annullamento
●
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
- dell'Avviso di rilascio del Permesso di Costruire n. 72/2018,
prot. n. 13345 del 04.09.2018, notificato in pari data,
nella parte in cui dispone che, ai fini del rilascio del
Permesso di Costruire, debba essere pagato il contributo di
costruzione ammontante complessivamente ad € 25.332,12 (doc.
1), e di ogni atto presupposto o conseguente o comunque
connesso alla liquidazione del contributo di costruzione e
l'accertamento del diritto della ricorrente all'esonero dal
pagamento del contributo di costruzione e comunque della non
debenza dello stesso o, eventualmente, del minore importo da
corrispondere, con richiesta di restituzione della somma
indebitamente pagata, pari ad € 25.332,12 o a quella diversa
somma che risulterà in corso di causa;
●
per quanto riguarda i motivi aggiunti:
- per l’annullamento degli atti già impugnati con ricorso
introduttivo del giudizio e per l’accoglimento delle altre
domande ivi formulate, nonché per l’accertamento e la
declaratoria del diritto in capo alla ricorrente allo
scomputo del contributo di costruzione e/o alla riconduzione
ad equità degli impegni assunti mediante sottoscrizione di
atto unilaterale d’obbligo allegato al permesso di costruire
n. 72/2018.
...
1. La signora An.Ci. otteneva dal Comune di Olginate (LC) il
permesso di costruire (PdC) n. 72/2018 per il restauro
conservativo di un fabbricato adibito a residenza rurale,
per la ristrutturazione del fabbricato ad uso deposito e il
suo mutamento di destinazione d’uso in fabbricato
residenziale, con riguardo ad un compendio immobiliare sito
alla via ... n. 1.
Con il ricorso principale in epigrafe la stessa
contestava la pretesa del Comune di ottenere il pagamento
del contributo di costruzione per euro 25.332,12 in
relazione al permesso di cui è causa.
Contestualmente era chiesto l’accertamento del diritto
all’esonero dal pagamento del contributo, con richiesta di
restituzione delle somme pagate.
Con ricorso per motivi aggiunti –sottoscritto da un
nuovo difensore che aveva sostituito quello originario–
l’esponente confermava la propria richiesta di esenzione dal
pagamento del contributo di costruzione per l’intervento
edilizio di cui è causa e contestualmente chiedeva
l’accertamento della non debenza o in ogni caso la riduzione
delle somme da essa dovute ai sensi dell’art. 21 delle norme
di attuazione (NTA) del Piano di Governo del Territorio (PGT,
vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale ai
sensi degli articoli 7 e seguenti della legge regionale n.
12 del 2005).
...
2.1 Nel primo motivo del gravame principale e nel
motivo aggiunto n. 3 (continua la numerazione del ricorso
introduttivo) l’esponente lamenta la violazione sotto vari
profili degli articoli 16 e 17 del DPR n. 380 del 2001
(Testo Unico dell’edilizia o anche solo “TUE”) e degli
articoli 43 e 44 della legge regionale sul governo del
territorio n. 12 del 2005.
La tesi di parte ricorrente è che il proprio intervento
edilizio non dovrebbe essere assoggettato a contributo di
costruzione, dovendo applicarsi l’ipotesi di esenzione di
cui all’art. 17, comma 3, lettera b), del TUE, che prevede
la gratuità degli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, degli edifici
unifamiliari.
La censura non merita condivisione.
La “ratio” dell’esenzione di cui sopra è quella di
favorire gli edifici unifamiliari, quindi la piccola
proprietà immobiliare, meritevole di un trattamento
contributivo differenziato per agevolare interventi di
ristrutturazione o di limitato ampliamento di unità
immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni
abitativi di una famiglia; insomma si tratta di un’esenzione
da contributo per finalità di carattere eminentemente
sociale (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, sentenza n.
449 del 2018, peraltro richiamata seppure impropriamente
dall’esponente, nella quale si evidenzia correttamente che
la finalità della norma è quella di garantire una “decorosa
sistemazione abitativa”; si veda anche nello stesso
senso, TAR Veneto, Sezione II, sentenza n. 289 del 2019).
Dalla documentazione versata in giudizio appare però
evidente che l’immobile di cui è causa non può essere
minimamente ricondotto all’ipotesi di cui al succitato art.
17 del TUE.
Il complesso immobiliare ricade in zona A1 agricola ed è
costituito da un fabbricato principale un tempo destinato ad
abitazione del coltivatore diretto e da un altro fabbricato
ad uso stalla o deposito.
L’intervento assentito con il PdC di cui è causa comporta la
ristrutturazione con cambio d’uso da rurale a residenziale,
la creazione di un pergolato ad uso parcheggio, la
sistemazione dell’area esterna con realizzazione di un
cancello carrabile sulla via ... (cfr. il doc. 1 della
ricorrente).
La relazione tecnica di progetto (cfr. il doc. 3 della
ricorrente) ammette che quest’ultimo riguarda “la
ristrutturazione dell’esistente fabbricato rurale allo scopo
di renderlo idoneo all’uso abitativo” (si veda pag. 3
della relazione, punto 1.3).
Inoltre, se il fabbricato principale è considerato in “discrete
condizioni”, quello accessorio è definito come
fatiscente e in parte crollato, sicché sullo stesso dovranno
realizzarsi interventi importanti per creare un’unità
abitativa, con nuovi locali ad uso bagno e lavanderia (si
vedano sul punto anche le fotografie degli immobili, doc. 19
della ricorrente e le planimetrie degli interventi, in
particolare quella doc. 13 della ricorrente).
A ciò si aggiunga che il complesso immobiliare non può
certamente qualificarsi come edificio unifamiliare; è
sufficiente a tale proposito ancora la lettura della
relazione di progetto e delle fotografie allegate, che
individuano con chiarezza due strutture distinte (cfr.
ancora il doc. 3 della ricorrente).
Anche la documentazione catastale evidenzia due diverse
unità immobiliari (cfr. i documenti n. 1 e n. 2 del
resistente).
Non si tratta, quindi, di un edificio unifamiliare, senza
contare che la trasformazione in residenza del vecchio
edificio fatiscente un tempo adibito ad uso stalla e fienile
implica un aumento della superficie utile ben superiore alla
misura di legge del 20%.
Nello stesso ricorso principale (cfr. pag. 14) l’esponente
ammette peraltro che l’immobile è composto da ben nove vani
per una superficie abitabile di circa 200 metri quadrati, il
che appare di per sé incompatibile con la nozione di “edificio
unifamiliare”.
Non può neppure sostenersi, come invece viene affermato nei
motivi aggiunti, che l’intervento edilizio non darebbe luogo
ad aumento del carico urbanistico in quanto anche il vecchio
edificio abitato dal coltivatore diretto aveva comunque
destinazione residenziale.
L’argomento difensivo è privo di pregio, considerato che si
realizza la trasformazione ad uso abitativo del fabbricato
ad uso deposito (stalla e fienile), senza contare che la
vecchia casa del coltivatore diretto è ormai di fatto non
più abitabile, sicché la creazione della nuova e più ampia
residenza darà luogo ad incremento del carico urbanistico.
I motivi n. 1 e n. 3 devono quindi rigettarsi (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.03.2024 n. 719 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' oneroso l'intervento edilizio di ristrutturazione
edilizia di un
edificio colonico composto da abitazione e locali agricoli
(stalla, cantina e magazzino) contemplante altresì:
- il cambio di destinazione dei locali agricoli (parzialmente
crollati e da ricostruire) a residenza;
- il cambio di destinazione dell’intero edificio da residenza
colonica a civile abitazione;
- la costruzione di una nuova cantina interrata.
Come è noto, in base alla normativa applicabile “ratione
temporis”, il rilascio del permesso di costruire per
interventi di ristrutturazione edilizia è sempre oneroso
(art. 16 DPR n. 380/2001) salvo che “per gli interventi
di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari” (art. 17,
comma 3, lett. b), DPR n. 380/2001).
Questo Tribunale ha già trattato ricorsi analoghi che
contemplavano lavori di ristrutturazione di ex fabbricati
rurali con destinazione mista, ovvero residenza colonica e
locali adibiti ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina,
magazzini, ecc.).
Nel caso specifico, l’intervento non solo ha comportato la
realizzazione di nuova superficie calpestabile, ma anche un
ampliamento della superficie residenziale attraverso il
cambio di destinazione dei vani originariamente con
destinazione produttiva, quindi non accessori alla residenza
ma direttamente collegati all’esercizio dell’attività
agricola.
Il ricorrente non offre alcun elemento per ritenere che
l’ampliamento della superficie residenziale sia stato
contenuto entro il 20%.
Poiché l’intero edificio ha subito anche un cambio d’uso, da
destinazione colonica (i cui interventi sono normalmente
gratuiti ex art. 17, comma 3, lett. a), DPR n. 380/2001) a
civile abitazione (i cui interventi sono normalmente onerosi
come visto in precedenza), non si possono frazionare
artificiosamente i lavori al fine di sostenere che parte di
essi sarebbero gratuiti e parte onerosi, poiché l’intervento
deve essere valutato nel suo complesso.
In questo caso pare evidente che il nuovo edificio,
derivante dalla completa ristrutturazione con ampliamento
del precedente, determini un complessivo incremento di
carico urbanistico che va complessivamente ricondotto al
regime dell’attività edilizia onerosa.
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1. Il ricorrente otteneva, dal Comune di Pesaro, il permesso
di costruire n. 281/2005 per lavori di ristrutturazione di
un edificio colonico composto da abitazione e locali
agricoli (stalla, cantina e magazzino).
La ristrutturazione contemplava altresì:
- il cambio di destinazione dei locali agricoli (parzialmente
crollati e da ricostruire) a residenza;
- il cambio di destinazione dell’intero edificio da residenza
colonica a civile abitazione;
- la costruzione di una nuova cantina interrata.
Per il rilascio del titolo è stato previsto il pagamento dei
seguenti oneri concessori:
- € 5.236,87 per contributo commisurato al costo di costruzione;
- € 9.426,54 per oneri di urbanizzazione primaria;
- € 10.136,16 per oneri di urbanizzazione secondaria.
Con l’odierna iniziativa giudiziaria il ricorrente contesta
la quantificazione dei predetti oneri nei limiti della somma
di € 9.832,29 che ritiene non essere dovuta perché riguarda
i lavori di “ristrutturazione semplice” (cioè senza
cambio di destinazione d’uso e senza aggravio di carico
urbanistico) dei vani originariamente destinati ad
abitazione.
Il Comune di Pesaro si è costituito per resistere al
gravame.
2. Il ricorso è affidato ad un’unica ed articolata
censura basata sulla circostanza che la ristrutturazione
(che il ricorrente definisce “semplice”) dei vani
dell’edificio già destinati a residenza, non abbia
comportato alcun incremento di carico urbanistico per cui
l’intervento, almeno entro questi limiti, avrebbe dovuto
essere considerato gratuito secondo l’orientamento
giurisprudenziale applicabile al momento.
La censura è infondata.
Come già ricordato in precedenza, l’intero edificio ha
subito un cambio di destinazione da residenza colonica a
civile abitazione.
Anche i lavori hanno riguardato l’intero edificio.
Sul punto
il Comune cita il passo della relazione di progetto
descrittiva delle seguenti opere: “Per l’edificio
principale … una ridistribuzione planimetrica degli ambienti
che prevedono il cambio di destinazione della stalla al
piano terra e del magazzino al primo piano. La zona giorno
si svilupperà al piano terra con la realizzazione di una
stanza interrata destinata a cantina. La zona notte, posta
al primo piano, prevede la realizzazione di alcuni soppalchi
in legno… Il corpo accessorio di sinistra sarà ricostruito
nelle parti mancanti destinato in parte a garage in parte a
porticato, mentre quello di destra verrà trasformato
interamente a porticato. Le bucature esistenti
nell’ex-stalla vengono ampliate in altezza abbassando la
piattabanda. Sul lato destro, queste ultime, diventano
porte-finestre. Si prevede la sostituzione di tutti gli
infissi delle finestre con finestre in vetrocamera e sistema
di oscuramento con persiane. Verrà sostituito il portoncino
di ingresso. … Verrà realizzato ex novo il solaio di piano
abbassandolo di circa 40 cm per sopperire all’aumento di
spessore dovuto alla realizzazione del massetto impianti e
all’aumento di spessore dovuto a necessità strutturali. …
Verranno inserite delle velux per l’illuminazione dei
soppalchi. Sul fianco sinistro è prevista la realizzazione
di un’apertura ovale anch’essa per illuminare il soppalco
attiguo.” (cfr. memoria depositata il 07/12/2023 non
seguita da controdeduzioni di parte ricorrente).
Come è noto, in base alla normativa applicabile “ratione
temporis”, il rilascio del permesso di costruire per
interventi di ristrutturazione edilizia è sempre oneroso
(art. 16 DPR n. 380/2001) salvo che “per gli interventi
di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non
superiore al 20%, di edifici unifamiliari” (art. 17,
comma 3, lett. b), DPR n. 380/2001).
Questo Tribunale ha già trattato ricorsi analoghi che
contemplavano lavori di ristrutturazione di ex fabbricati
rurali con destinazione mista, ovvero residenza colonica e
locali adibiti ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina,
magazzini, ecc.) (cfr. TAR Marche, 04.01.2018 n. 9).
Nel caso specifico, l’intervento non solo ha comportato la
realizzazione di nuova superficie calpestabile, ma anche un
ampliamento della superficie residenziale attraverso il
cambio di destinazione dei vani originariamente con
destinazione produttiva, quindi non accessori alla residenza
ma direttamente collegati all’esercizio dell’attività
agricola.
Il ricorrente non offre alcun elemento per ritenere che
l’ampliamento della superficie residenziale sia stato
contenuto entro il 20%.
Poiché l’intero edificio ha subito anche un cambio d’uso, da
destinazione colonica (i cui interventi sono normalmente
gratuiti ex art. 17, comma 3, lett. a), DPR n. 380/2001) a
civile abitazione (i cui interventi sono normalmente onerosi
come visto in precedenza), non si possono frazionare
artificiosamente i lavori al fine di sostenere che parte di
essi sarebbero gratuiti e parte onerosi, poiché l’intervento
deve essere valutato nel suo complesso.
In questo caso pare evidente che il nuovo edificio,
derivante dalla completa ristrutturazione con ampliamento
del precedente, determini un complessivo incremento di
carico urbanistico che va complessivamente ricondotto al
regime dell’attività edilizia onerosa.
3. Il ricorso va quindi respinto (TAR Marche,
sentenza 16.01.2024 n. 53 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittima la
determinazione e liquidazione dei contributi di costruzione
per l'intervento edilizio di ristrutturazione con
demolizione e ricostruzione e cambio d'uso da rurale a
civile abitazione di una casa colonica.
L’art. 17, comma 3, lett. b), prevede che “Il contributo di
costruzione non è dovuto: (omissis)
b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento,
in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Sul punto conviene richiamare quanto statuito in caso
analogo da questo TAR secondo cui
“l’art. 9, lett. d), della Legge n.
10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità
della concessione edilizia “per gli interventi di restauro,
di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato
rurale poi censito al catasto urbano nel 1991. Nella zona
agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima
densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni
regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4,
DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n.
13/1990). Il relativo piano terra era originariamente
adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.),
cioè attività normalmente computabili attraverso propri
indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista,
ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad
esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio
o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato
nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque
comportato una riconfigurazione delle superfici utili,
ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva,
trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo
essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba
essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo
volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in
altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie
funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare
l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di
derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione
socio economica assunta dalla norma, coincide con la piccola
proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi
di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie.
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa
tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo,
contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione,
vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette,
ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo
spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali
stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per
produzione vinicola o comunque spazi destinati alla
lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti
dell’agricoltura. Sarebbe stato quindi onere di parte
ricorrente fornire quanto meno un principio di prova
(depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle
superfici esistenti e di progetto) per desumere che il
cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20%
della destinazione residenziale originaria.”.
Secondo le risultanze processuali (progetto tecnico di parte
ricorrente), emerge che l’immobile in questione aveva in
origine destinazione residenziale al solo primo piano e che
per effetto del progettato intervento, anche il piano terra,
di dimensioni sostanzialmente uguali al primo piano,
diventerebbe ad uso abitativo.
È, allora, indiscutibile che il cambio di destinazione d’uso
non sia stato contenuto entro i limiti del 20% della
destinazione residenziale originaria.
La tesi di parte ricorrente dedotta dall’orientamento del
TAR Piemonte richiamato (peraltro non ancora avallato in
appello), sarebbe, al limite, sostenibile (e in disparte la
sua condivisibilità) qualora vi fosse coincidenza, entro il
margine del quinto dell’originaria destinazione, tra
destinazioni di uso ante e post intervento, ma nella specie
tale situazione non è pacificamente sussistente, pertanto
non può riconoscersi applicazione dell’esenzione di cui
all’art. 17, comma 3, lett. b), D.P.R. 380/2001.
Né il passaggio (mediante la totale demolizione e
ricostruzione dell’edificio) da una situazione ex ante in
cui esisteva un solo appartamento di circa 150 mq ad una ex
post in cui esisterebbero due appartamenti di circa 150 mq,
può ritenersi privo di riflessi sul carico urbanistico.
---------------
... per l'annullamento della determinazione e liquidazione
dei contributi di costruzione per l'intervento edilizio di
ristrutturazione con demolizione e ricostruzione e cambio
d'uso da rurale a civile abitazione di una casa colonica
sita in Via ... n. 4, oggetto della SCIA prot. n.
7854/2021 del 02.09.2021, nonché di ogni atto presupposto,
conseguente e, comunque, connesso, ivi compreso il
provvedimento del 18.02.2022 avente ad oggetto: “SCIA per
ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione
con cambio d'uso da rurale a civile abitazione - via ... n. 4 foglio 2 mappale 241 Sub 3-4-5 - Immobile
schedato A88 varianti PRG case coloniche. invito al
pagamento del contributo dovuto e richiesta integrazioni”,
con il quale sono stati determinati e liquidati a carico dei
ricorrenti i contributi di costruzione relativi
all'intervento edilizio in oggetto.
...
I ricorrenti contestano la determinazione e liquidazione dei
contributi a beneficio dell’Unione Terra dei Castelli –
Territorio Comune di Polverigi, per l’intervento edilizio di
ristrutturazione con demolizione ricostruzione e cambio
d’uso da rurale a civile abitazione di una casa colonica
sita in Via ... n. 4, oggetto della SCIA prot. n.
7854/2021 del 02.09.2021.
Gli stessi hanno richiesto l’esonero dei contributi di
costruzione ai sensi dell’art. 17, comma 3, lettera b), del DPR
380/01, legando il diritto all’esonero al fatto che il
fabbricato rurale oggetto dell’intervento era stato
edificato prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977,
allorquando le nuove costruzioni (sia rurali che di civile
abitazione) non erano soggette al pagamento di oneri.
Secondo i ricorrenti, inoltre, la stessa L. 10/1977 avrebbe
previsto all’articolo 9 alcune deroghe al principio generale
della onerosità della concessione, stabilendo che in alcuni
casi il contributo di concessione non sarebbe dovuto per le
opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le
residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale,
così ritenendo esente da oneri la costruzione realizzata
prima dell’entrata in vigore della predetta norma, sia essa
rurale ovvero di civile abitazione.
Andando di diverso avviso, il Comune resistente ha così
comunicato con l’impugnato atto del 19.02.2022, “In
riferimento alla pratica in oggetto, assunta al protocollo
dell'Unione con il num. 7854/2021, si fa presente che, da
una verifica amministrativa e contabile della documentazione
prodotta, risulta NON essere stato versato il contributo di
costruzione previsto e dovuto ai sensi dell'art. 16 del DPR
380/2001 e smi (ex art. 3 legge 28/01/1977 n. 10) per i lavori
di cui trattasi, così come di seguito determinato”,
indicando in euro 20.368,54 il totale del contributo
richiesto (somma del contributo per oneri di urbanizzazione
per euro 12.828,80 e di costruzione per euro 7.539,54) e
precisando “Ritenuto che il versamento dell'importo di cui
sopra sia dovuto, in quanto il cambio di destinazione d'uso
a civile abitazione di un edificio colonico realizzato a suo
tempo da un imprenditore agricolo per la conduzione del
fondo assume rilevanza urbanistica ai sensi dell'art. 23-ter
del DPR 380/2001, e pertanto doveva essere effettuato
contestualmente alla presentazione della SCIA”.
Con il mezzo di gravame notificato il 17.05.2022 e
depositato il 23.05.2022, è proposto il seguente motivo di
diritto.
Illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere –
Violazione e falsa applicazione degli artt. 16, 17 e 23-ter
del D.P.R. n. 380/2001 oltre che dell’art. 23 Cost. –
Erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti.
Sulla base di precedenti del Tar Piemonte (Tar Piemonte sez.
II, 14.06.2019, n. 687 e Tar Piemonte sez. II, 27.04.2021, n. 446), affermano i ricorrenti, la non debenza di
quanto richiesto dal Comune. Spiegano nel motivo, che mentre
le residenze rurali edificate fino al 1977 erano esentate
dal contributo di concessione sia che fossero destinate a
soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo
connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero
destinate a usi civili da parte di soggetti privati privi
della qualifica di imprenditore agricolo, e ciò in virtù del
regime di generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui
all’articolo 31 della legge n. 1150 del 1942, invece le
residenze rurali edificate dalla data di entrata in vigore
della legge n. 10 del 1977 sono esentate dal contributo di
costruzione soltanto nella misura in cui siano
effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della
conduzione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo,
con la conseguenza che, venendo meno l’attività
imprenditoriale agricola, la residenza può continuare ad
essere utilizzata come abitazione civile solo previo
pagamento del contributo di costruzione, ciò determinando la
decadenza dal beneficio dell’esenzione di cui aveva goduto
il titolo edilizio originario.
Da quanto sopra conseguirebbe che, mentre per le residenze
rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della
legge n. 10 del 1977 il passaggio dall’utilizzo rurale da
parte dell’imprenditore agricolo all’utilizzo civile da
parte di soggetti privi di tale qualifica, configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente
rilevante in quanto determina la decadenza dal beneficio
dell’esenzione dei contributi di concessione di cui aveva
beneficiato il titolo edilizio originario; per le residenze
rurali edificate prima dell’entrata in vigore della legge
10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non
configurerebbe alcuna modifica della destinazione d’uso
giuridicamente rilevante dal momento che in tal caso il
titolo abilitativo originario prevedeva entrambi gli
utilizzi e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità
previsto in modo generalizzato per il rilascio di
qualsivoglia titolo edilizio e, pertanto, sia che l’immobile
fosse destinato all’abitazione rurale, funzionale alla
conduzione del fondo, sia altrettanto egualmente che fosse
destinato all’abitazione civile.
Nel caso di specie, si dice, l’immobile è stato edificato
anteriormente al 1967 (come risulta dall’atto di acquisto),
e quindi beneficiando del regime di generale gratuità dei
titoli edilizi vigente prima dell’entrata in vigore della
legge n. 10 del 1977, ciò che comporterebbe l’irrilevanza,
alla luce di quanto sopra esposto, della circostanza che
l’immobile possa essere stato utilizzato come residenza
rurale e che oggi venga destinato a residenza civile, in
quanto entrambe le destinazioni d’uso erano e sono parimenti
compatibili con il titolo abilitativo originario, essendo
entrambe residenze destinate al medesimo uso di consentire
l’abitazione alle persone, ed entrambe erano parimenti
esenti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione in virtù
della normativa urbanistica all’epoca vigente.
In tale contesto il passaggio da residenza rurale a
residenza civile non configurerebbe una modifica della
destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
Peraltro, si afferma che il passaggio dall’una all’altra
destinazione non determinerebbe alcun aumento del carico
urbanistico trattandosi in entrambi i casi di un utilizzo
abitativo di un immobile senza incremento di superfici e di
volumi e con l’aggiunta del fatto che il particolare tipo di
intervento edilizio richiesto gode di una specifica
disciplina di esenzione prevista dall’articolo 17, comma 2 (rectius,
comma 3), lett. b), del DPR 380/2001 che riguarda proprio gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento in misura
non superiore al 20% degli edifici unifamiliari.
...
Il ricorso non merita accoglimento per le seguenti ragioni.
L’art. 17, comma 3, lett. b), prevede che “Il contributo di
costruzione non è dovuto: (omissis)
b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento,
in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Sul punto conviene richiamare quanto statuito in caso
analogo da questo TAR, con la sentenza del 04.01.2018, n. 9, secondo cui “l’art. 9, lett. d), della Legge n.
10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità
della concessione edilizia “per gli interventi di restauro,
di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato
rurale poi censito al catasto urbano nel 1991. Nella zona
agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima
densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni
regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4,
DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n.
13/1990). Il relativo piano terra era originariamente
adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.),
cioè attività normalmente computabili attraverso propri
indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista,
ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad
esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio
o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato
nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque
comportato una riconfigurazione delle superfici utili,
ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva,
trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo
essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato
l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova
superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il
cambio di destinazione tra categorie funzionalmente
diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio
unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione
sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio
economica assunta dalla norma, coincide con la piccola
proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi
di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie (cfr. TAR Lombardia, Milano,
Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; id. Sez. II, 10.10.1996 n. 1480;
TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2011 n. 713; TAR Veneto, Sez.
II, 13.03.2008 n. 604).
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa
tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo,
contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione,
vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette,
ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo
spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali
stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per
produzione vinicola o comunque spazi destinati alla
lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti
dell’agricoltura. Sarebbe stato quindi onere di parte
ricorrente fornire quanto meno un principio di prova
(depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle
superfici esistenti e di progetto) per desumere che il
cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20%
della destinazione residenziale originaria.”.
Secondo le risultanze processuali (progetto tecnico di parte
ricorrente), emerge che l’immobile in questione aveva in
origine destinazione residenziale al solo primo piano e che
per effetto del progettato intervento, anche il piano terra,
di dimensioni sostanzialmente uguali al primo piano,
diventerebbe ad uso abitativo.
È, allora, indiscutibile che il cambio di destinazione d’uso
non sia stato contenuto entro i limiti del 20% della
destinazione residenziale originaria.
La tesi di parte ricorrente dedotta dall’orientamento del
TAR Piemonte richiamato (peraltro non ancora avallato in
appello), sarebbe, al limite, sostenibile (e in disparte la
sua condivisibilità) qualora vi fosse coincidenza, entro il
margine del quinto dell’originaria destinazione, tra
destinazioni di uso ante e post intervento, ma nella specie
tale situazione non è pacificamente sussistente, pertanto
non può riconoscersi applicazione dell’esenzione di cui
all’art. 17, comma 3, lett. b), D.P.R. 380/2001.
Né il passaggio (mediante la totale demolizione e
ricostruzione dell’edificio) da una situazione ex ante in
cui esisteva un solo appartamento di circa 150 mq ad una ex
post in cui esisterebbero due appartamenti di circa 150 mq,
può ritenersi privo di riflessi sul carico urbanistico.
In conclusione il ricorso va respinto (TAR Marche,
sentenza 16.12.2023 n. 858 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie inerenti la debenza, o la misura, dei contributi edilizi pretesi da
un’amministrazione riguardano l’accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine da fonti normative e dei
quali il giudice amministrativo conosce nell’ambito della
giurisdizione esclusiva riconosciutagli dall’art. 133, co. 1,
lett. f), c.p.a..
Esse prescindono dall’impugnazione e dalla
stessa esistenza dell’atto (paritetico) che abbia intimato
il pagamento del contributo, dando luogo a un giudizio di accertamento avente a
oggetto il rapporto obbligatorio e la fondatezza della
pretesa vantata dall’amministrazione, senza il vincolo degli
argomenti eventualmente adoperati da quest’ultima, a corredo
della pretesa, nella fase anteriore all’instaurazione della
lite.
---------------
L’art. 9 d.l. n. 557/1993, convertito in
legge n. 133/1994, nell’istituire il catasto dei fabbricati
prevede, al comma 9, che per le variazioni “nell’iscrizione
catastale dei fabbricati già rurali, che non presentano più
i requisiti di ruralità […] non si fa luogo alla riscossione
del contributo di cui all'art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, né al recupero di eventuali tributi attinenti
al fabbricato ovvero al reddito da esso prodotto per i
periodi di imposta anteriori al 01.01.1993 per le
imposte dirette, e al 01.01.1994 per le altre imposte e
tasse e per l'imposta comunale sugli immobili, purché detti
immobili siano stati oggetto, ricorrendone i presupposti, di
istanza di sanatoria edilizia, quali fabbricati rurali, ai
sensi e nei termini previsti dalla legge 28.02.1985,
n. 47, e vengano dichiarati al catasto entro il 31.12.1995 […]”.
La disposizione si riferisce ai fabbricati iscritti nel
vecchio catasto terreni, ma non più dotati dei requisiti
della ruralità e che, pertanto, debbono cambiare
qualificazione nel passaggio al catasto fabbricati. E, per
favorirne l’emersione, prevede alcuni benefici quali
l’esonero dai contributi di urbanizzazione e dai tributi
eventualmente dovuti per i periodi di imposta anteriori al
1993–1994.
L’accesso ai benefici predetti è condizionato, come si vede,
al duplice requisito
- dell’iscrizione in catasto entro il
termine del 31.12.1995, poi ripetutamente prorogato, e
- della regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile.
Peraltro, la deruralizzazione diviene effettiva solo
attraverso la richiesta di un opportuno titolo edilizio
e l’art. 9, co. 9, in esame, nella
parte in cui esclude la debenza dei contributi edilizi, non
può essere letto nel senso di escludere altresì, a monte, la
rilevanza urbanistico-edilizia di un mutamento di
destinazione d’uso che implica il passaggio a una categoria
funzionale diversa (da rurale a residenziale) ed è, perciò,
urbanisticamente rilevante a prescindere dall’esecuzione di
opere edilizie.
---------------
Nella specie, la ricorrente sostiene che l’immobile avrebbe
perduto le caratteristiche di ruralità già nel 1989 dopo il
decesso di suo nonno, coltivatore diretto.
L’affermazione è
priva di qualsivoglia riscontro fattuale e non è supportata
dalla disponibilità di un titolo edilizio corrispondente, né
la prova mancante può essere supplita dal successivo
accatastamento del 1997, che, com’è noto, rileva ai soli
fini fiscali e non è idoneo ad attestare la regolarità
urbanistico-edilizia di un immobile e della sua destinazione
d’uso; fermo restando che, lo si ripete,
all’accatastamento disciplinato dall’art. 9, co. 9, del d.l.
n. 557/1993 non può attribuirsi efficacia “sanante” della
mancanza del titolo per l’accesso all’esonero dai contributi
edilizi.
---------------
1. La signora Si.Be. è proprietaria in Pescia di un
fabbricato a uso abitativo, ristrutturato nell’anno 2017
previa presentazione di apposita segnalazione certificata di
inizio di attività.
Ella espone che l’immobile, costruito prima del 1967 e
munito della licenza di abitabilità, aveva in origine
caratteristiche di ruralità che sarebbero tuttavia da lungo
tempo venute meno, come attestato dall’iscrizione nel
catasto urbano in categoria A/3 sin dal maggio del 1997.
Nondimeno, a seguito della presentazione della S.C.I.A.
relativa all’intervento di ristrutturazione, il Comune di
Pescia ha dapprima chiesto alla ricorrente di fornire,
attraverso la ricevuta del versamento dell’I.C.I. per l’anno
1994, la prova dell’avvenuta deruralizzazione del
fabbricato; quindi, con nota del 05.03.2018, dopo aver
verificato che il versamento dell’I.C.I. era stato
effettuato solo a partire dal 1997, ha preteso il pagamento
dei c.d. “oneri verdi”, relativi appunto alla
deruralizzazione.
Per il tramite del proprio legale, la signora Be.
proponeva un’istanza di riesame, riscontrata negativamente
dal Comune con comunicazione del 29.05.2018. Eseguito
pertanto il pagamento richiesto, senza prestare
acquiescenza, impugnava i menzionati atti comunali mediante
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Stante l’opposizione spiegata dal Comune ai sensi dell’art.
10 del d.P.R. n. 1199/1971, il ricorso straordinario è stato
trasposto nella presente sede giurisdizionale dalla signora
Be., la quale conclude per l’annullamento degli atti
impugnati o, in subordine, per la condanna
dell’amministrazione intimata alla restituzione degli
importi versati a titolo di I.C.I.. non dovuta o comunque
dovuta in misura ridotta.
1.1. Resiste alla domanda il Comune di Pescia.
...
2.1. Con l’unico motivo di impugnazione, la ricorrente
deduce che il fabbricato di sua proprietà avrebbe da molto
tempo perduto le iniziali caratteristiche di ruralità. Di
ciò costituirebbero conferma il certificato di abitabilità
come “casa urbana” del 1967, l’iscrizione al catasto urbano
in categoria A/3, risalente al 1997, e il pagamento dell’I.C.I.
a partire da quello stesso anno.
In materia, opererebbe il disposto dell’art. 9, co. 9, del
d.l. n. 557/1993, in forza del quale non si fa luogo alla
riscossione degli oneri di urbanizzazione –ivi compresi
quelli di deruralizzazione– per le variazioni
nell’iscrizione dei fabbricati già rurali, purché eseguita
entro il termine del 31.12.1995, progressivamente
esteso dal legislatore fino al 31.12.1998. Proprio
l’iscrizione catastale eseguita nel 1997 consentirebbe alla
signora Be. di accedere al beneficio riconosciuto
dalla norma, mentre non potrebbe condividersi
l’affermazione, contenuta negli atti impugnati, secondo cui
la deruralizzazione potrebbe considerarsi dimostrata solo
attraverso la prova del versamento dell’I.C.I. dal 1994, in
ossequio alle indicazioni impartite dal Ministero delle
Finanze con la risoluzione n. 257/1994 e con la nota del 04.05.1994.
Il Comune avrebbe ulteriormente errato nel negare il riesame
chiesto dall’interessata. L’unico adempimento prescritto dal
citato
art. 9, co. 9, d.l. n. 557/1993, ai fini dell’esonero
dai contributi, sarebbe quello della tempestiva iscrizione
al catasto urbano, né tale requisito potrebbe essere
integrato dall’illegittima prassi di esigere la prova del
pagamento dell’imposta sugli immobili sin dal 1994.
La difesa comunale replica che l’accampionamento catastale
del 1997 non costituirebbe di per sé titolo idoneo alla
deruralizzazione del fabbricato, la quale necessiterebbe pur
sempre di un formale mutamento di destinazione d’uso, così
come, per accedere all’esonero dai contributi, sarebbe
occorso il pagamento dell’I.C.I. dal 1994, tanto più che la
stessa ricorrente avrebbe riconosciuto essere la
deruralizzazione intervenuta di fatto già nel 1989. La
debenza dell’I.C.I. discenderebbe direttamente dalla legge e
non certo da una prassi del Comune, che non avrebbe avuto
alcun onere di sanare la situazione della ricorrente
mediante un accertamento fiscale, onde permetterle di
accedere all’esonero dai contributi ai sensi dell’art. 9, co.
9, d.l. n. 557/1993.
2.1.1. Ricostruite, in sintesi, le contrapposte posizioni,
in primo luogo va precisato che le controversie inerenti la
debenza, o la misura, dei contributi edilizi pretesi da
un’amministrazione riguardano l’accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine da fonti normative e dei
quali il giudice amministrativo conosce nell’ambito della
giurisdizione esclusiva riconosciutagli dall’art. 133, co. 1,
lett. f), c.p.a.. Esse prescindono dall’impugnazione e dalla
stessa esistenza dell’atto (paritetico) che abbia intimato
il pagamento del contributo (fra le moltissime, cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 15.04.2019, n. 2438; id., sez. IV, 17.07.2018, n. 4343; id., sez. IV, 27.09.2017, n.
4515), dando luogo a un giudizio di accertamento avente a
oggetto il rapporto obbligatorio e la fondatezza della
pretesa vantata dall’amministrazione, senza il vincolo degli
argomenti eventualmente adoperati da quest’ultima, a corredo
della pretesa, nella fase anteriore all’instaurazione della
lite.
Tanto premesso, l’art. 9 d.l. n. 557/1993, convertito in
legge n. 133/1994, nell’istituire il catasto dei fabbricati
prevede, al comma 9, che per le variazioni “nell’iscrizione
catastale dei fabbricati già rurali, che non presentano più
i requisiti di ruralità […] non si fa luogo alla riscossione
del contributo di cui all'art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, né al recupero di eventuali tributi attinenti
al fabbricato ovvero al reddito da esso prodotto per i
periodi di imposta anteriori al 01.01.1993 per le
imposte dirette, e al 01.01.1994 per le altre imposte e
tasse e per l'imposta comunale sugli immobili, purché detti
immobili siano stati oggetto, ricorrendone i presupposti, di
istanza di sanatoria edilizia, quali fabbricati rurali, ai
sensi e nei termini previsti dalla legge 28.02.1985,
n. 47, e vengano dichiarati al catasto entro il 31.12.1995 […]”.
La disposizione si riferisce ai fabbricati iscritti nel
vecchio catasto terreni, ma non più dotati dei requisiti
della ruralità e che, pertanto, debbono cambiare
qualificazione nel passaggio al catasto fabbricati. E, per
favorirne l’emersione, prevede alcuni benefici quali
l’esonero dai contributi di urbanizzazione e dai tributi
eventualmente dovuti per i periodi di imposta anteriori al
1993–1994.
L’accesso ai benefici predetti è condizionato, come si vede,
al duplice requisito dell’iscrizione in catasto entro il
termine del 31.12.1995, poi ripetutamente prorogato, e
della regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile.
Peraltro, la deruralizzazione diviene effettiva solo
attraverso la richiesta di un opportuno titolo edilizio
(TAR Toscana, sez. III, 05.11.2020, n. 1363; id., 28.11.2017, n. 1457) e l’art. 9, co. 9, in esame, nella
parte in cui esclude la debenza dei contributi edilizi, non
può essere letto nel senso di escludere altresì, a monte, la
rilevanza urbanistico-edilizia di un mutamento di
destinazione d’uso che implica il passaggio a una categoria
funzionale diversa (da rurale a residenziale) ed è, perciò,
urbanisticamente rilevante a prescindere dall’esecuzione di
opere edilizie (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.09.2022, n. 8291; id., 11.06.2021, n. 4534).
Nella specie, la ricorrente sostiene che l’immobile avrebbe
perduto le caratteristiche di ruralità già nel 1989 dopo il
decesso di suo nonno, coltivatore diretto. L’affermazione è
priva di qualsivoglia riscontro fattuale e non è supportata
dalla disponibilità di un titolo edilizio corrispondente, né
la prova mancante può essere supplita dal successivo
accatastamento del 1997, che, com’è noto, rileva ai soli
fini fiscali e non è idoneo ad attestare la regolarità
urbanistico-edilizia di un immobile e della sua destinazione
d’uso (giurisprudenza da tempo consolidata, cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 21.01.2015, n. 177; id., sez. IV, 04.02.2013, n. 666); fermo restando che, lo si ripete,
all’accatastamento disciplinato dall’art. 9, co. 9, del d.l.
n. 557/1993 non può attribuirsi efficacia “sanante” della
mancanza del titolo per l’accesso all’esonero dai contributi
edilizi.
Allo stesso modo, nessun rilievo riveste il permesso di
abitabilità dell’immobile come “casa urbana”, rilasciato nel
1967. Che la deruralizzazione possa farsi risalire a quell’epoca,
come la ricorrente tenta di sostenere nella propria memoria
di replica, è in contraddizione con quanto dalla stessa
signora Be. dedotto circa la destinazione rurale
ricevuta dal fabbricato almeno sino al 1989; ma,
soprattutto, l’abitabilità rileva unicamente sul piano del
possesso dei requisiti igienico-sanitari e non attesta
alcunché sotto il profilo edilizio.
Ne discende che, agli effetti urbanistico-edilizi, la
deruralizzazione può considerarsi perfezionata e
formalizzata solo con la segnalazione certificata di inizio
di attività presentata nel 2017, nella quale va identificato
il titolo legittimante, sia pure per implicito, anche il
cambio di destinazione d’uso, in conformità a quanto
stabilito dall’art. 135, co. 2, lett. e-bis), della legge
regionale toscana n. 65/2014 che assoggetta al regime della S.C.I.A. i mutamenti urbanisticamente rilevanti della
destinazione d'uso di immobili, o di loro parti.
D’altro canto, in assenza di prova circa il diverso momento
nel quale il cambio di destinazione d’uso sarebbe
effettivamente avvenuto, neppure è possibile verificare
l’applicabilità ratione temporis di una differente
disciplina legislativa e regolamentare. Gli oneri “verdi”
sono pertanto dovuti dalla signora Be. ai sensi
dell’art. 83 della citata legge n. 65/2014, che, in linea
con tutta la legislazione regionale previgente (a partire
dalla risalente l.r. n. 10/1979), sottopone il cambio della
destinazione d’uso agricola al pagamento degli oneri
finalizzati al miglioramento ambientale e paesaggistico del
territorio rurale.
3. Il ricorso, alla luce delle considerazioni che precedono,
non può trovare accoglimento.
La domanda, subordinata, di ripetizione degli importi
versati nel corso degli anni a titolo di I.C.I./.I.M.U. va
invece dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo, trattandosi di pretesa la cui
cognizione appartiene al giudice tributario (da ultimo, cfr.
Cass. civ., SS.UU., 12.01.2022, n. 761) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 20.02.2023 n. 182 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Secondo condivisibile giurisprudenza:
“Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e
prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio
della concessione edilizia per la realizzazione nel
territorio comunale di nuove costruzioni, o l’ampliamento,
la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non
era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio
della concessione edilizia era subordinato all’esistenza
delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione
della loro attuazione da parte dei comuni nel successivo
triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro
attuazione contestualmente alla realizzazione
dell’intervento edilizio; ma, in ogni caso, il rilascio del
titolo edilizio non era subordinato al pagamento di oneri di
natura economica (art. 31 L. 1150/1942).
Pertanto, chi
otteneva, ad esempio, la concessione edilizia per
l’edificazione di una abitazione in area agricola, non era
soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non in forza
di una particolare normativa di favore per le attività
agricole, ma perché questo era il regime ordinario
applicabile a tutte le concessioni edilizie.
Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto
il principio della onerosità della concessione edilizia,
attraverso l’affermazione del principio secondo cui <Ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a
concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente
legge> (art. 1), nonché del principio secondo cui <La
concessione comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione>.
Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9
alcune deroghe al principio della generale onerosità della
concessione edilizia, stabilendo che il contributo di
concessione non è dovuto, tra l’altro, <a) per le opere da
realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze,
in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze
dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi
dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153>; una norma, quest’ultima,
che non trova la propria ragion d’essere nel minore carico
urbanistico correlato ad una abitazione di tipo <rurale>
rispetto ad una abitazione di tipo <civile> –che è il
medesimo in entrambi i casi– bensì, unicamente, in
motivazioni di carattere politico correlate alla volontà del
legislatore di incentivare, tutelare e valorizzare le
attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando
l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di
insediare la propria abitazione nei pressi o all’interno
della propria azienda agricola, dall’onere economico di
contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a tale
insediamento abitativo”.
...
Poi, “(…), nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo di concessione per la
realizzazione di residenze rurali da parte di imprenditori
agricoli si configura come un beneficio di carattere
soggettivo e oggettivo correlato,
- per un verso, alla
qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale
dell’avente diritto e,
- per altro verso, alla destinazione
funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative
del medesimo in prossimità o all’interno della propria
azienda agricola.
(…)
In definitiva,
- mentre le residenze rurali edificate sotto il
vigore della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di
concessione
- sia che fossero destinate a soddisfare le
esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla
conduzione dell’azienda,
- sia che fossero destinate ad
usi <civili> da parte di soggetti privi della qualifica di
imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di
generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’art. 31
di detta legge,
- le residenze rurali edificate a far data
dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece
esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella
misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a
servizio della conduzione del fondo da parte
dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per
fatti oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la
residenza può continuare ad essere utilizzata come
abitazione civile, ma previo assenso dell’amministrazione
comunale e previo pagamento, ora per allora, del contributo
di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività
agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio
dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo abilitativo
originario”.
...
Da tanto consegue
ulteriormente che,
- mentre per le residenze rurali realizzate
a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il
passaggio dall’utilizzo <rurale> (da parte dell’imprenditore
agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola)
all’utilizzo <civile> (da parte di soggetti privi della
qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative
svincolate dalla conduzione del fondo) configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente
rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio
dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva
beneficiato il titolo originario,
- per le residenze rurali
edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il
passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna
modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
dal momento che in tal caso il titolo abilitativo
autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva
il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato,
per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
---------------
... per l'accertamento, in via di giurisdizione esclusiva,
-
del diritto all'esenzione dal pagamento del contributo di
costruzione relativo al permesso di costruire n. 23/2021
notificato in data 25.02.2022;
per la conseguente condanna
-
della Città di Sacile intimata a rimborsare il contributo di
costruzione versato;
per l’annullamento
-
nella parte in cui sono liquidati gli oneri di
urbanizzazione, del suddetto permesso di costruire n.
23/2021 e, per quanto occorra, degli atti conseguenti o
presupposti, anche non conosciuti, fra cui la comunicazione
del 17.08.2021 nella parte in cui la Città di Sacile vi
ha erroneamente determinato il contributo di costruzione;
...
Il signor Lo.Ba. espone di avere acquistato
assieme alla coniuge, nel marzo del 2019, un immobile nel
Comune di Sacile, in via ..., risalente agli anni
Trenta del secolo scorso, con l’intenzione di ristrutturarlo
e deputarlo alla propria abitazione.
Espone, inoltre, di avere chiesto ed ottenuto dal Comune il
titolo edilizio per l’esecuzione, per l’appunto, di un
intervento di ristrutturazione mediante demolizione e
ricostruzione, il cui rilascio è stato, pur tuttavia,
subordinato dal Comune stesso al pagamento di € 46.062,47 a
titolo di contributo di costruzione, di cui € 42.436,69 a
titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, ed
€ 3.625,78 a titolo di costo di costruzione.
Espone, infine, che, pur dubitando della doverosità del
pagamento richiesto, lo ha assolto, riservandosi di
verificare meglio in seguito, insieme all’Ufficio tecnico,
la sussistenza dei presupposti che il Comune ha ritenuto
idonei a giustificarlo e, segnatamente, il ritenuto cambio
di destinazione d’uso da rurale a residenziale ex art. 4,
comma 1, lett. c), della legge reg. n. 19/2009. La
destinazione rurale sarebbe stata, invero, impressa, e
perdurante fino a oggi, dal dante causa iure hereditatis dei
venditori, tale Si.Ma., in quanto costui era un
imprenditore agricolo; e siccome appunto il ricorrente e la
moglie non lo sono, col solo acquisto immobiliare essi
avrebbero mutato la destinazione in “residenziale civile”,
con automatico aumento del carico urbanistico e conseguente
obbligo impositivo.
Da qui il presente ricorso, con cui il ricorrente –che
premette che:
a) il compendio immobiliare risale a quasi un
secolo fa;
b) è, comunque, preesistente alla legge “Bucalossi”;
c) nel 2012, ben prima che ne divenisse proprietario, è
stato inserito nel catasto fabbricati come “abitazione di
tipo economico” A3;
d) gli è stato venduto non dal sig. Si.Ma., deceduto nel 2017, ma dai suoi eredi
signori Gi.Ma., Ro.Ma. e
Gi.Po., nessuno dei quali imprenditore agricolo,
derivandone che in quel momento aveva già perduto il
carattere di residenza rurale, se mai l’aveva avuta. Al
riguardo, sottolinea, infatti, che l’immobile è stato per
molti anni la residenza della signora Re.Ma.,
sorella di Si., usufruttuaria della quota di 1/3 e mai
esercente l’attività agricola. Sicché, fino alla morte di quest’ultima, avvenuta nel 2015, l’edificio non era nemmeno
integralmente nella disponibilità del fratello imprenditore
agricolo;
e) se un cambio di destinazione d’uso vi è stato,
sarebbe comunque avvenuto già nel 2017, al momento della
successione ereditaria del signor Ma., esentato da
oneri in virtù dell’art. 15, comma 3, l.r. n. 19/2009–
ha
chiesto a questo Tribunale Amministrativo Regionale di:
- accertare la non debenza del contributo di costruzione per
l’intervento edilizio di ristrutturazione per cui è causa,
autorizzato dal permesso di costruire n. 23/2021 del 25.02.2022 e ciò:
-) in principalità, per inapplicabilità ratione temporis della normativa in punto di cambio di
destinazione d’uso rilevante e di pagamento del contributo
di costruzione e per irretroattività del principio di
onerosità dei titoli edilizi;
-) in ogni caso, in forza
dell’esenzione dal contributo di costruzione prevista
dall’art. 15, comma 3, della legge reg. n. 19/2009;
- condannare, per l’effetto, la Città di Sacile a
restituirgli a titolo di indebito, la somma di € 46.062,47,
oltre interessi e rivalutazione dal giorno del pagamento
indebito o, in subordine, dal giorno della notifica della
domanda;
- annullare, per quanto occorrer possa e nella sola parte in
cui determinano l’ammontare del contributo di costruzione,
il permesso di costruire n. 23/2021 del 25.02.2022 e
la comunicazione del 17.08.2021.
A sostegno della domanda di accertamento della non debenza
di contributo (e di quella di annullamento in parte qua del
titolo edilizio) ha invocato gli artt. 4, 5, 14, 15, 29 e 30
della legge regionale FVG n. 19/2009 e il principio di
irretroattività, nonché, per quanto occorra, denunciato la
violazione di legge, per violazione dei suddetti medesimi
articoli della l.r. n. 19/2009 e per violazione del
principio di irretroattività. Ha, inoltre, invocato l’art.
15, comma 3, l.r. n. 19/2009, nonché gli artt. 4, 5 l.r. n.
19/2009, nonché, per quanto occorra, denunciato la
violazione di legge, per violazione dei suddetti medesimi
articoli 15, comma 3, nonché 4 e 5, l.r. n. 19/2009.
Il Comune di Sacile, costituito, con separata istanza ex
artt. 51, c. 1, e 28, c. 3, c.p.a., ha invocato l’intervento
per ordine del giudice della Regione Autonoma Friuli Venezia
Giulia, al cui parere si è sostanzialmente conformato nello
stabilire l’onerosità del titolo edilizio rilasciato al
ricorrente.
...
Il Collegio ritiene, in primo luogo, di disattendere
l’istanza formulata dal Comune volta ad estendere il
contraddittorio nei confronti della Regione Autonoma Friuli
Venezia Giulia, non ravvisando, nel caso di specie, la
sussistenza di ragioni che potrebbero renderne opportuna la
partecipazione al processo.
La circostanza che la Regione
abbia fornito al Comune un parere sulla questione che qui
assume (prioritario) rilievo (ovvero assoggettabilità al
contributo di costruzione per ritenuto cambio di
destinazione d’uso, da rurale a residenziale, di immobile
edificato in zona agricola prima dell’entrata in vigore
della l. n. 10/1977) non pare, invero, dirimente ai fini
dell’accoglimento dell’istanza avanzata dall’ente civico,
assumendo rilievo unicamente l’attività provvedimentale
posta in essere dall’ente stesso, con pienezza di poteri e
in totale autonomia.
Nel merito, il ricorso è fondato e va accolto.
Il Collegio ritiene, invero, mutuabili le considerazioni
svolte dal Tar Piemonte, sez. II, nella decisione 29.05.2019, n. 687 assunta in relazione ad una questione analoga a
quella che qui viene in rilievo, i cui principi sono stati
poi ribaditi anche nelle successive pronunce 27.04.2021,
n. 447 e, più recentemente, 17.06.2022, n. 583.
Detto Tribunale ha, infatti, opportunamente rammentato che
“Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e
prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio
della concessione edilizia per la realizzazione nel
territorio comunale di nuove costruzioni, o l’ampliamento,
la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non
era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio
della concessione edilizia era subordinato all’esistenza
delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione
della loro attuazione da parte dei comuni nel successivo
triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro
attuazione contestualmente alla realizzazione
dell’intervento edilizio; ma, in ogni caso, il rilascio del
titolo edilizio non era subordinato al pagamento di oneri di
natura economica (art. 31 L. 1150/1942). Pertanto, chi
otteneva, ad esempio, la concessione edilizia per
l’edificazione di una abitazione in area agricola, non era
soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non in forza
di una particolare normativa di favore per le attività
agricole, ma perché questo era il regime ordinario
applicabile a tutte le concessioni edilizie.
Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto
il principio della onerosità della concessione edilizia,
attraverso l’affermazione del principio secondo cui <Ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a
concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente
legge> (art. 1), nonché del principio secondo cui <La
concessione comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione>.
Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9
alcune deroghe al principio della generale onerosità della
concessione edilizia, stabilendo che il contributo di
concessione non è dovuto, tra l’altro, <a) per le opere da
realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze,
in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze
dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi
dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153>; una norma, quest’ultima,
che non trova la propria ragion d’essere nel minore carico
urbanistico correlato ad una abitazione di tipo <rurale>
rispetto ad una abitazione di tipo <civile> –che è il
medesimo in entrambi i casi– bensì, unicamente, in
motivazioni di carattere politico correlate alla volontà del
legislatore di incentivare, tutelare e valorizzare le
attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando
l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di
insediare la propria abitazione nei pressi o all’interno
della propria azienda agricola, dall’onere economico di
contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a tale
insediamento abitativo”.
Ha, quindi, sottolineato che “(…), nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo di concessione per la
realizzazione di residenze rurali da parte di imprenditori
agricoli si configura come un beneficio di carattere
soggettivo e oggettivo correlato, per un verso alla
qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale
dell’avente diritto, e per altro verso alla destinazione
funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative
del medesimo in prossimità o all’interno della propria
azienda agricola.
(…)
In definitiva, mentre le residenze rurali edificate sotto il
vigore della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di
concessione sia che fossero destinate a soddisfare le
esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla
conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate ad usi
<civili> da parte di soggetti privi della qualifica di
imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di
generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’art. 31
di detta legge; le residenze rurali edificate a far data
dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece
esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella
misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a
servizio della conduzione del fondo da parte
dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per
fatti oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la
residenza può continuare ad essere utilizzata come
abitazione civile, ma previo assenso dell’amministrazione
comunale e previo pagamento, ora per allora, del contributo
di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività
agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio
dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo abilitativo
originario”.
E, poi, condivisibilmente concluso che “Da tanto consegue
ulteriormente che, mentre per le residenze rurali realizzate
a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il
passaggio dall’utilizzo <rurale> (da parte dell’imprenditore
agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola)
all’utilizzo <civile> (da parte di soggetti privi della
qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative
svincolate dalla conduzione del fondo) configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente
rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio
dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva
beneficiato il titolo originario; per le residenze rurali
edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il
passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna
modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
dal momento che in tal caso il titolo abilitativo
autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva
il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato,
per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
Anche nel caso che occupa, come in quello scrutinato e
deciso dal Tar Piemonte, consta, invero, che:
- non è, in alcun modo, revocato in dubbio che il fabbricato
abitativo di proprietà del ricorrente e della coniuge è
stato edificato in area agricola pacificamente in epoca
antecedente all’entrata in vigore della l. 10/1977,
beneficiando del regime di generale gratuità dei titoli
edilizi in allora vigente;
- non ha, conseguentemente, alcun rilievo la circostanza che
l’immobile possa essere stato utilizzato come residenza
“rurale” dal dante causa iure hereditatis dei soggetti da
cui il ricorrente e la coniuge, privi della qualifica di
imprenditori agricoli, lo hanno acquistato e che gli stessi
lo utilizzino quale residenza “civile”, “e ciò in quanto
entrambe le destinazioni d’uso erano (e sono) parimenti
compatibili con il titolo abilitativo originario, ed
entrambe erano (e sono) parimenti esenti dal pagamento di
oneri di sorta, alla luce della disciplina di cui alla L.
1150/1942 applicabile ratione temporis all’immobile in
questione”;
- “pertanto, il passaggio da residenza <rurale> a residenza
<civile> non configura una modificazione della destinazione
d’uso urbanisticamente rilevante, dal momento che, alla luce
della disciplina urbanistica vigente alla data di
realizzazione dell’immobile, entrambe le destinazioni erano
ammissibili ed esenti dal contributo di concessione”;
- il passaggio dall’una all’altra destinazione d’uso non ha,
peraltro, determinato alcun aumento del carico urbanistico
dal punto di vista qualitativo, trattandosi in entrambi i
casi di un utilizzo abitativo dell’immobile.
Nel caso specifico, la stessa circostanza che,
anticipatamente rispetto all’acquisto della proprietà
dell’immobile da parte del ricorrente (e coniuge), si sia
già inverato un cambio di destinazione d’uso in forza del
passaggio di proprietà a titolo successorio da soggetto
asseritamente munito della qualifica di imprenditore
agricolo a soggetti privi di tale qualifica (segnatamente
gli eredi del signor Si.Ma. dai quali, per
l’appunto, gli odierni proprietari hanno acquistato
l’immobile), varrebbe, in ogni caso, di per sé ad esentare
dalla corresponsione del contributo di che trattasi, essendo
priva di qualsivoglia riscontro testuale la tesi a mente
della quale la disposizione di cui all’art. 15, comma 3,
l.r. FVG n. 19/2009 recherebbe una norma per così dire di
favore familiare, vincolata alla (sola) durata del
mantenimento della proprietà dell’immobile rurale da parte
degli eredi non imprenditori agricoli del defunto
imprenditore agricolo ovvero, sostanzialmente, una sorta di
beneficio temporaneo.
La norma, per come formulata ("Sono assoggettati al pagamento
del conguaglio del contributo di costruzione, fatti salvi i
casi di esonero e riduzione di cui agli articoli 30, 31 e
32, gli interventi con o senza opere edilizie che comportino
la modifica di destinazione d'uso degli immobili, comunque
destinati e localizzati, in altra consentita dallo strumento
urbanistico comunale, compresa la modifica della
destinazione d'uso conseguente al cambiamento di condizioni
soggettive dei titolari di costruzioni residenziali in zona
agricola, nel caso di passaggio del diritto reale di
godimento che non si verifichi a seguito di successione”),
non offre, invero, alcun addentellato in tal senso.
Risulta, peraltro, di lapalissiana evidenza che, laddove
così intesa, s’appaleserebbe manifestamente irragionevole.
In definitiva, il ricorso va accolto, risultando fondate le
deduzioni svolte dal ricorrente a sostegno delle domande
azionate.
Per l’effetto:
- va annullato in parte qua il titolo edilizio, laddove
determina l’ammontare del contributo di costruzione;
- va accertata la non soggezione a contributo di costruzione
dell’intervento edilizio assentito dal permesso di costruire
n. 23/2021 notificato in data 25.02.2022, con
conseguente condanna del Comune di Sacile a restituire al
ricorrente le somme indebitamente versate a tale titolo,
oltre interessi nella misura di legge dal giorno della
domanda (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 22.11.2022 n. 496 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quando
si passi a una categoria funzionale diversa (da rurale a residenziale), il
mutamento è sempre urbanisticamente
rilevante, addirittura prescindendo dall'esecuzione di opere.
La disciplina del mutamento della destinazione d’uso è
uno dei perni attraverso i quali è possibile operare un effettivo governo
del territorio. Se l’ordinamento restasse indifferente ai cambi di
destinazione d’uso dei singoli immobili si finirebbe per vanificare la
zonizzazione, l’equa distribuzione degli oneri di urbanizzazione,
l’effettiva applicazione degli standard urbanistici, la razionale
allocazione dei carichi urbanistici. In una parola si renderebbe inutile
ogni tentativo di governo del territorio.
Per i mutamenti di destinazione d'uso ciò che rileva -al fine di determinare
la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina sanzionatoria per
il caso di violazione- è la rilevanza urbanistica della modifica, nel senso
dell'aggravamento del carico urbanistico della zona in questione.
Quando, dunque, si passi a una categoria funzionale
diversa (da rurale a residenziale), il mutamento è sempre urbanisticamente
rilevante, addirittura prescindendo dall'esecuzione di opere.
In generale, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile deve
considerarsi urbanisticamente rilevante e, come tale, soggetto di per sé
all'ottenimento di un titolo edilizio abilitativo, con l'ovvia conseguenza
che il mutamento non autorizzato della destinazione d'uso che alteri il
carico urbanistico integra una situazione di illiceità a vario titolo, che
può e anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo
potere di vigilanza.
---------------
Gli interventi che alterino, anche
sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza
fisica dell'immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la
modifica e ridistribuzione
dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione
edilizia.
In altre parole, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una
alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile
con la modifica dell'originaria destinazione d'uso sono incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo a cui
si riferiscono i titoli fatti valere dall'appellante, che presuppongono la
realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio.
La giurisprudenza ha chiarito che il mutamento di destinazione di uso di un
immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura in
ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che necessita di un idoneo
titolo.
---------------
L’assunto di parte appellante secondo il quale da sessanta anni l’immobile
non è stato utilizzato per scopi agricoli o come casa colonica essendo stato
da sempre stato la residenza unica e principale della famiglia della sig.ra
Ma.An.Tu., madre dello stesso appellante non è idoneo a suffragare la tesi
che non ci sia stato un mutamento di destinazione d’uso.
La disciplina del mutamento della destinazione d’uso è uno dei perni
attraverso i quali è possibile operare un effettivo governo del territorio.
Se l’ordinamento restasse indifferente ai cambi di destinazione d’uso dei
singoli immobili si finirebbe per vanificare la zonizzazione, l’equa
distribuzione degli oneri di urbanizzazione, l’effettiva applicazione degli
standard urbanistici, la razionale allocazione dei carichi urbanistici. In
una parola si renderebbe inutile ogni tentativo di governo del territorio (Cons.
Stato, Sez. VI, 05.07.2022, n. 5593).
Per i mutamenti di destinazione d'uso ciò che rileva -al fine di determinare
la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina sanzionatoria per
il caso di violazione- è la rilevanza urbanistica della modifica, nel senso
dell'aggravamento del carico urbanistico della zona in questione. Quando,
dunque, come nel caso di specie, si passi a una categoria funzionale diversa
(da rurale a residenziale), il mutamento è sempre urbanisticamente
rilevante, addirittura prescindendo dall'esecuzione di opere.
Come chiarito da Cons. Stato, sez. VI, 11/06/2021, n. 4534, in generale, il
mutamento di destinazione d'uso di un immobile deve considerarsi
urbanisticamente rilevante e, come tale, soggetto di per sé all'ottenimento
di un titolo edilizio abilitativo, con l'ovvia conseguenza che il mutamento
non autorizzato della destinazione d'uso che alteri il carico urbanistico
integra una situazione di illiceità a vario titolo, che può e anzi deve
essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di
vigilanza.
Nella specie occorre mettere a raffronto due dati di fatto: da un lato
la situazione iniziale dell’immobile che aveva oggettivamente natura rurale
sulla base delle risultanze descritte e dall’altro l’intervenuto
mutamento della destinazione a residenziale anche a prescindere dalla
realizzazione di opere che comunque nella specie ci sono anche state e di
significativa entità.
...
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, gli interventi che alterino, anche sotto il profilo della
distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica dell'immobile e
comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione
dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione
edilizia.
In altre parole, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una
alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile
con la modifica dell'originaria destinazione d'uso sono incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo a cui
si riferiscono i titoli fatti valere dall'appellante, che presuppongono la
realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio.
La giurisprudenza ha chiarito che il mutamento di destinazione di uso di un
immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura in
ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che necessita di un idoneo
titolo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09/10/2020, n. 5992) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.09.2022 n. 8291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di
destinazione, da rurale a residenziale, di un immobile (in
stato di abbandono e collabente) con lavori di
"ristrutturazione edilizia" (nel caso di specie
demo-ricostruzione) sconta il pagamento del contributo di
concessione e cioè tanto degli oneri d urbanizzazione
quanto del costo di costruzione.
Invero, in
una situazione in cui l’urbanizzazione è assente la
realizzazione di un intervento teso alla trasformazione di
un immobile in civile abitazione implica di per sé aumento
di carico urbanistico.
---------------
Sia il mutamento di
destinazione d’uso (da rurale a residenziale) sia la
tipologia di intervento sono
utilizzati, nella prassi ed in giurisprudenza, come indici
presuntivi di aumento del carico antropico in contesti in
cui può risultare dubbio l’aumento di domanda di servizi e,
quindi, l’incremento di fabbisogno urbanistico.
Detto in altri termini, l’irrilevanza giuridica del
mutamento di destinazione d’uso o l’invarianza dei
principali indici urbanistici (superficie, sagoma,
volumetria) rilevano solo nella misura in cui supportano
l’interprete nel determinare una valutazione negativa di
incidenza del carico urbanistico, che è l’unico parametro
necessario e determinante per valutare an e quantum degli
oneri.
Questo Tribunale ha avuto più volte
modo di precisare tale principio:
“Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli
oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto
l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda
di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere
di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si
caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente,
all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli
abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state
sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi
ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non
implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona,
non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente
ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di
costi a fronte dell’unicità dei servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata,
gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in
vista della predisposizione degli strumenti idonei a far
fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In
sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per
avere natura compensativa rispetto alle spese di cui
l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e
pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio,
purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi
interventi di sistemazione e adeguamento del contesto
urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione
edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico”.
È stato altresì precisato che “è illegittimo il
provvedimento che impone il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso
di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia
consistente nella demolizione e ricostruzione di un
preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del
carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la
modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso”.
---------------
Non muta la ricostruzione di tale contesto la circostanza
che il ricorrente si sia impegnato alla realizzazione di
alcune opere di urbanizzazione (primaria), delle spese cui
va incontro e del tipo di opere ed allacci ai servizi debba
realizzare. Ciò al massimo incide sulla modulazione degli
oneri ma non sulla loro debenza, come infatti è accaduto nel
caso di specie.
Invero:
●
“in merito
alla natura giuridica degli oneri concessori di cui all'art.
16 del D.P.R. n. 380 del 2001, va affermata la natura di
prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario, di carattere generale, prescindendo essa
totalmente dalle singole opere di urbanizzazione che devono
in concreto eseguirsi e dall'utilità che il concessionario
ritrae dal titolo edificatorio e dalle spese effettivamente
occorrenti per realizzare dette opere. Ne consegue l'assenza
di qualsivoglia rapporto di sinallagmaticità tra la
realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte
dell'amministrazione comunale ed il pagamento degli oneri
concessori da parte del richiedente il titolo edilizio”;
●
“in giurisprudenza viene pacificamente individuata quale
ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione
degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico,
con connessa esigenza di realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio
giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di
scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione
incassati in una determinata area siano devoluti alle opere
di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il
rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è
rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli
oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad
esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero
incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di
tale forma di imposizione resta il carico urbanistico
ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di
destinazione d’uso. Per la fisiologica connessione tra
aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione”;
●
“il presupposto imponibile per il pagamento del
contributo va dunque ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché
l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza
correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben
possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento
di destinazione d'uso possa non comportare l’obbligo della
corresponsione del contributo nella misura in cui non
risulti aggravato il carico urbanistico.
Correlativamente, è altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa
categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico
urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito
e siano quindi dovuti i relativi oneri concessori.
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso
di analoghe caratteristiche funzionali, ed a fronte di un
intervento edilizio che l’abbia strutturalmente modificato
(come nell’ipotesi della demolizione e contestuale
ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente
esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve
dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da
cui si evince il maggior carico urbanistico rispetto alla
preesistente situazione”.
---------------
1. Il sig. Mi. è comproprietario, insieme con la coniuge, di
un immobile sito nel Comune di Corneliano d’Alba (CN),
meglio identificato al NCT, F. 4 part. 341.
L’immobile, acquistato nel 2006, si presentava in stato di
abbandono e collabente tanto che il proprietario realizzava
primi interventi di consolidamento (riguardanti le mura
perimetrali e la copertura) per i quali però non chiedeva
alcuna autorizzazione.
In ragione di ciò –in disparte l’avvio di un procedimento
penale a suo carico ai sensi dell’art. 44, lett. b), del
D.P.R. n. 380/2001– presentava, in data 24.06.2020, una
istanza di permesso a costruire in sanatoria.
In data 11.08.2020 lo stesso avanzava richiesta di rilascio
di un permesso a costruire per ulteriori opere di
ristrutturazione dell’edificio edificio con cambio a
destinazione residenziale.
L’amministrazione, unificando i due procedimenti, rilasciava
un unico permesso di costruire (n. 425 del 28.04.2021).
Il provvedimento è oneroso e l’amministrazione, oltre ad
aver addebitato una somma a titolo di oblazione, ha
determinato con apposito provvedimento (prot. n. 1940 del
14.04.2021, che fa seguito a precedenti atti ed in
particolare alla nota prot. 5679 del 11.12.2020 e prot. n.
1422 del 17.03.2021) un contributo di costruzione così
composto: oneri di urbanizzazione per euro 10.674,68
(ridotto in accoglimento della richiesta e dell’impegno
dell’interessato ad eseguire a sue spese le opere di
urbanizzazione primaria per l’erogazione dei servizi
essenziali) e costo di costruzione per euro
18.017,92.
2. Avverso i provvedimenti di definizione del citato
contributo nonché del permesso di costruire, nella misura in
cui prevede tale onerosità, è insorto l’interessato con
ricorso notificato in data 28.06.2021, ritualmente
depositato avanti questo Tribunale, con il quale lamenta
violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi
profili, chiede l’accertamento della gratuità
dell’intervento nonché la condanna alla restituzione di
quanto già versato alle casse comunali.
...
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
4. Con il primo motivo di ricorso si lamenta
violazione dell’art. 25 della L.R. 56/1977, degli artt. 7 e
8 della L.R. 19/1999, dell’art. 3, lett. d), del D.P.R.
380/2001, dell’art. 11, comma 2, e dall’art. 16 del D.P.R.
380/2001; eccesso di potere per insussistenza ed erronea
valutazione dei presupposti, difetto di istruttoria e
ponderazione dei fatti, irragionevolezza dell’azione
amministrativa; motivazione incongruente e/o
contraddittoria, illogicità manifesta, irragionevolezza e
travisamento dei fatti, perplessità.
Il ricorrente sostiene che il contributo calcolato dal
Comune, per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione,
non sia dovuto. Ciò per due ordini di ragioni:
- non vi sarebbe aumento di carico urbanistico poiché il mutamento
di destinazione, da rurale a residenziale, non rileva sul
piano giuridico poiché l’immobile è anteriore all’entrata in
vigore della L. n. 10/1977;
- gli interventi oggetto di permesso non determinano nessuna
variazione od alterazione della superficie, sagoma,
volumetria e destinazione d’uso dell’immobile oggetto di
intervento e, pertanto, alcun aumento di carico urbanistico.
La doglianza non coglie nel segno.
È pacifico tra le parti che l’immobile in questione non sia
collocato in area urbana ma è isolato e distante dai
servizi. Gli interventi oggetto di permesso di costruire si
presentano come ristrutturazione complessiva (con
demolizione e ricostruzione) dell’immobile finalizzata a
renderlo idoneo all’uso residenziale (tanto che è previsto
anche il cambio di destinazione).
È altrettanto pacifico che il cespite è sfornito delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria. Mancano i servizi
essenziali di allacciamento alla rete per i servizi di
acquedotto, fognatura, gas e linea elettrica.
È lo stesso ricorrente a riconoscere che l’immobile, in
palese stato di abbandono, manca di tali servizi ed è
situato in un’area da urbanizzare completamente, tanto che
il Comune, nel
determinare gli oneri di urbanizzazione ha considerato il
fatto che lo stesso si sia assunto l’incombenza di
realizzare a sua cura e spese le opere di urbanizzazione
primaria (cfr. doc. n. 10 di parte resistente).
In una situazione in cui l’urbanizzazione è assente la
realizzazione di un intervento teso alla trasformazione di
un immobile in civile abitazione implica di per sé aumento
di carico urbanistico.
Le argomentazioni utilizzate dal ricorrente non risultano
conferenti al caso di specie poiché sia il mutamento
di destinazione d’uso (da rurale a residenziale) sia
la tipologia di intervento
sono utilizzati, nella prassi ed in giurisprudenza, come
indici presuntivi di aumento del carico antropico in
contesti in cui può risultare dubbio l’aumento di domanda di
servizi e, quindi, l’incremento di fabbisogno urbanistico.
Detto in altri termini l’irrilevanza giuridica del mutamento
di destinazione d’uso o l’invarianza dei principali indici
urbanistici (superficie, sagoma, volumetria) rilevano solo
nella misura in cui supportano l’interprete nel determinare
una valutazione negativa di incidenza del carico
urbanistico, che è l’unico parametro necessario e
determinante per valutare an e quantum degli
oneri.
Questo Tribunale ha avuto più volte modo di precisare tale
principio.
“Il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in
quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della
domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione:
le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e
secondarie, si caratterizzano per essere necessarie,
rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di
relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già
state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti
servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio
che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova
spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti:
diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la
duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata,
gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in
vista della predisposizione degli strumenti idonei a far
fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In
sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per
avere natura compensativa rispetto alle spese di cui
l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e
pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio,
purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi
interventi di sistemazione e adeguamento del contesto
urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento
giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione
edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez.
IV, 29.04.2004, n. 2611, ripresa da questo Tribunale nella
sent. 07/01/2020 n. 20).
È stato altresì precisato che “è illegittimo il
provvedimento che impone il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso
di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia
consistente nella demolizione e ricostruzione di un
preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del
carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la
modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso”
(TAR Piemonte, sez. I, 13/12/2013, n. 1346).
Non muta la ricostruzione di tale contesto la circostanza
che il ricorrente si sia impegnato alla realizzazione di
alcune opere di urbanizzazione (primaria), delle spese cui
va incontro e del tipo di opere ed allacci ai servizi debba
realizzare. Ciò al massimo incide sulla modulazione degli
oneri ma non sulla loro debenza, come infatti è accaduto nel
caso di specie.
È pacifico in giurisprudenza che “in merito alla natura
giuridica degli oneri concessori di cui all'art. 16 del
D.P.R. n. 380 del 2001, va affermata la natura di
prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario, di carattere generale, prescindendo essa
totalmente dalle singole opere di urbanizzazione che devono
in concreto eseguirsi e dall'utilità che il concessionario
ritrae dal titolo edificatorio e dalle spese effettivamente
occorrenti per realizzare dette opere. Ne consegue l'assenza
di qualsivoglia rapporto di sinallagmaticità tra la
realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte
dell'amministrazione comunale ed il pagamento degli oneri
concessori da parte del richiedente il titolo edilizio”
(Cons. Stato Sez. IV, 11/01/2022, n. 197).
“In giurisprudenza viene pacificamente individuata quale
ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione
degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico,
con connessa esigenza di realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio
giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di
scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione
incassati in una determinata area siano devoluti alle opere
di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il
rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è
rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli
oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad
esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero
incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di
tale forma di imposizione resta il carico urbanistico
ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di
destinazione d’uso. Per la fisiologica connessione tra
aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione, ex
pluribus, si veda Cons. St., sez. IV, n. 1187/2018)”
(TAR Piemonte, sez. II, 21/05/2018 n. 630).
“Il presupposto imponibile per il pagamento del
contributo va dunque ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché
l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza
correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben
possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento
di destinazione d'uso possa non comportare l’obbligo della
corresponsione del contributo nella misura in cui non
risulti aggravato il carico urbanistico.
Correlativamente, è altrettanto possibile che in caso di
mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa
categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico
urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito
e siano quindi dovuti i relativi oneri concessori (così,
ancora, TAR Piemonte, questa II sez., n. 1009 del 2013, cit.;
TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 11213 del 2007).
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso
di analoghe caratteristiche funzionali, ed a fronte di un
intervento edilizio che l’abbia strutturalmente modificato
(come nell’ipotesi della demolizione e contestuale
ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente
esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve
dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da
cui si evince il maggior carico urbanistico rispetto alla
preesistente situazione (cfr., analogamente, TAR Sicilia,
Catania, sez. I, n. 2249 del 2013; TAR Marche, n. 699 del
2013)” (TAR Piemonte, 19/12/2014, sent. n. 2033).
L’amministrazione comunale ha peraltro evidenziato la
conformità di tale interpretazione al regolamento edilizio
comunale che all’art. 5 definisce “carico urbanistico”
il “fabbisogno di dotazioni territoriali di un
determinato immobile o insediamento in relazione alla sua
entità e destinazione d’uso” (cfr. doc. 3 di parte
resistente).
Il primo motivo di ricorso, pertanto, non può essere
accolto dal momento in cui l’intervento edilizio assentito
necessita della realizzazione delle opere di urbanizzazione,
il che dimostra in modo incontrovertibile il fabbisogno di
servizi primari con inevitabile incremento del carico
urbanistico (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.05.2022 n. 412 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza
urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza
opere, prima individuati attraverso l'elaborazione
giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter
del Testo unico dell'edilizia, inserito dal D.L. 12.09.2014,
n. 133, (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014,
n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già
affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il
principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa, da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate",
vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e
direzionale, commerciale, rurale.
Va quindi subito chiarito che quando si passi a una
categoria funzionale diversa -per esempio da rurale a
residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente
rilevante, a prescindere dall'esecuzione o meno di opere.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi con il transito
dell’edificio dalla destinazione “residenziale” a quella “turistico-ricettiva”.
E ciò anche ove non fossero state necessarie opere di
adeguamento.
---------------
5.1. Sul punto, è dirimente quanto affermato dall’allora
Provincia nell’impugnata D.D.G. n. 243 del 31.05.2012, in
merito alla mancanza della destinazione d’uso dell’immobile
a struttura ricettiva.
Il progetto di finanziamento del ricorrente si fonda su un
precedente progetto di ristrutturazione del medesimo
immobile per fini residenziali (cfr. la relazione dell’Arch.
Li., in cui si afferma che la destinazione d’uso
residenziale sarebbe stata mantenuta). Su tale base il
ricorrente aveva ottenuto, nel febbraio 2009 (oltre due anni
prima della proposizione della domanda di finanziamento), la
concessione edilizia dal comune di Palermo.
Alcuna rilevanza ha l’art. 49 del regolamento edilizio del
comune di Palermo, richiamato dal ricorrente per sostenere
una sostanziale coincidenza tra la destinazione d’uso
residenziale e quella turistico-ricettiva. Tale norma
disciplina la “classificazione degli edifici”, e non
la loro destinazione d’uso.
Il citato regolamento edilizio, all’art. 5, punto 19,
prevede l’autorizzazione edilizia per la variazione di
destinazione d’uso degli immobili. Il successivo art. 8
afferma che, per il cambio di destinazione d’uso, occorre
presentare una domanda di autorizzazione, corredata da una
relazione a firma di un tecnico abilitato che, peraltro,
asseveri
“a) il rispetto della vigente normativa igienico-sanitaria e di
sicurezza;
b) la descrizione delle eventuali opere edilizie da eseguire,
finalizzate al nuovo uso;
c) la descrizione della attuale destinazione e di quella prevista;
d) la superficie lorda di pavimento dell’immobile;
e) l’ubicazione, la consistenza e la distanza dell’area del
parcheggio, nei soli casi espressamente previsti dalle N.T.
di A. dello strumento urbanistico”.
Ancora, l’art. 17 del suddetto regolamento urbanistico, al
co. 6, prevede che “Il mutamento di destinazione d’uso
senza autorizzazione equivale, agli effetti delle sanzioni
legali o convenzionali applicabili, ad edificazione senza
concessione”; il successivo co. 7 dispone, ancora, che “In
caso di mutamento di destinazione d’uso senza
autorizzazione, sono revocate le autorizzazioni di
abitabilità e di esercizio dei locali interessati”.
Più in generale, quanto alla rilevanza tutt’altro che
secondaria del mutamento di destinazione d’uso, anche ove
non sia necessario compiere opere edilizie, e con
particolare riguardo all’evoluzione giurisprudenziale che ha
portato, in epoca recente, all’introduzione, dell’art.
23-ter nel D.P.R. n. 380/2001 (norma di carattere
sostanzialmente ricognitivo della consolidata giurisprudenza
in materia), si rinvia a quanto statuito dal C.G.A., con
sentenza n. 1185/2020: “A partire dal settembre 2014, i
casi di rilevanza urbanistica della modifica della
destinazione d'uso senza opere, prima individuati attraverso
l'elaborazione giurisprudenziale, sono stati positivizzati:
l'art. 23-ter del Testo unico dell'edilizia, inserito dal
D.L. 12.09.2014, n. 133, (convertito, con modificazioni,
dalla L. 11.11.2014, n. 164), recependo un indirizzo di
giurisprudenza già affermatosi, ha infatti introdotto
espressamente il principio secondo cui "costituisce
mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare
considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle
sotto elencate", vale a dire residenziale,
turistico-recettiva, produttiva e direzionale, commerciale,
rurale. Va quindi subito chiarito che quando, come nel caso
di specie, si passi a una categoria funzionale diversa -da
rurale a residenziale-, il mutamento è sempre
urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o
meno di opere -cfr. anche, in tema, Corte di Cass., Sez. III
pen., 13.09.2018, n. 40678-.”)”.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi nel caso di specie,
con il transito dell’edificio dalla destinazione “residenziale”
a quella “turistico-ricettiva”. E ciò anche ove non
fossero state necessarie opere di adeguamento; circostanza,
quest’ultima, più che dubbia, tenuto conto delle
considerazioni che seguono sui requisiti necessari alla
classificazione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 03.01.2022 n. 9 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In punto di diritto la legge n. 10/1977, all’art. 9 (“Cessione gratuita”),
prevede che: <<Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto
(tra l’altro): a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art.
12, L. 09.05.1975, n. 153 (………)>>.
Il richiamato art. 3 (“Contributo
per il rilascio della concessione”), prevede che: <<La concessione
comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle
spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione>>.
Sulla stessa linea normativa il d.P.R. 06/06/2001, n. 380, all’art. 17 (“Riduzione
o esonero dal contributo di costruzione”) prevede che:
<<1. Nei casi
di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il
contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota
degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a
mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e
canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista
dall'articolo 18.
2. Il contributo per la realizzazione della prima abitazione è pari a quanto
stabilito per la corrispondente edilizia residenziale pubblica, purché
sussistano i requisiti indicati dalla normativa di settore.
3. Il contributo di costruzione non è dovuto (tra l’altro):
a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art.
12 della legge 09.05.1975, n. 153 (…….)>>.
Pertanto elemento decisivo per il riconoscimento del beneficio
dell’esenzione nella materia de qua è,
- oltre all’elemento oggettivo
(che nel caso del dante causa del ricorrente, non sembra far difetto),
- la qualifica soggettiva di “imprenditore agricolo a titolo principale”
rivestita dal soggetto considerato.
---------------
Sull’omessa dimostrazione del possesso della qualifica di “Imprenditore agricolo a titolo principale”
si è espressa la giurisprudenza amministrativa statuendo quanto segue: <<In
ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è univoca
nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da delimitarne l’ambito
esclusivamente all’imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi
dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153>>.
La gratuità della concessione
edilizia è, dunque, prevista ove concorrano qualità soggettive del
richiedente, che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e
qualità oggettive del fabbricato da erigersi.
Osserva, in proposito, il Collegio che, al fine di accedere al beneficio in
parola, non è sufficiente attingere la qualifica di “Imprenditore
agricolo a titolo principale” da un qualunque elemento sintomatico, ma
necessita un accertamento qualificato quale può rinvenirsi soltanto in
quello acquisito ai sensi della Legge del 09/05/1975, n. 153 che, all’art.
12 recita: <<Si considera a titolo principale l'imprenditore che dedichi
alla attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro
complessivo e che ricavi dall'attività medesima almeno due terzi del proprio
reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale>>.
Non si tratta di un mero formalismo ma, dell’unico modo per acclarare il
presupposto essenziale inteso ad accertare l’esistenza del diritto
all’esenzione dalla contribuzione richiesta.
Invero nella materia de qua si versa nella tematica che la migliore dottrina
classifica come diritti soggettivi subordinati all’accertamento dei
presupposti normativamente richiesti, i cc.dd. diritti invisibili
astrattamente previsti dall’ordinamento ma che, per emergere dal sommerso,
ed appuntarsi in capo al loro (legittimo) titolare necessitano di un
apposito procedimento amministrativo implicante un accertamento
tecnico-discrezionale, quasi sempre in funzione costitutiva.
Invero, la più volte riferita qualità di Imprenditore agricolo a titolo
principale deve essere posseduta alla data di presentazione della domanda di
condono ed unicamente con la produzione dell’apposito certificato che ha
natura costitutiva e non meramente dichiarativa del possesso della predetta
qualità. In tale senso, la migliore giurisprudenza ha avuto modo di rilevato
che:
- <<Il riconoscimento della qualifica in parola, presuppone la
sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati nel comma 1
dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso di questi ultimi deve
essere, in base al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni
effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle medesime individuate).
Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto ed è consacrato
in un atto, la qualifica può ritenersi acquisita. Diversamente da quanto si
afferma nella suddetta memoria difensiva, nessun argomento a favore della
tesi della natura dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di
imprenditore agricolo professionale può trarsi dal menzionato art. 1, comma
5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il quale si limita a disporre l’estensione,
alla nuova figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le
norme previgenti che facevano riferimento a quella dell’imprenditore
agricolo a titolo principale (non più esistente, in considerazione
dell’abrogazione dell’art. 12 della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art.
1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004)>>;
- ed, ancora: <<Ai sensi dell'art. 17, comma 3, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 il contributo di costruzione non è dovuto per gli
interventi da realizzare nelle zone agricole, comprese le residenze e la
conduzione del fondo, dall'imprenditore agricolo a titolo principale, ai
sensi dell'art. 12, l. 09.05.1975, n. 153, non essendo attualmente
sufficiente, ai fini del suddetto esonero, la mera qualifica di imprenditore
agricolo ma occorrendo, ex art. 1, comma 5-quater, d.lgs. 29.03.2004, n. 99,
quella di imprenditore agricolo a titolo professionale, per esso
intendendosi colui che, in possesso di conoscenze e competenze professionali
ai sensi dell'art. 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17.05.1999,
dedica alle attività agricole di cui all'art. 2135, c.c., direttamente o in
qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro
complessivo e dalle suddette attività ricavi almeno il 50% del proprio
reddito globale da lavoro>>.
---------------
Con ricorso, notificato il 30.10.2019 e depositato il 29.11.2019, Ti.Lu. -che in virtù di testamento pubblico del 27/09/1999, riceveva dal
bisnonno, Ti.Lu., un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale e
capannoni adibiti sempre all’attività agricola- riferisce, in fatto, che:
- il di lui bisnonno, Ti.Lu., con prot. n. 25215/86,
depositava presso il Comune di Benevento domanda di condono edilizio ai
sensi della Legge 47/1985, (allegando alla suddetta domanda relazione tecnica
illustrativa, planimetria degli immobili e bollettini postali comprovanti il
versamento dell’oblazione) con la quale chiedeva che venissero sanate le
costruzioni da lui realizzate consistenti in una ampliamento di mq. 18,02
della propria abitazione rurale (realizzazione di un bagnetto e ampliamento
della cucina) nonché un deposito pari a complessivi mq 72,62 adibito a
ricovero di merce e mezzi agricoli nonché a forno e in parte a pollaio e le
opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola;
- con il deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu.
aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto
del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione
1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di
superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc.,
opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986 come
da documentazione che si allega (all. n. 3);
- la pratica giaceva presso il Comune di Benevento per oltre 33
anni senza che l’Ente avesse mai emesso alcun provvedimento o richiesto
alcun documento, tant’è che soltanto a seguito di richiesta di permesso di
costruire formulata dal ricorrente, il citato Comune si accorgeva finalmente
dell’esistenza della suddetta pratica e chiedeva una integrazione della
stessa e, precisamente, una relazione tecnica che comprovasse la idoneità
statica del fabbricato, documento previsto dal legislatore successivamente
alla domanda di condono del Ti.;
- a tanto provvedeva tempestivamente il ricorrente come da
documentazione del 30/07/2019 depositata in data 02/08/2019 al prot. n.
71462 presso il Comune di Benevento Sportello Unico delle Attività
Produttive che, conseguentemente emetteva provvedimento dirigenziale
intitolato “Atto di determinazione delle somme dovute a titolo di
sanatoria”, con il quale, a riscontro della domanda di sanatoria di abuso
edilizio presentata da Ti.Lu., in data 05.09.1986 con protocollo n.
25125, relativamente all’ampliamento di un fabbricato rurale sito alla c.da
San Domenico, “Vista la documentazione integrativa prodotta in data
02/08/2019 con protocollo n. 71462 dalla ditta Ti.Lu.”, ”Considerato
che per l’abuso commesso l’oblazione versata è congrua”, “determinava
la somma da versare per contributo di costruzione in euro 64.872,69”.
Date tali premesse e preso atto che l’atto con il quale è stata determinata
la somma dovuta a titolo di sanatoria era incomprensibile non essendo stato
chiarito dall’Ente, seppur formalmente richiesto, i criteri adottati e, in
ogni caso, errato, Ti.Lu., nella spiegata qualità, ha impugnato, innanzi a
questo Tribunale, il predetto atto.
...
Il ricorso è infondato nei termini di seguito precisati.
Con la prima censura è dedotta la violazione di legge (art. 9, L.
10/1977; art. 17, d.P.R. 380/2001), al riguardo rilevandosi che:
- il Comune di Benevento, con l’impugnato provvedimento di
determinazione degli oneri, ha violato l’art. 9 della legge 10/1977 che
prevede la esenzione del contributo di cui all’art. 3 “per le opere da
realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della
conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo
principale”, in quanto il richiedente della sanatoria, Ti.Lu., era
imprenditore agricolo, così come le opere realizzate erano destinate in
parte (mq 18 circa) per l’abitazione rurale e per altra parte per la
edificazione di un capannone sempre ad uso agricolo (mq 70 circa);
- in merito è noto l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa secondo cui nessun onere di costruzione è dovuto laddove
siano presenti i requisiti oggettivi e soggettivi: “Ai fini
dell’esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione, l’art. 9, comma 1,
lettera a), legge n. 10/1977 richiede la contestuale sussistenza di due
condizioni: la prima oggettiva (opera da realizzare in funzione della
conduzione del fondo) e l’altra soggettiva (qualifica di imprenditore
agricolo a titolo principale)”; nella specie sussistono entrambi i
requisiti; il signor Ti.Lu. era nato nel 1900 ed è deceduto nel 1999. Le
opere da lui realizzate furono ultimate nella metà degli anni settanta. La
domanda di condono fu depositata nel maggio del 1986;
- a distanza di oltre trenta anni dal deposito della domanda di
condono e di circa venti anni dalla morte del richiedente, gli eredi -pur
perfettamente consapevoli che il de cuius avesse esercitato sempre
insieme al coniuge attività agricola dalla quale ricavava l’unico reddito
familiare- sono riusciti, faticosamente, a rinvenire alcuni documenti dai
quali si evince che il Ti. fosse stato imprenditore agricolo a titolo
principale; tali difficoltà vanno imputate anche al Comune di Benevento che
in oltre trenta anni ha affrontato la pratica solo dopo la richiesta di
permesso di costruire avanzata dal nipote dello stesso nel 2017;
- è noto che all’epoca dei fatti la certificazione di cui all’art.
12 della legge 153/1975, 4° comma, poteva essere attribuita persino mediante
dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio: “Il detto requisito si
presume altresì, quando l’imprenditore abbia esercitato per un triennio
anteriore alla data di presentazione della domanda l’attività agricola come
capo di azienda, ovvero come coadiuvante familiare o come lavoratore
agricolo: tali condizioni possono essere provate anche mediante atto di
notorietà”, per modo che, il Ti.Lu., all’epoca dei fatti, non avrebbe
avuto difficoltà a provare la propria qualifica di imprenditore agricolo
prevalente, anche nel caso in cui avesse smarrito detta certificazione;
- le opere edilizie realizzate dal Ti.Lu. risultano essere un
ampliamento di meno di 20 mq dell’abitazione rurale (cucina di campagna e
bagno) e di circa 70 mq di deposito adibito a ricovero di beni e di mezzi
agricoli, pollaio e forno; detti beni furono realizzati in C.da San Domenico
in zona agricola e all’interno dell’azienda dello stesso; inoltre, nella
domanda di condono depositata nel lontano maggio del 1986, la oblazione
-ritenuta corretta anche dal convenuto comune- è stata corrisposta per “attività
connessa con la conduzione agricola” (pagina quattro della domanda di
sanatoria);
- il requisito soggettivo si evince dai seguenti documenti che si
esibiscono, i quali provano che il Ti. ha dedicato alla sola attività
agricola il proprio tempo di lavoro nonché solo dalla stessa ha ricavato il
suo reddito da lavoro, essendo il richiedente titolare di partita iva numero
00726290620, strumentale all’esercizio di attività agricola in forma di
ditta individuale, come si evince dal documento rilasciato dal Ministero
delle Finanze del dì 08.11.1984;.
- peraltro, il richiedente formulava all’Amministrazione
Provinciale di Benevento, con l’ausilio del dott. agronomo V.D.G., richiesta
di impianto di oliveto su un fondo di sua proprietà esteso mq 8.000 circa
per la produzione di olio e tale richiesta prevedeva l’impianto di 320
alberi di olivo che avrebbero determinato un incremento delle vendite pari a
lire 4.480.000; a pagina uno della richiesta il Ti.Lu. viene identificato
come “Imprenditore Agricolo a titolo principale”; il suddetto
documento, rivolto alla pubblica amministrazione, a pagina due dello stesso
prevede espressamente di indicare la qualifica “che fa al caso” del
richiedente specificando di essere coltivatore diretto o imprenditore
agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 della legge n. 153/1975;
- il documento prodotto è stato ulteriormente attestato dal
professionista che ha seguito la procedura di impianto come da allegato
dallo stesso sottoscritto in uno alla copia del documento di identità.
Nell’attestato viene tra l’altro ulteriormente precisato “di aver avuto
incarico dal signor Ti.Lu. ... per l’ammodernamento e sviluppo
della propria azienda agricola in C.da San Domenico di Benevento” e che
lo stesso “aveva la qualifica di Imprenditore Agricolo a titolo
principale”, come riportato nella domanda a tal fine esibendosi
ulteriore documentazione con la quale il Ti.Lu. chiedeva di poter ricevere
un contributo per la costruzione di un pozzo relativo a 3 ettari di sua
proprietà; da detto documento si evince che a seguito della realizzazione
dello stesso l’incremento della produzione, per i suddetti tre ettari,
sarebbe stata pari a lire 10.800.000, portando il valore delle coltivazioni
a lire 20.400.000 annue: dai suddetti documenti si evince che lo stesso
aveva in affitto un ettaro di terreno oltre quelli di sua proprietà pari a
circa 10 ettari, oltre la casa colonica de qua, una stalla, un deposito di mc 340 e un fienile di mc 220 nonché un trattore e un motocoltivatore;
- pertanto, alla luce di quanto suesposto, senza dubbio alcuno il
richiedente Ti.Lu. rivestiva, all’epoca dei fatti, la qualifica di
Imprenditore Agricolo a titolo Principale, avendo lo stesso i requisiti
all’uopo richiesti dalla legge, sì come esaustivamente argomentato e come
dallo stesso dichiarato agli organi della Pubblica Amministrazione e tale
circostanza, come detto, viene attestata, ora per allora, dal tecnico dottor
V.D.G. sulla scorta delle conoscenze tecnico-professionali dello stesso,
nonché delle circostanze di fatto dallo stesso personalmente vagliate,
mentre, solo a causa della colpevole inerzia della Amministrazione
competente, gli eredi del Ti.Lu. sarebbero tenuti, oggi, a corrispondere
somme non dovute dal proprio dante causa.
La censura non coglie nel segno.
Parte ricorrente invoca il beneficio dall’esenzione da ogni onere di
costruzione previsto per gli imprenditori agricoli dall’art. 9 della legge
n. 10/1977 e dall’art. 17 del d.P.R. 380/2001, per le opere insistenti in
zona agricola in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’“imprenditore
agricolo a titolo principale”, tentando di dimostrare che il bisnonno
Ti.Lu. era in possesso di tali requisiti.
In punto di diritto la legge n. 10/1977, all’art. 9 (“Cessione gratuita”),
prevede che: <<Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto
(tra l’altro): a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art.
12, L. 09.05.1975, n. 153 (………)>>. Il richiamato art. 3 (“Contributo
per il rilascio della concessione”), prevede che: <<La concessione
comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle
spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione>>.
Sulla stessa linea normativa il d.P.R. 06/06/2001, n. 380, all’art. 17 (“Riduzione
o esonero dal contributo di costruzione”) prevede che: <<1. Nei casi
di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il
contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota
degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a
mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e
canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista
dall'articolo 18.
2. Il contributo per la realizzazione della prima abitazione è pari a quanto
stabilito per la corrispondente edilizia residenziale pubblica, purché
sussistano i requisiti indicati dalla normativa di settore.
3. Il contributo di costruzione non è dovuto (tra l’altro):
a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art.
12 della legge 09.05.1975, n. 153 (…….)>>.
Pertanto elemento decisivo per il riconoscimento del beneficio
dell’esenzione nella materia de qua è, oltre all’elemento oggettivo
(che nel caso del dante causa del ricorrente, non sembra far difetto), la
qualifica soggettiva di “imprenditore agricolo a titolo principale”
rivestita dal soggetto considerato e, che soltanto all’epoca della
presentazione dell’istanza di condono, poteva essere comprovato con
autocertificazione.
Parte ricorrente si attiva per reperire una serie di “indizi” che -a
suo dire- dimostrerebbero il possesso dei predetti requisiti in capo al loro
antenato.
Così, costituirebbero prova del requisito oggettivo, l’adibizione
(per vero generica) agricola del deposito, pari a complessivi mq, 72,62,
ovvero la circostanza che forno e in parte il pollaio e le opere realizzate
insistevano su terreno avente destinazione agricola, ovvero ancora che, in
occasione del deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu. aveva
provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto del
periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione 1974) e
della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di superficie
realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc., opere che sono
state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986, e così via dicendo.
Il requisito soggettivo di “Imprenditore agricolo a titolo principale”,
sarebbe, invece, comprovato dalla circostanza che il Ti.Lu. avrebbe dedicato
alla sola attività agricola il proprio tempo di lavoro nonché solo dalla
stessa avrebbe ricavato il suo reddito da lavoro, essendo il richiedente
titolare di partita iva numero 00726290620, strumentale all’esercizio di
attività agricola in forma di ditta individuale, come si evince dal
documento rilasciato dal Ministero delle Finanze del dì 08.11.1984; e,
più in generale, dalle svariate domande rivolte alla P.A. per conseguirne
l’assenso per specifici interventi, domande, presentate tutte nella asserita
qualità di “imprenditore agricolo a titolo principale”.
Ciononostante, nel caso di specie, deve ritenersi non comprovato, neanche in
giudizio, il possesso di tale ultimo requisito soggettivo, attraverso la
produzione -dello specifico certificato- alla stregua di quanto si sta per
esporre -all’uopo necessario.
Proprio sull’omessa dimostrazione del possesso della qualifica de qua
si è espressa la giurisprudenza amministrativa statuendo quanto segue: <<In
ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è univoca
nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da delimitarne l’ambito
esclusivamente all’imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi
dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153>> (cfr. Cons. Stato, sez. V,
02.09.1990, n. 682; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 03.10.2005, n. 1533;
Palermo, sez. I, 15.07.2004, n. 1554).
La gratuità della concessione
edilizia è, dunque, prevista ove concorrano qualità soggettive del
richiedente, che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e
qualità oggettive del fabbricato da erigersi.
Osserva, in proposito, il Collegio che, al fine di accedere al beneficio in
parola, non è sufficiente attingere la qualifica di “Imprenditore
agricolo a titolo principale” da un qualunque elemento sintomatico, ma
necessita un accertamento qualificato quale può rinvenirsi soltanto in
quello acquisito ai sensi della Legge del 09/05/1975, n. 153 che, all’art.
12 recita: <<Si considera a titolo principale l'imprenditore che dedichi
alla attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro
complessivo e che ricavi dall'attività medesima almeno due terzi del proprio
reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale>>.
Non si tratta di un mero formalismo ma, dell’unico modo per acclarare il
presupposto essenziale inteso ad accertare l’esistenza del diritto
all’esenzione dalla contribuzione richiesta.
Invero nella materia de qua si versa nella tematica che la migliore dottrina
classifica come diritti soggettivi subordinati all’accertamento dei
presupposti normativamente richiesti, i cc.dd. diritti invisibili
astrattamente previsti dall’ordinamento ma che, per emergere dal sommerso,
ed appuntarsi in capo al loro (legittimo) titolare necessitano di un
apposito procedimento amministrativo implicante un accertamento
tecnico-discrezionale, quasi sempre in funzione costitutiva.
Invero, la più volte riferita qualità di Imprenditore agricolo a titolo
principale deve essere posseduta alla data di presentazione della domanda di
condono ed unicamente con la produzione dell’apposito certificato che ha
natura costitutiva e non meramente dichiarativa del possesso della predetta
qualità. In tale senso, la migliore giurisprudenza ha avuto modo di rilevato
che:
- <<Il riconoscimento della qualifica in parola, presuppone la
sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati nel comma 1
dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso di questi ultimi deve
essere, in base al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni
effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle medesime individuate).
Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto ed è consacrato
in un atto, la qualifica può ritenersi acquisita. Diversamente da quanto si
afferma nella suddetta memoria difensiva, nessun argomento a favore della
tesi della natura dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di
imprenditore agricolo professionale può trarsi dal menzionato art. 1, comma
5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il quale si limita a disporre l’estensione,
alla nuova figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le
norme previgenti che facevano riferimento a quella dell’imprenditore
agricolo a titolo principale (non più esistente, in considerazione
dell’abrogazione dell’art. 12 della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art.
1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004)>> (Consiglio di Stato sent. n.
5363/2015);
- ed, ancora: <<Ai sensi dell'art. 17, comma 3, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 il contributo di costruzione non è dovuto per gli
interventi da realizzare nelle zone agricole, comprese le residenze e la
conduzione del fondo, dall'imprenditore agricolo a titolo principale, ai
sensi dell'art. 12, l. 09.05.1975, n. 153, non essendo attualmente
sufficiente, ai fini del suddetto esonero, la mera qualifica di imprenditore
agricolo ma occorrendo, ex art. 1, comma 5-quater, d.lgs. 29.03.2004, n. 99,
quella di imprenditore agricolo a titolo professionale, per esso
intendendosi colui che, in possesso di conoscenze e competenze professionali
ai sensi dell'art. 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17.05.1999,
dedica alle attività agricole di cui all'art. 2135, c.c., direttamente o in
qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro
complessivo e dalle suddette attività ricavi almeno il 50% del proprio
reddito globale da lavoro>> (Consiglio di Stato sez. IV, 26/11/2015, n.
5363).
Nella fattispecie in esame, quanto all’applicabilità della esenzione al
fabbricato da destinare ad abitazione dell’imprenditore agricolo il Comune
di Benevento legittimamente ha richiesto il pagamento degli oneri
contemplati dall’art. 3 della l. 28.01.1977, n. 10 per il rilascio della
concessione edilizia in questione, in mancanza di allegazione da parte
dell’istante della documentazione attestante il possesso dei requisiti per
beneficiare di siffatta esenzione (in termini, Cons. Stato, sez. V,
02.09.1990, n. 682).
E’ incontestabile, infatti, che l’interessato non ha dimostrato il possesso
dei requisiti al momento in cui ha richiesto la concessione edilizia, né nel
corso del procedimento, non potendo ritenersi prove idonee la dichiarazione
dei redditi del periodo di riferimento, in cui sono riportati anche redditi
da attività agricola e l’atto notorio di identico contenuto, in mancanza
dell’unica prova idonea a dimostrare la qualifica di imprenditore agricolo a
titolo principale, secondo la previsione dell’art. 12 della l. 09.05.1975,
n. 153.
Ne consegue che la parte ricorrente non può imputare ad errore di giudizio
l’omessa acquisizione da parte del giudice della documentazione comprovante
la sussistenza dei requisiti per beneficiare dell’esenzione, essendo
documenti nella disponibilità dell’interessato che vanno allegati alla
domanda di concessione edilizia, la cui produzione in giudizio incombe alla
parte attrice (cfr. Consiglio di Stato sent. n. 2609/2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.10.2021 n. 6655 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul pagamento, o
meno, degli oneri relativi al cambio di destinazione d’uso
da rurale ad urbano di un fabbricato abitativo.
E' legittima la richiesta comunale di
corrispondere gli oneri dovuti per il cambio di destinazione
d’uso del fabbricato da rurale ad urbano dovendosi
respingere la tesi della ricorrente secondo cui "non non
sarebbero dovuti gli oneri per la c.d.
deruralizzazione dell’immobile, ai sensi dell’art. 9, co. 9,
del d.l. n. 557/1993".
Invero, non vi è infatti ragione di discostarsi
dall’orientamento già seguito dalla Sezione che nell’art. 9, co. 9, del
d.l. n. 557/1993 ravvisa il solo scopo di
concedere agevolazioni correlate alle variazioni catastali
di cui si occupa, trattandosi di normativa che riguarda
l'attuazione del censimento dei fabbricati rurali e che non
può essere letta come volta a modificare la disciplina dei
presupposti e delle condizioni in base ai quali è possibile
l'assentimento del condono di cui alla legge n. 47 del 1985.
La norma, cioè, non rende esente dagli oneri l'assentimento
del condono per opere abusivamente realizzate, riferendosi
viceversa la disposta esenzione a eventuali ulteriori oneri
dovuti, pur in assenza di opere, in conseguenza delle
“variazioni” nell'iscrizione catastale dei fabbricati già
rurali.
---------------
... per l'annullamento
- della nota prot. n. 18658 del 16.07.2012 a firma del Responsabile
del Settore Assetto del Territorio del Comune di
Montespertoli, ad oggetto "SCIA per "realizzazione di
piscina a ristrutturazione dell'immobile in via ... 19
(pratica cnr. 54/2012 prot. n. 5348 del 06.03.2012)" a mezzo
della quale si richiede il pagamento degli oneri consentiti
dall'asserito cambio di destinazione d'uso;
- della nota prot. n. 18921 del 18.07.2012 a firma del Responsabile
del Settore Assetto del Territorio del Comune di
Montespertoli, ad oggetto "precisazione sulla corresponsione
degli oneri" con la quale si intima il pagamento delle somme asseritamente dovute entro il 02.09.2012;
nonché, previa determinazione giudiziale del contributo
dovuto ex art. 119 della L.R.T. n. 1/2005 e 16 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 in relazione alla SCIA n. 54/2012 prot n.
5348 del 06.03.2012, per l'accertamento negativo del credito
vantato dal Comune di Montespertoli, ad oggi quantificato in
euro 97.920,00 a titolo di cambio di destinazione d'uso -da
rurale ad abitativo- del fabbricato interessato dalla SCIA
n. 54/2012 prot. n. 5348 del 03.06.2012;
e in ipotesi, in caso esazione coattiva, per la condanna
dell'Amministrazione intimata alla ripetizione della somma
di euro 107.712,00 o di quella diversa o maggiore che la
Sig.ra Ba. sia tenuta a corrispondere in sede di
riscossione coattiva, oltre interessi legali e di mora.
...
1. La signora Em.Ba. è proprietaria nel
Comune di Montespertoli di un compendio immobiliare composto
da terreni agricoli e fabbricati, di cui uno a uso
residenziale.
Il 16.03.2012, ella ha presentato una segnalazione
certificata di inizio di attività inerente la
ristrutturazione mediante modifiche interne del predetto
fabbricato residenziale, nonché la realizzazione di una
piscina nel resede esterno.
Alla S.C.I.A. è seguito l’invito del Comune di Montespertoli,
con nota del 26.03.2012, a integrare/regolarizzare la
documentazione prodotta, con contestuale segnalazione di
dubbi circa la congruità degli oneri corrisposti e, in
particolare, circa l’avvenuta corresponsione degli oneri
dovuti per il cambio di destinazione d’uso del fabbricato da
rurale a urbano.
La nota comunale è stata riscontrata dalla ricorrente, la
quale esponeva di non ritenere dovuti gli oneri per la c.d.
deruralizzazione dell’immobile, ai sensi dell’art. 9, co. 9,
del d.l. n. 557/1993.
Il successivo scambio di ulteriore corrispondenza fra le
parti si è concluso con le note comunali del 16 e del 18.07.2012, in epigrafe, con le quali il Comune ha preteso
il pagamento degli oneri in questione, maggiorati della
sanzione per il ritardato pagamento.
Di tali note la signora Ba. chiede l’annullamento,
unitamente all’accertamento negativo del credito vantato nei
suoi confronti dal Comune di Montespertoli e, in ipotesi,
alla condanna del Comune alla restituzione degli importi
eventualmente riscossi nelle more del giudizio.
...
2. Come riferito in narrativa, il Comune di Montespertoli
esige il pagamento degli oneri relativi al cambio di
destinazione d’uso da rurale a urbano del fabbricato
abitativo di proprietà della signora Em.Ba., la
quale contesta la pretesa sulla scorta di due motivi in
diritto.
Con il primo motivo, la ricorrente invoca la previsione di
cui all’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993, convertito con
modificazioni in legge n. 133/1994, in forza del quale “Per
le variazioni nell'iscrizione catastale dei fabbricati già
rurali, che non presentano più requisiti di ruralità, di cui
ai commi 3, 4, 5 e 6, non si fa luogo alla riscossione del
contributo di cui all'art. 11 della legge 28.01.1977,
n. 10, né al recupero di eventuali tributi attinenti al
fabbricato ovvero al reddito da esso prodotto per i periodi
di imposta anteriori al 01.01.1993 per le imposte
dirette, e al 01.01.1994 per le altre imposte e tasse e
per l'imposta comunale sugli immobili, purché detti immobili
siano stati oggetto, ricorrendone i presupposti, di istanza
di sanatoria edilizia, quali fabbricati rurali, ai sensi e
nei termini previsti dalla legge 28.02.1985, n. 47, e
vengano dichiarati al catasto entro il 31.12.1995, con
le modalità previste dalle norme di attuazione dell'art. 2,
commi 1-quinquies ed 1-septies, del decreto-legge 23.01.1993, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla
legge 24.03.1993 n. 75”.
In virtù di tale disposizione, il cambio di destinazione
d’uso dell’intero fabbricato dovrebbe farsi risalire al
rilascio –in data 29.02.2000– della concessione in
sanatoria chiesta dal padre e dante causa della signora Ba. nel vigore della legge n. 47/1985, in combinato
disposto con la denuncia di variazione catastale presentata
nei termini stabiliti dall’art. 9, co. 9, cit..
Nulla sarebbe pertanto dovuto per il titolo rivendicato dal
Comune.
Con il secondo motivo, la ricorrente ribadisce che la
variazione catastale dell’immobile sarebbe avvenuta, a
istanza del suo genitore, sulla base della consistenza
rilevata in occasione della pregressa domanda di sanatoria. Quest’ultima sarebbe stata accolta dal Comune a titolo
gratuito proprio per la concorrenza sussistenza di tutti i
presupposti stabiliti dall’art. 9 d.l. n. 557/1993, che
avrebbe esonerato il denunciante dal pagamento degli oneri
di deruralizzazione; né sarebbe fondata la tesi esposta dal
Comune nel contraddittorio procedimentale, secondo cui
l’istanza di sanatoria avrebbe dovuto riferirsi al cambio di
destinazione d’uso.
In definitiva, per beneficiare dell’esonero dai contributi
sarebbe necessaria e sufficiente una sanatoria edilizia
legittimante l’uso abitativo e attestante la perdita dei
requisiti di ruralità del fabbricato sin dall’entrata in
vigore della legge n. 47/1985.
Il Comune di Montespertoli eccepisce l’inammissibilità del
ricorso stante la mancata impugnazione della concessione in
sanatoria del febbraio 2000, dalla quale dipenderebbe la
richiesta dei contributi; e comunque la sua improcedibilità,
per avere la ricorrente fatto acquiescenza alle richieste
comunali in occasione del pagamento degli oneri connessi
alla nuova S.C.I.A. presentata dalla signora Ba. nel
giugno 2016.
Nel merito, l’amministrazione resistente afferma che la
pratica di sanatoria avviata dal padre della ricorrente si
riferiva espressamente a un “fabbricato rurale” ed era stata
presentata da un soggetto qualificatosi come “imprenditore
agricolo”, seppure in pensione. E sarebbe proprio la
persistente natura rurale del fabbricato oggetto della
domanda di sanatoria a rendere di per sé inapplicabile la
previsione contenuta nell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993.
Per altro verso, la variazione catastale del 1996
riguarderebbe il solo secondo piano del fabbricato, mentre
nulla sarebbe stato prodotto con riferimento al primo piano
e al pianterreno, ove si collocherebbe la “nuova unità
immobiliare” oggetto della S.C.I.A. n. 54/2012.
Il Comune, ancora, richiama la giurisprudenza del TAR che
non rinviene nel più volte citato
art. 9, co. 9, d.l. n.
557/1993 l’esonero dagli oneri per la sanatoria delle opere
edilizie abusive (TAR Toscana, sez. III, 23.01.2017,
n. 132), in linea con l’orientamento che connette la
deruralizzazione all’esistenza di un titolo legittimante a
fini edilizi (TAR Toscana, sez. III, 05.11.2020, n.
1363).
2.1. Il ricorso è infondato, ciò che consente di ritenere
assorbite le eccezioni pregiudiziali del Comune.
In linea generale, non vi è infatti ragione di discostarsi
dall’orientamento già seguito dalla Sezione che
nell’art. 9, co. 9, del
d.l. n. 557/1993 ravvisa il solo scopo di
concedere agevolazioni correlate alle variazioni catastali
di cui si occupa, trattandosi di normativa che riguarda
l'attuazione del censimento dei fabbricati rurali e che non
può essere letta come volta a modificare la disciplina dei
presupposti e delle condizioni in base ai quali è possibile
l'assentimento del condono di cui alla legge n. 47 del 1985.
La norma, cioè, non rende esente dagli oneri l'assentimento
del condono per opere abusivamente realizzate, riferendosi
viceversa la disposta esenzione a eventuali ulteriori oneri
dovuti, pur in assenza di opere, in conseguenza delle
“variazioni” nell'iscrizione catastale dei fabbricati già
rurali (così TAR Toscana, sez. III, 23.01.2017, n.
132; id., 27.02.2013, n. 334).
In ogni caso, anche a voler aderire all’interpretazione
proposta dall’odierna ricorrente, la documentazione in atti
attesta che, in virtù della concessione in sanatoria del 29.02.2000, il fabbricato abitativo è stato condonato
nella sua interezza come fabbricato rurale, in conformità
all’istanza a suo tempo presentata dal signor Di.Ba.
ai sensi e nei termini stabiliti dalla legge n. 47/1985.
Ammesso che la presentazione dell’istanza di sanatoria possa
considerarsi integrare la prima delle precondizioni
richieste dall’art. 9, co. 9, cit. ai fini dell’esenzione da
oneri e contributi, a mancare è tuttavia la seconda precondizione, rappresentata dalla dichiarazione in catasto
entro il termine del 31.12.1995, prorogato fino al 31.12.2000 da una sequela di successivi interventi del
legislatore e poi “riaperto” fino al 31.12.2008
dall’art. 2, co. 38, del d.l. n. 262/2006, convertito con
modificazioni in legge
L’unica planimetria catastale disponibile in data anteriore
al termine di legge riguarda il solo secondo piano del
fabbricato, la cui classificazione A/3, risalente alla
denuncia di variazione del 19.07.1996, è peraltro
smentita dalla successiva concessione in sanatoria del 2000,
la quale si riferisce a un fabbricato interamente rurale e,
come la stessa ricorrente afferma, costituisce il
riferimento per determinare lo stato legittimo e la
legittima destinazione dell’immobile anche ai sensi del
sopravvenuto art. 9-bis, co. 1-bis, del d.P.R. n. 380/2001.
Quanto poi al pianterreno e al primo piano dello stabile –oggetto della S.C.I.A. del 2012 che ha dato origine al
contenzioso e della successiva S.C.I.A. del 2016– l’attuale classamento risale al marzo 2009, come si evince dalla
visura in atti, né si hanno informazioni circa il
classamento precedente, mentre non rileva la planimetria
catastale allegata all’atto di donazione del 29.06.2016,
pure in atti, che raffigura la porzione di fabbricato ceduta
dalla ricorrente al figlio e risulta depositata in catasto
il 01.04.2016.
Ne consegue, anche per questo aspetto, la debenza degli
oneri di deruralizzazione richiesti dal Comune resistente (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 03.06.2021 n. 847 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La questione oggetto del presente giudizio attiene alla configurabilità, o meno, di un cambio di destinazione d’uso (da rurale a
residenziale) giuridicamente rilevante (e quindi assoggettabile al
contributo di costruzione) nel caso di un intervento edilizio concernente un fabbricato
rurale, realizzato prima dell’entrata in vigore della L. n. 10/1977, che
risulti essere abitato da un soggetto che non è imprenditore agricolo.
Su tale questione questo Tribunale si è già pronunciato statuendo che
- “mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in
vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte
dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda
agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica
di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla
conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso
giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio
dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il
titolo originario;
- per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in
vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non
configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli
utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in
modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
---------------
... per la condanna del Comune di Ceresole d'Alba:
- previo, occorrendo, annullamento/disapplicazione delle
determinazioni relative al contributo di costruzione su permesso di
costruire n. 22/2016, rilasciato al ricorrente in data 17.05.2016 e
notificato il 27.05.2016 nonché del diniego di annullamento in autotutela
espresso dal Comune da ultimo con comunicazione prot. n. 3205/10.9 del
19.09.2017, successivamente notificato,
- e previo accertamento della non debenza del contributo di
costruzione in relazione all'intervento edilizio assentito (ristrutturazione
edilizia di fabbricato ad uso abitativo esistente) ai sensi dell'art. 17,
comma 3, lett. d), DPR n. 380/2001,
- alla restituzione delle somme a tale titolo riscosse, con
interessi e rivalutazione monetaria ai sensi di legge.
...
1. Il sig. Lu.Be. -proprietario dell'immobile sito in Ceresole d'Alba,
Frazione ... n. 29, costituito da terreno (censito al NCT, Foglio 20, map.
277) e da civile abitazione (censita al NCEU l Foglio 20, map. 277, sub 1)–
presentava istanza per il rilascio di permesso a costruire per la
realizzazione di interventi di ristrutturazione edilizia.
Il Comune, previo pagamento del contributo di costruzione pari ad euro
8.393,98 (richiesto con nota del 26.04.2016) ai sensi dell’art. 16 TUE e
delle delibere C.C. n. 5/2008 e G.C. n. 62/2012, rilasciava il permesso a
costruire n. 22/2016.
Il sig. Be., dopo aver pagato la somma richiesta (in data 12.05.2016, cfr.
doc. n. 8 di parte ricorrente), ritenendo che l’intervento rientrasse nelle
ipotesi di esonero di cui all’art. 17, comma 3, del DPR n. 380/2001,
chiedeva al Comune di riesaminare la propria determinazione sulla
corresponsione del contributo.
L’amministrazione respingeva l’istanza (con
nota prot. 617/10.9 del 22.02.2017) motivando il diniego “in quanto
l’intervento si configura come ristrutturazione edilizia di fabbricato con
il cambio di destinazione d’uso di locali non residenziali (accessori alla
residenza) in residenziali. L'intervento di ristrutturazione edilizia
richiesto ai sensi della lett. c) dell’art. 10 del DPR 380/2001 non rientra
nell’applicazione dell'esonero dal contributo di costruzione previsto
dall'art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 e s.m.i. in quanto l'incremento
della superficie utile residenziale è superiore al 20% dell'esistente. Nello
specifico la superficie utile netta residenziale in progetto risulta essere
di 116,85 mq con un incremento del 72% rispetto a quella esistente (67,75
mq)”.
L’interessato reiterava la richiesta di esonero dal contributo (con nota del
19.06.2017) lamentando un’erronea valutazione circa l’aumento di volume
(superiore al 20%), avendo mantenuto l’immobile medesima sagoma, consistenza
ed il carattere di unifamiliarità visto che da tempo (già prima
dell’acquisto da parte degli interessati) era adibito ad uso residenziale e
non più agricolo.
Il Comune (con nota prot. n. 3205/10.9 del 19.09.2017) rigettava la
richiesta rifacendosi (ed allegando), quanto alle motivazioni, a un parere
legale all’uopo richiesto, dal quale è desumibile un diniego fondato su un
presunto cambio di destinazione del cespite da agricola a residenziale.
Avverso tali determinazioni è insorto l’interessato con ricorso notificato
in data 01.12.2017 e ritualmente depositato avanti questo Tribunale, con il
quale chiede l’accertamento della non debenza del contributo e la relativa
restituzione, previo annullamento degli atti. Con un unico motivo il
ricorrente lamenta violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi
profili.
...
2. Il ricorso è fondato.
3. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta l’illegittimità della
determinazione e della richiesta del contributo di costruzione, violazione e
falsa applicazione di legge con riferimento all'art. 17, comma 3, del DPR
380/2001 nonché erronea e sviata valutazione dei presupposti di fatto e di
diritto, erroneità, infondatezza, illogicità e contraddittorietà della
motivazione al diniego espresso sulla richiesta di restituzione.
Il ricorrente sostiene che la ristrutturazione realizzata non ha comportato
aumento di volumetria oltre il limite del 20%, né mutamento di destinazione
d'uso e l'abitazione era ed è rimasta unifamiliare. Nel dettaglio la stessa
è consistita in demolizioni e ripristino di solai, della copertura e di
parte delle murature, nel rifacimento del tetto, nell'adeguamento degli
impianti, nella posa di apparecchi igienico-sanitari, nella posa di
pavimenti e di infissi, senza sostanziale modifica di volumi, sagome e
prospetti.
Per tali ragioni ricorrerebbero i presupposti di cui all'art. 17, comma 3,
lett. b), del DPR 380/2001, ai sensi del quale “Il contributo di
costruzione non è dovuto: […] b) per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Il ricorrente peraltro contesta la ricostruzione, di cui al secondo diniego,
che partendo dalla destinazione urbanistica rurale impressa dal PRGC (art.
40 delle NTA) all’area in cui l’immobile si trova, ne estende la
qualificazione anche a tutti gli edifici che ne fanno parte. Il ricorrente,
inoltre, insiste sul mantenimento del carattere residenziale dell’immobile
(censito, al momento dell’acquisto avvenuto nel 2005, al catasto edilizio
urbano con consistenza di 5,5 vani ed un classamento nella categoria
A/4-abitazione di tipo popolare), a nulla rilevando, rispetto alla
destinazione complessiva, il recupero ad uso abitativo di alcuni locali
accessori (stalla-fienile).
Il motivo è fondato.
Occorre premettere che dalla lettura del provvedimento rilasciato dal Comune
il 19.09.2017 (secondo diniego) emerge che l’amministrazione abbia proceduto
ad un riesame della propria posizione giungendo, sotto diversi profili, a
confermare l’esito negativo dell’istanza. Così stando le cose il primo
diniego del 19.06.2017 è da considerare implicitamente caducato e sostituito
dal secondo provvedimento. Ciò è ulteriormente dimostrato dal fatto che le
difese dell’amministrazione resistente non argomentano sulle prime
motivazioni di diniego ma esclusivamente su quelle del secondo.
L’amministrazione, riprendendo parzialmente la ricostruzione elaborata nel
parere legale posto a fondamento della motivazione del rigetto, evidenzia
che il contesto nel quale ricade l’immobile in questione è ubicato in area
individuata tra i “nuclei frazionali rurali a prevalente recupero e
completamento residenziale” di cui all’art. 40 delle NTA del P.R.G.C.
vigente. In particolare, all’intervento di cui si discute è stata applicata
la disposizione dell’art. 40, par. 4 delle NTA che così recita: “Gli
edifici rurali che risultano abbandonati alla data di adozione della seconda
variante al P.R.G.C., ed ugualmente quelli che in qualsiasi momento siano
motivatamente e provatamente dichiarati dal proprietario imprenditore
agricolo non più necessari alle esigenze della propria azienda agricola,
possono essere riutilizzati ad altre destinazioni, secondo le seguenti
prescrizioni:
- atto di impegno notarile o d'obbligo unilaterale che per almeno
10 anni nell'azienda non saranno realizzate nuove costruzioni aggiuntive;
- a tale condizione gli edifici dichiarati "non più necessari"
possono essere destinati ad usi abitativi civili, compresi quelli
agrituristici nonché ad usi produttivi”.
L’amministrazione prosegue sul punto sostenendo che l’area urbanistica
relativa ai “nuclei frazionali rurali” sia a tutti gli effetti una “area
agricola”, e che l’edificio –prima dell’intervento assentito con il PdC
n. 22/2016– fosse una c.d. residenza rurale, ovvero un fabbricato con
destinazione agricola atto a soddisfare esigenze abitative.
L’amministrazione comunale inoltre evidenzia che la determinazione della
destinazione in atto urbanisticamente rilevante per gli immobili, anche al
fine di determinare l’assoggettamento o meno al contributo di costruzione, è
espressamente disciplinata dall’art. 7 della LRP n. 19/1999, che così
dispone: “la destinazione d'uso in atto dell'immobile o dell'unità
immobiliare è quella stabilita dalla licenza edilizia o dalla concessione o
dall'autorizzazione e, in assenza o indeterminazione di tali atti, dalla
classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento o da
altri documenti probanti”.
Tale disposizione regionale peraltro trova oggi anche un riscontro a livello
nazionale, nell’art. 9-bis del DPR n. 380/2001, al comma 1-bis (introdotto
dal D.L. n. 76/2020 conv. con L. n. 120/2020).
È pacifico tra le parti che non sussistono titoli edilizi precedenti che
abbiano interessato la costruzione (che pacificamente risulta ante 1967) o
altri interventi sull’immobile.
Dai dati catastali prodotti in giudizio (cfr. doc. n. 2 allegato al ricorso)
emerge che la destinazione (cd. Qualità Classe) impressa all’immobile
dall’impianto meccanografico (che risale al 26.10.1977) è quella di “fabbricato
rurale”. Solo a far data dal 02.07.2004 tale classe è mutata in “ente
urbano” (dicitura che indica che il terreno è stato oggetto di un
aggiornamento di natura prettamente tecnica che consiste nell'inserimento in
cartografia catastale di nuovi fabbricati edificati, che saranno
successivamente censiti al catasto fabbricati; le modifiche ricevute
implicano che il terreno non è utilizzato a fini agricoli ma solo “urbani”,
come appunto le attività residenziali).
L’amministrazione, pertanto, affida al meccanismo presuntivo offerto
dall’art. 7 citato e dalle risultanze del primo accatastamento (o impianto
meccanografico) la ricostruzione del cambio di destinazione che l’intervento
assentito genera e, di conseguenza, l’assoggettamento del permesso al
contributo di costruzione.
La questione oggetto del presente giudizio, pertanto, attiene alla
configurabilità o meno di un cambio di destinazione d’uso (da rurale a
residenziale) giuridicamente rilevante (e quindi assoggettabile al
contributo) nel caso di un intervento edilizio concernente un fabbricato
rurale, realizzato prima dell’entrata in vigore della L. n. 10/1977, che
risulti essere abitato da un soggetto che non è imprenditore agricolo.
Su tale questione questo Tribunale si è già pronunciato sia con la sentenza
n. 687/2019, citata peraltro dai ricorrenti, che con recente sentenza
n. 447/2021 e dalle cui conclusioni non vi sono ragioni per
discostarsi. Quest’ultima pronuncia, nel richiamare la prima, statuisce che
“mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in
vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte
dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda
agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica
di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla
conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso
giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio
dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il
titolo originario; per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in
vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non
configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli
utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in
modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
Il Collegio ritiene di confermare questa conclusione anche alla luce delle
obiezioni sollevate dalla difesa dell’amministrazione comunale. Assume,
invero, rilievo determinante la differente disciplina cui sono soggetti i
fabbricati rurali edificati prima dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977
e quelli edificati dopo.
Questi ultimi sono disciplinati all’art. 25 l.reg. n. 56/1977 il quale
prevede tra l’altro:
“3. Possono avvalersi dei titoli abilitativi edilizi per
l'edificazione delle residenze rurali: a) gli imprenditori agricoli
professionali, anche quali soci di cooperative; b) i proprietari dei fondi e
chi abbia titolo per l'esclusivo uso degli imprenditori agricoli di cui alla
lettera a) e dei salariati fissi, addetti alla conduzione del fondo; c) gli
imprenditori agricoli non a titolo professionale ai sensi del comma 2,
lettera m), che hanno residenza e domicilio nell'azienda interessata.
4. Possono avvalersi degli altri titoli abilitativi edilizi di cui
al presente articolo i proprietari dei fondi e chi abbia titolo. [...]
7. L'efficacia del titolo abilitativo edilizio per gli interventi
edificatori nelle zone agricole è subordinato alla presentazione al comune
di un atto di impegno dell'avente diritto che preveda: a) il mantenimento
della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola; b) le
classi di colture in atto e in progetto documentate a norma del 18° comma
del presente articolo; c) il vincolo del trasferimento di cubatura di cui al
17° comma; d) le sanzioni, [oltre a quelle del successivo art. 69], per
l'inosservanza degli impegni assunti. [...]
10. É consentito il mutamento di destinazione d'uso, previa domanda
e con il pagamento degli oneri relativi nei casi di morte, di invalidità e
di cessazione per cause di forza maggiore, accertate dalla Commissione
Comunale per l'agricoltura di cui alla legge regionale 63/1978 e successive
modificazioni ed integrazioni.
11. Nei casi di cui al comma 10 non costituisce mutamento di
destinazione la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da parte
dell'interessato, suoi eredi o familiari”.
La norma detta quindi una specifica disciplina con riferimento:
- alle qualifiche necessarie per ottenere il titolo edilizio;
- alla presentazione di un atto di impegno-condizione di efficacia
del titolo edilizio –che preveda, tra l’altro, il mantenimento della
destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola;
- alla limitazione dei casi in cui è consentito il mutamento di
destinazione d'uso, subordinatamente al pagamento degli oneri (morte,
invalidità e cessazione per cause di forza maggiore dell'azienda agricola),
con la precisazione che, in tali casi, non costituisce mutamento di
destinazione d’uso la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da
parte dell'interessato, suoi eredi o familiari.
Per gli immobili edificati dopo il 1977, il passaggio da fabbricato rurale
destinato ad abitazione dell’imprenditore agricolo, a servizio della
conduzione dell’azienda agricola, ad abitazione di un soggetto che non
riveste la qualifica di imprenditore agricolo configura, quindi, per
espressa previsione legislativa, un mutamento di destinazione d’uso soggetto
al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Non altrettanto si può affermare con riferimento ai fabbricati rurali
realizzati in epoca antecedente. Per questi fabbricati non sussiste alcuna
limitazione quanto alle categorie di soggetti cui poteva essere rilasciato
il titolo edilizio né era prevista l’assunzione di un atto di impegno al
mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività
agricola.
Pertanto, questi immobili –per quanto “rurali”– potevano e possono
tuttora essere liberamente adibiti ad abitazione anche da parte chi non
rivesta la qualifica di imprenditore agricolo, senza che da ciò derivino
conseguenze. Stando alla normativa applicabile a questi immobili, non può
perciò configurarsi un mutamento di destinazione d’uso giuridicamente
rilevante laddove l’immobile sia abitato da un soggetto che nulla ha a che
fare con l’attività agricola. Né si può affermare che la modifica soggettiva
di colui che abita l’immobile determini, di per sé sola, un maggior carico
urbanistico che possa giustificare la pretesa al pagamento degli oneri di
urbanizzazione: il carico urbanistico resta, invero, lo stesso, nel caso in
cui l’immobile sia abitato dall’imprenditore agricolo oppure da un soggetto
che non rivesta tale qualifica.
Il fabbricato oggetto della presente controversia rientra in questa ultima
categoria: è pacifico tra le parti che sia stato edificato in area agricola
ben prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 (come peraltro attestato
nei rogiti prodotti in giudizio) e che non sia più destinato a tali usi già
da prima che gli attuali ricorrenti ne diventassero proprietari.
Avendo il Comune fondato il proprio diniego finale sulla ritenuta rilevanza
del cambio di destinazione, da rurale a residenziale, dell’immobile non
poteva applicare gli indici presuntivi di cui all’art. 7 della LRP 19/1999
(che riconosce alla classificazione catastale di primo impianto valore
probatorio, anche se in via di presunzione semplice) poiché tale meccanismo
di determinazione della destinazione in atto (o di legittimo impiego, come
definito dall’art. 9-bis del DPR n. 380/2001) è applicabile solo agli
immobili costruiti in base a titoli rilasciati dopo l’entrata in vigore
della L. n. 10/1977.
Per tali ragioni le pretese restitutorie del ricorrente sono fondate.
5. In conclusione il ricorso, nel suo complesso, dev’essere accolto quanto
all’accertamento della non debenza del contributo di costruzione richiesto e
versato dalla ricorrente e, per l’effetto: il permesso a costruire n.
22/2016 (nella parte in cui prevede l’onerosità dell’intervento), la nota
prot. 3205/10.9 e gli altri atti impugnati sono illegittimi e vengono
annullati.
Il Comune di Ceresole d’Alba è condannato a restituire la somma
di euro 8.393,98 oltre interessi (la cui decorrenza deve essere individuata
nel giorno della domanda trattandosi di percezione di indebito intervenuta
in buona fede, che si presume). Non può essere riconosciuta la rivalutazione
monetaria, non avendo parte ricorrente dimostrato un maggior danno che
resterebbe non compensato dalla corresponsione degli interessi
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 20.05.2021 n. 516 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: S'è
già affermato che
- “mentre per le residenze
"rurali" realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977
il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a
servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da
parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per
esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché
determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di
concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario,
- per le residenze
"rurali" edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio
dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione
d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il
beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di
qualsivoglia titolo edilizio”.
---------------
Assume rilievo determinante, nel caso di specie, la differente disciplina cui sono
soggetti i fabbricati rurali edificati prima dell’entrata in vigore della l.
n. 10/1977 e quelli edificati dopo laddove questi ultimi sono disciplinati
dall’art. 25, l.reg. n. 56/1977 sicché:
- per gli immobili edificati dopo il 1977, il passaggio
da fabbricato rurale destinato ad abitazione dell’imprenditore agricolo, a
servizio della conduzione dell’azienda agricola, ad abitazione di un
soggetto che non riveste la qualifica di imprenditore agricolo configura,
quindi, per espressa previsione legislativa, un mutamento di destinazione
d’uso soggetto al pagamento degli oneri di urbanizzazione;
- non altrettanto si può affermare con riferimento ai fabbricati rurali
realizzati in epoca antecedente.
Per questi fabbricati non sussiste alcuna limitazione quanto alle categorie
di soggetti cui poteva essere rilasciato il titolo edilizio né era prevista
l’assunzione di un atto di impegno al mantenimento della destinazione
dell'immobile a servizio dell'attività agricola.
Pertanto, questi immobili –per quanto “rurali”– potevano e possono
tuttora essere liberamente adibiti ad abitazione anche da parte chi non
rivesta la qualifica di imprenditore agricolo, senza che da ciò derivino
conseguenze.
Stando alla normativa applicabile a questi immobili, non può perciò
configurarsi un mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante
laddove l’immobile sia abitato da un soggetto che nulla ha a che fare con
l’attività agricola.
Né si può affermare che la modifica soggettiva di colui che abita l’immobile
determini, di per sé sola, un maggior carico urbanistico che possa
giustificare la pretesa al pagamento degli oneri di urbanizzazione: il
carico urbanistico resta, invero, lo stesso, nel caso in cui l’immobile sia
abitato dall’imprenditore agricolo oppure da un soggetto che non rivesta
tale qualifica.
---------------
... per l’accertamento:
- della gratuità (o esonero) dal contributo di costruzione
dell'intervento di manutenzione straordinaria avente ad oggetto la
sostituzione del tetto di copertura della porzione a destinazione
residenziale del fabbricato ubicato in Villastellone, Via ... n. 11
richiesto con SCIA Prot 7521 del 05.08.2019 e dell'inesistenza dell'obbligo
di versare alcun contributo di costruzione al Comune di Villastellone per il
predetto intervento;
e per l’annullamento:
- del provvedimento in data 11.02.2020 Prot. n. 1425 della
responsabile del settore urbanistica-edilizia privata del Comune di
Villastellone che ha determinato il contributo ritenuto dovuto per
l'intervento ex art. 16 D.P.R. 380/2001 in complessive € 39.493,74 di cui €
37.323,47 per la quota afferente gli oneri di urbanizzazione ed € 2.170,27
per la quota afferente il costo di costruzione;
...
Il sig. Gi.Va. ha domandato l’accertamento della gratuità o comunque
dell’esonero dall’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione con
riferimento all’intervento di manutenzione straordinaria di sostituzione del
tetto di copertura di una porzione di fabbricato, di sua proprietà, adibito
ad abitazione, situato a Villastellone, oggetto della SCIA presentata il
05.08.2019, e l’annullamento del provvedimento prot. n. 1425 del 11.02.2020
con cui il Comune di Villastellone ha determinato il contributo in
complessivi € 39.493,74 di cui € 37.323,47 per la quota afferente gli oneri
di urbanizzazione ed € 2.170,27 per la quota afferente il costo di
costruzione.
Queste le censure dedotte: violazione di legge per erronea e fuorviante
applicazione di quanto previsto dall'art. 25, comma 7° e 10°, della Legge
Urbanistica Regionale n. 56/1977. Violazione di legge per erronea e
fuorviante applicazione di quanto previsto dagli art. 7 e 8 della L.R.
19/1999. Violazione di legge per erronea applicazione di quanto previsto
dall'art. 11, comma 2°, e dall'art. 16 del D.P.R. 380/2001. Violazione di
legge per mancata applicazione di quanto previsto dall'art. 17, comma 4°,
del D.P.R. 380/2001. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei
presupposti. Violazione di legge ed eccesso di potere per erroneità della
motivazione.
...
La questione oggetto del presente giudizio attiene alla configurabilità o
meno di un cambio di destinazione d’uso giuridicamente rilevante nel caso di
un intervento edilizio concernente un fabbricato rurale, realizzato prima
dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977, che risulti essere abitato da un
soggetto che non è imprenditore agricolo.
Su di essa questo Tribunale si è già pronunciato con la sentenza n.
687/2019, resa in un giudizio in cui era parte lo stesso Comune di
Villastellone.
Con questa pronuncia il Tar ha affermato che “mentre per le residenze
rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il
passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a
servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da
parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per
esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché
determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di
concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario; per le residenze
rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio
dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione
d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il
beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di
qualsivoglia titolo edilizio”.
Il Collegio ritiene di confermare questa conclusione anche alla luce delle
obiezioni sollevate dalla difesa dell’amministrazione comunale.
Assume, invero, rilievo determinante la differente disciplina cui sono
soggetti i fabbricati rurali edificati prima dell’entrata in vigore della l.
n. 10/1977 e quelli edificati dopo.
Questi ultimi sono disciplinati all’art. 25, l.reg. n. 56/1977 il quale
prevede tra l’altro:
“3. Possono avvalersi dei titoli abilitativi edilizi per l'edificazione
delle residenze rurali:
a) gli imprenditori agricoli professionali, anche quali soci di
cooperative;
b) i proprietari dei fondi e chi abbia titolo per l'esclusivo uso
degli imprenditori agricoli di cui alla lettera a) e dei salariati fissi,
addetti alla conduzione del fondo;
c) gli imprenditori agricoli non a titolo professionale ai sensi
del comma 2, lettera m), che hanno residenza e domicilio nell'azienda
interessata.
4. Possono avvalersi degli altri titoli abilitativi edilizi di cui al
presente articolo i proprietari dei fondi e chi abbia titolo.
[...]
7. L'efficacia del titolo abilitativo edilizio per gli interventi
edificatori nelle zone agricole è subordinato alla presentazione al comune
di un atto di impegno dell'avente diritto che preveda:
a) il mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio
dell'attività agricola;
b) le classi di colture in atto e in progetto documentate a norma
del 18° comma del presente articolo;
c) il vincolo del trasferimento di cubatura di cui al 17° comma;
d) le sanzioni, [oltre a quelle del successivo art. 69], per
l'inosservanza degli impegni assunti.
[...]
10. É consentito il mutamento di destinazione d'uso, previa domanda e con il
pagamento degli oneri relativi nei casi di morte, di invalidità e di
cessazione per cause di forza maggiore, accertate dalla Commissione Comunale
per l'agricoltura di cui alla legge regionale 63-78 e successive
modificazioni ed integrazioni.
11. Nei casi di cui al comma 10 non costituisce mutamento di destinazione la
prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da parte dell'interessato,
suoi eredi o familiari”.
La norma detta quindi una specifica disciplina con riferimento:
- alle qualifiche necessarie per ottenere il titolo edilizio;
- alla presentazione di un atto di impegno -condizione di efficacia
del titolo edilizio– che preveda, tra l’altro, il mantenimento della
destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola;
- alla limitazione dei casi in cui è consentito il mutamento di
destinazione d'uso, subordinatamente al pagamento degli oneri (morte,
invalidità e cessazione per cause di forza maggiore dell'azienda agricola),
con la precisazione che, in tali casi, non costituisce mutamento di
destinazione d’uso la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da
parte dell'interessato, suoi eredi o familiari.
Per gli immobili edificati dopo il 1977, il passaggio da fabbricato rurale
destinato ad abitazione dell’imprenditore agricolo, a servizio della
conduzione dell’azienda agricola, ad abitazione di un soggetto che non
riveste la qualifica di imprenditore agricolo configura, quindi, per
espressa previsione legislativa, un mutamento di destinazione d’uso soggetto
al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Non altrettanto si può affermare con riferimento ai fabbricati rurali
realizzati in epoca antecedente.
Per questi fabbricati non sussiste alcuna limitazione quanto alle categorie
di soggetti cui poteva essere rilasciato il titolo edilizio né era prevista
l’assunzione di un atto di impegno al mantenimento della destinazione
dell'immobile a servizio dell'attività agricola.
Pertanto, questi immobili –per quanto “rurali”– potevano e possono
tuttora essere liberamente adibiti ad abitazione anche da parte chi non
rivesta la qualifica di imprenditore agricolo, senza che da ciò derivino
conseguenze.
Stando alla normativa applicabile a questi immobili, non può perciò
configurarsi un mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante
laddove l’immobile sia abitato da un soggetto che nulla ha a che fare con
l’attività agricola.
Né si può affermare che la modifica soggettiva di colui che abita l’immobile
determini, di per sé sola, un maggior carico urbanistico che possa
giustificare la pretesa al pagamento degli oneri di urbanizzazione: il
carico urbanistico resta, invero, lo stesso, nel caso in cui l’immobile sia
abitato dall’imprenditore agricolo oppure da un soggetto che non rivesta
tale qualifica.
Il fabbricato oggetto della presente controversia rientra in questa seconda
categoria: è stato edificato in area agricola nel 1800, dunque ben prima
dell’entrata in vigore della L. 10/1977.
L’operato dell’amministrazione, che ha ricollegato alla mancato possesso in
capo al sig. Va. dei requisiti previsti dall’art. 25, l.reg. n. 56/1977 la
modifica della destinazione d’uso a “residenza civile”, soggetta al
pagamento del contributo di costruzione, è pertanto illegittimo, avendo dato
applicazione alla disciplina urbanistica introdotta dalla L. 10/1977, e
quella regionale ad essa successiva (L.R. 56/1977; L.R. 19/1999), ad un immobile
edificato prima dell’entrata in vigore di tale legge, e come tale
assoggettato alla disciplina previgente di cui alla L. 1150/1942.
Quanto alla pretesa di assoggettare l’intervento di sostituzione del tetto
di copertura a contributo, con riferimento alla quota afferente il costo di
costruzione, essa si scontra infine con la previsione di cui all’art. 17, c.
4, d.P.R. n. 380/2001 ai sensi del quale “[...] per gli interventi di
manutenzione straordinaria di cui all'articolo 6, comma 2, lettera a),
qualora comportanti aumento del carico urbanistico, il contributo di
costruzione è commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione,
purché ne derivi un aumento della superficie calpestabile ".
Per queste ragioni, il ricorso deve trovare accoglimento, con il conseguente
annullamento del provvedimento impugnato e accertamento della non soggezione
a contributo di costruzione dell’intervento di sostituzione del tetto di
copertura della parte abitativa della porzione di fabbricato di proprietà
del ricorrente, oggetto del presente giudizio (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.04.2021 n. 447 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costante giurisprudenza, penale ed
amministrativa, ha sempre valutato in termini rilevanti la
modifica categoriale funzionale d'uso, ove la stessa
importi un incremento del carico urbanistico.
In generale,
deve poi rammentarsi che, per i mutamenti di destinazione
d'uso senza opere, ciò che rileva -al fine di determinare
la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina
sanzionatoria per il caso di violazione- è la rilevanza
urbanistica della modifica, nel senso dell'aggravamento del
carico urbanistico della zona in questione -art. 32 Testo
unico edilizia-.
A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza
urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza
opere, prima individuati attraverso l'elaborazione
giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter
del Testo unico dell'edilizia, inserito dal d.l. 12.09.2014,
n. 133 (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014,
n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già
affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il
principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa, da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate",
vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e
direzionale, commerciale, rurale.
Va quindi subito chiarito che quando, come nel caso di
specie, si passi a una categoria funzionale diversa -da
rurale a residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o
meno di opere..
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5. L’appello è infondato.
5.1. Con il primo motivo la sentenza viene censurata
per avere il Giudice di prime cure respinto il primo motivo
del ricorso introduttivo, con il quale si chiedeva
l’annullamento del provvedimento comunale del 16.03.2006 che
ha respinto, su conforme parere della Commissione Edilizia
Comunale del 23.02.2006, la richiesta di concessione
edilizia ai sensi dell’art. 13 della L. n. 47/1985 avanzata
dalla società -OMISSIS-, ora denominata -OMISSIS- -OMISSIS-.
Secondo la società appellante tale motivo del ricorso
introduttivo è stato respinto senza una adeguata
motivazione, ma sulla base della tavola di progetto n. 4
allegata alla istanza di sanatoria ex art. 13 L. 47/1985, e
del parere espresso dalla CEC portato a sostegno del
provvedimento di diniego della summenzionata richiesta di
sanatoria.
La censura è infondata.
Dai documenti acquisiti, a seguito dell’ordinanza
istruttoria n. -OMISSIS- con la quale il TAR adito ha
disposto a carico del Comune intimato la produzione di copia
degli elaborati grafici e della relazione tecnica presentati
dalla ditta ricorrente in allegato alla richiesta di
concessione edilizia in sanatoria; della scheda istruttoria
dell’ufficio; dalla copia del verbale della C.E.C. emesso il
23.02.2006, emerge, infatti, con chiarezza che l’istanza di
concessione in sanatoria del 03.03.2005 fa riferimento ad un
edificio destinato alla lavorazione ed allo stoccaggio di
prodotti agricoli, mentre dalle tavole di progetto prodotte
in giudizio –e segnatamente la n. 4– risulta che è stata
progettata e costruita una struttura integralmente destinata
ad uso ricettivo, come si evince facilmente dalla struttura
dei locali, dalla predisposizione di numerose camere da
letto con annesso bagno al piano sopraelevato, nonché dalla
predisposizione di un piano interrato denominato “serbatoio”,
facilmente raggiungibile con una ampia scala dal locale
seminterrato, e che pare facilmente utilizzabile –per
dimensioni, collocazione ed accessibilità- come piscina
coperta.
Sul punto, è sufficiente rammentare che la costante
giurisprudenza, penale ed amministrativa, ha sempre valutato
in termini rilevanti la modifica categoriale, ove la stessa
importi un incremento del carico urbanistico (ex aliis,
Consiglio di Stato, sez. IV, 13/12/2013, n. 6005; di recente
TAR Milano, sez. II, 01/07/2020, n. 1267, “in generale,
deve poi rammentarsi che, per i mutamenti di destinazione
d'uso senza opere, ciò che rileva -al fine di determinare
la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina
sanzionatoria per il caso di violazione- è la rilevanza
urbanistica della modifica, nel senso dell'aggravamento del
carico urbanistico della zona in questione -art. 32 Testo
unico edilizia-.
A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza
urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza
opere, prima individuati attraverso l'elaborazione
giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter
del Testo unico dell'edilizia, inserito dal d.l. 12.09.2014,
n. 133, (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014,
n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già
affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il
principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa, da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate",
vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e
direzionale, commerciale, rurale.
Va quindi subito chiarito che quando, come nel caso di
specie, si passi a una categoria funzionale diversa -da
rurale a residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o
meno di opere -cfr. anche, in tema, Corte di Cass., Sez. III
pen., 13.09.2018, n. 40678-.”)
Rilevante ai fini della decisione sull’appello in epigrafe è
anche il fatto che l’immobile insiste, come si confuta nel
citato parere della CEC, sulla fascia di rispetto
ferroviario, e che il nulla-osta in deroga ai sensi del
D.P.R. 753/1980 da parte di Rete Ferroviaria è intervenuto
soltanto dopo la chiusura del procedimento con il
provvedimento di diniego della richiesta concessione, sicché
al momento della costruzione l’immobile insisteva sulla
fascia di rispetto ferroviario: considerato che per
granitica giurisprudenza applicativa del canone tempus
regit actum (ex aliis TAR Torino, sez. I,
23/11/2016, n. 1440) “in sede di rilascio della
concessione edilizia in sanatoria, ed ai fini della tutela
derivante dall'imposizione di un vincolo di cui all'art. 32,
l, 28.02.1985, n. 47, la funzione amministrativa deve
esercitarsi secondo la norma vigente al tempo in cui essa si
esplica”, neppure tale censura può trovare favorevole
considerazione (CGARS,
sentenza 23.12.2020 n. 1185 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e prima
dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio della concessione
edilizia per la realizzazione nel territorio comunale di nuove costruzioni,
o l’ampliamento, la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non
era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio della concessione
edilizia era subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione
primaria o alla previsione della loro attuazione da parte dei comuni nel
successivo triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro attuazione
contestualmente alla realizzazione dell’intervento edilizio; ma, in ogni
caso, il rilascio del titolo edilizio non era subordinato al pagamento di
oneri di natura economica (art. 31 L. 1150/1942).
Pertanto, chi otteneva, ad
esempio, la concessione edilizia per l’edificazione di una abitazione in
area agricola, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non
in forza di una particolare normativa di favore per le attività agricole, ma
perché questo era il regime ordinario applicabile a tutte le concessioni
edilizie.
Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto il
principio della onerosità della concessione edilizia, attraverso
l’affermazione del principio secondo cui “Ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa
agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a
concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge” (art.
1), nonché del principio secondo cui “La concessione comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9 alcune
deroghe al principio della generale onerosità della concessione edilizia,
stabilendo che il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, “a)
per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze,
in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore
agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153”;
una norma, quest’ultima, che non trova la propria ragion d’essere nel minore
carico urbanistico correlato ad una abitazione di tipo “rurale”
rispetto ad una abitazione di tipo “civile” –che è il medesimo in
entrambi i casi– bensì, unicamente, in motivazioni di carattere politico
correlate alla volontà del legislatore di incentivare, tutelare e
valorizzare le attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando
l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di insediare la
propria abitazione nei pressi o all’interno della propria azienda agricola,
dall’onere economico di contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a
tale insediamento abitativo.
In sostanza, nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo
di concessione per la realizzazione di residenze rurali da parte di
imprenditori agricoli si configura come un beneficio di carattere soggettivo
e oggettivo correlato, per un verso alla qualifica di imprenditore agricolo
a titolo principale dell’avente diritto, e per altro verso alla destinazione
funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative del medesimo in
prossimità o all’interno della propria azienda agricola.
---------------
Il principio della esenzione dal contributo di concessione per
l’edificazione di residenze “rurali” da parte di imprenditori agricoli a
titolo principale è stato ribadito, prima ancora che dall’art. 17, comma 3,
lett. a), del D.P.R. 380/2001, dalla legislazione urbanistica
regionale piemontese successiva alla L. 10/1977, in particolare dall’art. 25
della L.R. n. 56/1977, che l’ha pure rafforzato attraverso la previsione
dell’obbligo dell’avente diritto di presentare al Comune un “atto di
impegno” al “mantenimento della destinazione dell’immobile a servizio
dell’attività agricola”, e subordinando a tale atto di impegno
l’efficacia del titolo abilitativo (art. 25, comma 7): in sostanza, dal
momento che ai fini dell’esenzione dal contributo di concessione è
essenziale che la residenza rurale sia edificata per soddisfare le esigenze
abitative dell’imprenditore agricolo a titolo principale, il legislatore
regionale ha preteso che, all’atto di beneficiare di tale esenzione,
l’avente diritto si impegni formalmente a non modificare successivamente la
destinazione d’uso della residenza, mantenendola a servizio dell’attività
agricola.
Seguendo la stessa logica, il comma 10 dello stesso art. 25 L.R.
56/1977 prevede che, in caso di cessazione dell’attività agricola per morte
o per invalidità dell’imprenditore o per altre cause di forza maggiore
(accertate nelle forme ivi previste), “è consentito il mutamento di
destinazione d’uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi”.
In altre parole, laddove cessi per fatti oggettivi il presupposto che aveva
giustificato l’esenzione dal contributo di costruzione, e cioè la
destinazione della residenza rurale al soddisfacimento delle esigenze
abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione del fondo, il
legislatore regionale consente che l’immobile possa essere destinato ad un
uso diverso da quello assentito, ad esempio come normale abitazione “civile”
da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, ma in
tal caso, verificandosi la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal
contributo di concessione, l’avente diritto è tenuto a corrispondere, ora
per allora, il contributo originariamente non corrisposto.
---------------
In definitiva,
- mentre le residenze rurali edificate sotto il vigore
della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di concessione sia che
fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore
agricolo connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate ad
usi “civili” da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore
agricolo, e ciò alla luce del regime di generalizzata gratuità dei titoli
edilizi di cui all’art. 31 di detta legge,
- le residenze rurali
edificate a far data dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece
esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella misura in cui siano
effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo
da parte dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per fatti
oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare
ad essere utilizzata come abitazione civile, ma previo assenso
dell’amministrazione comunale e previo pagamento, ora per allora, del
contributo di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività
agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio dell’esenzione
di cui aveva goduto il titolo abilitativo originario.
Da tanto consegue ulteriormente che,
- mentre per le residenze rurali
realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio
dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a
servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da
parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per
esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché
determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di
concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario,
- per le residenze
rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio
dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione
d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il
beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di
qualsivoglia titolo edilizio.
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... per l'accertamento:
- della gratuità (o esonero) dal contributo di costruzione
dell'intervento di restauro e risanamento conservativo del fabbricato
residenziale ubicato in Villastellone, Via ... 23 (ora 14) richiesto con
istanza di permesso di costruire (ai sensi dell'art. 22, comma 7, D.P.R.
380/2001) Prot. 6036 del 29.06.2018 e dell'inesistenza dell'obbligo di
versare alcun contributo di costruzione al Comune di Villastellone per il
predetto intervento;
e per l'annullamento e/o disapplicazione:
- dei provvedimenti in data 08.11.2018 e 03.12.2018 della
responsabile del settore urbanistica-edilizia privata del Comune di Villastellone che hanno determinato il contributo ritenuto dovuto per
l'intervento ex art. 16 D.P.R. 380/2001 in complessive Euro 16.159,00 di cui
Euro 15.001,00 per la quota afferente gli oneri di urbanizzazione ed Euro
1.158,00 per la quota afferente il costo di costruzione;
...
1. La signora Co.Ca., proprietaria del fabbricato ad uso abitativo sito in
zona agricola “RA” del Comune di Villastellone alla via ... n. 23,
acquistato in forza di atto pubblico di compravendita del 20.12.2017, con
istanza del 29.06.2018 chiedeva all’amministrazione comunale il rilascio del
permesso di costruire per la realizzazione di lavori di restauro e di
risanamento conservativo del predetto fabbricato.
2. Il Comune di Villastellone, con provvedimenti dell’08.11.2018 e del 03.12.2018, pur manifestando l’assenso dell’amministrazione al rilascio
del titolo, ne subordinava il rilascio al pagamento da parte della
richiedente dell’importo di € 16.159,00 di cui € 15.001,00 a titolo di oneri
di urbanizzazione ed € 1.158,00 a titolo di costo di costruzione, in
espressa applicazione del combinato disposto degli artt. 25 della L.R. n.
56/1977, 7 e 8 della L.R. 19/1999 e 52 del Regolamento Edilizio Comunale
vigente: ciò in quanto, secondo l’amministrazione, gli interventi edilizi
oggetto della richiesta di permesso di costruire determinerebbero una
modifica della destinazione d’uso dell’immobile da “rurale” a
“residenziale”, non essendo stato allegato dalla richiedente il possesso
della qualifica di imprenditore agricolo richiesto dall’art. 25 della L.R.
56/1977 per l’edificazione di residenze rurali in aree agricole; tale
modifica della destinazione d’uso, pur essendo consentita dalla normativa
regionale, sarebbe però soggetta al pagamento del contributo di costruzione,
secondo quanto previsto dall’art. 25, comma 10, della stessa L.R. 56/1977.
3. Con ricorso notificato il 17.12.2018 e ritualmente depositato, la signora
Carri ha impugnato i predetti provvedimenti comunali dell’08.11.2018 e del
03.12.2018 e ne ha chiesto l’annullamento, previo accertamento della
gratuità dell’intervento edilizio e dell’esonero del medesimo dal contributo
di costruzione.
Il ricorso è stato affidato a due motivi, con i quali la ricorrente ha
dedotto vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto plurimi
profili. In particolare:
3.1) con il primo motivo, la ricorrente ha sostenuto che nel caso di
specie non sussisterebbe alcun mutamento di destinazione d’uso; secondo la
ricorrente, infatti, si ha mutamento di destinazione d’uso (soggetto a
contributo di costruzione) soltanto quando la residenza sia stata costruita
in zona agricola avvalendosi del regime di esenzione previsto dall’art. 9,
lett. a), della L. 10/1977 in favore delle residenze funzionali alla
coltivazione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo a titolo
principale (regime confermato dall’art. 17, comma 3, lett. a), del DPR
380/2001); e quindi, soltanto quando la residenza rurale sia stata
assoggettata al vincolo formale di mantenerla a servizio della conduzione
del fondo; nel caso di specie, invece, l’edificio residenziale è stato
costruito prima del 1959 (anno a cui risale il primo titolo edilizio
rilasciato per la realizzazione di una nuova camera al primo piano), e
quindi prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il che comporta che il
fabbricato non ha beneficiato del regime derogatorio di esenzione previsto
dalla L. 10/1977 bensì del regime ordinario di gratuità allora vigente per
qualsivoglia edificazione abitativa; di conseguenza, il fabbricato abitativo
non è stato assoggettato al vincolo di mantenimento a servizio della
conduzione del fondo, e ciò comporta che il suo semplice utilizzo da parte
di un soggetto diverso dall’imprenditore agricolo non costituisce mutamento
di destinazione d’uso, dal momento che, al di là dei requisiti soggettivi
del beneficiario, la destinazione abitativa permane; nel caso di specie,
l’intervento oggetto del permesso di costruire attiene a lavori di restauro
e di risanamento conservativo di locali già a destinazione abitativa; di
conseguenza è illegittima la norma di cui all’art. 52, comma 3, del
Regolamento Edilizio del Comune di Villastellone per contrasto con la
normativa statale e regionale di riferimento, nella parte in cui fa
rientrare nelle destinazioni agricole anche le residenze rurali realizzate
in epoca antecedente l’entrata in vigore della L.R. 56/1977, non
assoggettate al vincolo di destinazione di cui al comma 7 dell’art. 25, le
quali non hanno beneficiato del regime di esenzione dal contributo di
costruzione;
3.2) con il secondo motivo, la ricorrente ha osservato che, secondo
consolidati principi giurisprudenziali, nel caso di ristrutturazione
edilizia il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto soltanto quando
l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico; nel caso
di specie, l’intervento consiste nel mero restauro e risanamento
conservativo delle parti già abitative del fabbricato, senza aumento di
volumi, superficie e unità immobiliari, quindi senza alcun aumento di carico
urbanistico; peraltro, il contributo di costruzione non sarebbe dovuto anche
in forza di quanto previsto dall’art. 17, comma 3, DPR 380/2001, secondo cui
il contributo di costruzione non è dovuto per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di
edifici unifamiliari.
4. Il Comune di Villastellone si è costituito in giudizio depositando
documentazione e resistendo al ricorso con articolata memoria difensiva.
4.1. Secondo il Comune, al fine di stabilire se un determinato intervento
edilizio avente ad oggetto un immobile preesistente comporti o meno il
pagamento del contributo di costruzione, l’amministrazione è tenuta,
nell’ordine:
1) ad accertare la destinazione d’uso “in atto” dell’immobile
oggetto dell’intervento;
2) a verificare se la realizzazione dell’intervento
progettato produrrà un aumento del carico urbanistico di carattere
qualitativo (modifica della destinazione d’uso) o quantitativo (incremento
della superficie o della volumetria, tale da determinare un aumento del
fabbisogno di dotazioni territoriali);
3) infine, a riscontrare l’eventuale
ricorrenza di uno dei casi di esenzione previsti dall’art. 17, comma 3, DPR
380/2001.
4.2. Nel caso di specie, l’amministrazione:
1) in primo luogo, ha accertato la destinazione d’uso “in atto”
dell’immobile alla luce di quanto previsto dall’art. 7 della L.R. 19/1999,
secondo cui “La destinazione d’uso in atto dell’immobile o dell’unità
immobiliare è quella stabilita dalla licenza edilizia o dalla concessione o
dall’autorizzazione e, in assenza o indeterminazione di tali atti, dalla
classificazione catastale attribuita in sede di primo accertamento o da
altri documenti probanti”; al riguardo, peraltro, la difesa
dell’amministrazione ha riconosciuto lealmente che l’esame dei titoli
edilizi concernenti l’immobile in questione (permesso n. 454/1959,
concessione edilizia n. 2166/1985 e DIA 46/2009) non forniscono elementi
univoci, permanendo una “indeterminazione” a proposito della
destinazione d’uso, ragion per cui sarebbe necessario fare riferimento, ai
sensi della norma citata, alla prima classificazione catastale, in cui si
parla di “fabbricato rurale”; alla luce di tale accertamento,
l’amministrazione ha dovuto fare applicazione dell’art. 52, comma 3, del
vigente Regolamento Edilizio, ai sensi del quale “Si specifica che le
abitazioni rurali classificate “fabbricato rurale” in sede di primo
accatastamento, come risultanti dalle schede del Catasto Terreni, rientrano
nelle destinazioni agricole di cui alla lettera f), comma 1, art. 8, della
L.R. 19/1999”;
2) in secondo luogo, ha accertato l’aumento del carico urbanistico
derivante dall’intervento in progetto considerando che quest’ultimo
determinerà una modificazione della destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante da “fabbricato rurale” a “residenza civile”, con passaggio dalla
categoria f) alla categoria a) dell’art. 8, comma 1, della L.R. 19/1999;
3) infine, ha verificato l’inesistenza nel nostro ordinamento di
una norma statale e regionale che esenti dal contributo di costruzione gli
interventi che comportano la modifica della destinazione d’uso in “residenza
civile” di un fabbricato “rurale” edificato prima del 30.01.1977.
...
9. Ciò posto, il ricorso è fondato, alla luce delle considerazioni che
seguono.
9.1. Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e prima
dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio della concessione
edilizia per la realizzazione nel territorio comunale di nuove costruzioni,
o l’ampliamento, la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non
era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio della concessione
edilizia era subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione
primaria o alla previsione della loro attuazione da parte dei comuni nel
successivo triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro attuazione
contestualmente alla realizzazione dell’intervento edilizio; ma, in ogni
caso, il rilascio del titolo edilizio non era subordinato al pagamento di
oneri di natura economica (art. 31 L. 1150/1942).
Pertanto, chi otteneva, ad
esempio, la concessione edilizia per l’edificazione di una abitazione in
area agricola, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non
in forza di una particolare normativa di favore per le attività agricole, ma
perché questo era il regime ordinario applicabile a tutte le concessioni
edilizie.
9.2. Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto il
principio della onerosità della concessione edilizia, attraverso
l’affermazione del principio secondo cui “Ogni attività comportante
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa
agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a
concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge” (art.
1), nonché del principio secondo cui “La concessione comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
9.3. Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9 alcune
deroghe al principio della generale onerosità della concessione edilizia,
stabilendo che il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, “a)
per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze,
in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore
agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153”;
una norma, quest’ultima, che non trova la propria ragion d’essere nel minore
carico urbanistico correlato ad una abitazione di tipo “rurale”
rispetto ad una abitazione di tipo “civile” –che è il medesimo in
entrambi i casi– bensì, unicamente, in motivazioni di carattere politico
correlate alla volontà del legislatore di incentivare, tutelare e
valorizzare le attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando
l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di insediare la
propria abitazione nei pressi o all’interno della propria azienda agricola,
dall’onere economico di contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a
tale insediamento abitativo.
In sostanza, nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo
di concessione per la realizzazione di residenze rurali da parte di
imprenditori agricoli si configura come un beneficio di carattere soggettivo
e oggettivo correlato, per un verso alla qualifica di imprenditore agricolo
a titolo principale dell’avente diritto, e per altro verso alla destinazione
funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative del medesimo in
prossimità o all’interno della propria azienda agricola.
9.4. Il principio della esenzione dal contributo di concessione per
l’edificazione di residenze “rurali” da parte di imprenditori
agricoli a titolo principale è stato ribadito, prima ancora che dall’art.
17, comma 3, lettera a), del D.P.R. 380/2001, dalla legislazione urbanistica
regionale piemontese successiva alla L. 10/1977, in particolare dall’art. 25
della L.R. n. 56/1977, che l’ha pure rafforzato attraverso la previsione
dell’obbligo dell’avente diritto di presentare al Comune un “atto di
impegno” al “mantenimento della destinazione dell’immobile a servizio
dell’attività agricola”, e subordinando a tale atto di impegno
l’efficacia del titolo abilitativo (art. 25, comma 7): in sostanza, dal
momento che ai fini dell’esenzione dal contributo di concessione è
essenziale che la residenza rurale sia edificata per soddisfare le esigenze
abitative dell’imprenditore agricolo a titolo principale, il legislatore
regionale ha preteso che, all’atto di beneficiare di tale esenzione,
l’avente diritto si impegni formalmente a non modificare successivamente la
destinazione d’uso della residenza, mantenendola a servizio dell’attività
agricola.
9.5. Seguendo la stessa logica, il comma 10 dello stesso articolo 25 L.R.
56/1977 prevede che, in caso di cessazione dell’attività agricola per morte
o per invalidità dell’imprenditore o per altre cause di forza maggiore
(accertate nelle forme ivi previste), “è consentito il mutamento di
destinazione d’uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi”;
in altre parole, laddove cessi per fatti oggettivi il presupposto che aveva
giustificato l’esenzione dal contributo di costruzione, e cioè la
destinazione della residenza rurale al soddisfacimento delle esigenze
abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione del fondo, il
legislatore regionale consente che l’immobile possa essere destinato ad un
uso diverso da quello assentito, ad esempio come normale abitazione “civile”
da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, ma in
tal caso, verificandosi la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal
contributo di concessione, l’avente diritto è tenuto a corrispondere, ora
per allora, il contributo originariamente non corrisposto.
9.6. In definitiva, mentre le residenze rurali edificate sotto il vigore
della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di concessione sia che
fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore
agricolo connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate ad
usi “civili” da parte di soggetti privi della qualifica di
imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di generalizzata gratuità
dei titoli edilizi di cui all’art. 31 di detta legge; le residenze rurali
edificate a far data dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece
esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella misura in cui siano
effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo
da parte dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per fatti
oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare
ad essere utilizzata come abitazione civile, ma previo assenso
dell’amministrazione comunale e previo pagamento, ora per allora, del
contributo di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività
agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio dell’esenzione
di cui aveva goduto il titolo abilitativo originario.
9.7. Da tanto consegue ulteriormente che, mentre per le residenze rurali
realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio
dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a
servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile”
(da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per
esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una
modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché
determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di
concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario; per le residenze
rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio
dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione
d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il
beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di
qualsivoglia titolo edilizio.
9.8. Nel caso di specie:
- il fabbricato abitativo di proprietà della ricorrente è stato
edificato in area agricola in epoca antecedente all’entrata in vigore della
L. 10/1977, come si desume dal fatto che il primo titolo abilitativo
reperito dalle parti, concernente la realizzazione di alcuni interventi di
ampliamento dell’immobile (evidentemente già esistente a quella data)
risulta rilasciato il 17.10.1959: doc. 3 ricorrente;
- di conseguenza, l’immobile è stato edificato beneficiando del
regime di generale gratuità dei titoli edilizi vigente prima dell’entrata in
vigore della L. 10/1977; il che comporta, alla luce di quanto sopra esposto,
che, allo stato, non ha alcun rilievo la circostanza che l’immobile possa
essere stato utilizzato come residenza “rurale” dai danti causa
dell’odierna ricorrente, imprenditori agricoli, e che invece la ricorrente,
priva della qualifica di imprenditore agricolo, la utilizzi quale residenza
“civile”; e ciò in quanto entrambe le destinazioni d’uso erano (e
sono) parimenti compatibili con il titolo abilitativo originario, ed
entrambe erano (e sono) parimenti esenti dal pagamento di oneri di sorta,
alla luce della disciplina di cui alla L. 1150/1942 applicabile ratione
temporis all’immobile in questione;
- pertanto, il passaggio da residenza “rurale” a residenza “civile”
non configura una modificazione della destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante, dal momento che, alla luce della disciplina urbanistica vigente
alla data di realizzazione dell’immobile, entrambe le destinazioni erano
ammissibili ed esenti dal contributo di concessione;
- d’altra parte, il passaggio dall’una all’altra destinazione d’uso
non ha determinato alcun aumento del carico urbanistico, né dal punto di
vista qualitativo, trattandosi in entrambi i casi di un utilizzo abitativo
dell’immobile, né dal punto di vista quantitativo, venendo in considerazione
un intervento di carattere conservativo delle parti già abitative del
fabbricato, senza incremento di volumi, superfici e unità immobiliari.
10. In definitiva, l’errore in cui è incorsa l’amministrazione comunale è
quello di aver applicato la disciplina urbanistica introdotta dalla L.
10/1977, e quella regionale ad essa successiva (L.R. 56/1977; L.R. 19/1999),
ad un immobile edificato prima dell’entrata in vigore di tale legge, e come
tale assoggettato alla disciplina previgente di cui alla L. 1150/1942, la
quale:
- non distingueva tra “residenze rurali” e “residenze
civili edificate in area agricola”;
- non attribuiva alcun rilievo alla circostanza che l’immobile
fosse utilizzato per le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo
connesse alla conduzione del fondo, ovvero da soggetti privi della qualifica
di imprenditori agricoli e per normali esigenze abitative svincolate dalla
conduzione del fondo;
- non considerava mutamento di destinazione d’uso, foriero di
conseguenze giuridiche, il passaggio dall’utilizzo “rurale”
all’utilizzo “civile” dell’immobile, tanto meno ai fini del pagamento
di oneri di sorta, vigendo un regime di generalizzata gratuità di tutti i
titoli edilizi.
11. In tale contesto, non appare pertinente l’applicazione alla fattispecie
in esame né dell’art. 7 della L.R. 19/1999, né dell’art. 52, comma 3, del
Regolamento Edilizio del Comune di Villastellone, nella misura in cui tali
nome fanno riferimento a categorie concettuali, quali la distinzione tra
fabbricato “rurale” e fabbricato “civile”, che hanno assunto
un rilievo giuridico -anche ai fini della determinazione della sussistenza
di eventuali modifiche della destinazione d’uso degli immobili e,
conseguentemente, del pagamento del contributo di costruzione– soltanto a
far data dalla novella legislativa introdotta con la L. 10/1977.
12. Alla luce di tali considerazioni, previa disapplicazione della norma di
cui all’art. 52, comma 3, del Regolamento Edilizio del Comune di
Villastellone, il ricorso in esame deve trovare accoglimento, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati e l’accertamento della non
soggezione a contributo di costruzione dell’intervento di restauro e di
risanamento costruttivo oggetto del presente giudizio
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 14.06.2019 n. 687 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' oneroso l'intervento di ristrutturazione edilizia
inerente un ex
fabbricato rurale (poi censito al catasto urbano nel 1991)
laddove il piano terra era originariamente adibito ad usi
produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.) d il cui
intervento ha comunque comportato una riconfigurazione delle
superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo
quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo
misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
Va innanzitutto ricordato che l’art. 9,
lett. d), della Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente,
prevedeva la gratuità della concessione edilizia “per gli
interventi di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi
censito al catasto urbano nel 1991.
Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni,
la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse
disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr.
art. 7, punto 4, DM LL.PP. 2.4.1968 n. 1444; art. 4, comma
3, L.r. n. 13/1990).
Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi
produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività
normalmente computabili attraverso propri indici di
edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista,
ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad
esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio
o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato
nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque
comportato una riconfigurazione delle superfici utili,
ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva,
trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo
essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato
l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova
superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il
cambio di destinazione tra categorie funzionalmente
diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio
unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione
sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione
socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola
proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi
di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie.
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa
tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo,
contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione,
vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette,
ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo
spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali
stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per
produzione vinicola o comunque spazi destinati alla
lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti
dell’agricoltura.
Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire
quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio,
la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di
progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato
contenuto entro i limiti del 20% della destinazione
residenziale originaria.
---------------
... per l'annullamento, in parte qua della
concessione edilizia n. 11/1992 avente ad oggetto “Ristrutturazione
fabbricato urbano” e per la condanna
dell’amministrazione alla restituzione dei contributi
concessori versati dal ricorrente.
...
Il ricorrente impugna la concessione edilizia n. 11/1992
dallo stesso ottenuta per la ristrutturazione di un
fabbricato urbano (ex fabbricato colonico), con cambio di
destinazione d’uso del piano terra, nella parte in cui
contiene la determinazione del contributo concessorio per
oneri di urbanizzazione (£ 2.313.166) e costo di costruzione
(£ 6.883.912), ritenendolo non dovuto e di cui chiede la
restituzione essendo stato medio tempore versato
all’amministrazione comunale per il rilascio del titolo.
Con un’unica ed articolata censura viene dedotta
violazione dell’art. 9 della Legge n. 10/1977 poiché
l’intervento edilizio deve essere ricondotto alla relativa
lett. d), trattandosi di edificio unifamiliare. In
particolare viene dedotto che risulta irrilevante l’avvenuto
cambio di destinazione d’uso, in quanto l’unico limite
all’applicazione del beneficio in oggetto è che la
ristrutturazione non comporti aumenti di volumetria oltre il
limite del 20% di quella esistente.
La censura è infondata
Va innanzitutto ricordato che l’art. 9, lett. d), della
Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la
gratuità della concessione edilizia “per gli interventi
di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi
censito al catasto urbano nel 1991.
Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni,
la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse
disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr.
art. 7, punto 4, DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma
3, L.r. n. 13/1990).
Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi
produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività
normalmente computabili attraverso propri indici di
edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista,
ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad
esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio
o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato
nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque
comportato una riconfigurazione delle superfici utili,
ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva,
trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo
essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato
l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova
superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il
cambio di destinazione tra categorie funzionalmente
diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio
unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione
sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione
socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola
proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi
di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto
alle altre tipologie edilizie (cfr. TAR Lombardia, Milano,
Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; id. Sez. II, 10.10.1996 n.
1480; TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2011 n. 713; TAR Veneto,
Sez. II, 13.03.2008 n. 604).
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa
tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo,
contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione,
vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette,
ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo
spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali
stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per
produzione vinicola o comunque spazi destinati alla
lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti
dell’agricoltura.
Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire
quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio,
la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di
progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato
contenuto entro i limiti del 20% della destinazione
residenziale originaria.
Il ricorso va conclusivamente respinto (TAR
Marche,
sentenza 04.01.2018 n. 9 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio per cui è causa -per quale
l’interessato ha presentato SCIA ai sensi dell’art. 22,
comma 1, del DPR 380/2001- è descritto in termini
ristrutturazione previa demolizione e ristrutturazione con
mantenimento dell’originaria sagoma e volumetria; risulta,
inoltre dalla relazione tecnica che il progetto è “volto
a ricavare tre distinti appartamenti (rispetto ai quattro
oggi esistenti)”.
Parte ricorrente ha, quindi, richiesto un titolo edilizio
per un intervento -diverso da quelli indicati all’art. 10,
comma 1, per il quale è richiesto il rilascio del permesso
di costruire– che non comporta alcun aumento volumetrico, né
prevede cambio di destinazione e che non comporta aggravio
del carico urbanistico, tenuto anche conto della riduzione
delle unità abitative da 4 a 3.
Ciò precisato in punto di fatto, il Collegio osserva che,
sulla base di consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza, il fatto costitutivo dell'obbligo
giuridico di corrispondere gli oneri in contestazione è
l'oggetto sostanziale dell'intervento, questo essendo
determinante per stabilire l'effettiva incidenza sul carico
urbanistico.
Invero:
a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
connesso all'aumento del carico urbanistico determinato dal
nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un
incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta
dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si
caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle
spese di cui l'Amministrazione si fa carico per rendere
accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato
edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non
può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi
interventi di sistemazione e adeguamento del contesto
urbanistico;
b) inoltre, il fondamento del contributo di
urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma
nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere
di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano
delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime
secondo modalità eque per la comunità; pertanto, nel caso di
ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui l'intervento
va a determinare un aumento del carico urbanistico (il che
può verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione
non interessi globalmente l'edificio, ma, a causa di lavori
anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà
strutturale e la fruibilità urbanistica).
Nel caso in esame, a fronte del un progetto sopra indicato, risulta carente sia la trasformazione del
territorio, sia l'aumento del carico urbanistico e,
pertanto, non sussiste il presupposto dell’obbligo di
corresponsione degli oneri.
---------------
Con istanza del 23.12.2021, il ricorrente presentava
una S.C.I.A. ai sensi dell’art. 22, D.P.R. n. 380/2001, per
il “Recupero e conservazione del patrimonio edilizio
esistente con ristrutturazione edilizia ed efficientamento
energetico mediante demolizione e ricostruzione di un
immobile costituito da 4 sub abitativi sito in Messina - vill.
Giampilieri Marina”, con mantenimento del medesimo volume e
sagoma esistenti.
Con nota prot. n. 2946 del 05.01.2022 l’Ufficio
comunicava i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza
rilevando, per quanto di interesse nel ricorso in esame, la
mancanza del “Calcolo analitico del contributo commisurato
al costo di costruzione con l’esatta dimostrazione di tutte
le superfici e la relativa attestazione dell’avvenuto
versamento dell’importo dovuto, nonché il calcolo del
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione e relativa attestazione dell’avvenuto
versamento del contributo dovuto”.
Con nota del 17.01.2022, il progettista chiariva che “…
trattandosi di ristrutturazione edilizia regolata dalla
lettera d) del comma 1 dell’articolo 3 del T.U. 380/2001,
quale risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n.
76/2020 e dalla legge di conversione, mantenendo a seguito
di demolizione e ricostruzione area di sedime, volumetria e
sagoma, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla
normativa antisismica …e per l’efficientamento energetico,
nessun contributo è dovuto per costi di costruzione né per
oneri di urbanizzazione, essendo addirittura ridotto il
carico urbanistico in virtù della previsione di n. 3 unità
abitative in luogo delle 4 esistenti”.
Con nota del 27.01.2022, l’Ufficio richiedeva ulteriore
integrazione sostenendo che l’esonero dal contributo fosse
previsto solo per gli edifici “unifamiliari”, ai sensi
dell'art. 17 del D.P.R. 380/2001 così come recepito e
modificato dall'art. 8 della L.R. 16/2016.
Con nota del 02.02.2022, il progettista ribadiva la non debenza degli oneri.
Con nota del 23.02.2022 il Comune insisteva nella
necessità di acquisire il calcolo del costo di costruzione e
degli oneri di urbanizzazione richiamando la delibera di
G.M. n. 1037 del 19.12.2013 (che prevede gli oneri di
urbanizzazione nei casi particolari di “trasformazione
conservativa, demolizione ricostruzione, ampiamenti e
sopraelevazioni di edifici”, con riduzione del 50% degli
importi relativi alle opere di urbanizzazione secondaria,
lasciando invariati quelli relativi alle opere di
urbanizzazione primaria) e l’art. 8 della l.r. 16/2016 che
prevede l’esonero dal contributo di costruzione nei soli
casi di “interventi di ristrutturazione di ampliamento in
misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari”.
Con istanza del 02.03.2022, l’interessato chiedeva il
riesame /annullamento in autotutela della nota del
23.02.2022 e l’adozione “di una determinazione che dia
atto che la SCIA non è soggetta al pagamento né di oneri di
urbanizzazione né di costo di costruzione”.
La richiesta veniva riscontrata dall’ufficio con nota n.
72990 del 15.03.2022 con la quale l’ente ribadiva le
richieste già formulate in quanto “...l'intervento in
oggetto rientra tra quelli disciplinati dall'art. 3, comma
1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 di "ristrutturazione
edilizia", mediante la demolizione e ricostruzione di un
fabbricato esistente; trattandosi di intervento di
ristrutturazione edilizia di edificio plurifamiliare, ai
sensi della vigente normativa, lo stesso è soggetto al
pagamento del contributo di costruzione (i casi di esonero
previsti dall'art. 8 della L.R. 16/2016 si riferiscono
esclusivamente ad interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di
edifici unifamiliari)”.
Con nota del 24.03.2022, il progettista contestava che
l’intervento fosse ascrivibile alle previsioni dell’art. 8,
comma 3, lettera b), della L.R. 16/2016 “non essendo il
titolo edilizio proposto compreso nella casistica relativa
al PdC del Capo II della Legge per cui è prevista la
corresponsione di oneri (…)”.
Infine, con provvedimento dell’11.04.2022 l’Ufficio
rettificava, in aumento, la tabella degli oneri così come
calcolata dal progettista, e quantificava in € 18.871,78 il
costo di costruzione ed in € 23.430,42 gli oneri di
urbanizzazione disponendo, altresì, il divieto di
prosecuzione dell’attività edilizia “sino all’avvenuto
pagamento degli importi dovuti, così come corretti d'ufficio”.
Con il ricorso in esame parte ricorrente ha impugnato il
citato provvedimento unitamente agli atti presupposti e ne
chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:
1) Violazione falsa ed erronea applicazione dell’art. 22, c. 1-2-3,
del D.P.R. 380/2001 come recepito dall’art. 10, c. 1-2-3
della L.r. 16/2016; dell’art. 10, c. 9, della L.r. 16/2016;
dell’art. 16, c. 1-10, ed art. 17, c. 3, del D.P.R. 380 così
come rispettivamente recepiti dagli artt. 7, c. 1-13, ed
art. 8, c. 3, lett. b), della L.r. 16/2016. Eccesso di
potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti;
difetto di motivazione.
Parte ricorrente, previo richiamo alla normativa concernente
il pagamento degli oneri concessori e gli interventi
assentibili a mezzo SCIA sostiene che:
- l’art. 17 del D.P.R. 380 del 2001 (così come la
normativa regionale) collega il pagamento del contributo di
costruzione al rilascio del permesso di costruire;
- l’art. 10 del D.P.R. richiede il rilascio del
permesso di costruire per gli interventi di “trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio" (nuova
costruzione, ristrutturazione urbanistica, ristrutturazione
edilizia), tra i quali non sarebbe annoverabile il progetto
per cui è causa avente ad oggetto una fattispecie di “ricostruzione”,
senza alcuna modifica di sagoma, volume e area di sedime;
- sarebbe, inoltre, errato il richiamo all’art. 8
della l.r. 16/2016 dato che l’interessato aveva sempre
rappresentato che gli oneri non erano dovuti a fronte di un
intervento di ristrutturazione senza alcuna alterazione dei
preesistenti parametri edilizi (non già perché si ritenesse
sussistente l’ipotesi di esonero di cui all’art. 8, c. 3,
lett. b).
2) In via subordinata, parte ricorrente ha contestato la
determinazione degli oneri di urbanizzazione erroneamente
calcolati dall’Ufficio in un importo superiore al 50%
dell’intera somma richiesta.
...
Il ricorso è fondato.
L’intervento edilizio per cui è causa -per quale
l’interessato ha presentato SCIA ai sensi dell’art. 22,
comma 1, del DPR 380/2001- è descritto in termini
ristrutturazione previa demolizione e ristrutturazione con
mantenimento dell’originaria sagoma e volumetria; risulta,
inoltre dalla relazione tecnica che il progetto è “volto
a ricavare tre distinti appartamenti (rispetto ai quattro
oggi esistenti)”.
Parte ricorrente ha, quindi, richiesto un titolo edilizio
per un intervento -diverso da quelli indicati all’art. 10,
comma 1, per il quale è richiesto il rilascio del permesso
di costruire– che non comporta alcun aumento volumetrico, né
prevede cambio di destinazione e che non comporta aggravio
del carico urbanistico, tenuto anche conto della riduzione
delle unità abitative da 4 a 3.
Ciò precisato in punto di fatto, il Collegio osserva che,
sulla base di consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
17.08.2022, n. 7191), il fatto costitutivo dell'obbligo
giuridico di corrispondere gli oneri in contestazione è
l'oggetto sostanziale dell'intervento, questo essendo
determinante per stabilire l'effettiva incidenza sul carico
urbanistico.
Invero:
a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso
all'aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo
intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento
della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla
costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si
caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle
spese di cui l'Amministrazione si fa carico per rendere
accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato
edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non
può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi
interventi di sistemazione e adeguamento del contesto
urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 23.02.2021, n. 1586);
b) inoltre, il fondamento del contributo di urbanizzazione non
consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità
eque per la comunità; pertanto, nel caso di ristrutturazione
edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel momento in cui l'intervento va a determinare
un aumento del carico urbanistico (il che può verificarsi
anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi
globalmente l'edificio, ma, a causa di lavori anche
marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale
e la fruibilità urbanistica v. tra le tante: (Cons. Stato,
sez. IV, 31.07.2020, n. 4877; TAR Lazio-Roma, Sez. II,
08.07.2021, n. 8142).
Nel caso in esame, a fronte del un progetto sopra indicato
(che sotto il profilo tecnico non è stato contestato dal
Comune resistente) risulta carente sia la trasformazione del
territorio, sia l'aumento del carico urbanistico, e,
pertanto, non sussiste il presupposto dell’obbligo di
corresponsione degli oneri.
Né può avere alcuna rilevanza, nel caso in esame, la
circostanza richiamata dall’ente -ai fini
dell’inapplicabilità della deroga prevista dall’art. 17,
comma 3, lett. b), del D.P.R. 380/2001 e dall’analoga norma
contenuta nell’art. 8 della l.r. 16/2016– poiché, la deroga
sopra citata opera rispetto all’obbligo di corresponsione
degli oneri concessori secondo un rapporto di
regola–eccezione contemplando una previsione derogatoria al
principio di onerosità del permesso di costruire e, quindi,
si applica nei casi in il pagamento sarebbe astrattamente
dovuto (ad esempio in caso di intervento di trasformazione
che comporta aumento del carico urbanistico e per il quale è
richiesto il permesso di costruire), ma il destinatario
viene esonerato dall’obbligo di pagamento in presenza delle
fattispecie tipizzate dal legislatore, tra cui quella
dell’ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici
unifamiliari (v. tra le tante. Cons. Stato, Sez. VII,
09.01.2024, n. 302; Sez. IV, 14.09.2023, n. 8323).
Invece, il caso in esame -per le ragioni sopra esposte
essenzialmente riconducibili al mantenimento dell’esistente
e alla mancanza di alcun incremento di carico urbanistico–
si colloca al fuori delle ipotesi nelle quali il contributo
è dovuto (v. in termini TAR Sicilia–Catania, sez. II,
15.11.2023, n. 3434 e giurisprudenza ivi richiamata).
In conclusione, il ricorso è fondato e va accolto, con
conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 18.03.2024 n. 1070 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza –pur ribadendo l’irrilevanza o
comunque la dequotazione dell’avviso di avvio del
procedimento in materia di repressione degli abusi edilizi-
ha riconosciuto che lo svolgimento di sopralluogo al quale
il destinatario del controllo ha potuto assistere è
sufficiente a rendere nota l’esistenza del procedimento
avviato.
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Con il primo motivo (rubricato: Erroneità della
sentenza quanto al rigetto del primo motivo di ricorso
(recante <violazione dell’art. 7 L. 241/1990 – mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento>),
l’appellante Br. ripropone la censura di mancata
comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L.
241/1990, deducendo che l’ordine di demolizione non poteva
considerarsi atto vincolato ed avrebbe imposto la previa
instaurazione di contraddittorio procedimentale in quanto la
copertura del piazzale era preesistente ed era stata
autorizzata con la concessione edilizia n. 1160/93.
Anche l’appellante La Br. ripropone con il primo motivo
di appello la censura di mancata comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 L. 241/1990, negli stessi termini.
Sostiene che se l’amministrazione avesse correttamente
effettuato l’istruttoria e se avesse ammesso a partecipare
il soggetto interessato si sarebbe resa conto che perlomeno
con riferimento alla sostituzione del manto bituminoso esso
era già stato autorizzato con precedente concessione
edilizia del 1993.
Il primo motivo di appello di entrambe le parti appellanti
concernente l’omessa comunicazione di avvio è infondato.
Emerge dalla documentazione in atti (doc. 2 della ricorrente
Br., depositato l’11.12.2019) che il provvedimento impugnato
ha avuto origine dal sopralluogo effettuato sul posto da due
tecnici dell’ufficio edilizia privata e da due ufficiali del
comando della polizia locale, al quale sopralluogo le parti
hanno potuto partecipare alla presenza del loro tecnico di
fiducia, dunque erano edotte di quanto accadeva. Infatti, le
società appallanti non hanno mai contestato la presenza dei
loro rappresentanti al sopralluogo.
6.1.2. La giurisprudenza –pur ribadendo l’irrilevanza o
comunque la dequotazione dell’avviso di avvio del
procedimento in materia di repressione degli abusi edilizi (ex
plurimis Cons. Stato, sez. II, 01.09.2021, n. 6181, sez.
IV, 12.12.2016, n. 5198)- ha riconosciuto che lo svolgimento
di sopralluogo al quale il destinatario del controllo ha
potuto assistere è sufficiente a rendere nota l’esistenza
del procedimento avviato (Cons. Stato, Sez. VII, 24.03.2023
n. 3087)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.02.2024 n. 1659 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla pavimentazione di area esterna, sul montaggio di
scaffalature
metalliche posizionate sulla medesima area esterna e
l’obbligo di preventiva denuncia ai sensi artt. 65 e 93
T.U.E.
Deve escludersi che nell'assoggettare al
regime di edilizia libera la realizzazione di interventi di
pavimentazione di spazi esterni, entro i prescritti limiti
di permeabilità del fondo, il legislatore abbia inteso
consentire la facoltà di coprire liberamente e senza alcun
titolo qualunque estensione di suolo inedificato, salvo
soltanto il rispetto di tali limiti.
E ciò in quanto la pavimentazione di aree esterne:
(i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di
suolo inedificato;
(ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che -anche
se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità- incide
comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
(iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale
rilevanza sotto il profilo dell'inserimento delle opere nel
contesto urbano;
(iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di
nuova volumetria”.
Siccome gli interventi di pavimentazione, anche ove
contenuti entro i limiti di permeabilità del fondo, sono
realizzabili in regime di edilizia libera soltanto laddove
presentino una entità minima, sia in termini assoluti, che
in rapporto al contesto in cui si collocano e all'edificio
cui accedono, gli interventi oggetto dell’impugnata
ordinanza, consistendo nella copertura di un’ampia porzione
di suolo libero, pari a ben 646,40 metri quadrati, non sono
da ritenere tali per cui non possono certamente essere
ricondotti nell’ambito dell’attività edilizia libera.
L’attività edilizia libera ex art. 6, c. 1, T.U.E.
presuppone tassativamente la conformità dell’intervento alla
disciplina vincolistica gravante sul terreno.
---------------
Le attività oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata
rientrano nel novero dell’art. 3, comma 1, lett. e), del DPR
n. 380/2001 in quanto nel caso concreto emergono le grandi
dimensioni delle scaffalature costruite sull’area soggetta a
vincolo paesaggistico-ambientale ed in particolare il loro
solido ancoraggio su una pavimentazione in calcestruzzo,
sovrastati da una copertura in lastre ondulate in materiale
plastico, disposti lungo tutto il perimetro dell’area
pavimentata.
Tali scaffali, che hanno l’altezza di m 7,40 (corrispondente
ad una costruzione a due piani fuori terra), sono riempiti
di merce ivi stoccata, sicché per la loro collocazione e
realizzazione ad uso non temporaneo, ma permanente,
rientrano nella definizione di “interventi di nuova
costruzione” di cui alle lettere e5) e e7) dell’art. 3,
comma 1, del DPR n. 380/2001.
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Le scaffalature nonché la pavimentazione in calcestruzzo (i
quali vanno visti nel loro insieme di opere unitamente alla
pavimentazione del piazzale ed alla creazione del deposito
merci, che ha determinato la trasformazione complessiva
dell’area), ricadono in zona vincolata e soggetta ad
autorizzazione paesaggistica, per cui consegue la
legittimità del provvedimento demolitorio in quanto, secondo
la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’abuso
edilizio consistente nella esecuzione di intervento ancorché
soggetto a DIA o SCIA, qualora ricadente in area soggetta a
vincolo, si configura sempre come eseguito in assenza di
concessione ex art. 27 T.U.E. e soggiace a sanzione
demolitoria.
L’art. 146, comma 4, D.lgs. n. 42/2004 precisa, infatti, che
“l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
Questa Sezione ha inoltre chiarito che l’autorizzazione
paesaggistica comprende qualsiasi opera edilizia
calpestabile che può essere sfruttata per qualunque uso.
---------------
Non
ha alcuna rilevanza l’affermazione che la violazione degli
artt. 65 e 93 del DPR n. 380/2001 non sarebbe configurabile
nel caso di scaffalature metalliche in quanto le stesse
sarebbero state fornite con specifica dichiarazione del
produttore corredata dalla certificazione di corrispondenza
dei manufatti e dei calcoli alla normativa per le
costruzioni; a tale riguardo si considera che l’obbligo di
presentare la denuncia ex art. 65 del DPR n. 380/2001
sussiste per tutte le opere realizzate “con materiali e
sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in
vigore”.
Nel caso concreto, trattandosi di scaffalature in acciaio e
-come auto-certificato dal progettista della ditta
fornitrice– che sono state edificate in conformità alle
norme tecniche per le costruzioni approvate con D.M.
17.01.2018, è applicabile l’obbligo di preventiva denuncia
ai sensi artt. 65 e 93 T.U.E. in quanto riferita alle opere
realizzate “con materiali e sistemi costruttivi disciplinati
dalle norme tecniche in vigore”.
---------------
6.2. Con il secondo
motivo di appello [rubricato: Erroneità della
sentenza quanto al rigetto del terzo motivo di ricorso
(recante <violazione dell’art. 3 L. 241/1990 e degli artt.
10, 31 e 65 D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per carenza
istruttoria, travisamento dei fatti e difetto dei
presupposti, in relazione alla pavimentazione del piazzale
esterno>)] l’appellante Br. ripropone la contestazione
dell’ordinanza impugnata, e di riflesso, della sentenza di
prime cure, nella parte in cui ha qualificato quale “nuova
costruzione” la pavimentazione in calcestruzzo anziché
quale mera sostituzione della precedente bitumazione
assentita in base alla concessione edilizia n. 1160/93, e
nella parte in cui non ha considerato che trattasi di
attività edilizia libera ex art. 6, c. 1, lett. e-ter), DPR
380/2001.
Anche la soc. La Br. ripropone con il suo secondo motivo
di appello la contestazione dell’ordinanza impugnata e di
riflesso della sentenza di prime cure, sostenendo che la
sentenza sul punto non avrebbe analizzato la tavola grafica,
ma piuttosto si sarebbe limitata a “leggere”
l’oggetto dell’intervento come indicato nella tavola
grafica.
Secondo la soc. La Br., sarebbe stato sufficiente analizzare
le linee di contorno del triangolo di terreno oggetto della
richiesta di titolo abilitativo per comprendere e confermare
quanto da essa sostenuto nel proprio ricorso. Afferma che “Le
linee di contorno, come evidenziato nella relazione tecnica
redatta dall’Ing. Ca. in data 18.09.2020 (doc. 1 del
fascicolo di primo grado dep. il 22.09.2020) e nei relativi
allegati, sarebbero fini e distinguerebbero il punto di
passaggio tra due materiali diversi, in base alle seguenti
norme:
-UNI EN ISO 7519.2001- “Disegni tecnici - Disegni di
costruzione - Principi generali di presentazione per disegni
di insieme e di assemblaggio” - punto 4.7: “I contorni tra
parti di materiali differenti in vista devono essere
rappresentati con linea continua fine o grossa”;
-UNI ISO 128-23:2005- “Principi generali di
rappresentazione” - punto 4, prospetto 1 “Linea continua
fine: limiti di materiali differenti in vista, in taglio ed
in sezione”.
I due diversi materiali sarebbero anche contrassegnati dalle
due diverse campiture, infatti, in base alla norma UNI
3972:1981 “Disegni tecnici – Tratteggi per la
rappresentazione dei materiali nelle sezioni”, diversi
tratteggi, individuano diversi materiali”.
Sarebbe necessario fare riferimento alle norme di buona
tecnica progettuale per comprendere le tavole grafiche
allegate all’istanza, le quali andavano attentamente
valutate dal momento che il titolo edilizio scaturisce dalla
compresenza della descrizione letterale dell’opera contenuta
nel testo del provvedimento e dalla rappresentazione grafica
dell’intervento.
Con il terzo motivo di impugnazione [rubricato:
Erroneità della sentenza quanto al rigetto del quarto,
quinto e sesto motivo di ricorso (recanti,
rispettivamente, <violazione dell’art. 3 L. 241/1990 e
degli artt. 3, comma 1, lettera e), 10, 31, 65 e 93 DPR
380/2001 – eccesso di potere per carenza di istruttoria,
travisamento dei fatti e difetto dei presupposti, in
relazione ai manufatti metallici>; <violazione degli
artt. 3, 10, 22, 31 e 37 DPR 380/2001; violazione dell’art.
3 della L. 241/1990 e/o eccesso di potere per difetto di
motivazione>; <violazione degli artt. 3, 10, 22, 31 e
37 DPR 380/2001; violazione dell’art. 3 L. 241/1990 e/o
eccesso di potere per difetto di motivazione>], la soc.
appellante Br. contesta l’ordinanza di demolizione nella
parte in cui è rivolta contro le scaffalature metalliche
posizionate sul piazzale, e di riflesso impugna la sentenza
che ha respinto i motivi di prime cure, deducendo in
particolare che:
- (i) le scaffalature non sarebbero qualificabili come costruzioni
ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. e.5) ed e.7), T.U.E.
perché non creano volumetria essendo aperte su tutti i lati,
sono facilmente rimovibili essendo solo tassellate al suolo
e prive di carattere di stabilità, sono insuscettibili di
determinare trasformazione edilizia permanente;
- (ii) le scaffalature sarebbero assimilabili a mere attrezzature
di lavoro estranee all’attività edilizia o comunque
rientranti nella attività edilizia libera o soggetta a SCIA
ex art. 22 T.U.E.
- (iii) insistono su area della quale era già stato assentito
l’accorpamento con quella ricadente nel Comune di Rivalta di
Torino, destinata a mero stoccaggio merci per consegna
differita di materiali già acquistati;
- (iv) la sentenza del TAR avrebbe erroneamente interpretato la
sentenza del Consiglio di Stato n. 337/2019 in quanto quest’ultima
aveva qualificato la posa di scaffalature analoghe come
soggetta a SCIA commerciale, e non a SCIA edilizia, quindi
non sarebbe vero che si sarebbe dovuto demolire le
scaffalature ex art. 27 T.U.E. perché ricadenti in area
sottoposta a vincolo paesaggistico;
- (v) l’ordinanza di demolizione sarebbe assistita dalla
prospettazione dell’acquisizione gratuita in caso
d’inottemperanza che invece non sarebbe configurabile nel
caso di opere soggette a mera SCIA;
- (vi) la violazione degli artt. 65 e 93 DPR 380/2001 non sarebbe
configurabile nel caso di scaffalature metalliche in quanto
le stesse sono fornite con specifica dichiarazione del
produttore corredata dalla certificazione di corrispondenza
dei manufatti e dei calcoli alla normativa per le
costruzioni;
- (vii) non sarebbe configurabile la violazione del rapporto di
copertura del 50% di cui all’art. 18 N.T.A. in quanto le
scaffalature non creerebbero volumetria.
Anche l’appellante soc. La Br. contesta nel terzo motivo
di impugnazione l’ordinanza di demolizione nella parte in
cui è rivolta contro le scaffalature metalliche posizionate
sul piazzale, e di riflesso impugna la sentenza che ha
respinto i motivi di prime cure, deducendo in particolare
che:
- (i) le scaffalature insisterebbero su area sulla quale nel 1993
sarebbe già stata assentita la pavimentazione con la C.E. n.
1160/93;
- (ii) la sentenza impugnata sarebbe errata laddove nel citare la
sentenza del Consiglio di Stato n. 337 del 14.01.2019
ritiene che le scaffalature siano state considerate soggette
a SCIA edilizia e non ad attività edilizia libera come da
sempre sostenuto dalla ricorrente. Le scaffalature oggetto
del contendere invece non presenterebbero caratteristiche di
stabilità tali da costituire un organismo edilizio
rilevante: queste sarebbero fissate alla pavimentazione con
semplici tasselli e per ragioni di sicurezza, tant’è che
verrebbero spostate e modificate in base alle esigenze
funzionali dell’attività di vendita e stoccaggio. Per queste
ragioni, tali strutture non potrebbero essere ricondotte
alla nozione di “trasformazione edilizia permanente”.
Entrambi i motivi di impugnazione delle parti appellanti,
così articolati, i quali si prestano ad un esame congiunto,
sono infondati.
Come rilevato al precedente punto 6.1.3. da nessuno dei
documenti allegati alla domanda presentata nel 1993 al
Comune di Orbassano emerge che la domanda avrebbe riguardato
anche una pavimentazione. Sia nella domanda che nelle tavole
e nelle denunce di inizio e fine lavori si parla solamente
di recinzione tipo Orsogrill, per cui non spettava al Comune
di Orbassano l’onere di indagare sul contenuto della
concessione rilasciata dal Comune di Rivalta, né di indagare
sulla reale intenzione delle odierne appellanti, sottesa
alla domanda e non letteralmente evincibile dal contesto
della domanda.
6.2.1. Ad ogni modo il Comune di Orbassano, nell’esaminare
la domanda de qua, il cui oggetto è di chiara
comprensione in base al linguaggio ed alla terminologia
usata, come nel caso concreto ove la domanda riguarda la
costruzione di una recinzione in grigliati tipo "Orsogrill“
a completamento della recinzione del lotto 2 sito nel Comune
di Rivalta di Torino-frazione Pasta), non era tenuto ad
esaminare ogni singola linea contenuta negli allegati e
tanto meno ad indagare su eventuali pavimentazioni previste
nel progetto autorizzato dal Comune di Rivalta di Torino.
Risulta per tabulas, contrariamente a quanto
sostenuto dalle parti appellanti, che né dal testo della
domanda di autorizzazione, né dal contenuto degli allegati
alla domanda era percettibile che “la parte di terreno in
questione su Orbassano non destinata a verde ed annessa al
piazzale del capannone produttivo sarebbe stata pavimentata
in continuità con quanto autorizzato su Rivalta” e non è
nemmeno deducibile dall’elaborato tecnico che la dizione “Sup
verde privato >20%” andava “a vincolarne la
percentuale minima di verde permeabile.”
Inoltre, non emerge nemmeno dalla domanda di autorizzazione,
né dai disegni allegati alla stessa che sarebbe stata intesa
l’annessione di una porzione del terreno ricadente sul
territorio di Orbassano, a quello di Rivalta di Torino, per
cui non ha nemmeno alcuna rilevanza l’asserita buona fede
delle odierne appellanti intesa ad accorpare l’area situata
sul territorio di Orbassano -mediante la realizzazione della
recinzione e di una pavimentazione dell’area a verde privato
sita sul territorio di Orbassano- alla pavimentazione del
terreno ubicato sul territorio di Rivalta, asseritamente
oggetto di pavimentazione.
La mancanza di una relazione tecnica-descrittiva
dell’intervento dalla quale si avrebbe potuto ricavare pure
l’intenzione delle appellanti di accorpare e pavimentare il
terreno a verde situato sul territorio di Orbassano a quello
situato sul territorio di Rivalta non può sicuramente fare
scaturire in capo al Comune di Orbassano un qualsiasi onere
di indagare sulle intenzioni eventualmente ricavabili dalle
tavole e dalle relative campiture; ciò in quanto nemmeno
dalla tavola grafica era chiaramente rilevabile, mediante
una relativa indicazione, che la parte della proprietà
situata sul territorio del Comune di Rivalta era soggetta a
pavimentazione.
6.2.2. Un tanto premesso ed escluso che la concessione
rilasciata dal Comune di Orbassano nel 1993 comprendeva
l’autorizzazione alla pavimentazione della parte destinata a
verde situata sul territorio del Comune di Orbassano, il
Collegio non condivide le affermazioni delle parti
appellanti che nella pavimentazione accertata in sede di
sopralluogo del 14.10.2019 da parte del Comune di Orbassano
quale nuova pavimentazione in calcestruzzo, si sarebbe
trattato invece solamente della sostituzione di una
pavimentazione già autorizzata nel 1993.
6.2.3. Non si condivide nemmeno l’affermazione che,
trattandosi di sostituzione di preesistente pavimentazione
autorizzata, l’attività rientrerebbe nell’attività edilizia
libera di cui all’art. 6, comma 1, del DPR n. 380/2001.
Secondo l’art. 6, d.P.R. n. 380/2001 ”Fatte salve le
prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e
comunque nel rispetto delle altre normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e,
in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative
all'efficienza energetica, di tutela dal rischio
idrogeologico, nonché delle disposizioni contenute nel
codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, i seguenti interventi sono
eseguiti senza alcun titolo abilitativo: a) omissis……(..)
“e-ter) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi
esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro
l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento
urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di
intercapedini interamente interrate e non accessibili,
vasche di raccolta delle acque, locali tombati”.
Dal sopra riportato testo si rileva che le opere indicate
possono ritenersi effettivamente rientranti nel perimetro di
applicazione della previsione normativa soltanto laddove,
per le loro caratteristiche in concreto, siano del tutto
inidonee a influire in modo rilevante sullo stato dei
luoghi, e quindi non determinino una significativa
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Orbene, come correttamente osservato dal Giudice di prime
cure, deve escludersi che “nell'assoggettare al regime di
edilizia libera la realizzazione di interventi di
pavimentazione di spazi esterni, entro i prescritti limiti
di permeabilità del fondo, il legislatore abbia inteso
consentire la facoltà di coprire liberamente e senza alcun
titolo qualunque estensione di suolo inedificato, salvo
soltanto il rispetto di tali limiti. E ciò in quanto la
pavimentazione di aree esterne:
(i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di
suolo inedificato;
(ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che -anche
se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità- incide
comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
(iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale
rilevanza sotto il profilo dell'inserimento delle opere nel
contesto urbano;
(iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di
nuova volumetria”.
6.2.4. Siccome gli interventi di pavimentazione, anche ove
contenuti entro i limiti di permeabilità del fondo, sono
realizzabili in regime di edilizia libera soltanto laddove
presentino una entità minima, sia in termini assoluti, che
in rapporto al contesto in cui si collocano e all'edificio
cui accedono, gli interventi oggetto dell’impugnata
ordinanza, consistendo nella copertura di un’ampia porzione
di suolo libero, pari a ben 646,40 metri quadrati, non sono
da ritenere tali per cui non possono certamente essere
ricondotti nell’ambito dell’attività edilizia libera.
6.2.5. L’attività edilizia libera ex art. 6, c. 1, T.U.E.
presuppone tassativamente la conformità dell’intervento alla
disciplina vincolistica gravante sul terreno; condizione che
nel caso di specie -ove l’area de qua è soggetta a vincolo
paesaggistico-ambientale e ricompresa nel perimetro del
Piano d’Area del Parco approvato con legge regionale n.
19/2009 (cfr. verbale di sopralluogo del 14.10.2019, pagg. 2
e 5; ordinanza impugnata, pag. 3)- deve essere esclusa con
riferimento a tutti i vincoli richiamati.
6.2.6. Ai sensi dell’art. 3, c. 1, sono da ritenersi:
"e) "interventi di nuova costruzione", quelli di trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle
categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da
considerarsi tali:
e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati,
ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della
sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi
pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6);
e.2) gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria
realizzati da soggetti diversi dal comune;
e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per
pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via
permanente di suolo inedificato;
e.4) l'installazione di torri e tralicci per impianti
radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di
telecomunicazione;
e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e
il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il
profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto,
paesaggistico, in conformità alle normative regionali di
settore;
e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli
strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al
pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino
come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino
la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume
dell'edificio principale;
e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la
realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto
ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la
trasformazione permanente del suolo inedificato”.
Le attività oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata
rientrano nel novero dell’art. 3, comma 1, lettera e), del
DPR n. 380/2001 in quanto nel caso concreto emergono dalle
quattro fotografie allegate al verbale di sopralluogo (doc.
12 del Comune, depositato il 24.09.2020) le grandi
dimensioni delle scaffalature costruite sull’area del
mappale 10 del foglio 8, sul territorio del Comune di
Orbassano, in area soggetta a vincolo
paesaggistico-ambientale e ricompresa nel perimetro del
Piano d’Area del Parco approvato con legge regionale n.
19/2009 (assoggettando gli interventi al preventivo parere
dell’ente gestione del Parco del Po e ad autorizzazione
paesaggistica ex art. 142 e art. 146 D.lgs. n. 42/2004) ed
in particolare il loro solido ancoraggio su una
pavimentazione in calcestruzzo, sovrastati da una copertura
in lastre ondulate in materiale plastico, disposti lungo
tutto il perimetro dell’area pavimentata; tali scaffali, che
hanno l’altezza di m 7,40 (corrispondente ad una costruzione
a due piani fuori terra), sono riempiti di merce ivi
stoccata, sicché per la loro collocazione e realizzazione ad
uso non temporaneo, ma permanente, rientrano nella
definizione di “interventi di nuova costruzione” di
cui alle lettere e5) e e7) dell’art. 3, comma 1, del DPR n.
380/2001.
Le scaffalature nonché la pavimentazione in calcestruzzo (i
quali vanno visti nel loro insieme di opere unitamente alla
pavimentazione del piazzale ed alla creazione del deposito
merci, che ha determinato la trasformazione complessiva
dell’area), ricadono in zona vincolata e soggetta ad
autorizzazione paesaggistica, per cui consegue la
legittimità del provvedimento demolitorio in quanto, secondo
la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’abuso
edilizio consistente nella esecuzione di intervento ancorché
soggetto a DIA o SCIA, qualora ricadente in area soggetta a
vincolo, si configura sempre come eseguito in assenza di
concessione ex art. 27 T.U.E. e soggiace a sanzione
demolitoria.
L’art. 146, comma 4, D.lgs. n. 42/2004 precisa, infatti, che
“l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo
e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
Questa Sezione ha inoltre chiarito che l’autorizzazione
paesaggistica comprende qualsiasi opera edilizia
calpestabile che può essere sfruttata per qualunque uso (Cons.
Stato, Sez. VI, 12.12.2022, n. 10866; Cons. Stato, sez. IV,
n. 35/2017).
6.3. Infine, non ha alcuna rilevanza l’affermazione che la
violazione degli artt. 65 e 93 del DPR n. 380/2001 non
sarebbe configurabile nel caso di scaffalature metalliche in
quanto le stesse sarebbero state fornite con specifica
dichiarazione del produttore corredata dalla certificazione
di corrispondenza dei manufatti e dei calcoli alla normativa
per le costruzioni; a tale riguardo si considera che
l’obbligo di presentare la denuncia ex art. 65 del DPR n.
380/2001 sussiste per tutte le opere realizzate “con
materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme
tecniche in vigore”.
Nel caso concreto, come osservato dal Comune appellato,
trattandosi di scaffalature in acciaio e -come
auto-certificato dal progettista della ditta fornitrice– che
sono state edificate in conformità alle norme tecniche per
le costruzioni approvate con D.M. 17.01.2018, è applicabile
l’obbligo di preventiva denuncia ai sensi artt. 65 e 93
T.U.E. in quanto riferita alle opere realizzate “con
materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme
tecniche in vigore”.
6.4. Con il quarto motivo di impugnazione [rubricato:
Erroneità della sentenza quanto al rigetto del settimo
motivo di ricorso (recante <violazione dell’art. 3 L.
241/1990 – eccesso di potere per carenza di istruttoria,
travisamento dei fatti e difetto dei presupposti per
l’applicazione della normativa contenuta negli artt. 14, 18
e 32 delle NTA del PRG e punto 6.4 dell’art. 40 delle NTA
del PRG, dell’art. 142 e 146 del D.Lgs. 42/2004, degli artt.
10, 31, 65 e 93 del DPR 380/2001 della L.R. 19/2009 per
mancata richiesta dei titoli autorizzativi e
dell’autorizzazione paesaggistica e dell’ente Parco>)],
l’appellante Br. censura la sentenza nella parte in cui ha
rigettato il settimo motivo del ricorso di primo grado
secondo il quale, essendo la pavimentazione e le
scaffalature attività edilizia libera, non sarebbe stata
necessaria neanche l’autorizzazione paesaggistica, la quale
-trattandosi di “adeguamento di spazi pavimentati"-
sarebbe esclusa anche da quanto previsto nell’allegato A,
punto 12 n. 31 del DPR 31/2017.
La soc. La Br. censura la sentenza a sua volta con il
quarto motivo di impugnazione nella parte in cui ha
rigettato il terzo motivo di ricorso con il quale è stata
censurata l’ordinanza impugnata in quanto ha considerato i
lavori abusivi perché realizzati in violazione dell’art.
142, comma 1, del D.lgs n. 42/2004, per mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica, atteso che le aree
interessate sono ricomprese nel perimetro del Piano d’Area
del Parco approvato ai sensi della L.R. 42/2004.
La sentenza -laddove afferma che
(i) la pavimentazione e la scaffalatura avrebbero necessitato del
previo rilascio del permesso di costruire e
(ii) laddove non ritiene assentite le opere in forza dei titoli
edilizi rilasciati dal Comune di Rivalta di Torino e infine,
laddove
(iii) ritiene che si tratta della realizzazione di una
pavimentazione ex novo-
sarebbe errata in quanto la pavimentazione non avrebbe
necessitato di autorizzazione edilizia in quanto semplice
sostituzione (manutenzione) di pavimentazione esistente già
autorizzata, mentre le scaffalature non avrebbero presentato
caratteristiche di stabilità tali da costituire un organismo
edilizio rilevante ai fini edilizi ed essere considerate
come una nuova costruzione, per cui non sarebbe applicabile
alla fattispecie la normativa sulla tutela dei beni
culturali e ambientali.
Con un quinto motivo d’appello la soc. La Br. s.s.,
infine, censura il capo n. 18 della sentenza di prime cure
che ha respinto il motivo di ricorso concernente la dedotta
illegittimità dell’ordinanza di demolizione nella parte in
cui censura l’erronea applicazione dell’art. 69-bis N.T.A.
del P.R.G.C. che colloca parte dell’area in questione in
classe III di pericolosità geomorfologica Alta IIIA, con
conseguente inedificabilità per le condizioni di rischio
molto elevato, salve limitate eccezioni qui non applicabili,
sostenendo che nel caso di specie nessuna trasformazione
urbanistica sarebbe intervenuta.
Sostiene che l’area in questione sarebbe stata solo oggetto
di un’attività manutentiva che ha comportato la sostituzione
del manto di copertura del piazzale esterno; tale
sostituzione non può considerarsi né “trasformazione
urbanistica” né “nuovo insediamento”, non
essendovi state variazioni di cubatura né insediamenti o
modificazioni strutturali.
6.4.1. Le censure dedotte con i motivi quattro e
cinque da parte delle due società appellanti non hanno
pregio in quanto, come già rilevato ai precedenti punti
6.1.3. e 6.2. nel caso concreto non si tratta di adeguamento
di spazi pavimentati, ma di intervento con il quale è stata
realizzata una nuova pavimentazione ed è stata costruita una
ampia scaffalatura, solidamente fissata alla nuova
pavimentazione.
Tali interventi, ai sensi del D.P.R. n. 31/2017, Allegato B,
necessitano comunque di una autorizzazione paesaggistica
semplificata (cfr. punto 18 “gli interventi sistematici
di configurazione delle aree di pertinenza di edifici
esistenti, diversi da quelli di cui alla voce B.14, quali:
nuove pavimentazioni, accesso pedonali e carrabili,
modellazioni del suolo incidenti sulla morfologia del
terreno, realizzazione di rampe, opere fisse di arredo,
modifiche degli assetti vegetazionali” e punto 25 “occupazione
temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico,
mediante installazione di strutture o di manufatti
semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di
fondazione per manifestazioni, spettacoli, eventi, o per
esposizioni e vendita di merci, per un periodo superiore a
120 e non superiore a 180 giorni dell’anno solare”).
6.4.2. Pertanto, contrariamente all’assunto delle parti
appellanti, la pavimentazione realizzata ex novo e le
scaffalature metalliche, non rientrando nell’edilizia
libera, necessitavano di autorizzazione paesaggistica.
Inoltre, come correttamente concluso dal Giudice di prime
cure, non ha alcuna rilevanza la SCIA presentata nel 2016
nel Comune di Rivalta in quanto relativa a opere differenti
rispetto a quelle oggetto del provvedimento impugnato,
situate nel territorio di tale Comune (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.02.2024 n. 1659 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI & PARERI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Questo
Comune deve procedere all'affidamento di un incarico di patrocinio legale
per la difesa dell'Ente in un contenzioso instaurato presso la Corte di
Cassazione.
Alla luce del nuovo codice dei contratti, è necessaria l'acquisizione del
codice CIG?
L'art. 56 del nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 31.03.2023, n. 36)
stabilisce quali sono i contratti esclusi dall'applicazione del nuovo codice
ed in particolare, per quanto concerne l'oggetto del quesito, risultano
esclusi dall'ambito di applicazione le seguenti casistiche:
"1) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato
ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31:
1.1) in un arbitrato o in una
conciliazione tenuti in uno Stato membro dell'Unione europea, un Paese terzo
o dinanzi a un'istanza arbitrale o conciliativa internazionale;
1.2) in procedimenti giudiziari
dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro
dell'Unione europea o un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o
istituzioni internazionali;
2) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei
procedimenti di cui al punto 1), o qualora vi sia un indizio concreto e una
probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga
oggetto del procedimento, sempre che la consulenza sia fornita da un
avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31;
3) servizi di certificazione e autenticazione di documenti che
devono essere prestati da notai;
4) servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o altri
servizi legali i cui fornitori sono designati da un organo giurisdizionale
dello Stato o sono designati per legge per svolgere specifici compiti sotto
la vigilanza di detti organi giurisdizionali;
5) altri servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente,
all'esercizio dei pubblici poteri …".
È fuori dubbio, pertanto, che, riprendendo la previgente disciplina del
precedente codice, gli incarichi di patrocinio legale (a differenza
dell'affidamento dei servizi legali) sono esclusi dall'ambito di
applicazione del codice.
L'esclusione dall'ambito di applicazione del codice, però, se dapprima era
condizione necessaria e sufficiente per l'esclusione del CIG, a seguito
della Delibera 19.12.2023 n. 585 dell'ANAC, gli appalti di servizi di cui
all'art. 56 (ivi inclusi gli appalti di servizi legali) sono da ritenersi
assoggettati alla disciplina sulla tracciabilità, in quanto l'art. 3, L.
13.08.2010, n. 136 assoggetta alla relativa disciplina "tutti i movimenti
finanziari relativi ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici".
Tanto ciò premesso, evidenziamo come ad oggi risulta necessaria
l'acquisizione del codice CIG anche per l'affidamento di incarichi di
patrocinio legale ai soli fini della tracciabilità (anche se esclusi
dall'ambito di applicazione del codice).
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 13.08.2010, n. 136, art. 3 - D.Lgs. 31.03.2023, n. 36, art. 56
Documenti allegati
Delibera 19.12.2023 n. 585 dell'ANAC
(10.04.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta costituzione gruppo consiliare unipersonale.
Sintesi/Massima
La materia dei "gruppi consiliari" è interamente demandata alla
competenza delle fonti di autonomia locale. Solo in tale ambito potrà essere
valutata la possibilità di ampliare le ipotesi di costituzione di un gruppo
unipersonale.
Testo
Una Prefettura ha posto un quesito in materia di gruppi consiliari.
In particolare, una consigliera del Comune ... ha chiesto se, alla luce
della normativa statutaria e regolamentare dell'ente, possa formare un
gruppo consiliare unipersonale, di cui sarebbe di diritto capogruppo,
collegato ad una lista civica, parte della coalizione che l'aveva sostenuta
come candidata sindaco, in cui non è risultato eletto alcun candidato.
Al riguardo, si fa presente che, come noto, la materia concernente la
costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari è demandata allo
statuto ed al regolamento di ciascun ente locale e, pertanto, le
problematiche ad essa connesse devono trovare adeguata soluzione nell'ambito
delle suddette fonti normative.
Si osserva che lo statuto comunale all'art. 36, primo comma, prevede che "i
consiglieri comunali eletti nella medesima lista formano un gruppo
consiliare. Nel caso in cui di una lista sia stato eletto un solo
consigliere, a questo sono riconosciuti la rappresentanza e le prerogative
spettanti ad un gruppo consiliare".
Il comma successivo dispone che "Nel corso della legislatura possono
essere costituiti gruppi consiliari monopersonali solo in corrispondenza
della nascita di nuovi movimenti politici a livello nazionale. I consiglieri
che nel corso della legislatura abbiano dichiarato la loro autonomia dal
raggruppamento nella cui lista furono eletti, ove non abbiano diritto a
costituire un gruppo di un solo componente, vanno assegnati al gruppo misto
...".
Dall'esame del regolamento del consiglio comunale, in particolare nella
parte del Titolo VII concernente "Gruppi consiliari", non si rilevano
disposizioni riferibili alla questione in esame. Infatti, l'art. 72 del
regolamento prevede che i consiglieri eletti nella medesima lista
appartengono allo stesso gruppo consiliare, mentre il successivo articolo 73
rubricato "Subentri ed esclusioni" dispone che i consiglieri che
intendono costituire un altro gruppo o appartenere ad un gruppo diverso
devono darne motivata comunicazione al presidente del consiglio.
Le suddette disposizioni regolamentari devono trovare idonea armonizzazione
con le norme statutarie, in particolare con l'art. 36 dello statuto che,
come si è innanzi detto, prevede la possibilità di costituire un gruppo
monopersonale "solo in corrispondenza della nascita di nuovi movimenti
politici a livello nazionale", ovvero "nel caso in cui di una lista
sia stato eletto un solo consigliere".
Ad avviso di quest'Ufficio non sembra si possa procedere alla costituzione
di un gruppo monopersonale se non nei casi codificati dallo statuto.
Pertanto, nel ribadire che la materia dei "gruppi consiliari" è
interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, si
rappresenta che solo in tale ambito potrà essere valutata eventualmente la
possibilità di ampliare le ipotesi di costituzione di un gruppo unipersonale
(parere 05.04.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Articolo
55 D.Lgs. 151/2001. Dimissioni dipendente con figlio di età inferiore
all’anno.
In base all’art. 55, comma 1, del D.Lgs. 151/2001, in
caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è
previsto, a norma dell’articolo 54 del medesimo decreto, il divieto di
licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da
disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, e non è
tenuta al preavviso.
Secondo la giurisprudenza, tali indennità sono dovute anche nel caso in cui
le dimissioni siano finalizzate ad una nuova assunzione, sempre che il
datore di lavoro non sia in grado di provare la sussistenza dell’abuso del
diritto da parte della lavoratrice.
Il Comune chiede un parere in merito all’applicazione dell’articolo 55,
comma 1, del D.Lgs. 26.03.2001, n. 151 [1]
, relativamente ad una dipendente inquadrata nella categoria C, madre di un
figlio di età inferiore all’anno, che intende dimettersi ai fini
dell’assunzione in categoria D presso un altro Ente. Essendo le dimissioni
finalizzate ad una nuova assunzione, il Comune chiede se la dipendente sia
tenuta al rispetto del termine di preavviso, e se alla stessa competano le
indennità, secondo quanto disposto dal medesimo articolo.
L’art. 55, comma 1, del D.lgs. 151/2001 stabilisce che, “in caso di
dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a
norma dell’articolo 54 del medesimo decreto, il divieto di licenziamento, la
lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e
contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore
che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso”.
L’art. 54, comma 1, del medesimo decreto legislativo prevede che “le
lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di
gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti
dal Capo III (Congedo di maternità), nonché fino al compimento di un anno di
età del bambino”.
Secondo quanto previsto espressamente dal succitato art. 55, comma 1, la
dipendente in oggetto non è quindi tenuta al rispetto dei termini di
preavviso [2].
Il comma 4 dell’art. 55 del D.Lgs. 151/2001 stabilisce inoltre che “la
risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate
dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o
dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre
anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, o, in caso di
adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalle comunicazioni
di cui all’articolo 54, comma 9 [3],
devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e
delle politiche sociali competente per territorio. A detta convalida è
sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di
lavoro.” [4].
Con sentenza 17.06.2019, n. 16176, la Cassazione civile, sez. lav., si è
pronunciata sul tema oggetto del quesito, affermando che: “Nel caso di
dimissioni volontarie nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento,
la lavoratrice madre ha diritto, a norma del D.Lgs. 26.03.2001, n. 151, art.
55, alle indennità previste dalla legge o dal contratto per il caso di
licenziamento, ivi compresa l'indennità sostitutiva del preavviso,
indipendentemente dal motivo delle dimissioni e, quindi, anche nell'ipotesi
in cui esse risultino preordinate all'assunzione della lavoratrice alle
dipendenze di altro datore di lavoro [5]”.
Relativamente al licenziamento finalizzato a nuova assunzione, la Corte
evidenzia che la tutela di cui all’art. 55 del D.Lgs. 151/2001 “incontra
soltanto il limite generale dell'abuso del diritto
[6]”.
Nel delimitare quest’ultima fattispecie, la Suprema Corte sottolinea che
l’abuso del diritto “[…] non è radicato in sé dal reperimento di nuova
occupazione” ma richiede, ad esempio, il verificarsi “di una
situazione al contempo economicamente più vantaggiosa e lavorativamente più
onerosa per la dipendente, che renda irrazionale il beneficio patrimoniale
per la dipendente ed il corrispondente sacrificio per il datore e che colori
dunque in senso profittatorio la pretesa ciononostante avanzata dal genitore”.
Tale abuso dovrebbe essere dimostrato dalla parte che lo adduce, quindi dal
datore di lavoro, con puntuali allegazioni e prove.
In conclusione, dunque, l’Ente è tenuto a corrispondere alla lavoratrice le
indennità di cui all’art. 55, comma 1, del D.Lgs. 151/2001, anche nel caso
in cui le dimissioni siano finalizzate ad una nuova assunzione, sempre che
non sia in grado di provare la sussistenza dell’abuso del diritto da parte
della lavoratrice, così come delineato dalla giurisprudenza citata.
----------------
[1] Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e
sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della
legge 08.03.2000, n. 53.
[2] Come confermato altresì dall’orientamento RAL 405 del 06.06.2011.
[3] Comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando.
[4] Si rinvia, per completezza, al parere riepilogativo fornito dall’ARAN in
materia, RAL 405 del 06.06.2011.
[5] Tale pronuncia conferma l’orientamento giurisprudenziale di cui alle
precedenti sentenze della Corte di Cassazione, sezione lavoro: 03.03.2014,
n. 4919; 24.08.1995, n. 8970; 22.10.1991, n. 11164). La Suprema Corte
precisa inoltre che: “La norma […] prevede tout court, al verificarsi delle
condizioni in essa previste (dimissioni nel periodo da essa considerato), il
diritto della madre a ricevere le indennità previste da disposizioni di
legge e contrattuali per il caso di licenziamento […]. Ciò sulla base di un
insindacabile favor per la madre dimissionaria, i cui costi sono destinati a
gravare sul datore di lavoro, secondo una logica di evidente stampo
solidaristico (art. 2 Cost.), finalizzata alla tutela della maternità e
della formazione della famiglia (art. 31 Cost.)”.
[6] Abuso del diritto rispetto all'“esercizio di una pretesa che ha radice
(legale) nel contratto (art. 1375 c.c.)”, che dev’essere eseguito secondo
buona fede
(03.04.2024 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Questa Unione di Comuni ha nel proprio organico una mamma
lavoratrice. Uno dei due figli compie dieci anni il prossimo 12 aprile.
Lo sgravio contributivo per le madri lavoratrici previsto dalla Legge di
Bilancio 2024 da corrispondere nel mese di aprile spetta per intero o
soltanto per 12 giorni?
I commi 180 e 181 dell'art. 1 della Legge di Bilancio per il 2024 (L.
30.12.2023, n. 213), che ha introdotto tale forma di esonero contributivo
per le madri lavoratrici testualmente recitano che:
"180. Fermo restando quanto previsto al comma 15, per i periodi
di paga dal 01.01.2024 al 31.12.2026 alle lavoratrici madri di tre o più
figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione
dei rapporti di lavoro domestico, è riconosciuto un esonero del 100 per
cento della quota dei contributi previdenziali per l'invalidità, la
vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore fino al mese di compimento
del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo
annuo di 3.000 euro riparametrato su base mensile.
181. L'esonero di cui al comma 180 è riconosciuto, in via
sperimentale, per i periodi di paga dal 01.01.2024 al 31.12.2024 anche alle
lavoratrici madri di due figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo
indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, fino al mese
del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo".
L'esonero in commento è rivolto a tutti i rapporti di lavoro dipendente a
tempo indeterminato, sia instaurati che instaurandi nel periodo di vigenza
dell'esonero (al 01.01.2024 al 31.12.2026), dei settori pubblico e privato,
ivi compreso il settore agricolo, con la sola esclusione dei rapporti di
lavoro domestico, in riferimento alle lavoratrici madri di tre o più figli.
Per la sola annualità del 2024, in via sperimentale, l'agevolazione è estesa
alle lavoratrici madri di due figli.
L'INPS ha chiarito la portata applicativa di tale esonero con la Circ.
31.01.2024, n. 27, dove esplicita i seguenti esempi applicativi:
- la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di tre figli.
L'esonero di cui all'art. 1, comma 180, trova applicazione a partire dal
01.01.2024. Il figlio più piccolo compie il diciottesimo anno di età il
19.10.2025. L'applicazione dell'esonero contributivo termina nel mese di
ottobre 2025;
- la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di due figli.
L'esonero di cui all'art. 1, comma 181, trova applicazione a partire dal
01.01.2024. Il figlio più piccolo compie il decimo anno di età il
18.07.2024. L'applicazione dell'esonero contributivo termina nel mese di
luglio 2024;
- la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di un figlio ed
è in corso la gravidanza del secondo figlio. La nascita del secondo figlio
avviene l'11.06.2024. L'esonero di cui all'art. 1, comma 181, trova
applicazione a partire dal 01.06.2024 al 31.12.2024;
- la lavoratrice, alla data del 01.08.2024, è madre di due figli,
ed è in corso la gravidanza del terzo figlio. La nascita del terzo figlio
avviene in data 02.03.2025. Fino al 31.12.2024 si applica l'esonero di cui
all'art. 1, comma 181, della legge di Bilancio 2024. Dal 01.01.2025 al
28.02.2025 non si applica alcuna riduzione contributiva. A partire dal
01.03.2025 e fino al 31.12.2026 si applica l'esonero di cui all'art. 1,
comma 180, della legge di Bilancio 2024;
- la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di tre figli,
tutti di età superiore ai 18 anni. Non spetta alcuna riduzione contributiva.
Tanto ciò premesso ed al fine di rispondere al quesito proposto, se il
figlio minore compie il decimo anno d'età il 12 aprile, lo sgravio si potrà
applicare fino al mese di aprile computando l'ultimo mese per intero e non
soltanto per 12 giorni.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 30.12.2023, n. 213, art.
1, comma 180 - L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 181 - Circ. 31.01.2024,
n. 27 dell'INPS (03.04.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Petrulli,
Interventi riguardanti il terrazzo: alcuni casi concreti tratti dalla
giurisprudenza.
Gli interventi sul terrazzo (inteso come elemento di copertura che nasce già
delimitato all’intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben
precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti) sono stati spesso oggetto
di valutazione da parte della giurisprudenza.
Di seguito ne riportiamo alcuni, tratti dalla recente casistica, allo scopo
di individuarne la natura.
La trasformazione del terrazzo in veranda
Serve il permesso di
costruire per una struttura di chiusura del terrazzo con pannelli di vetro,
venendosi a realizzare una veranda, con un aumento di volumetria ed una
modifica della sagoma dell’abitazione: è quanto affermato dal TAR Emilia
Romagna, Parma, nella sent. 30.08.2021, n. 221.
Ed infatti, come affermato dalla giurisprudenza, “deve ritenersi che
l’installazione, su un terrazzo, di pareti in vetro scorrevoli su binari,
tendenzialmente duratura seppur potenzialmente funzionale anche alla
protezione dagli agenti atmosferici, determina una chiusura dello spazio
esterno del terrazzo creando un nuovo volume, di per sé idoneo a determinare
la trasformazione dell’organismo, non essendo invocabile, ai fini della
riconduzione dell’intervento tra quelli di edilizia libera, la sua
funzionalizzazione alla migliore fruizione dello spazio esterno, trattandosi
di opera non assimilabile né ad una pergotenda né a un gazebo, la cui
definizione, come anche delineata nella elaborazione giurisprudenziale,
implica la sua non idoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi
esterni stante la tipologia degli elementi di chiusura, che debbono
rivestire consistenza tali da non potersi connotare in termini di componenti
edilizie stabili di copertura o di chiusura di uno spazio esterno. Il
carattere scorrevole dei pannelli di chiusura verticale, di per sé, non può
assumere dirimente rilievo ai fini della qualificazione edilizia dell’opera,
dipendendo la sua eventuale totale apertura dalla concreta gestione ed uso
della struttura da parte del proprietario, che non fa venir meno l’idoneità
della stessa a determinare la chiusura dello spazio esterno, coerentemente
peraltro con la scelta di installare pannelli verticali in vetro”
[1].
Il rifacimento della pavimentazione del
terrazzo di copertura
Il rifacimento della
pavimentazione del terrazzo di copertura rientra nell’attività edilizia
libera, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e)-ter, del Testo Unico
Edilizia (DPR n. 380/2001), che contempla “le opere di pavimentazione e
di finitura di spazi esterni”: è quanto affermato dal TAR Calabria,
Catanzaro, sez. II, nella sent. 26.11.2019, n. 1971 (nel caso specifico,
detto intervento era stato realizzato ai fini del miglioramento per la
tenuta statica dell’edificio).
Installazione sul terrazzo di una parete
divisoria con pannelli coibentati
È sufficiente la SCIA per
l’installazione di una parete divisoria mediante l’utilizzo di pannelli
coibentati per delimitare la parte del terrazzo più esposta a pericolo di
cadute e ad esigenze di riservatezza: è quanto affermato dal TAR Campania,
Napoli, sez. II, nella sent. 11.11.2019, n. 5328.
Secondo i giudici, trattavasi di intervento di manutenzione per il quale
opera il disposto di cui agli artt. 6-bis e 22 del Testo Unico Edilizia,
atteso che non si realizzava una nuova edificazione ma semplicemente si
provvede a delimitare e proteggere la proprietà, senza modifiche alla sagoma
dell’edificio né aumento di superficie o di volume.
Struttura di dimensioni non esigue a copertura
di un terrazzo
Una struttura di copertura di
un terrazzo della superficie di mq. 35, costituita da tre pilastri e pali in
legno con intelaiatura orizzontale dello stesso materiale e copertura in
materiale plastico, per le dimensioni obiettivamente non esigue e l’assenza
dei requisiti della precarietà e della facile amovibilità, non può rientrare
nella categoria della cosiddetta “edilizia libera” e non può, quindi,
essere qualificata come pergotenda; al contrario, è un intervento di
ristrutturazione edilizia, necessitante, come tale, del permesso di
costruire: è quanto affermato dal TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, nella
sent. 25.09.2019, n. 1611.
Posa di una scala con struttura mobile che
consente l’accesso ad un terrazzo
Non serve il permesso di
costruire per una scala costituita da una struttura mobile, ossia priva di
un collegamento strutturale con l’abitazione, inidonea a modificarne la
sagoma e il prospetto, e, in ragione della sua conformazione, destinata ad
essere agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata di ruote:
è quanto affermato dal TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, nella sent.
06.02.2024, n. 2261.
Secondo i giudici, tale opera, finalizzata a consentire l’utilizzo del
solaio di copertura di un immobile, non determina una significativa
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configura
piuttosto come mera pertinenza, essendo preordinata ad un’oggettiva esigenza
dell’edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso,
sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume
minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella
a servizio dell’immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare
un aumento del carico urbanistico [2].
La realizzazione di una ringhiera protettiva e
di una scala in ferro per consentire l’accesso al terrazzo
La realizzazione di una
ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un
terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo
rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate
a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non
determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo
preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale,
funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo
valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un
aumento del carico urbanistico: è quanto affermato dal TAR Campania, Napoli,
sez. IV, nella sent. 21.04.2023, n. 2454 [3].
Chiusura parziale di una superficie terrazzata
La chiusura di una parte
della superficie terrazzata, con copertura e apposizione di infissi in
alluminio, è tale da integrare senz’altro una volumetria autonoma, che
necessita di permesso di costruire: è quanto affermato dal TAR Campania,
Salerno, sez. III, nella sent. 13.10.2023, n. 2273.
---------------
[1] TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, sent. n. 4581/2020.
[2] TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. 24.07.2013, n. 1680.
[3] TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sent. 01.04.2016, n. 846; TAR Liguria,
sez. I, sent. 11.07.2011, n. 1088; TAR Sardegna, sez. I, sent. 07.12.2020,
n. 684.
In termini, anche TAR Campania, Napoli, sez. VII, sent. 27.05.2009, n. 2945,
per cui, analogamente: “secondo la prevalente giurisprudenza (ex multis, TAR
Piemonte Torino, Sez. I, 25.03.2008, n. 505; TAR Campania Napoli, Sez. VII,
20.11.2007, n. 14443), la realizzazione di una ringhiera protettiva e di una
scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono
interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso
di costruire. Infatti tali opere –seppure finalizzate a consentire
l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile– non determinano una
significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si
configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad
un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al
servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e
caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione
autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e,
comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico”
(04.04.2024 - tratto da e link a www.ediliziaurbanistica.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Giusta un più che consolidato formante giurisprudenziale, gli atti vincolati, come l'ordinanza di
demolizione, non richiedono la comunicazione di avvio del
procedimento in quanto non prevedono valutazioni di
interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione, come gli altri provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e non deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, in
quanto si tratta di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, regolamentata rigidamente dalla legge.
Tale conclusione
non è revocata in dubbio dall’assoluzione
della ricorrente pronunciata nell’ambito del giudizio penale asseritamente instaurato in ragione delle medesime condotte
oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, dovendosi
sul punto rammentare che, nei rapporti tra giudizio penale e
giudizio amministrativo, il giudicato penale non determina
un vincolo assoluto all'Amministrazione per l'accertamento
dei fatti rilevanti nell'attività di vigilanza edilizia, né
può condizionare in modo inderogabile il processo
amministrativo.
La sentenza penale di assoluzione, ai sensi dell'art. 654
c.p.p., fa stato nel giudizio amministrativo esclusivamente
quanto ai fatti materiali che ivi si affermano avvenuti o
non avvenuti e che sono stati oggetto del giudizio penale,
ma non già quanto alla qualificazione dell'antigiuridicità,
evidentemente operata ai soli effetti della sussistenza del
reato imputato, rispetto alla quale il giudice
amministrativo non è condizionato dalla pronuncia penale
resa sugli stessi fatti materiali.
Inoltre, la sentenza penale di assoluzione di cui si
discorre non ha natura di giudicato poiché quest'ultimo si
perfeziona nei confronti dell'imputato e della parte civile
costituita nel processo: nel caso di specie, la decisione
del giudice penale non può condizionare l'attività
amministrativa in quanto l'Amministrazione non si è
costituita parte civile nel processo penale.
---------------
2.- Il ricorso è infondato, dovendo essere respinte tutte le
articolate doglianze.
3.- Fuori sesto è il primo motivo di ricorso, confliggendo
con un più che consolidato formante giurisprudenziale
secondo cui gli atti vincolati, come l'ordinanza di
demolizione, non richiedono la comunicazione di avvio del
procedimento in quanto non prevedono valutazioni di
interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione, come gli altri provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e non deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, in
quanto si tratta di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, regolamentata rigidamente dalla legge
(Consiglio di Stato sez. VI, 02/01/2024, n. 22).
Né tale conclusione è revocata in dubbio dall’assoluzione
della ricorrente pronunciata nell’ambito del giudizio penale
asseritamente instaurato in ragione delle medesime condotte
oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, dovendosi
sul punto rammentare che, nei rapporti tra giudizio penale e
giudizio amministrativo, il giudicato penale non determina
un vincolo assoluto all'Amministrazione per l'accertamento
dei fatti rilevanti nell'attività di vigilanza edilizia, né
può condizionare in modo inderogabile il processo
amministrativo.
La sentenza penale di assoluzione, ai sensi dell'art. 654
c.p.p., fa stato nel giudizio amministrativo esclusivamente
quanto ai fatti materiali che ivi si affermano avvenuti o
non avvenuti e che sono stati oggetto del giudizio penale,
ma non già quanto alla qualificazione dell'antigiuridicità,
evidentemente operata ai soli effetti della sussistenza del
reato imputato, rispetto alla quale il giudice
amministrativo non è condizionato dalla pronuncia penale
resa sugli stessi fatti materiali (cfr. TAR Lombardia,
Milano, Sez. I, 07.01.2022 n. 22; Cons. Stato, Sez. VI,
23.11.2017 n. 5473; TAR Campania, Napoli, Sez. II,
23.10.2017 n. 4922, ivi, 10, 2132).
Inoltre, la sentenza penale di assoluzione di cui si
discorre non ha natura di giudicato poiché quest'ultimo si
perfeziona nei confronti dell'imputato e della parte civile
costituita nel processo: nel caso di specie, la decisione
del giudice penale non può condizionare l'attività
amministrativa in quanto l'Amministrazione non si è
costituita parte civile nel processo penale (TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 07.01.2022 n. 105; Cons.
Stato, Sez. IV, 07.11.2016 n. 4637) (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-stralcio,
sentenza 08.04.2024 n. 6799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Invero:
- da un lato, la conformità urbanistica e paesaggistica
dell'immobile, oggetto di plurimi interventi abusivi, va
valutata nella sua interezza, non già parcellizzando le
singole opere fino al punto d'esaminarle singolarmente una
per una, come avulse dall'impatto complessivo che esse
effettivamente determinano sul fabbricato, e, di
conseguenza, sull'assetto urbanistico e paesaggistico
preesistente;
- dall’altro, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della
domanda di condono non autorizza l'interessato a completare
ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i
manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la
permanenza dell'illecito fino alla sanatoria.
Inoltre, quando la DIA o la SCIA riguardano un
fabbricato realizzato abusivamente, non sono di per sé
idonee a rendere tale immobile conforme alla normativa urbanistico-edilizia, ma al contrario, proprio perché si
innestano su una situazione edificatoria di per sé illecita,
ne ereditano i connotati e perdono la loro tipica efficacia
legittimante; ne discende che anche gli interventi assentiti
con tali moduli procedimentali diventano sostanzialmente
illegittimi e sono sottoposti allo stesso trattamento
sanzionatorio riservato al fabbricato abusivo cui si
riferiscono.
---------------
4.- Infondati sono anche il secondo ed il terzo motivo di
gravame, da esaminarsi congiuntamente in ragione della
condivisa portata censoria.
Gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza sono così
descritti: di "una rampa in cemento armato di circa mt. 25 x 9
che dalla via pubblica porta alla sottostante area prevista
a parcheggio di mq. 300 circa; un muro in cemento armato di mt. 80 x 4 di h. ca. sottostante il suindicato parcheggio e
le aree destinate a verde antistanti ciascun appartamento;
struttura in muratura e copertura in legno, soprastante due
manufatti residenziali, da adibire ad impianto fotovoltaico".
Peraltro, una parte della realizzata rampa insiste anche su
area comunale.
Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente,
l’amministrazione ha considerato in modo corretto le opere
realizzate nel loro complesso, così emergendo come le
stesse, lungi dall’avere carattere pertinenziale, erano
volte a realizzare una ristrutturazione edilizia,
riguardante immobili oggetto della presentata istanza
condonistica e finalizzata a consentire l’accesso alla
sottostante area di parcheggio.
Da tanto discende l’illegittimità delle opere realizzate,
poiché, da un lato, la conformità urbanistica e
paesaggistica dell'immobile, oggetto di plurimi interventi
abusivi, va valutata –come operato dalla civica
amministrazione- nella sua interezza, non già
parcellizzando le singole opere fino al punto d'esaminarle
singolarmente una per una, come avulse dall'impatto
complessivo che esse effettivamente determinano sul
fabbricato, e, di conseguenza, sull'assetto urbanistico e
paesaggistico preesistente (Consiglio di Stato sez. VI,
30/05/2023, n. 5268); dall’altro, in presenza, come nella
specie, di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della
domanda di condono non autorizza l'interessato a completare
ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i
manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la
permanenza dell'illecito fino alla sanatoria (TAR Napoli,
(Campania) sez. VI, 03/04/2023, n. 2074; Consiglio di Stato
sez. VII, 25/01/2024, n. 805).
Né in senso opposto, può argomentarsi, al pari di quanto
sostenuto dalla ricorrente, in ragione che le opere in
questione fossero state oggetto di una DIA precedentemente
presentata, poiché quando la DIA o la SCIA riguardano un
fabbricato realizzato abusivamente, non sono di per sé
idonee a rendere tale immobile conforme alla normativa
urbanistico-edilizia, ma al contrario, proprio perché si
innestano su una situazione edificatoria di per sé illecita,
ne ereditano i connotati e perdono la loro tipica efficacia
legittimante; ne discende che anche gli interventi assentiti
con tali moduli procedimentali diventano sostanzialmente
illegittimi e sono sottoposti allo stesso trattamento
sanzionatorio riservato al fabbricato abusivo cui si
riferiscono (TAR Napoli, (Campania) sez. II, 12/02/2018,
n. 914) (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-stralcio,
sentenza 08.04.2024 n. 6799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La violazione dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001 comporta
l'applicazione della sanzione demolitoria (e non in
alternativa la sanzione pecuniaria) perché si è in presenza
di opere abusive di notevole rilevanza, da considerare nella
loro unitarietà, realizzate in area sottoposta a vincolo
paesaggistico, con la conseguenza che qualsivoglia
intervento che alteri lo stato dei luoghi è subordinato al
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in mancanza della
quale l'unica sanzione applicabile è quella della riduzione
in pristino dello stato dei luoghi.
In ogni caso, "la valutazione della sussistenza delle
condizioni per la c.d. fiscalizzazione dell'abuso non
costituisce condizione di legittimità dell'ordinanza di
demolizione.
Invero, l'applicazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria va decisa in fase
esecutiva dell'ordine di demolizione, nella quale gli
interessati ben possono dedurre lo stato di pericolo per la
stabilità dell'edificio, e sulla base di un motivato
accertamento tecnico.
In ogni caso, non spetta
all'Amministrazione, bensì al destinatario dell'ordine di
demolizione che invochi l'applicazione della sanzione
pecuniaria sostitutiva, dare piena prova della sussistenza
dei presupposti fissati dall'art. 34, d.P.R. n. 380/2001 per
accedere al beneficio in questione.
In particolare, spetta
all'istante dimostrare il pregiudizio sulla struttura e
sulla fruibilità arrecato alla parte non abusiva
dell'immobile dalla demolizione della parte abusiva e che
tale pregiudizio sia evitabile esclusivamente con la
fiscalizzazione dell'abuso".
---------------
5.- Priva di pregio è anche l’ultima delle sollevate
doglianze, non potendo la civica amministrazione disporre,
in via alternativa, l’invocata sanzione pecuniaria poiché
"la violazione dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001 comporta
l'applicazione della sanzione demolitoria (e non in
alternativa la sanzione pecuniaria) perché si è in presenza
di opere abusive di notevole rilevanza, da considerare nella
loro unitarietà, realizzate in area sottoposta a vincolo
paesaggistico, con la conseguenza che qualsivoglia
intervento che alteri lo stato dei luoghi è subordinato al
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in mancanza della
quale l'unica sanzione applicabile è quella della riduzione
in pristino dello stato dei luoghi" (TAR Lazio, Roma,
sez. II, 10/09/2018, n. 9218).
In ogni caso, "la valutazione della sussistenza delle
condizioni per la c.d. fiscalizzazione dell'abuso non
costituisce condizione di legittimità dell'ordinanza di
demolizione. Invero, l'applicazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria va decisa in fase
esecutiva dell'ordine di demolizione, nella quale gli
interessati ben possono dedurre lo stato di pericolo per la
stabilità dell'edificio, e sulla base di un motivato
accertamento tecnico. In ogni caso, non spetta
all'Amministrazione, bensì al destinatario dell'ordine di
demolizione che invochi l'applicazione della sanzione
pecuniaria sostitutiva, dare piena prova della sussistenza
dei presupposti fissati dall'art. 34, d.P.R. n. 380/2001 per
accedere al beneficio in questione. In particolare, spetta
all'istante dimostrare il pregiudizio sulla struttura e
sulla fruibilità arrecato alla parte non abusiva
dell'immobile dalla demolizione della parte abusiva e che
tale pregiudizio sia evitabile esclusivamente con la
fiscalizzazione dell'abuso" (TAR Lombardia, Brescia, sez.
I, 01/10/2020, n. 679).
Sulla base delle sovra esposte considerazioni il ricorso non
è meritevole di accoglimento (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-stralcio,
sentenza 08.04.2024 n. 6799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, anche se l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
consente di qualificare come interventi di ristrutturazione
edilizia anche le attività finalizzate a realizzare un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, che implicano modifiche della volumetria
complessiva, della sagoma o dei prospetti, è, tuttavia,
necessario conservare sempre una linea distintiva tra le
nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione,
potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche
volumetriche e di sagoma abbiano una portata limitata e
siano in ogni caso riconducibili all'organismo preesistente.
---------------
... per l'annullamento
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
- annullamento provvedimento del Comune di Casamarciano – IV^
Settore Tecnico – S.U.E. prot. n. 661 del 24.01.2023,
notificato in data 30.01.2023;
per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da Vi.Pa.Ro. il 24/01/2024:
- del provvedimento del Comune di Casamarciano – IV^ Settore
Tecnico – S.U.E. prot. n. 661 del 24.01.2023, ad oggetto
“S.C.I.A. Alternativa al Permesso di Costruire per la
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione, efficientamento sismico ed energetico di un
fabbricato sito alla Via ... snc in NCEU al Foglio 1
part. 930 subb. 2-3-4-5” (doc. n. 1 all.to al ricorso
introduttivo);
- della nota prot. n. 9549 del 23.10.2023, comunicata in data
27.10.2023, ad oggetto “riscontro nota prot. n. 4990 del
08.06.2023: avvio procedimento di autotutela, ex art.
21-nonies l. 241/1990 per la valutazione dei presupposti di
fatto e di diritto per emettere eventualmente un
provvedimento di annullamento del provvedimento identificato
al prot. n. 661 del 24/01/2023. Vlutazione dei presupposti
di diritto e di fatto” (doc. n. 1 all.to ai presenti motivi
aggiunti), con cui il Comune di Casamarciano ha disposto che
“allo stato attuale non sussistano i presupposti per un
intervento in autotutela, ex art. 21-nonies l. 241/1990 per la
valutazione dei presupposti di fatto e di diritto per
emettere eventualmente un provvedimento di annullamento del
provvedimento identificato al prot. n. 661 del 24/01/2023,
con il quale si è stabilito di non effettuare l'intervento
di cui alla SCIA presentata il 30/12/2022”;
...
1. Si controverte, nel presente giudizio, in
ordine alla legittimità del provvedimento di inibizione
della S.C.I.A. presentata dalla Sig.ra Vi., in data
30.12.2022, in relazione a un intervento di demo-ricostruzione, per l’efficientamento sismico ed
energetico, con incremento volumetrico nella misura del 10%.
Parte resistente, senza specifica contestazione sul punto,
ha dedotto trattarsi della riproposizione di una analoga
istanza, in data 29.04.2022, già respinta dal Comune di
Casamarciano con diniego n. 11329 del 23.12.2022, non
impugnato in giudizio.
Del pari è pacifico tra le parti che l’immobile ricade in
Zona omogenea C11 (destinata ad edilizia residenziale
pubblica) del P.R.G. vigente: l’edificazione, in tale
comparto, è soggetta all’approvazione di piano attuativo, ad
oggi mancante per intervenuta decadenza del P.E.E.P. in
precedenza approvato.
2. Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene che non
sussistano concreti elementi sulla cui base discostarsi
dalle osservazioni già sinteticamente espresse con
l’ordinanza reiettiva della domanda cautelare (gravata in
appello con impugnazione che non ha trovato accoglimento).
Rileva, in particolare, la circostanza che l’intervento che
ci si propone di realizzare, da un lato, contrasta con la
destinazione di zona a edilizia residenziale pubblica;
dall’altro, integra una demo-ricostruzione di un edificio
preesistente e oggetto di sanatoria edilizia, con modifica
dell’attuale consistenza quanto ai volumi e ai prospetti,
alla quale osta l’assenza di un vigente piano attuativo,
imposto per la zona C11 dalle disposizioni comunali: ciò
vale, di per sé, a giustificare il diniego opposto e a
destituire di fondamento il primo motivo di gravame
dell’atto introduttivo del giudizio.
Parte ricorrente omette, infatti, di evidenziare per quali
ragioni l’intervento in progetto dovrebbe essere qualificato
come di semplice ristrutturazione, posto che, come noto,
anche se l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
consente di qualificare come interventi di ristrutturazione
edilizia anche le attività finalizzate a realizzare un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, che implicano modifiche della volumetria
complessiva, della sagoma o dei prospetti, è, tuttavia,
necessario conservare sempre una linea distintiva tra le
nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione,
potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche
volumetriche e di sagoma abbiano una portata limitata e
siano in ogni caso riconducibili all'organismo preesistente:
detta continuità con la preesistenza è rimasta del tutto indimostrata (cfr. TAR Napoli, (Campania) sez. II,
21/06/2022, n. 4223).
Irrilevante, nel caso di specie, risulta poi il disposto
dell’art. 4 della L.R.C. 13/2022, non essendo provato che
l’intervento ricada in zona degradata del tessuto urbano (ed
essendo, anzi, tale circostanza negata dalla Pubblica
Amministrazione).
Neppure è dato apprezzare alcun legittimo affidamento da
tutelare in capo al privato istante, posto che questi non
vanta nessuna posizione qualificata nei riguardi della
Pubblica Amministrazione rispetto all’intervento che si
pretende di effettuare.
Il ricorso introduttivo del giudizio è, dunque, da
respingere (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 08.04.2024 n. 2278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale,
“Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è necessaria
una visione complessiva e non atomistica delle opere
realizzate, non essendo possibile scomporne una parte per
negare l'assoggettabilità ad una determinata sanzione
demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato al
regolare assetto del territorio deriva non da ciascun
intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere”.
In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti
identificata con riferimento all'immobile o al complesso
immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei
singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo
immobiliare unitariamente considerato”.
---------------
La giurisprudenza è ferma nell’affermare che, nel sistema
dell’art. 33 dpr 380/2001 la possibilità di applicare in
luogo della sanzione della demolizione la sanzione
pecuniaria appartiene a una fase successiva all’ordine di
demolizione, nel senso che l’amministrazione è prima tenuta
a ordinare il ripristino dello stato dei luoghi.
La possibilità di applicare la sanzione pecuniaria ove il
ripristino non sia possibile appartiene infatti alla
successiva fase esecutiva.
E' stato, in tal senso, chiarito che “l’applicabilità della
sanzione pecuniaria prevista dall'art. 33, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001, in deroga alla regola generale della
demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la
dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere
alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul
piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità
dell'intero edificio.
Inoltre, l'applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria,
può essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase
esecutiva dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base
di un motivato accertamento tecnico. La valutazione, cioè,
circa la possibilità di dare corso alla applicazione della
sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria
costituisce una mera eventualità della fase esecutiva,
successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza
che la mancata valutazione della possibile applicazione
della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un
vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della
successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze
derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di
demolizione e della verifica dell'incidenza della
demolizione sulle opere non abusive.
In sintesi, la verifica ex art. 33, comma 2, va compiuta su
segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva,
e non dall'Amministrazione procedente all'atto dell'adozione
del provvedimento sanzionatorio”.
---------------
1. Con l’ordinanza dirigenziale n. 10 del 28.02.2023 il
Comune di Casamicciola Terme ha ordinato nei confronti della
ricorrente la demolizione delle seguenti opere: “scala ad
unico rampante larg. Mt. 1,00 x lung. mt 3,50 circa; -
Terrazzo a livello mt 3,00 x 2,40 circa; - Locale deposito
mt 2,70 x 2,40 x 1,60 circa; - Finestre ad un battente mt
0,70 x 1,60”, realizzate senza titolo in zona sottoposta
a vincolo paesaggistico.
2. L’atto in parola è stato adottato a seguito di un
sopralluogo eseguito in data 16.02.2023 che ha constatato lo
stato dei luoghi ed ha accertato che per l’immobile in
parola era stata presentata una istanza di condono edilizio
ai sensi della legge n. 47/1985 in data 23.03.1986, poi
integrata nel 1997.
Successivamente in data 12.05.2015 era stata presentata una
SCIA per la realizzazione di interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria.
Al momento del sopralluogo, in particolare, è stato rilevato
che lo stato dei luoghi non era corrispondente a quanto
rappresentato nella istanza di condono edilizio e della
SCIA.
Era, infatti, emerso che la rampa scala di accesso
all’appartamento (situato al 1° piano del fabbricato)
risultava “trasformata da n. 2 rampanti ad un solo
rampante con creazione di terrazzo a livello il quale
costituisce copertura per un locale deposito al piano terra,
nonché realizzazione di una finestra ad un solo battente del
soggiorno / cucina. Essendo l’abitazione oggetto di istanza
di sanatoria ancora pendente, la scala ad un unico rampante,
il terrazzo a livello del primo piano, il locale deposito al
piano terra e la finestra del locale soggiorno cucina
risultano illegittime”.
2. Con il ricorso in esame è dedotta la illegittimità
dell’ordinanza impugnata per molteplici profili di
violazione di legge ed eccesso di potere.
...
Peraltro, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale,
“Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è
necessaria una visione complessiva e non atomistica delle
opere realizzate, non essendo possibile scomporne una parte
per negare l'assoggettabilità ad una determinata sanzione
demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato al
regolare assetto del territorio deriva non da ciascun
intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere”
(TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 25/05/2020, n. 1960). In
altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti
identificata con riferimento all'immobile o al complesso
immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei
singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo
immobiliare unitariamente considerato” (TAR, Campania,
Napoli, sez. VII, 27/04/2020, n. 1496).
Nel caso in esame, peraltro, alla esecuzione dell’ordine di
demolizione consegue il ripristino dello stato dei luoghi e,
per quanto qui rileva, la ricostruzione della scala nella
sua forma originaria, l’eliminazione del vano deposito e
della sua copertura (che costituisce terrazzo), la chiusura
della finestra (che si apre sul terrazzo).
Dunque, non è condivisibile la prospettazione difensiva
secondo cui dalla eliminazione della scala e del deposito
conseguirebbe un irreversibile pregiudizio alla proprietà
della ricorrente: l’appartamento potrà essere comunque
occupato, salvo il minimo disagio temporale rappresentato
dal rifacimento della detta scala.
In ogni caso, la giurisprudenza è ferma nell’affermare che,
nel sistema dell’articolo 33 la possibilità di applicare in
luogo della sanzione della demolizione la sanzione
pecuniaria appartiene a una fase successiva all’ordine di
demolizione, nel senso che l’amministrazione è prima tenuta
a ordinare il ripristino dello stato dei luoghi; la
possibilità di applicare la sanzione pecuniaria ove il
ripristino non sia possibile appartiene infatti alla
successiva fase esecutiva; è stato, in tal senso, chiarito
che “l’applicabilità della sanzione pecuniaria prevista
dall'art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, in deroga
alla regola generale della demolizione, propria degli
illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della
oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle
parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze
materiali, sulla stabilità dell'intero edificio. Inoltre,
l'applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può
essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva
dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un
motivato accertamento tecnico. La valutazione, cioè, circa
la possibilità di dare corso alla applicazione della
sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria
costituisce una mera eventualità della fase esecutiva,
successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza
che la mancata valutazione della possibile applicazione
della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un
vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della
successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze
derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di
demolizione e della verifica dell'incidenza della
demolizione sulle opere non abusive. In sintesi, la verifica
ex art. 33, comma 2, va compiuta su segnalazione della parte
privata durante la fase esecutiva, e non
dall'Amministrazione procedente all'atto dell'adozione del
provvedimento sanzionatorio” (Consiglio di Stato sez.
VI, 10.01.2020, n. 254) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 08.04.2024 n. 2256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha
statuito che ove gli interventi edilizi ricadano in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione
dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con
la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
D.I.A. o SCIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
autorizzazione paesistica.
---------------
4. La ricorrente ha, infine, dedotto (terzo motivo)
che il vano posto sotto il terrazzo ed, in precedenza, sotto
la precedente scala, costituiva, e costituisce,
necessariamente un vano tecnico, in quanto al suo interno
sono poste le tubazioni per l’utenza idrica non solo per
l’appartamento della ricorrente, bensì, anche per tutto il
resto del condominio posto a valle di esso.
Esso pertanto sarebbe sottoposto alle regole dell’edilizia
libera.
Il motivo è infondato.
Mediante l’intervento edilizio in contestazione, nel suo
complesso considerato, si è determinata una trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio in zona assoggettata a
vincolo paesaggistico e ciò avrebbe richiesto la previa
acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica con la
conseguenza che la sanzione demolitoria era doverosa.
In proposito, la giurisprudenza ha statuito che ove gli
interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo
paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore,
gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che,
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie
e, quindi, assentibili con mera D.I.A. o SCIA,
l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque,
doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica (questo Trib., sez. IV, 23.10.2013, n. 4676, sez.
VI, 2322/2018) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 08.04.2024 n. 2256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo l’ordine di demolizione disposto in relazione
ad opere di manutenzione ordinaria e straordinaria
(nella fattispecie: rimozione degli infissi interni ed
esterni nonché dei pavimenti, rifacimento degli impianti e
degli intonaci interni ed esterni … trasformazione di tre
locali … in un unico ampio locale … realizzazione di
tramezzi interni …) che non esigono il permesso di
costruire.
- la diversa distribuzione
degli spazi interni, dacché ascrivibile all’orbita della
manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b),
del d.p.r. n. 380/2001 e della categoria A.1 dell’Allegato A
al d.p.r. n. 31/2017, non necessita di previo rilascio del
permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica,
cosicché non può legittimamente sanzionarsi in via
repressivo-ripristinatoria per mancanza di tali titoli
abilitativi;
- tenuto conto anche della previsione del punto 3 della Sezione II
– Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016
(secondo cui rientrano nella manutenzione straordinaria
«l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti
interne, sempre che non riguardino le parti strutturali
dell’edificio»), «in materia edilizia, la diversa
distribuzione degli ambienti interni mediante eliminazione e
spostamenti di tramezzature, purché non interessi le parti
strutturali dell'edificio, è considerata attività di
manutenzione straordinaria», subordinata, come tale,
a mera CILA, la cui omissione è sanzionabile in via
esclusivamente pecuniaria ai sensi dell’art. 6-bis, comma 5,
del d.p.r. n. 380/2001, mentre, ove incidente sulle parti
strutturali del fabbricato, è considerata attività di
ristrutturazione edilizia, subordinata, come tale, a
SCIA, la cui mancanza è parimenti sanzionabile in via
pecuniaria;
- nel contempo, siffatta tipologia di interventi edilizi figura
sottratta al regime abilitativo dell’autorizzazione
paesaggistica dall’art. 149, lett. a), del d.lgs. n.
42/2004 («Fatta salva l’applicazione dell’art. 143, comma
4, lett. b), e dell’art. 156, comma 4, non è comunque
richiesta l’autorizzazione prescritta dall’articolo 146,
dall’art. 147 e dall’art. 159 … per gli interventi di
manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici») e dal
punto A.1 («opere interne che non alterano l'aspetto
esteriore degli edifici, comunque denominate ai fini
urbanistico-edilizi, anche ove comportanti mutamento della
destinazione d'uso») dell’Allegato A al d.p.r. n.
31/2017;
- lo stesso dicasi con riferimento alla sostituzione degli impianti
idrici ed elettrici, della pavimentazione interna e degli
infissi esterni, nonché al rifacimento degli intonaci
esterni;
- anche tali interventi sono, infatti, al più, ascrivibili alla
categoria della manutenzione straordinaria ex art. 3,
comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001, ossia alle «opere
e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti
anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle
destinazioni d’uso implicanti incremento del carico
urbanistico»; tant’è che il citato punto 3 della Sezione
II – Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016
annovera nella manutenzione straordinaria le «opere
e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti
degli edifici, nonché per realizzare ed integrare o servizi
igienico-sanitari e tecnologici»;
- non solo: la sostituzione e il rinnovamento della pavimentazione
(sia interna sia interna), il rifacimento degli intonaci
(sia interni sia esterni), la sostituzione e il rinnovamento
degli infissi (sia interni sia esterni), degli impianti
elettrici, igienici e idro-sanitari sono addirittura
annoverati ai punti 1, 2, 6, 17 e 19 del Glossario Edilizia
Libera di cui al d.m. 02.03.2018, quali interventi di
manutenzione ordinaria;
- e sono, inoltre, riconducibili, quanto al rifacimento degli
intonaci esterni ed alla sostituzione degli infissi, alla
categoria A.2 («interventi sui prospetti o sulle
coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli
eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle
caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti, quali: rifacimento di
intonaci, tinteggiature, rivestimenti esterni o manti di
copertura; opere di manutenzione di balconi, terrazze o
scale esterne; integrazione o sostituzione di vetrine e
dispositivi di protezione delle attività economiche, di
finiture esterne o manufatti quali infissi, cornici,
parapetti, lattonerie, lucernari, comignoli e simili»)
ovvero, comunque, quanto alla sostituzione della
pavimentazione interna e degli impianti idrici ed elettrici,
alla menzionata categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n.
31/2017;
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 2177
del 23.01.2024.
...
Premesso che:
- col ricorso in epigrafe, la MV.Ho.Co. s.r.l. (in appresso, M.)
impugnava, chiedendone l’annullamento, previa sospensione:
-- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del
23.01.2024, emessa, sulla scorta della relazione di
sopralluogo prot. n. 1591 del 23.01.2024, dal Responsabile
dell’Area Lavori Pubblici del Comune di Castellabate;
-- l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175
del 21.11.2023;
- gli abusi contestati con l’adottata misura
repressivo-ripristinatoria consistevano, segnatamente,
nell’esecuzione, in assenza di idoneo titolo edilizio,
nonché in assenza di autorizzazione paesaggistica, di
nulla osta dell’Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di
Diano e Alburni (in appresso, Ente Parco) e di valutazione
di incidenza ambientale (VINCA), di svariate opere
ricondotte alle categorie ex art. 3, comma 1, lett. d) ed
e), del d.p.r. n. 380/2001, in corrispondenza della
struttura ricettiva denominata “Ho.An.”, ubicata in
Castellabate, frazione San Marco, censita in catasto al
foglio 23, particella 357, sub 1, ricadente in area
classificata come zona B3 (“Residenziale estensiva”)
dal vigente Piano regolatore generale (PRG) di Castellabate,
assoggettata a vincolo paesaggistico giusta d.m. 04.07.1966
e 28.03.1985, classificata D ((“Urbana e urbanizzabile”)
dal Piano del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e
Alburni (in appresso, Piano del Parco) e Zona di protezione
speciale (ZPS) – codice IT8050048 “Costa tra Punta
Tresino e le Ripe Rosse” della rete Natura 2000;
- in dettaglio, si trattava della demolizione delle tramezzature e
delle divisioni interne, della rimozione dei pavimenti,
degli infissi esterni, degli impianti idrici ed elettrici
esistenti, del rifacimento dell’intonaco esterno, della
realizzazione di nuovi impianti, dell’esecuzione di nuove
distribuzioni interne con elementi in cartongesso;
- a sostegno dell’esperito gravame, la ricorrente lamentava, in
estrema sintesi, che:
a) in quanto sostanziatisi nella mera
rimodulazione degli ambienti interni e nel mero rifacimento
dei vetusti impianti esistenti, degli infissi e
dell’intonaco esterno, gli interventi contestati sarebbero
stati riconducibili all’orbita della manutenzione
straordinaria, subordinata alla presentazione della CILA,
piuttosto che all’orbita della nuova costruzione o della
ristrutturazione edilizia, così come, invece,
confusamente indicato nell’ordinanza di demolizione n. 2177
del 23.01.2024; per modo che giammai essi avrebbero potuto
sanzionarsi in via demolitoria;
b) per le relative caratteristiche, gli stessi
neppure avrebbero necessitato del previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, del nulla osta dell’Ente Parco e della
VINCA;
c) in ogni caso, sarebbero stati assistiti dalla
SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, i cui effetti
abilitativi si sarebbero consolidati senza che fossero stati
inibiti tempestivamente né rimossi con i presidi
partecipativi e motivazionali propri dell’autotutela
decisoria;
d) sarebbero stati, per di più, assistiti dalla
SCIA in sanatoria prot. n. 26581 del 18.12.2023, i cui
effetti legittimanti nemmeno sarebbero stati inibiti
tempestivamente né rimossi con i presidi partecipativi e
motivazionali propri dell’autotutela decisoria ed il cui
iter non sarebbe, comunque, risultato perfezionato al
momento dell’adozione della misura
repressivo-ripristinatoria;
e) quest’ultima sarebbe stata disposta senza
considerare che, mediante la SCIA in sanatoria prot. n.
26581 del 18.12.2023 e la SCIA del 21.12.2023, l’interessata
si sarebbe conformata alle indicazioni contenute
nell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175 del
21.11.2023;
...
Considerato, innanzitutto, che:
- la diversa distribuzione degli spazi interni, dacché ascrivibile
all’orbita della manutenzione straordinaria ex art.
3, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001 e della
categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017, non
necessitava di previo rilascio del permesso di costruire e
dell’autorizzazione paesaggistica, cosicché non
avrebbe potuto legittimamente sanzionarsi in via
repressivo-ripristinatoria per mancanza di tali titoli
abilitativi;
- tenuto conto anche della previsione del punto 3 della Sezione II
– Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016
(secondo cui rientrano nella manutenzione straordinaria
«l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti
interne, sempre che non riguardino le parti strutturali
dell’edificio»), questo Tribunale amministrativo
regionale ha, infatti, avuto modo di statuire che «in
materia edilizia, la diversa distribuzione degli ambienti
interni mediante eliminazione e spostamenti di tramezzature,
purché non interessi le parti strutturali dell'edificio, è
considerata attività di manutenzione straordinaria»
(cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 848/2020; Napoli,
sez. III, n. 2899/2021; Salerno, sez. II, n. 167/2022),
subordinata, come tale, a mera CILA, la cui omissione è
sanzionabile in via esclusivamente pecuniaria ai sensi
dell’art. 6-bis, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. TAR
Campania, Salerno, sez. II, n. 3672/2022), mentre, ove
incidente sulle parti strutturali del fabbricato, è
considerata attività di ristrutturazione edilizia,
subordinata, come tale, a SCIA, la cui mancanza è parimenti
sanzionabile in via pecuniaria (cfr. TAR Campania, Salerno,
sez. II, n. 192/2023);
- nel contempo, siffatta tipologia di interventi edilizi figura
sottratta al regime abilitativo dell’autorizzazione
paesaggistica dall’art. 149, lett. a), del d.lgs. n.
42/2004 («Fatta salva l’applicazione dell’articolo 143,
comma 4, lettera b), e dell’articolo 156, comma 4, non è
comunque richiesta l’autorizzazione prescritta dall’articolo
146, dall’articolo 147 e dall’articolo 159 … per gli
interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli
edifici») e dal punto A.1 («opere interne che non
alterano l'aspetto esteriore degli edifici, comunque
denominate ai fini urbanistico-edilizi, anche ove
comportanti mutamento della destinazione d'uso»)
dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017 (cfr. TAR Campania,
Salerno, sez. II, n. 3672/2022);
- lo stesso dicasi con riferimento alla sostituzione degli impianti
idrici ed elettrici, della pavimentazione interna e degli
infissi esterni, nonché al rifacimento degli intonaci
esterni;
- anche tali interventi sono, infatti, al più, ascrivibili alla
categoria della manutenzione straordinaria ex art. 3,
comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001, ossia alle «opere
e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti
anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle
destinazioni d’uso implicanti incremento del carico
urbanistico»; tant’è che il citato punto 3 della Sezione
II – Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016
annovera nella manutenzione straordinaria le «opere
e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti
degli edifici, nonché per realizzare ed integrare o servizi
igienico-sanitari e tecnologici»;
- non solo: la sostituzione e il rinnovamento della pavimentazione
(sia interna sia interna), il rifacimento degli intonaci
(sia interni sia esterni), la sostituzione e il rinnovamento
degli infissi (sia interni sia esterni), degli impianti
elettrici, igienici e idro-sanitari sono addirittura
annoverati ai punti 1, 2, 6, 17 e 19 del Glossario Edilizia
Libera di cui al d.m. 02.03.2018, quali interventi di
manutenzione ordinaria;
- e sono, inoltre, riconducibili, quanto al rifacimento degli
intonaci esterni ed alla sostituzione degli infissi, alla
categoria A.2 («interventi sui prospetti o sulle
coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli
eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle
caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti, quali: rifacimento di
intonaci, tinteggiature, rivestimenti esterni o manti di
copertura; opere di manutenzione di balconi, terrazze o
scale esterne; integrazione o sostituzione di vetrine e
dispositivi di protezione delle attività economiche, di
finiture esterne o manufatti quali infissi, cornici,
parapetti, lattonerie, lucernari, comignoli e simili»)
ovvero, comunque, quanto alla sostituzione della
pavimentazione interna e degli impianti idrici ed elettrici,
alla menzionata categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n.
31/2017;
- a dispetto di quanto ritenuto dall’amministrazione comunale
intimata, le opere contestate neppure necessitavano del
previo rilascio del nulla osta dell’Ente Parco ex art. 13
della l. n. 391/1991;
- ciò, in quanto, dapprima, il Responsabile dell’Area Tecnica e
Conservazione della Natura dell’Ente Parco, con la circolare
del 16.09.2013, prot. n. 14403, ha disposto in via
generalizzata il «nulla osta alla realizzazione di tutti
gli interventi riconducibili alle lettere a), b) e c) del
comma 1 dell'art. 3 del d.p.r. n. 380/2001 ricadenti in zona
D del Piano del Parco e non riguardino immobili ricadenti in
zona omogenea A dei PRG», come, appunto, nel caso dell’“Ho.An.”;
e in quanto, poi, il Consiglio direttivo dell’Ente Parco,
con delibera n. 7 del 27.10.2016, nel dettare le “Linee
di indirizzo per semplificazione procedure amministrative
dell’Ente Parco”, ha stabilito, all’art. 5, con riguardo
alle zone D, che «non sono soggetti a nulla osta
dell’Ente Parco tutti gli interventi, impianti, ed opere
riconducibili alla definizione di Intervento di cui alle
lettere a), b), c), comma 1, dell’art. 3 d.p.r. 380/2001 con
la sola esclusione degli interventi nei centri storici,
individuati nelle Tavole della serie B3 del Piano del Parco»;
- sempre a dispetto di quanto ritenuto dall’amministrazione
comunale intimata, gli interventi de quibus non erano
da intendersi subordinati a VINCA, essendo oggettivamente
insuscettibili, per le relative caratteristiche, di incidere
sui valori ambientali tutelati dalla rete Natura 2000;
- in definitiva, il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi
dall’orientamento, già accreditato dalla Sezione, secondo
cui «è illegittimo l’ordine di demolizione disposto in
relazione ad opere di manutenzione ordinaria e straordinaria
(rimozione degli infissi interni ed esterni nonché dei
pavimenti, rifacimento degli impianti e degli intonaci
interni ed esterni … trasformazione di tre locali … in un
unico ampio locale … realizzazione di tramezzi interni …)
che non esigono il permesso di costruire» (sent. n.
857/2023, in senso adesivo a TAR Campania, Napoli, sez. VII,
n. 2803/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.04.2024 n. 783 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa il modello legale tipizzato dall’art. 19,
commi 3, 4 e 6-bis, della l. n. 241/1990:
- la giurisprudenza interpreta il suindicato disposto normativo in
modo rigoroso, nel senso che il decorso del termine di 30
giorni per l'esercizio del potere interdittivo comporti la
definitiva consumazione di quest’ultimo e il consolidamento
della situazione soggettiva del segnalante, residuando, in
capo all'amministrazione, a fronte di un'attività esulante
dal perimetro normativamente consentito, il solo potere di
autotutela, da esercitarsi nel rispetto dei presupposti di
legge, previa comunicazione di avvio del procedimento di
secondo grado;
- tale prerogativa residuale –con cui il Comune
avrebbe potuto, per mera ipotesi, rimediare all’intempestiva
adozione della misura inibitoria– condivide, infatti, i
principi regolatori legislativamente sanciti, in materia di
autotutela, con particolare riguardo alla necessità
dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio,
al rispetto del limite del termine ragionevole, e
soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa,
di natura discrezionale, degli interessi in gioco, idonea a
giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole
maturato in capo al segnalante a seguito del decorso del
tempo e della conseguente consumazione del potere
interdittivo;
- in particolare, va ricordato che l’adempimento dell’obbligo
informativo ex art. 7 della l. n. 241/1990 costituisce
espressione del principio generale di partecipazione
procedimentale, diretto a garantire l'instaurazione di un
contraddittorio tra le parti interessate in relazione a
tutti gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della
decisione finale e riveste un sicuro maggiore spessore
proprio nei casi in cui viene esercitato il potere di
autotutela, sia tipica (tramite autoannullamento di un atto
amministrativo, espresso o tacito, ex ante favorevolmente
adottato) sia atipica (tramite sterilizzazione degli effetti
della SCIA presentata da tempo superiore a quello superiore
a quello richiesto per il relativo consolidamento);
- in base a tali direttive ermeneutiche, l’acclarata
cristallizzazione degli effetti sananti della SCIA del
28.06.2022, prot. n. 12916, imponeva all’ente locale
intimato di rimuovere eventualmente gli stessi nel rispetto
delle condizioni per l’esercizio dell’autotutela decisoria
in punto di presidi partecipativi e motivazionali, nonché di
limiti temporali sanciti dall’ordinamento a beneficio
dell’affidamento ingenerato nel soggetto privato segnalante;
- l’ordinanza di demolizione è da reputarsi,
dunque, illegittima, in quanto emessa dopo lo spirare del
termine di 30 giorni previsto per il consolidamento della SCIA, senza il ricorso alle
forme ed ai canoni procedimentali propri dell’autotutela
decisoria (ossia senza la comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 della l. n. 241/1990, senza alcuna
ponderazione ed esternazione circa prevalenza dell’interesse
pubblico all’interdizione degli effetti abilitativi della
SCIA rispetto all’antagonistico interesse privato alla loro
conservazione e senza raccordo alla prevista soglia
temporale di reazione in autotutela): diversamente opinando,
si finirebbe per negare ogni rilevanza alla prescrizione di
legge secondo cui l'amministrazione può e deve inibire i
lavori entro 30 giorni e si introdurrebbe nel sistema un
elemento di profonda incertezza, rendendo necessario
individuare, nel silenzio della legge, quale possa essere il
"termine ragionevole" entro il quale l'amministrazione
può incidere sul titolo di legittimazione edilizia senza
motivare sull'interesse pubblico alla rimozione dei relativi
effetti abilitativi;
---------------
L'ordinanza di demolizione è da reputarsi illegittima anche
in quanto emessa in pendenza dell’iter di sanatoria avviato
con la SCIA del 18.12.2023, prot. n. 26581, giusta apposita
comunicazione del Comune.
Tanto, in omaggio ai principi di economicità e di coerenza
dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente
sanzionare un’attività edilizia che potrebbe essere
legittimata ex post; ciò,
- in quanto l'esecuzione della misura ripristinatoria in mancanza
della previa definizione del procedimento ex art. 37 del
d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad
ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la sanatoria
delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il
mantenimento o l'eliminazione di queste ultime, e
determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti di cui
potrebbe assentirsi la ricostruzione in base a nuovo
permesso di costruire; e
- in quanto il potere repressivo verrebbe esercitato in base a
presupposti malfermi (la sanabilità o meno delle opere) che
pregiudicano le condizioni giuridiche e materiali necessarie
perché si dispieghino gli effetti giuridici riconducibili
all'eventuale rilascio del titolo in sanatoria.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 2177
del 23.01.2024.
...
Premesso che:
- col ricorso in epigrafe, la MV.Ho.Co. s.r.l. (in appresso, M.)
impugnava, chiedendone l’annullamento, previa sospensione:
-- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del
23.01.2024, emessa, sulla scorta della relazione di
sopralluogo prot. n. 1591 del 23.01.2024, dal Responsabile
dell’Area Lavori Pubblici del Comune di Castellabate;
-- l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175
del 21.11.2023;
- gli abusi contestati con l’adottata misura
repressivo-ripristinatoria consistevano, segnatamente,
nell’esecuzione, in assenza di idoneo titolo edilizio,
nonché in assenza di autorizzazione paesaggistica, di
nulla osta dell’Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di
Diano e Alburni (in appresso, Ente Parco) e di valutazione
di incidenza ambientale (VINCA), di svariate opere
ricondotte alle categorie ex art. 3, comma 1, lett. d) ed
e), del d.p.r. n. 380/2001, in corrispondenza della
struttura ricettiva denominata “Ho.An.”, ubicata in
Castellabate, frazione San Marco, censita in catasto al
foglio 23, particella 357, sub 1, ricadente in area
classificata come zona B3 (“Residenziale estensiva”)
dal vigente Piano regolatore generale (PRG) di Castellabate,
assoggettata a vincolo paesaggistico giusta d.m. 04.07.1966
e 28.03.1985, classificata D ((“Urbana e urbanizzabile”)
dal Piano del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e
Alburni (in appresso, Piano del Parco) e Zona di protezione
speciale (ZPS) – codice IT8050048 “Costa tra Punta
Tresino e le Ripe Rosse” della rete Natura 2000;
- in dettaglio, si trattava della demolizione delle tramezzature e
delle divisioni interne, della rimozione dei pavimenti,
degli infissi esterni, degli impianti idrici ed elettrici
esistenti, del rifacimento dell’intonaco esterno, della
realizzazione di nuovi impianti, dell’esecuzione di nuove
distribuzioni interne con elementi in cartongesso;
- a sostegno dell’esperito gravame, la ricorrente lamentava, in
estrema sintesi, che:
a) in quanto sostanziatisi nella mera
rimodulazione degli ambienti interni e nel mero rifacimento
dei vetusti impianti esistenti, degli infissi e
dell’intonaco esterno, gli interventi contestati sarebbero
stati riconducibili all’orbita della manutenzione
straordinaria, subordinata alla presentazione della CILA,
piuttosto che all’orbita della nuova costruzione o della
ristrutturazione edilizia, così come, invece,
confusamente indicato nell’ordinanza di demolizione n. 2177
del 23.01.2024; per modo che giammai essi avrebbero potuto
sanzionarsi in via demolitoria;
b) per le relative caratteristiche, gli stessi
neppure avrebbero necessitato del previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, del nulla osta dell’Ente Parco e della
VINCA;
c) in ogni caso, sarebbero stati assistiti dalla
SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, i cui effetti
abilitativi si sarebbero consolidati senza che fossero stati
inibiti tempestivamente né rimossi con i presidi
partecipativi e motivazionali propri dell’autotutela
decisoria;
d) sarebbero stati, per di più, assistiti dalla
SCIA in sanatoria prot. n. 26581 del 18.12.2023, i cui
effetti legittimanti nemmeno sarebbero stati inibiti
tempestivamente né rimossi con i presidi partecipativi e
motivazionali propri dell’autotutela decisoria ed il cui
iter non sarebbe, comunque, risultato perfezionato al
momento dell’adozione della misura
repressivo-ripristinatoria;
e) quest’ultima sarebbe stata disposta senza
considerare che, mediante la SCIA in sanatoria prot. n.
26581 del 18.12.2023 e la SCIA del 21.12.2023, l’interessata
si sarebbe conformata alle indicazioni contenute
nell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175 del
21.11.2023;
...
Considerato, poi, che:
- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 risulta emessa
tardivamente, ossia oltre il previsto termine di 30 giorni
dalla presentazione della SCIA del 28.06.2022, prot. n.
12916 (della quale lo stesso Comune di Castellabate sembra
contraddittoriamente postulare l’idoneità abilitativa
rispetto alle opere controverse, allorquando ha
espressamente qualificato queste ultime in termini di
ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d),
del d.p.r. n. 380/2001), e al di fuori del modello legale
tipizzato dall’art. 19, commi 3, 4 e 6-bis, della l. n.
241/1990;
- la normativa citata stabilisce che: «3. L'amministrazione
competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta
giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo
comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare
l'attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa
vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato,
invita il privato a provvedere prescrivendo le misure
necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a
trenta giorni per l'adozione di queste ultime. In difetto di
adozione delle misure da parte del privato, decorso il
suddetto termine, l'attività si intende vietata. Con lo
stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non
veritiere o di pericolo per la tutela dell'interesse
pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali,
salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale,
l'amministrazione dispone la sospensione dell'attività
intrapresa. L'atto motivato interrompe il termine di cui al
primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui
il privato comunica l'adozione delle suddette misure. In
assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso
termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente
adottata.
4. Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di
cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis,
l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti
previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni
previste dall'articolo 21-nonies. (…).
6-bis. Nei casi di SCIA in materia edilizia, il termine di
sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è
ridotto a trenta giorni. Fatta salva l'applicazione delle
disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì
ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni
previste dal d.p.r. 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi
regionali»;
- la giurisprudenza interpreta il suindicato disposto normativo in
modo rigoroso, nel senso che il decorso del termine di 30
giorni per l'esercizio del potere interdittivo comporti la
definitiva consumazione di quest’ultimo e il consolidamento
della situazione soggettiva del segnalante, residuando, in
capo all'amministrazione, a fronte di un'attività esulante
dal perimetro normativamente consentito, il solo potere di
autotutela, da esercitarsi nel rispetto dei presupposti di
legge, previa comunicazione di avvio del procedimento di
secondo grado (cfr., ex multis, TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, n. 517/2017; TAR Toscana, Firenze, sez.
III, n. 177/2020; TAR Campania, Salerno, sez. II, n.
712/2018; n. 1276/2020; n. 535/2021; Napoli, sez. VIII, n.
7037/2021);
- tale prerogativa residuale –con cui il Comune di Castellabate
avrebbe potuto, per mera ipotesi, rimediare all’intempestiva
adozione della misura inibitoria– condivide, infatti, i
principi regolatori legislativamente sanciti, in materia di
autotutela, con particolare riguardo alla necessità
dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio,
al rispetto del limite del termine ragionevole, e
soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa,
di natura discrezionale, degli interessi in gioco, idonea a
giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole
maturato in capo al segnalante a seguito del decorso del
tempo e della conseguente consumazione del potere
interdittivo (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n.
2106/2016; Salerno, sez. II, n. 1753/2017; n. 224/2018; TAR
Puglia, Bari, sez. III, n. 9/2019);
- in particolare, va ricordato che l’adempimento dell’obbligo
informativo ex art. 7 della l. n. 241/1990 costituisce
espressione del principio generale di partecipazione
procedimentale, diretto a garantire l'instaurazione di un
contraddittorio tra le parti interessate in relazione a
tutti gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della
decisione finale e riveste un sicuro maggiore spessore
proprio nei casi in cui viene esercitato il potere di
autotutela, sia tipica (tramite autoannullamento di un atto
amministrativo, espresso o tacito, ex ante
favorevolmente adottato: cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. V, n. 4327/2019; sez. IV, n. 2376/2022; TAR
Lombardia, Milano, sez. III, n. 321/2020; TAR Campania,
Salerno, sez. II, n. 1117/2019; n. 2789/2022; Napoli, sez.
VIII, n. 3924/2021; sez. VII, n. 2293/2022) sia atipica
(tramite sterilizzazione degli effetti della SCIA presentata
da tempo superiore a quello superiore a quello richiesto per
il relativo consolidamento: cfr., ex multis, TAR
Campania, Salerno sez. I, n. 877/2021; Napoli, sez. II, n.
1860/2020);
- in base a tali direttive ermeneutiche, l’acclarata
cristallizzazione degli effetti sananti della SCIA del
28.06.2022, prot. n. 12916, imponeva all’ente locale
intimato di rimuovere eventualmente gli stessi nel rispetto
delle condizioni per l’esercizio dell’autotutela decisoria
in punto di presidi partecipativi e motivazionali, nonché di
limiti temporali sanciti dall’ordinamento a beneficio
dell’affidamento ingenerato nel soggetto privato segnalante
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2842/2016;
n. 2751/2017; sez. II, n. 8388/2019);
- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 è da reputarsi,
dunque, illegittima, in quanto emessa dopo lo spirare del
termine di 30 giorni previsto per il consolidamento della
SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, senza il ricorso alle
forme ed ai canoni procedimentali propri dell’autotutela
decisoria (ossia senza la comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 della l. n. 241/1990, senza alcuna
ponderazione ed esternazione circa prevalenza dell’interesse
pubblico all’interdizione degli effetti abilitativi della
SCIA rispetto all’antagonistico interesse privato alla loro
conservazione e senza raccordo alla prevista soglia
temporale di reazione in autotutela): diversamente opinando,
si finirebbe per negare ogni rilevanza alla prescrizione di
legge secondo cui l'amministrazione può e deve inibire i
lavori entro 30 giorni e si introdurrebbe nel sistema un
elemento di profonda incertezza, rendendo necessario
individuare, nel silenzio della legge, quale possa essere il
"termine ragionevole" entro il quale
l'amministrazione può incidere sul titolo di legittimazione
edilizia senza motivare sull'interesse pubblico alla
rimozione dei relativi effetti abilitativi (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. I, n. 2488/2016; TAR Lazio, Latina,
n. 290/2018; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1276/2020;
n. 535/2021; n. 2611/2021; n. 3499/2022);
Considerato, infine, che:
- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 è da reputarsi
illegittima, anche in quanto emessa in pendenza dell’iter di
sanatoria avviato con la SCIA del 18.12.2023, prot. n.
26581, giusta apposita comunicazione del Comune di
Castellabate prot. n. 2044 del 30.01.2024;
- tanto, in omaggio ai principi di economicità e di coerenza
dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente
sanzionare un’attività edilizia che potrebbe essere
legittimata ex post; ciò, in quanto l'esecuzione
della misura ripristinatoria in mancanza della previa
definizione del procedimento ex art. 37 del d.p.r. n.
380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere,
ove ne sussistessero le condizioni, la sanatoria delle opere
abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento
o l'eliminazione di queste ultime, e determinerebbe
l'inconveniente di demolire manufatti di cui potrebbe
assentirsi la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n.
226/2007; n. 4335/2009; TAR Campania Napoli, sez. VII, n.
890/2011; sez. II, n. 1120/2017; TAR Abruzzo, L'Aquila, n.
311/2016); e in quanto il potere repressivo verrebbe
esercitato in base a presupposti malfermi (la sanabilità o
meno delle opere) che pregiudicano le condizioni giuridiche
e materiali necessarie perché si dispieghino gli effetti
giuridici riconducibili all'eventuale rilascio del titolo in
sanatoria (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, n.
189/2017);
Ritenuto, in conclusione, che:
- stante la sua ravvisata fondatezza nei profili dianzi scrutinati,
ed assorbiti quelli ulteriori, il ricorso in epigrafe va
accolto, con conseguente annullamento dell’ordinanza di
demolizione n. 2177 del 23.01.2024 (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 08.04.2024 n. 783 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Principio di continuità della progettazione e superamento
del divieto di appalto integrato.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Appalto di servizi – Principio di
continuità della progettazione – Non preclusione
dell’affidamento disgiunto – Divieto di appalto integrato -
Suo superamento nel nuovo codice.
Nel nuovo codice, il principio di
continuità della progettazione si pone a fondamento
dell’art. 41, comma 8, il quale stabilisce che alla
redazione del progetto esecutivo provvede, di regola, lo
stesso soggetto che ha predisposto il progetto di
fattibilità tecnico-economica, per evidenti ragioni connesse
alle garanzie di coerenza e speditezza.
L’affidamento disgiunto non è precluso, imponendosi, però,
l’esplicitazione delle ragioni per le quali si rende
necessario, nonché l’accettazione da parte del nuovo
progettista, senza riserve, dell’attività progettuale svolta
in precedenza.
Il divieto di cumulo della qualità di progettista e di
esecutore dei lavori per la stessa opera pubblica, per
contro, mira ad evitare che, nella fase di selezione
dell’appaltatore dei lavori, sia attenuata la valenza
pubblicistica della progettazione di opere pubbliche,
scongiurando che gli interessi di carattere generale ad essa
sottesi siano sviati a favore dell’interesse privato di un
operatore economico e che la competizione per aggiudicarsi i
lavori sia falsata a vantaggio dello stesso operatore.
Il divieto de quo si propone di assicurare le condizioni di
indipendenza ed imparzialità del progettista rispetto
all’esecutore dei lavori, necessarie anche affinché il primo
possa svolgere nell’interesse della stazione appaltante la
funzione di direzione dei lavori e di coordinatore della
sicurezza nella fase dell’esecuzione dell’appalto.
Detta ratio è alla base anche della previsione del divieto
di appalto integrato (oggetto di sospensione fino al
30.06.2023), che, nel nuovo codice, è superato nella
ricorrenza di presupposti indicati nell’art. 44, adottato in
attuazione di quanto indicato nella legge delega, recante
l’affidamento al legislatore del compito di individuare le
ipotesi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere
all'affidamento congiunto della progettazione e
dell'esecuzione dei lavori, fermi restando il possesso della
necessaria qualificazione per la redazione dei progetti
nonché l'obbligo di indicare nei documenti di gara o negli
inviti le modalità per la corresponsione diretta al
progettista, da parte delle medesime stazioni appaltanti,
della quota del compenso corrispondente agli oneri di
progettazione indicati espressamente in sede di offerta
dall'operatore economico, al netto del ribasso d'asta. (1)
---------------
(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 19.12.2023 n. 11024;
Cons. Stato, sez. V, 01.07.2022, n. 5499; C.G.A.R.S.,
30.09.2022, n. 972; Cons. Stato, sez. V, 14.05.2018, n.
2853; Cons. Stato, sez. V, 21.06.2012, n. 3656; Cons. Stato,
sez. V, 09.04.2020, n. 2333; Cons. Stato, sez. V,
17.04.2017, n. 3779; Cons. Stato, sez. V, 02.12.2015, n.
5454 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.04.2024 n. 3007 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
13. I motivi sono destituiti di fondamento.
13.1. L’art. 24, comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 invocato da
parte appellante a sostegno delle articolate censure
riguarda la “(…) Progettazione interna e esterna alle
amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori
pubblici. (…)” ed è pertanto relativo alle gare per
appalti di lavori, impedendo -con i temperamenti di seguito
indicati- ai soggetti che hanno svolto la progettazione di
lavori pubblici di partecipare al relativo appalto per
l’esecuzione dei lavori progettati.
Tale disposto normativo è pertanto applicabile solo nel
rapporto fra progettazione ed esecuzione dei lavori e non
già nel rapporto fra diversi livelli di progettazione, come
evincibile dalla diversità di disciplina posta dagli artt.
23, comma 12, e 24, comma 7, del d.lgs. n. 50 del 2016.
13.1.1. Ed invero l’art. 23, comma 12, prescrive che “Le
progettazioni definitiva ed esecutiva sono, preferibilmente,
svolte dal medesimo soggetto, onde garantire omogeneità e
coerenza al procedimento. In caso di motivate ragioni di
affidamento disgiunto, il nuovo progettista deve accettare
l'attività progettuale svolta in precedenza. In caso di
affidamento esterno della progettazione che ricomprenda,
entrambi i livelli di progettazione, l'avvio della
progettazione esecutiva è condizionato alla determinazione
delle stazioni appaltanti sulla progettazione definitiva. In
sede di verifica della coerenza tra le varie fasi della
progettazione, si applica quanto previsto dall'articolo 26,
comma 3. (…).”.
13.1.2. Detto disposto normativo esprime un principio
generale di “continuità”, della progettazione che può
riferirsi anche alla fase precedente del PFTE, laddove
l’Amministrazione si sia avvalsa per la relativa
predisposizione di un professionista esterno.
Ciò si evince anche dalla previsione del nuovo codice,
approvato con d.lgs. n. 36 del 2023, che sebbene non
applicabile ratione termporis alla fattispecie di cui
è causa, può essere utilizzato in via interpretativa. Ed
invero nel nuovo codice il principio di continuità della
progettazione è ulteriormente valorizzato, essendo a
fondamento della previsione contenuta nel comma 8 dell’art.
41 che prevede –stante l’avvenuta eliminazione del livello
della progettazione definitiva– che alla redazione del
progetto esecutivo provvede, di regola, lo stesso soggetto
che ha predisposto il progetto di fattibilità
tecnico-economica, per evidenti ragioni connesse alle
garanzie di coerenza e speditezza.
L’affidamento disgiunto non è precluso, imponendosi, però,
l’esplicitazione delle ragioni per le quali si rende
necessario, nonché l’accettazione da parte del nuovo
progettista, senza riserve, dell’attività progettuale svolta
in precedenza (in tal senso la relazione al codice redatta
ad opera del Consiglio di Stato).
13.1.3. Il divieto di cumulo della qualità di progettista e
di esecutore dei lavori per la stessa opera pubblica ha per
contro, secondo la costante giurisprudenza in materia, la
duplice funzione di evitare, nella fase di selezione
dell’appaltatore dei lavori, che sia «attenuata la
valenza pubblicistica della progettazione» di opere
pubbliche (così: Cons. Stato, V, 21.06.2012, n. 3656), e
cioè che gli interessi di carattere generale ad essa sottesi
siano sviati a favore dell’interesse privato di un operatore
economico, con la predisposizione di progetto da mettere a
gara ritagliato “su misura” per quest’ultimo, anziché
per l’amministrazione aggiudicatrice, e che la competizione
per aggiudicarsi i lavori sia perciò falsata a vantaggio
dello stesso operatore (così testualmente Cons. Stato, V,
09.04.2020, n. 2333, che richiama, id. 17.04.2017, n. 3779 e
02.12.2015, n. 5454).
Detta ratio è alla base anche della previsione del
divieto di appalto integrato contenuto nell’art. 59, comma
1, del d.lgs. 50 del 2016, con salvezza delle eccezioni
normativamente indicate.
Peraltro occorre rammentare che tale ultimo divieto è stato
oggetto di sospensione fino al 30.06.2023 per effetto
dell’art. 1, comma 1, lett. b), della l. n. 55 del 2019,
come modificata dall'art. 8, comma 7, del d.l. n. 76 del
2020, convertito nella l. 120 del 2020, ed ancora, per
effetto del differimento previsto dall’art. 52, comma 1,
lett. a), della l. n. 108 del 2021; va, inoltre, considerato
che proprio per gli appalti nell'ambito del PNRR/PNC
l’affidamento di progettazione ed esecuzione è ammesso sulla
base di quanto previsto dall’art. 48, comma 5, del d.l. n.
77 del 2021, convertito nella l. n. 108 del 2021.
Infine nel nuovo codice, approvato con d.l.gs. n. 36 del
2023, il divieto di appalto integrato può dirsi superato
nella ricorrenza di presupposti indicati nell’art. 44,
adottato in attuazione di quanto indicato nella legge
delega, con cui si è affidato al legislatore delegato il
compito di individuare le “ipotesi in cui le stazioni
appaltanti possono ricorrere all'affidamento congiunto della
progettazione e dell'esecuzione dei lavori, fermi restando
il possesso della necessaria qualificazione per la redazione
dei progetti nonché l'obbligo di indicare nei documenti di
gara o negli inviti le modalità per la corresponsione
diretta al progettista, da parte delle medesime stazioni
appaltanti, della quota del compenso corrispondente agli
oneri di progettazione indicati espressamente in sede di
offerta dall'operatore economico, al netto del ribasso
d'asta” (art. 1, comma 2, lett. ee), della l. n. 78 del
2022).
13.2. Ciò posto, il divieto di cui all’art. 24, comma 7, del
d.l.gs. n. 50 del 2016 si propone tra l’altro di assicurare
le condizioni di indipendenza ed imparzialità del
progettista rispetto all’esecutore dei lavori, necessarie
anche affinché il primo possa svolgere nell’interesse della
stazione appaltante la funzione di direzione dei lavori e di
coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione
dell’appalto; anche sotto questo profilo pertanto lo stesso
non è estensibile alla procedura di gara per l’affidamento
della progettazione definitiva ed esecutiva.
13.2.1. Peraltro, secondo quanto già affermato in
giurisprudenza (anche in riferimento all’analoga disciplina
dell’art. 90, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006), si
tratta di disposizione che, ponendo una presunzione iuris
tantum, prevede un’ipotesi tipica di conflitto di
interesse tale per cui i progettisti e i titolari di
incarichi di supporto alla progettazione non possono di
regola essere affidatari degli appalti di esecuzione di
lavori, a meno che non dimostrino che “l’esperienza
acquisita” non sia (stata) tale da determinare “un
vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri
operatori” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.12.2023 n.
11024; Cons. Stato, sez. V, 01.07.2022, n. 5499; C.G.A.R.S.,
30.09.2022, n. 972; cfr., per l’affermazione della
presunzione di vantaggio goduta dal progettista, che impone
la prova contraria, con “inversione normativa dell’onere
della prova”, anche Cons. Stato, sez. V, 14.05.2018, n.
2853).
La stazione appaltante perciò, quando sussiste una
situazione di presunto conflitto di interessi ai sensi
dell’art. 24, comma 7, del d.lgs. n. 50 del 2016, deve
ammettere la concorrente alla prova contraria e deve
valutare gli elementi addotti dalla medesima, prima di
procedere all’esclusione o alla revoca dell’aggiudicazione (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 09.04.2020, n. 2333, in riferimento
all’analoga disciplina dell’art. 90, comma 8 e 8-bis, del
d.lgs. n. 163 del 2006).
In sintesi, la predisposizione di un progetto di opera
pubblica da parte di un professionista privato non comporta
alcun automatismo escludente per il suo concorso
all’affidamento dei relativi lavori, ma deve essergli
consentito di dimostrare che dalla redazione del progetto a
base di gara non gli è derivato alcun vantaggio competitivo,
in conformità al principio di proporzionalità di matrice
euro-unitaria (cui si deve l’inserimento della regola, che
risale alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione
europea del 03.03.2005, C-21/03 e 34/03, Fabricom SA; la sua
positivizzazione nell’ordinamento giuridico nazionale, con
legge 30.10.2014, n. 161 -Disposizioni per l’adempimento
degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione europea - Legge europea 2013-bis- è stata poi
indotta dalla necessità di chiudere la procedura di
infrazione comunitaria Eu Pilot 4860/13/MARKT avviata nei
confronti dell’Italia).
In altri termini, se non vi è un divieto partecipativo
assoluto e aprioristico conseguente all’avvenuta
predisposizione del progetto, bensì un necessario
accertamento da eseguire nel caso concreto in ordine alla
posizione di vantaggio goduta dal progettista (Cons. Stato,
Comm. spec., parere 03.11.2016, n. 2285), vi è nondimeno una
presunzione normativa d’incompatibilità che l’interessato
deve ribaltare (Cons. Stato, V, n. 5499/2022, cit.).
Può infine aggiungersi che, per le Linee guida Anac n. 1,
approvate con delibera n. 973 del 14.09.2016, e aggiornate
con le delibere n. 138 del 21.02.2018 e n. 417 del
15.05.2019, secondo quanto previsto nel par. n. 2.2 ai fini
della prova ex art. 24, comma 7, d.lgs. 50 del 2016, idonea
a superare la predetta presunzione, è “almeno necessario”,
in coerenza con quanto previsto per le consultazioni
preliminari di mercato, che le stesse informazioni in
possesso del progettista siano messe a disposizione di tutti
gli altri candidati e offerenti, con la previsione di un
termine per la ricezione delle loro offerte idoneo a
consentire loro di elaborarle. Secondo quanto di recente
precisato (Cons. Stato, sez. V, 16.01.2023, n. 511), “La
regola è stata condivisa da questa Sezione del Consiglio di
Stato, che ha anche ritenuto a tale fine la congruità del
termine di 35 giorni (n. 5499/2022)”.
13.3. Per contro nell’ipotesi di specie non opera il divieto
de quo –peraltro non di carattere assoluto, come
innanzi precisato– in quanto come ritenuto dalla
giurisprudenza di questa sezione (Cons. Stato, sez. V,
14.05.2018, n. 2853 par. 13.6) <<è palese la diversità di
situazioni (sulla quale è sufficiente fare rinvio, tra le
altre, a Cons. Stato, V, 02.12.2015, n. 5454, laddove,
richiamando anche il precedente di Cons. Stato, V,
21.06.2012, n. 3656, si evidenzia come la ratio del divieto
di legge consiste “nell’esigenza di garantire che il
progettista si collochi in posizione di imparzialità
rispetto all’appaltatore-esecutore dei lavori”, quindi
nell’evitare che coincidano le posizioni di progettista e di
appaltatore-esecutore dei lavori; rischio, quest’ultimo che
non ricorre nei rapporti tra progettazione preliminare e
livelli ulteriori di progettazione)>>).
13.4. Peraltro, ai fini della delibazione della questione
de qua, come evidenziato dalla provincia di Pisa,
occorre tenere conto non tanto del disposto dell’art. 24,
comma 7, innanzi indicato, ma del disposto dell’art. 67,
commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici, secondo i
quali l’esclusione dalla partecipazione alla gara di un
operatore economico che abbia in qualche modo partecipato
alla preparazione della procedura di gara è concepita come
un’extrema ratio, ovvero solo laddove non sia
possibile garantire il rispetto del principio di par
condicio competitorum, come evincibile anche dalla
previsione dell’art. 80, comma 5, lett. e), del codice che
prevede quale ipotesi di esclusione la fattispecie in cui “una
distorsione della concorrenza derivante dal precedente
coinvolgimento degli operatori economici nella preparazione
della procedura d'appalto di cui all'articolo 67 non possa
essere risolta con misure meno intrusive”.
Previsione questa del tutto coerente con il principio di
tassatività delle cause di esclusione codificato dall’art.
83, comma 8, d.l.gs. n. 50 del 2016 in applicazione del
quale la giurisprudenza ha ritenuto che "le norme di
legge e di bando che disciplinano i requisiti soggettivi di
partecipazione alle gare pubbliche devono essere
interpretate nel rispetto del principio di tipicità e
tassatività delle cause di esclusione, che di per sé
costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di
iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della
Costituzione, oltre che dal Trattato dell’Unione Europea”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 11.02.2013, n. 768;
nello stesso senso: sez. V, 21.06.2016, n. 2722, sez. V,
13.05.2014, n. 2448 e sez. V, 21.02.2013, n. 1061).
Ad analoghe conclusioni deve pertanto pervenirsi in
applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. e), del d.lgs. n.
50 del 2016 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.04.2024 n. 3007 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Costituisce principio condiviso dalla Sezione
quello per cui:
“Il dovere di provvedere della P.A. può sorgere sia
in relazione all'obbligo di concludere un procedimento che
deve essere avviato ad istanza di parte o d'ufficio (comma
1, art. 2, legge n. 241 del 1990) oppure "negli altri casi
previsti dalla legge" (comma 1 dell'art. 31 c.p.a.).
In caso
di mancata conclusione del procedimento oppure negli "altri
casi previsti dalla legge", il soggetto interessato dal
provvedimento può agire, ai sensi degli artt. 31, commi 2 e
3, e 117, c.p.a., per l'accertamento del silenzio serbato
dell'amministrazione e chiedere la condanna a provvedere.
Sussiste l'obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle
fattispecie particolari dove ragioni di giustizia e di
equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi
tutte le volte in cui in virtù del dovere di correttezza e
di buona amministrazione sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione”.
---------------
... avverso il silenzio serbato da parte del Comune di
Scafati in ordine all’istanza presentata dalla ricorrente in
data 04/09/2023 a mezzo pec prot. n. 48857, con la quale è
stata richiesta la conclusione del procedimento
amministrativo di cui alla variante al permesso di costruire
convenzionato ex art. 28-bis T.U. Ed. n. 28 del 2020.
...
Il presente ricorso è proposto avverso il silenzio serbato
dal Comune di Scafati in ordine all’istanza della ricorrente
con cui è stata richiesta la conclusione del procedimento di
variante al permesso di costruire convenzionato ex art. 28-bis D.P.R. n. 380/2001.
Deduce la ricorrente di aver presentato diverse S.C.I.A. in
variante al permesso di costruire convenzionato e di aver
depositato, a seguito di interlocuzione con l’ente comunale,
una richiesta di permesso di costruire in variante, sicché
l’amministrazione comunale avrebbe dovuto inviare la bozza
di convenzione annessa alla citata variante ai fini della
relativa approvazione in Consiglio Comunale.
Rappresenta di aver sollecitato più volte il Comune ad
attivarsi, senza alcun esito.
Si è costituito in resistenza il Comune di Scafati
contestando la sussistenza nella specie sia dell’obbligo
giuridico di provvedere che del termine per la conclusione
del procedimento, in quanto l’art. 28-bis del T.U. Edilizia
richiede solo il passaggio in C.C. per l’approvazione della
convenzione ma non esplicita un termine per la conclusione
del relativo procedimento, né un termine di conclusione
finale è stato previsto con la diffida di parte.
La ricorrente ha replicato che sussiste ex lege l’obbligo di
trasmissione della convenzione al Consiglio Comunale.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Invero, costituisce principio condiviso dalla Sezione quello
per cui: “Il dovere di provvedere della P.A. può sorgere sia
in relazione all'obbligo di concludere un procedimento che
deve essere avviato ad istanza di parte o d'ufficio (comma
1, art. 2, legge n. 241 del 1990) oppure "negli altri casi
previsti dalla legge" (comma 1 dell'art. 31 c.p.a.).
In caso
di mancata conclusione del procedimento oppure negli "altri
casi previsti dalla legge", il soggetto interessato dal
provvedimento può agire, ai sensi degli artt. 31, commi 2 e
3, e 117, c.p.a., per l'accertamento del silenzio serbato
dell'amministrazione e chiedere la condanna a provvedere.
Sussiste l'obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle
fattispecie particolari dove ragioni di giustizia e di
equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi
tutte le volte in cui in virtù del dovere di correttezza e
di buona amministrazione sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle
determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione”
(TAR Lazio Roma, Sez. II, 28/04/2020, n. 4333).
Sussiste pertanto nel caso di specie l’inerzia
ingiustificata dell’amministrazione, la quale, avendo
ricevuto dalla ricorrente l’istanza di variante del permesso
di costruire convenzionato, ha attivato il relativo
procedimento, che però non risulta a tutt’oggi concluso
nonostante i plurimi solleciti della società, rimasti
inevasi.
Il Tribunale ordina, quindi, al Comune di Scafati di
provvedere sull’istanza presentata dalla ricorrente in data
04/09/2023 a mezzo pec prot. n. 48857, con la quale è stata
richiesta la conclusione del procedimento amministrativo di
cui alla variante al permesso di costruire convenzionato ex
art. 28-bis T.U.Ed. n. 28 del 2020, entro il termine di
novanta (90) giorni dalla comunicazione o notificazione
della presente sentenza.
Qualora, decorso tale termine, l’Amministrazione perduri
nella sua inerzia, il Collegio nomina sin d’ora, quale
Commissario ad acta, il Prefetto di Salerno, con facoltà di
delega ad altro pubblico dirigente o funzionario, non
necessariamente appartenente al suo ufficio, affinché si
sostituisca all’Amministrazione inadempiente nel riscontrare
l’istanza di cui sopra entro l’ulteriore termine di novanta
(90) giorni dietro presentazione di specifica istanza di
parte ricorrente; ed il cui eventuale compenso, che sin
d’ora si fissa in € 1.000,00 (millecinquecento/00), oltre
spese vive documentate, pone sin d’ora a carico del Comune
di Scafati (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.04.2024 n. 762 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire convenzionato – Art. 28-bis D.P.R. n.
380/2001 – Provvedimento di rigetto – Commissario ad acta –
Motivazione provvedimento – Non indicazione ragioni ostative
all’intervento – Decadenza dei Piani di zona per l’edilizia
economica e popolare – Non incompatibile – Rilascio di
permesso di costruire convenzionato.
Deve essere annullato il provvedimento
del Commissario ad acta, emesso in esecuzione di sentenza
del giudice amministrativo e relativo al rigetto delle
richieste di permesso di costruire convenzionato, laddove il
medesimo non spieghi in motivazione la ragione della dedotta
inapplicabilità al caso di specie dell’art. 28-bis del
D.P.R. n. 380/2001.
La decadenza dei Piani di zona per l’edilizia economica e
popolare (facendo salvo il vincolo conformativo derivante
dalle destinazioni di zona che il Piano, in quanto strumento
attuativo del P.R.G., pone) non appare di per sé
incompatibile con il rilascio di un permesso di costruire
convenzionato, il quale costituisce strumento utilizzabile
in tutte le situazioni nella quali le esigenze di
urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità
semplificata
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.04.2024 n. 757 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
Il reclamo è fondato e va accolto.
Innanzitutto, è fondata l’eccezione preliminare sollevata,
posto che la sentenza da eseguire riguardava solo la domanda
di permesso di costruire avanzata in data 28.10.2019 prot.
n. 36804, non la domanda di pari data avente prot. n. 36805,
su cui, quindi, il Commissario non aveva il potere di
provvedere.
Inoltre, con riferimento al rigetto della richiesta di
permesso di costruire convenzionato ai sensi dell’art.
28-bis del D.P.R. n. 380/2001 prot. n. 36804, risulta
fondata l’ulteriore doglianza secondo cui: “I motivi
rappresentati dal commissario non indicano alcuna ragione
ostativa all’intervento richiesto, limitandosi a fare un
raffronto delle particelle indicate, e sostenendo che
l’intera area interessata sia oggetto di eventuale
autorizzazione paesaggistica”.
Effettivamente, da quel che è dato comprendere in base alla
lettura del provvedimento (che non distingue specificamente
le aree rispettivamente oggetto delle due domande di
permesso di costruire convenzionato erroneamente accorpate),
la motivazione consisterebbe in ciò: “L’area di proprietà
dei richiedenti, come riportato in relazione, e riportata
catastalmente al foglio di mappa n. 12 particelle nn. 2304,
1070, 932, 1657, 2306, 2423, 2424, 2595, è sottoposta alle
disposizioni contenute nella parte terza del Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio di cui al D.Lgs n. 42 del
22.01.2004 e ss.mm.ii. per effetto del D.M. 07.06.1967, e
pertanto assoggettata ad Autorizzazione Paesaggistica ai
sensi dell’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 e ss.mm.ii.”.
L’unico altro cenno motivazionale è il richiamo alle “note
istruttorie” del Comune e segnatamente, per quanto qui
interessa, ai motivi indicati nella proposta di
provvedimento dal Comune prot. n. 21229 del 19.05.2023.
In essa si legge che: “per l’area riportata catastalmente
al foglio di mappa n. 12 particella n. 2423 (parte) la
richiesta di Permesso di Costruire per l’edificazione deve
tener conto del PEEP già vigente e approvato con D.M. n. 181
del 16.06.1971 e successivamente, ai sensi dell’art. 34
della legge 865/1971 rimodulato ed approvato con Delibera di
C.C. n. 73 del 1987 i cui parametri urbanistici sono
disciplinati dalle Norme Tecniche di Attuazione ivi
allegate, visto che tale area indicata nella Tavola 4 della
progettazione, è individuata dal “lotto n. 36 Tipo F” che
era (ed è) di tipo edificabile del PEEP suddetto”.
Da ciò, il Comune prima e il Commissario poi fanno
discendere l’inapplicabilità dell’art. 28-bis del D.P.R. n.
380/2001.
Orbene, anche a prescindere al fatto che la contestazione
riguarda solo una parte di una singola particella, rispetto
a tutte quelle considerate, deve rilevarsi che il
provvedimento non spiega il motivo della dedotta
inapplicabilità, atteso che la decadenza dei Piani di zona
per l’edilizia economica e popolare (facendo salvo il
vincolo conformativo derivante dalle destinazioni di zona
che il Piano, in quanto strumento attuativo del P.R.G., ha
posto) non appare di per sé incompatibile con il rilascio di
un permesso di costruire convenzionato, il quale costituisce
strumento utilizzabile in tutte le situazioni nella quali le
esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con
una modalità semplificata.
In definitiva, il reclamo è fondato e va accolto, con
conseguente annullamento della delibera commissariale
impugnata. |
EDILIZIA PRIVATA:
Verbale – Polizia Locale – Accertamento di inottemperanza –
Ingiunzione di demolizione di opere abusive – Art. 33 D.P.R.
n. 380/2001 – Atto endoprocedimentale – Efficacia
dichiarativa – Formale atto di accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione – Necessità – Atto
competente autorità amministrativa – Effetto acquisitivo –
Art. 31, co. 4, D.P.R. 380/2001.
Si ritiene condivisibile l’orientamento
giurisprudenziale che ritiene inammissibile l’impugnazione
del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di ripristino dello stato dei luoghi.
Quest’ultimo rappresenta, infatti, un atto
endoprocedimentale, strumentale alle determinazioni
dell’ente comunale, avente efficacia solo dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, priva della
competenza per l’adozione di atti di amministrazione attiva.
In tal senso, risulta pertanto necessaria l’adozione di un
formale atto di accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, adottato dalla competente
autorità amministrativa, ai sensi dell’art. 31, comma 4,
d.P.R. n. 380/2001 il quale, facendo propri gli esiti del
mero verbale, sancisca l’effetto acquisitivo e costituisca,
previa notifica all’interessato, titolo per l’immissione in
possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. (1)
---------------
(1) V. in merito TAR Campania–Napoli, sez. III, 18.01.2022, n. 358
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 30.03.2024 n. 6315 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
... per l’annullamento e la revoca, previa adozione di
idonee misure cautelari, del verbale del Comune di Cerveteri
– Corpo di Polizia Locale n. 233/2023 del 14.11.2023,
notificato il 14.11.2023 di accertamento di inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione di opere abusive ex art. 33
D.P.R. n. 380/2001 n. 18/2015 del 01.12.2015 del Comune di
Cerveteri e del verbale del Comune di Cerveteri – Corpo di
Polizia Locale n. 234/2023 del 14.11.2023, notificato il
14.11.2023, di accertamento di inottemperanza alla
ingiunzione di demolizione di opere abusive ex art. 33
D.P.R. n. 380/2001 n. 19/2015 del 01.12.2015 del Comune di
Cerveteri;
...
– rilevato che, con le ordinanze nn. 18 e 19 del 01.12.2015, il
Comune di Cerveteri disponeva la demolizione delle opere
dettagliatamente indicate nel ricorso introduttivo del
giudizio, alle lettere da A) a I) [e segnatamente:
fabbricato residenziale; seminterrato sud; seminterrato
nord; ampliamento nord; ampliamento sud; casetta in legno;
cambio destinazione d’uso da pertinenza agricola a civile
abitazione; ampliamento fabbricato E; manufatto in legno;
piscina-gazebo; ricovero autovetture];
– rilevato che, con i verbali di polizia locale nn. 233 e 234 del
14.11.2023, si accertava l’inottemperanza alle suddette
ordinanze di demolizione;
– rilevato che, con il ricorso introduttivo del giudizio, la
ricorrente impugnava i suddetti verbali di accertamento,
adducendo, tra i motivi di ricorso, l’allegazione secondo
cui la suddetta ordinanza n. 18/2015 non le sarebbe mai
stata notificata, con la conseguente asserita caducazione
dell’atto presupponente;
– rilevato che, anche a seguito dell’istruttoria disposta dal
Tribunale, risulta dagli atti di causa che la suddetta
ordinanza fu notificata, ai sensi dell’art. 140 c.p.c.,
tramite raccomandata A.R. (con la quale si comunicava di
aver depositato la stessa ordinanza presso la casa comunale
di Cerveteri) spedita in data 29.01.2016 e tornata al
mittente per compiuta giacenza;
– rilevato che, con la memoria di costituzione depositata in data
12.02.2024, l’amministrazione resistente eccepiva che i
verbali di accertamento impugnati non risultano essere
provvedimenti dotati di propria ed autonoma lesività stante
la loro natura di atti meramente ricognitivi, privi di
valore provvedimentale;
– ritenuto di poter condividere l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui «È inammissibile l’impugnazione del verbale
di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di ripristino
dello stato dei luoghi, trattandosi di un atto
endoprocedimentale, strumentale alle determinazioni
dell’ente comunale, che ha efficacia solo dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, la quale è
priva della competenza per l’adozione di atti di
amministrazione attiva.
Risulta necessaria l’adozione di un formale atto di
accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire,
adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi
dell’art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380/2001 che, facendo
propri gli esiti del mero verbale, sancisca l’effetto
acquisitivo e costituisce, previa notifica all’interessato,
titolo per l’immissione in possesso del bene e per la
trascrizione nei RR.II.» (TAR Campania–Napoli, sez. III,
18/01/2022, n. 358);
– ritenuta pertanto l’inammissibilità del ricorso; |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in deroga – Art. 23-quater d.P.R. n.
380 del 2001 – Art. 51-bis l.r. n. 12 del 2005 –
Realizzazione centro sportivo – Uso temporaneo – Convenzione
– Necessità – Competenza giunta o consiglio comunale –
Incompetenza dirigente – Provvedimento dirigenziale –
Rigetto domanda – Illegittimità.
La domanda di rilascio del permesso di
costruire in deroga deve essere accompagnata da una bozza di
convenzione la quale, per la sua eventuale approvazione,
deve essere sottoposta alternativamente all’esame della
giunta comunale o del consiglio comunale a seconda che
quest’ultimo organo abbia o meno in precedenza adottato
l’atto di indirizzo previsto dal settimo comma dell’art.
23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001. (1)
Il provvedimento del dirigente dell’ente locale di rigetto
della domanda di rilascio del permesso di costruire in
deroga, accompagnata da bozza di convenzione, in mancanza
dell’atto consiliare di indirizzo rispetto alla bozza di
convenzione, è illegittimo in quanto inficiato da vizio di
incompetenza. Risulta, infatti, evidente che i dirigenti dei
comuni non sono competenti ad esprimersi in materia essendo
ogni valutazione come detto rimessa agli organi politici.
(2)
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(1) In proposito si rammenta nella sentenza che i commi 4 e 5
dell’articolo 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001 prevedono
che l’uso temporaneo in deroga alle previsioni di piano
debba essere disciplinato da una apposita convenzione. Il
successivo comma 7 precisa che il consiglio comunale
individua i criteri e gli indirizzi per l’attuazione delle
citate disposizioni da parte della giunta comunale e che, in
assenza di tale atto consiliare, lo schema di convenzione
che regola l’uso temporaneo è approvato con deliberazione
dello stesso consiglio comunale.
(2) Cfr. in argomento TAR Puglia, Lecce, sez. I, 25.01.2022 n. 128 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.03.2024 n. 959 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato essendo
meritevole di accoglimento la censura, avente carattere
assorbente, con la quale si deduce l’incompetenza
dell’organo che ha adottato l’atto impugnato.
In proposito si osserva quanto segue.
L’art. 23-quater, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che i comuni possono consentire l’utilizzazione
temporanea di edifici ed aree per usi diversi da quelli
previsti dal vigente strumento urbanistico qualora ciò sia
funzionale allo scopo di attivare processi di rigenerazione
urbana, di riqualificazione di aree urbane degradate, di
recupero e valorizzazione di immobili e spazi urbani
dismessi o in via di dismissione e favorire, nel contempo,
lo sviluppo di iniziative economiche, sociali, culturali o
di recupero ambientale.
Analoga disposizione è contenuta nell’art. 51-bis della
legge regionale n. 12 del 2005.
I commi 4 e 5 del citato articolo 23-quater del d.P.R. n.
380 del 2001 prevedono che l’uso temporaneo in deroga alle
previsioni di piano debba essere disciplinato da una
apposita convenzione. Il successivo comma 7 precisa infine
che il consiglio comunale individua i criteri e gli
indirizzi per l’attuazione delle citate disposizioni da
parte della giunta comunale e che, in assenza di tale atto
consiliare, lo schema di convenzione che regola l’uso
temporaneo è approvato con deliberazione dello stesso
consiglio comunale.
Dall’insieme di queste norme si ricava che la domanda di
rilascio del permesso di costruire in deroga deve essere
accompagnata da una bozza di convenzione la quale, per la
sua eventuale approvazione, deve essere sottoposta
alternativamente all’esame della giunta comunale o del
consiglio comunale a seconda che quest’ultimo organo abbia o
meno in precedenza adottato l’atto di indirizzo previsto dal
settimo comma dell’art. 23-quater del d.P.R. n. 380 del
2001. Risulta pertanto evidente che i dirigenti dei comuni
non sono competenti ad esprimersi in materia essendo ogni
valutazione come detto rimessa agli organi politici.
Ciò precisato, va ora osservato che, come anticipato, il
ricorrente, in data 14.06.2021, ha presentato domanda ai
sensi del citato art. 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001.
Tale domanda era stata preceduta dall’inoltro della bozza di
convenzione prevista dal settimo comma della stessa norma.
Il Comune di Pioltello, invece di sottoporre la bozza di
convenzione all’esame degli organi politici, ha dato
direttamente riscontro all’istanza con provvedimento del
dirigente il quale, preso atto dalla mancanza dell’atto
consiliare di indirizzo, ne ha disposto il rigetto.
Ritiene il Collegio che, per le ragioni sopra indicate, tale
provvedimento sia illegittimo in quanto inficiato dal vizio
di incompetenza. La mancanza dell’atto consiliare di
indirizzo non conferisce infatti al dirigente il potere di
adottare senz’altro il provvedimento di rigetto dell’istanza
posto che, come detto, la legge prevede che, in questo caso,
sia il consiglio comunale a doversi esprimere sulla bozza di
convenzione.
Va dunque ribadita la fondatezza della censura in esame.
In conclusione, per tutte le ragioni illustrate, il ricorso
va accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato. |
APPALTI:
Sul risarcimento del danno in caso di annullamento dell’interdittiva
antimafia.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Interdittiva e informativa antimafia -
Giustizia amministrativa – Azione risarcitoria.
La p.a., in materia di interdittiva
antimafia, gode di un’ampia discrezionalità, e ciò comporta
il riconoscimento del beneficio dell’errore scusabile, con
conseguente esclusione della colpa e, quindi, della
responsabilità dell’amministrazione, nelle ipotesi in cui le
acquisizioni informative, trasmesse al prefetto dagli organi
di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un
giudizio plausibile sul tentativo di infiltrazione mafiosa,
in quanto oggettivamente significative di intrecci e
collegamenti tra l’organizzazione criminale e
l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate,
in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la
misura dell’interdittiva (1).
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(1) Conformi: Tar per la Calabria, Reggio Calabria, n. 439 del
2020;
Difformi: non risultano
precedenti difformi (CGARS,
sentenza 28.03.2024 n. 233 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9. Nel presente processo finalizzato al risarcimento del
danno, al fine di provare la sussistenza dell’elemento
psicologico della colpa grave in capo alla Prefettura parte
appellante valorizza due indici:
- l’amministrazione avrebbe disatteso la normativa di riferimento e
le indicazioni ripetutamente rese dall’unanime
giurisprudenza in ordine alla irrilevanza dei rapporti di
parentela in sé considerati;
- l’amministrazione avrebbe considerato irrilevanti in un
precedente giudizio prognostico, ai fini del giudizio di
condizionamento mafioso, gli stessi elementi poi viceversa
valorizzati in senso negativo per la appellante.
10. Il Collegio, preliminarmente, osserva quanto segue.
Il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza
diretta e automatica dell’annullamento giurisdizionale di un
atto amministrativo, ma è indispensabile procedere alla
positiva verifica, oltre che della lesione della situazione
giuridica soggettiva di interesse legittimo (o di diritto
soggettivo) tutelata dall’ordinamento, anche del nesso
causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della
sussistenza della colpa o del dolo dell’amministrazione.
Spetta al ricorrente l’onere della prova di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito civile, la mancanza di
uno solo dei quali determina l’infondatezza della pretesa:
elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) e
oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del
pregiudizio subito), necessari per ritenere la
responsabilità della p.a. ex art. 2043 c.c..
In merito all’elemento soggettivo la giurisprudenza
amministrativa è concorde nel ritenere che affinché possa
configurarsi la responsabilità aquiliana della p.a. per
l’illegittimo esercizio del potere alla illegittimità del
provvedimento poi annullato deve associarsi la sussistenza
di un quid pluris, identificato nella “rimproverabilità
soggettiva” della P.A.
Tale “rimproverabilità soggettiva” della p.a. deve
essere scrutinata tenendo conto delle norme attributive del
potere e delle regole d’azione in ragione delle quali la
p.a. agisce al fine di tutelare il bene pubblico individuato
dal legislatore.
10.1. All’interno di tale cornice normativa, quindi, occorre
individuare i caratteri della colpa con specifico
riferimento alla attività amministrativa relativa alle
informative antimafia, regolate agli artt. 90 ss. del d.lgs.
n. 159 del 2011.
10.2. Nella giudizio circa la configurabilità degli estremi
della colpa dell’amministrazione nell’adozione delle
informative antimafia il Collegio non può prescindere dalla
considerazione del loro fine e del loro carattere e della
funzione che l’ordinamento assegna a tali provvedimenti,
della cui prevalente natura cautelare e preventiva nessuno
dubita.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, già in epoca
antecedente alla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 3 del
2018 che ha definitivamente certificato natura e effetti
dell’interdittiva antimafia, era concorde nell’affermare che
“la misura dell’interdittiva antimafia obbedisce a una
logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e non
postula, come tale, l’accertamento in sede penale di uno o
più reati che attestino il collegamento o la contiguità
dell’impresa con associazioni di tipo mafioso (Cons. St.,
sez. III, 15.09.2014, n. 4693), potendo, perciò, restare
legittimata anche dal solo rilievo di elementi sintomatici
che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la
certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata
nell’attività imprenditoriale (Cons. St., sez. III,
01.09.2014, n. 4441)".
Il Collegio condivide l’assunto secondo cui il paradigma
legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli
artt. 84 e 91 del d.lgs. n. 159 del 2011, resta volutamente
elastico, nella misura in cui affida al Prefetto
l’apprezzamento di indici sintomatici “… di eventuali
tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare
le scelte o gli indirizzi delle società …” (art. 84,
comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un
giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione
dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo
mafioso.
Quanto la pertinente attività provvedimentale resti
connotata da elevati profili di discrezionalità, lo si
desume dall’analisi del lessico usato dal legislatore per
regolarla: l’uso dell’aggettivo “eventuali” e del
sostantivo “tentativi” indicano, in particolare, la
configurazione di presupposti del tutto incerti, ai fini
della giustificazione della misura, sicché la delibazione
prefettizia si risolve, a ben vedere, nell’analisi di indizi
sintomatici del pericolo di infiltrazione della criminalità
organizzata nell’amministrazione della società e nella
conseguente formulazione di un giudizio probabilistico della
mera possibilità del condizionamento mafioso.
Si tratta, in altri termini, di una fattispecie del tutto
peculiare, diversa da ogni altra attività amministrativa:
ciò che, come si dirà infra, si riverbera anche sulla
(estrema difficoltà della) configurabilità dell’elemento
soggettivo della fattispecie risarcitoria.
L’attività provvedimentale resta, in via generale,
strutturata e regolata dalla definizione esatta, a opera
della disposizione legislativa attributiva del potere nella
specie esercitato, dei presupposti stabiliti per la
legittima adozione dell’atto in cui si esplica la funzione,
pur residuando un fisiologico margine di discrezionalità in
capo alla p.a..
L’informativa antimafia risulta, al contrario, configurata
dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni
necessariamente opinabili, attinenti all’apprezzamento di
rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi,
ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari
presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi
della potestà esercitata.
È proprio la segnalata funzione anticipatoria della soglia
di contrasto alla criminalità organizzata che impedisce la
previsione di parametri di azione determinati nella loro
interezza, stringenti e cogenti e che impone, quindi, la
disciplina della potestà considerata in termini
semanticamente plurisignificanti, dovendosi impedire ad
imprese che rischiano di essere condizionate dai clan
mafiosi di accedere a rapporti contrattuali con le pubbliche
amministrazioni.
Le associazioni mafiose hanno la capacità di mutare
repentinamente modus operandi per insinuarsi in tutti
gli spazi dell’economia di mercato ove più difficile è il
controllo di legalità e l’ordinamento assegna ai
provvedimenti interdittivi del Prefetto il compito di
apprestare la più rapida e immediata difesa della società
civile.
Il carattere “eventuale” dei “tentativi” di
infiltrazione comporta che la delibazione prefettizia ha la
consistenza di un giudizio probabilistico della mera
possibilità del condizionamento mafioso, nel quale assume
rilevanza il “rischio di infiltrazione”, logicamente
antecedente al “tentativo di infiltrazione”.
L’attività provvedimentale relativa alle informative
antimafia viene configurata dallo stesso legislatore,
quindi, come fondata su valutazioni oggettivamente
opinabili, in quanto relative all'apprezzamento di rischi e
non all'accertamento di fatti.
Si tratta, per concludere sul punto, di un’attività da
ritenersi non ancorata alla stringente analisi della
ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto,
costitutivi e regolativi della potestà esercitata.
“Si può quindi tracciare una essenziale divaricazione
rispetto al modello dell’attività provvedimentale di
carattere generale, poiché quest’ultima è strutturata e
regolata dalla definizione esatta, ad opera della
disposizione legislativa attributiva del potere, dei
presupposti stabiliti per la legittima adozione dell’atto in
cui si esplica la funzione, che, per quanto connotato da
scelte discrezionali, resta strettamente vincolato alla
preliminare verifica della sussistenza delle condizioni che
ne autorizzano l’assunzione;
- l’attività provvedimentale attinente alle informative antimafia
risulta, al contrario, configurata dallo stesso legislatore
come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, di
consistenza magmatica siccome attinenti all’apprezzamento di
rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi,
ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari
presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi
della potestà esercitata;
- d’altra parte, è proprio la segnalata funzione anticipatoria
della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che
impedisce, a ben vedere, la previsione di parametri di
azione più stringenti e cogenti e che impone, quindi, la
disciplina della potestà considerata in termini più laschi,
trattandosi di precludere ad imprese che rischiano di essere
(e non che sicuramente sono) condizionate dai clan mafiosi
di accedere a rapporti contrattuali con le amministrazioni o
a titoli e concessioni pubbliche” (Cons. St., sez. III,
09.10.2023, n. 8765).
10.3. Dalla definizione dell’attività provvedimentale in
materia di interdittiva antimafia, come caratterizzata dalla
descritta ampia discrezionalità, ritiene il Collegio che ne
discendano due inscindibili conseguenze sistemiche.
10.4. Prima conseguenza.
Come rilevato dai pronunciamenti multilivello e dalla Corte
costituzionale, all’ampia discrezionalità dei provvedimenti
prefettizi in materia di antimafia è consustanziale la
necessità che gli stessi siano sottoposti a una effettiva
verifica giurisdizionale, pena la loro illegittimità
costituzionale.
A fronte di una discrezionalità tecnica particolarmente ampia,
spetta al giudice amministrativo sottoporre i provvedimenti
del prefetto (in ogni loro parte) a uno scrutinio che,
tralasciando la sterile alternativa tra sindacato debole o
forte, sia sempre effettivo e si estenda anche ai fatti alla
cui stregua il prefetto formula il proprio giudizio
prognostico, non dovendosi riconoscere un ambito di
valutazioni ‘riservate’ alla pubblica amministrazione
non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.
L’esistenza di tale ambito “sarebbe del tutto incompatibile con
la moderna configurazione dell’oggetto e della funzione del
processo amministrativo, ispirato al canone dell’effettività
della tutela, dotato di un sistema rimediale aperto e
conformato al bisogno differenziato di tutela.
La tutela giurisdizionale, per essere effettiva e rispettosa della
garanzia della parità delle armi, deve consentire al giudice
un controllo penetrante in tutte le fattispecie sottoposte
alla sua attenzione” (Cons., St., sez. VI, 05.12.2022,
n. 10624).
10.5. Seconda conseguenza.
La configurabilità degli estremi della colpa dell’amministrazione
nell’adozione delle informative antimafia, in ragione
dell’ampia discrezionalità sopra descritta, dev’essere
scrutinata in coerenza con la funzione, con la natura e con
i contenuti delle stesse.
“Non si potrà, in particolare, evitare di assegnare il dovuto
rilievo alla portata della regola di azione, alla quale
devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in
questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di
difficile decifrazione.
Come si è visto, infatti, il paradigma legale di riferimento,
codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs.
n. 159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in
cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici
“…di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a
condizionare le scelte o gli indirizzi delle società…” (art.
84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un
giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione
dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo
mafioso” (Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3707/2015).
Il carattere elastico dei presupposti dell’esercizio della potestà
amministrativa in questione impedisce, infatti, di declinare
pedissequamente nella fattispecie considerata le medesime
cause esimenti enucleate in via generale dalla
giurisprudenza per escludere la colpa dell’amministrazione.
Ritiene il Collegio che la valutazione di legittimità della
informativa e il giudizio di colpevolezza sull’operato
dell’amministrazione non possano essere automaticamente
sovrapposti, traslandone i relativi esiti.
Il Collegio condivide l’assunto, ribadito più volte dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il
beneficio dell’errore scusabile va riconosciuto (con
conseguente esclusione della colpa e, quindi, della
responsabilità dell’amministrazione) nelle ipotesi in cui le
acquisizioni informative, trasmesse al Prefetto dagli organi
di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un
giudizio plausibile sul tentativo di infiltrazione mafiosa,
in quanto oggettivamente significative di intrecci e
collegamenti tra l’organizzazione criminale e
l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate,
in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la
misura dell’interdittiva (CGARS,
sentenza 28.03.2024 n. 233 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Incidenti
d'auto risarciti anche nelle aree private.
L'incidente automobilistico va sempre risarcito dall'assicurazione rc anche
se si verifica in un'area privata: l'articolo 122 del codice delle
assicurazioni private (Cda), infatti, va interpretato nel senso che deve
essere equiparata alla strada qualsiasi area in cui il veicolo può essere
utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale. E la disposizione, è
bene chiarirlo, fissa i presupposti di tutte le azioni previste dal Cda, a
partire da quella diretta contro l'assicuratore del danneggiato (art. 149) e
da quella contro la compagnia del responsabile del sinistro (art. 144).
Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nell'ordinanza
27.03.2024 n. 8244.
Accolto il ricorso proposto dall'impresa edile: sbaglia la Corte d'appello
ad accogliere il gravame dell'assicurazione, riformando la decisione del
tribunale che aveva condannato la compagnia a risarcire la società sua
cliente per un sinistro avvenuto nel piazzale dello stabilimento; un
autocarro della ditta era stato danneggiato dal veicolo condotto da un
terzo.
L'errore del giudice di secondo grado sta nel ritenere che la srl non
potrebbe promuovere l'azione di risarcimento diretto ex art. 149 Cda perché
l'area su cui è avvenuto il sinistro non sarebbe equiparabile alla strada
pubblica.
Trova infatti ingresso la censura della srl secondo cui alla luce
del diritto Ue il fatto che lo scontro sia avvenuto nell'area adibita
dall'impresa al carico e scarico dei materiali è irrilevante per escludere
l'azione diretta della vittima nei confronti del suo assicuratore: la
copertura è esclusa solo se si fa un uso anomalo del veicolo.
Il principio
vale anche per le azioni contro l'impresa designata dal fondo di garanzia
per le vittime della strada, l'ufficio centrale italiano (incidenti avvenuti
sul territorio nazionale causati da veicoli con targa estera), il
commissario dell'impresa in liquidazione coatta amministrativa.
L'azione
diretta contro la propria assicurazione non è contrattuale perché la polizza
costituisce il presupposto ma non la fonte del diritto fatto valere. E
d'altronde l'azione contro la propria assicurazione è la stessa azione
prevista dall'art. 144 Cda contro la compagnia del responsabile, alla quale
la legge assegna un diverso debitore. Parola al giudice del rinvio
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2024). |
APPALTI:
Dilazione temporale del termine per ricorrere nelle
procedure di gara ed istanza di accesso documentale.
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Contratti pubblici ed obbligazioni della pubblica
amministrazione – Appalto di servizi – termine per la
proposizione del ricorso – Dies a quo – Istanza di accesso
documentale – Dilazione temporale del termine a ricorrere.
Nelle procedure di gara per
l’affidamento di contratti pubblici, l’individuazione della
decorrenza del termine per ricorrere dipende, in linea di
principio, dal rispetto delle disposizioni sulle formalità
inerenti alla informazione ed alla pubblicizzazione degli
atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui
l’accesso informale con una richiesta scritta.
La proposizione dell’istanza d’accesso agli atti di gara
comporta, invece, una dilazione temporale del termine per
ricorrere, allorché i motivi di ricorso conseguano alla
conoscenza dei documenti che completano l’offerta
dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese
nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta.
A fronte di una tempestiva istanza d’accesso, formulata
entro 15 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il
termine per proporre ricorso (il cui dies a quo coincide con
la data di comunicazione del provvedimento d’aggiudicazione
ex art. 120, comma 5, c.p.a.), viene incrementato nella
misura di 15 giorni, così pervenendo a un’estensione
complessiva pari a 45 giorni.
Nell’evenienza in cui, invece, l’amministrazione
aggiudicatrice rifiuti l’accesso oppure impedisca con
comportamenti dilatori l’immediata conoscenza degli atti di
gara, il termine per l’impugnazione degli atti comincia a
decorrere solo da quando l’interessato li abbia conosciuti.
(1)
---------------
(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, Ad. plen. n. 12 del 2020;
Cons. Stato, sez. III, 27.10.2021, n. 7178; Cons. Stato,
sez. V, 05.04.2022, n. 2525; idem, 16.04.2021, n. 3127;
idem, 19.01.2021, n. 575; Cons. Stato, sez. V, n. 3127 del
20 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2024 n. 2882 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Dalla sequenza degli atti come sopra riportata risulta
confermata l’irricevibilità del ricorso di primo grado,
sulla base dei principi affermati da questo Consiglio di
Stato, dai quali non v’è ragione per discostarsi.
1.3.2. Come noto, con sentenza n. 12 del 2020 l’Adunanza
Plenaria di questo Consiglio di Stato ha affrontato e
risolto la questione della decorrenza del termine
d’impugnazione degli atti delle procedure di gara per
l’affidamento di contratti pubblici, e ha valorizzato al
riguardo l’individuazione di momenti diversi di possibile
conoscenza degli atti di gara, ad ognuno dei quali
corrispondono precise condizioni affinché possa aversi
decorrenza del termine d’impugnazione dell’aggiudicazione;
il tutto nella cornice della considerazione, di carattere
generale, per la quale l’individuazione della decorrenza del
termine per ricorrere “continua a dipendere dal rispetto
delle disposizioni sulle formalità inerenti alla
‘informazione’ e alla ‘pubblicizzazione’ degli atti, nonché
dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso
informale con una ‘richiesta scritta’ per la quale sussiste
il termine di quindici giorni previsto dall’art. 76, comma
2, del ‘secondo codice’ applicabile per identità di ratio
anche all’accesso informale” (Cons. Stato, Ad. plen.,
02.07.2020, n. 12, par. 27; cfr. al riguardo, anche per la
disamina della tassonomia elaborata in relazione ai diversi
casi ipotizzabili, Cons. Stato, V, 05.04.2022, n. 2525;
16.04.2021, n. 3127; 19.01.2021, n. 575).
In tale contesto, l’Adunanza plenaria ha chiarito, ad
esempio, che la proposizione dell’istanza d’accesso agli
atti di gara comporta una “dilazione temporale” del
termine per ricorrere “quando i motivi di ricorso
conseguano alla conoscenza dei documenti che completano
l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni
rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta” (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 12 del
2020, cit., sub par. 32; cfr. al riguardo anche Id., III,
27.10.2021, n. 7178, che esclude dilazioni temporali nel
caso in cui il vizio risulti già percepibile a prescindere
dall’acquisizione di ulteriore documentazione).
L’entità della suddetta dilazione temporale è determinata
dalla stessa Adunanza plenaria nella misura di 15 giorni,
termine previsto dal vigente art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50
del 2016 per la comunicazione delle ragioni
dell’aggiudicazione su istanza dell’interessato (cfr. Cons.
Stato, Ad. plen., n. 12 del 2020, cit., sub par. 19,
richiamato dal par. 22): il che vale a dire che il termine
per proporre ricorso, fermo il dies a quo
(coincidente, per fattispecie quali quella in esame, con la
data di comunicazione del provvedimento d’aggiudicazione ex
art. 120, comma 5, Cod. proc. amm.), viene incrementato, in
generale, nella misura di 15 giorni, così pervenendo a
un’estensione complessiva pari a 45 giorni (Cons. Stato, Ad.
plen., n. 12 del 2020, cit., spec. sub par. 19, che richiama
il par. 14; Cons. Stato, n. 3127 del 2021, cit.; Id., V,
15.03.2023, n. 2736).
Presupposto per l’applicazione della dilazione temporale è a
sua volta (oltre che la natura del vizio da far valere, il
quale non deve essere evincibile se non all’esito
dell’acquisizione documentale) la tempestività dell’istanza
d’accesso, avanzata cioè entro 15 giorni dalla comunicazione
dell’aggiudicazione (cfr. ancora Cons. Stato, Ad. plen., n.
12 del 2020, par. 27; cfr. anche Corte cost., 28.10.2021, n.
204, ove si correla espressamente “la dilazione temporale”
all’esercizio dell’accesso “nei quindici giorni previsti
attualmente dall’art. 76 del vigente ‘secondo’ cod. dei
contratti pubblici”; cfr. ancora Cons. Stato, V,
29.11.2022, n. 10470).
In tale contesto, a fronte del descritto regime di ordine
generale, trova applicazione un diverso (nuovo) termine “qualora
l’Amministrazione aggiudicatrice rifiuti l’accesso o
impedisca con comportamenti dilatori l’immediata conoscenza
degli atti di gara (e dei relativi allegati)” (e cioè
“in presenza di eventuali […] comportamenti dilatori”
della stessa amministrazione, “che non possono comportare
suoi vantaggi processuali, per il principio della parità
delle parti”, tenuto conto d’altra parte che “L’Amministrazione
aggiudicatrice deve consentire all’impresa interessata di
accedere agli atti”): in tal caso, infatti, “il
termine per l’impugnazione degli atti comincia a decorrere
solo da quando l’interessato li abbia conosciuti” (Cons.
Stato, Ad. plen., n. 12 del 2020, cit., par. 25.2).
Siffatto nuovo termine si applica, in particolare, laddove
l’amministrazione non dia “immediata conoscenza”
degli atti di gara, in specie mediante tempestiva risposta
alla (anch’essa tempestiva) richiesta d’accesso, da evadere
entro il termine di 15 giorni (cfr. Cons. Stato, V,
20.03.2023, n. 2796; 07.02.2024, n. 1263; III, 15.03.2022,
n. 1792; V, 04.10.2022, n. 8496), e coincide con l’ordinario
termine d’impugnazione di trenta giorni, decorrente dalla
effettiva ostensione dei documenti richiesti
dall’interessata (cfr. Cons. Stato, IV, 11.11.2020, n. 6392;
V, n. 8496 del 2022, cit.; cfr. anche, per il decorso del
termine dall’evasione dell’istanza d’accesso, Id., n. 575
del 2021, cit.; 26.04.2022, n. 3197, cit.; 29.04.2022, n.
3392) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2024 n. 2882 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE:
Complessiva operazione amministrativa della stazione
appaltante e logica integrativa del risultato.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Appalto di fornitura – Logica del
risultato – Utilizzo da parte della legge di gara del
parametro del risultato – valenza integrativa – Ampliamento
del sindacato giurisdizionale.
L’utilizzo da parte della legge di
gara del parametro del risultato esplicita e conferma il
carattere immanente al sistema della c.d. amministrazione di
risultato (che la dottrina ha ricondotto al principio di
buon andamento dell’attività amministrativa, già prima
dell’espressa affermazione contenuta nell’art. 1 del decreto
legislativo, n. 36 del 2023 con specifico riferimento alla
disciplina dei contratti pubblici).
Il profilo causale del singolo provvedimento va così
analizzato alla luce del collegamento che lo avvince alla
complessa vicenda amministrativa, nell’ottica del risultato
della stessa.
L’importanza del risultato nella disciplina dell’attività
dell’amministrazione non va riguardata ponendo tale valore
in chiave antagonista rispetto al principio di legalità,
rispetto al quale potrebbe realizzare una potenziale
frizione.
Al contrario, come pure è stato efficacemente sostenuto
successivamente all’entrata in vigore del richiamato decreto
legislativo, n. 36 del 2023, il risultato concorre ad
integrare il paradigma normativo del provvedimento e dunque
ad ampliare il perimetro del sindacato giurisdizionale
piuttosto che diminuirlo, facendo transitare nell’area della
legittimità, e quindi della giustiziabilità, opzioni e
scelte che sinora si pensava attenessero al merito e fossero
come tali insindacabili.
(La sezione assume che l’applicazione al caso di specie dei
richiamati princìpi implica che l’“operazione
amministrativa” avuta di mira dalla stazione appaltante,
desunta dalla chiara indicazione in tal senso fornita dalla
legge di gara, aveva riguardo al fatto che il risultato
atteso è la fornitura in opera perfettamente funzionante
delle apparecchiature.
Ritiene, infatti, che non soddisfa certamente tale requisito
la fornitura di apparecchiature che, a fronte dell’apparente
minor costo di acquisto, implicano il necessario svolgimento
di attività materiali e giuridiche aggiuntive: le quali,
oltre ai costi relativi ai corrispettivi per l’acquisto
degli ulteriori materiali necessari al funzionamento,
comportano altresì dei costi relativi ai tempi e all’impiego
delle risorse umane necessarie per il compimento delle
relative procedure). (1)
---------------
(1) Non sussistono precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 26.03.2024 n. 2866 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Sul punto il Collegio non può non rimarcare il decisivo
riferimento contenuto nella legge di gara all’obiettivo del
“risultato”.
Pur essendo la fornitura in questione non ancora soggetta,
ratione temporis, alla disciplina di cui al d.lgs.
36/2023, l’utilizzo da parte della legge di gara del
parametro del risultato esplicita e conferma, nello
specifico procedimento per cui è causa, il carattere
immanente al sistema della c.d. amministrazione di risultato
(che la dottrina ha ricondotto al principio di buon
andamento dell’attività amministrativa, già prima
dell’espressa affermazione contenuta nell’art. 1 del citato
d.lgs. n. 36 del 2023 con specifico riferimento alla
disciplina dei contratti pubblici).
Il profilo causale del singolo provvedimento va così
analizzato alla luce del collegamento che lo avvince alla
complessa vicenda amministrativa, nell’ottica del risultato
della stessa: tanto che autorevole dottrina ha in proposito
proposto l’introduzione di “una nuova nozione, che può
essere denominata operazione amministrativa, ad indicare
l’insieme delle attività necessarie per conseguire un
determinato risultato concreto”.
L’importanza del risultato nella disciplina dell’attività
dell’amministrazione non va riguardata ponendo tale valore
in chiave antagonista rispetto al principio di legalità,
rispetto al quale potrebbe realizzare una potenziale
frizione: al contrario, come pure è stato efficacemente
sostenuto successivamente all’entrata in vigore del
richiamato d.lgs. n. 36 del 2023, il risultato concorre ad
integrare il paradigma normativo del provvedimento e dunque
ad “ampliare il perimetro del sindacato giurisdizionale
piuttosto che diminuirlo”, facendo “transitare
nell’area della legittimità, e quindi della giustiziabilità,
opzioni e scelte che sinora si pensava attenessero al merito
e fossero come tali insindacabili”.
L’applicazione al caso di specie dei richiamati princìpi
implica che l’“operazione amministrativa” avuta di
mira dalla stazione appaltante, desunta dalla chiara
indicazione in tal senso fornita dalla legge di gara, aveva
riguardo al fatto che “Il risultato atteso è la fornitura
in opera perfettamente funzionante delle apparecchiature”.
Non soddisfa certamente tale requisito la fornitura di
apparecchiature che, come accennato, a fronte dell’apparente
minor costo di acquisto implicano il necessario svolgimento
di attività materiali e giuridiche aggiuntive: le quali,
oltre ai costi relativi ai corrispettivi per l’acquisto
degli ulteriori materiali necessari al funzionamento,
comportano altresì dei costi relativi ai tempi e all’impiego
delle risorse umane necessarie per il compimento delle
relative procedure (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 26.03.2024 n. 2866 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Potere di pianificazione urbanistica degli insediamenti e
logica di bilanciata proporzionalità delle contrapposte
esigenze.
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Edilizia e urbanistica – Piano regolatore – Potere di
pianificazione urbanistica – Giudizio di proporzionalità –
Tutela dell’ambiente urbano - Razionalità dell’assetto del
territorio.
La disciplina comunitaria della
liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto
come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad
esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo,
anche tale libertà economica confrontarsi con il potere,
demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione
urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli
produttivi e commerciali, in un’ottica di bilanciata
proporzionalità delle contrapposte esigenze.
Gli atti della programmazione territoriale non sono,
infatti, esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva
servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio
del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi
verificare se, in concreto, essi perseguano effettivamente
finalità di tutela dell’ambiente urbano o siano, comunque,
riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità
all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione
autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso
restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle
imprese.
Una volta ammessa, poi, una particolare tipologia di uso
commerciale, non è legittima l’introduzione di restrizioni
quantitative al numero di esercizi, la quale non si
configura quale prescrizione meramente urbanistica, ma si
traduce in una limitazione ingiustificata e discriminatoria
della libertà di stabilimento e della libertà d’impresa
nonché in una regolazione indebita dell’offerta sul mercato.
(1)
---------------
(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. IV, n. 5394 del 2021;
Cons. Stato, sez. IV, n. 4810 del 2020, n. 2762 del 2018, n.
4810 del 2018, n. 2026 del 2017, n. 1494 del 2017; Corte
giust. UE, sez. IV, 26.11.2015, n. 345; Cons. Stato, sez. V,
16.04.2014, n. 1860; Cons. Stato, sez. IV, 13.01.2014, n.
70; Cons. Stato, sez. IV, n. 4294 del 2023 (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 25.03.2024 n. 2815 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
14. Con il secondo motivo di appello si censura la
sentenza del TAR per aver respinto la seconda e la terza
censura del ricorso di primo grado, con cui si è contestata
la legittimità dei limiti posti dalla Provincia
all’insediamento di attività commerciali nelle aree
industriali, con riferimento ai principi in materia di
liberalizzazione delle attività economiche sanciti tanto dai
decreti legge n. 70 e n. 201 del 2011 (rispettivamente conv.
in legge n. 106 e n. 214 del 2011), nonché dalla l.r. n. 49
del 2012 che ha dato attuazione al primo, quanto dalla
direttiva “Bolkestein” n. 2006/123/CE e dalla
normativa nazionale di recepimento.
15. Il motivo è fondato.
Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio
edilizio esistente, la promozione della riqualificazione
delle aree degradate e degli edifici a destinazione non
residenziale dismessi, in via di dismissione o da
rilocalizzare, nonché lo sviluppo dell’efficienza energetica
e delle fonti rinnovabili, la l.r. Abruzzo del 15.10.2012,
n. 49 (emanata per l’attuazione dell’art. 5 del d.l.
13.05.2011, n. 70, convertito in legge 12.07.2011, n. 106,
che modifica la disciplina in materia di realizzazione di
costruzioni private), all’art. 5 prevede che le modifiche
della destinazione d’uso degli immobili, realizzate anche
attraverso interventi di ristrutturazione, ampliamento o
demolizione e ricostruzione, «sono ammissibili purché si
tratti di destinazioni tra loro compatibili o
complementari», aggiungendo che, salva la possibilità per i
Comuni d’individuare ipotesi ulteriori, «sussiste
complementarietà reciproca tra le seguenti destinazioni: […]
b) destinazioni produttive quali: industriali, artigianali,
direzionale e servizi, integrabili con: commerciali di
vicinato, ricettività alberghiera ed extra-alberghiera,
cultura e comunicazione».
La legge 23.12.2014, n. 90, d’interpretazione autentica del
d.l. n. 70 del 2011, ha precisato che le agevolazioni
incentivanti previste dall’art. 5, co. 9 e 14, del decreto,
«prevalgono sulle normative di piano regolatore generale,
anche relative a piani particolareggiati o attuativi».
16. La deliberazione n. 2 del 30.01.2017, con cui il
Consiglio della Provincia dell’Aquila ha adottato la
contestata variante al Piano territoriale di coordinamento
provinciale-PTCP per la modifica del Piano regolatore
territoriale del Nucleo di sviluppo industriale del
capoluogo, al fine di recepire, con specifici criteri e
indirizzi applicativi, la l.r. n. 49 del 2012, ha stabilito,
tra l’altro, le destinazioni compatibili e complementari
rispetto a quella industriale ovvero d’interesse generale,
espressamente escludendo «nuovi insediamenti per attività
commerciali di vendita al dettaglio, ad eccezione di quelli
consentiti dall’art. 1, comma 50, della L.R. n. 11 del
16.07.2008 (vendita al dettaglio dei prodotti realizzati
dalle aziende artigianali ed industriali ivi insediate) e di
quelli ammessi con la presente Variante (un solo esercizio
di vicinato per ogni azienda)».
17. Nel caso di specie, la destinazione che la Società
vorrebbe imprimere a una porzione dell’immobile industriale
attualmente utilizzato per la macellazione, lavorazione e
vendita di carne suina, in particolare ai locali già adibiti
allo stoccaggio della merce prodotta, è commerciale, per una
superficie di 250 mq, dunque esattamente nel limite massimo
di superficie affinché un esercizio commerciale sia
considerato “di vicinato” –quantomeno nei Comuni con
popolazione superiore a 10.000 abitanti, come è notorio
essere la città dell’Aquila– ai sensi della l.r. Abruzzo n.
11 del 2008.
Tanto la delibera provinciale, quanto la determinazione del
Comune n. 55 del 07.04.2017 sono dunque in contrasto con la
l.r. n. 49 del 2012, che ha espressamente qualificato come
complementari le destinazioni produttive e gli esercizi di
vicinato, consentendo agli Enti locali d’individuare ipotesi
ulteriori ma non di escludere quelle già previste dalla
fonte primaria.
18. L’atto della Provincia viola inoltre la direttiva “Bolkestein”
e la disciplina interna di attuazione, come interpretati
dalla giurisprudenza consolidata.
In particolare, con sentenza della IV Sezione n. 5394 del
2021, che compendia i principi consolidati in questa
materia, si è osservato che «il Consiglio di Stato (ex
plurimis sez. IV, nn. 4810 del 2020, 2762 del 2018, 4810 del
2018, 2026 del 2017, 1494 del 2017), ha analizzato funditus
il rapporto tra i limiti imposti dagli atti della
pianificazione urbanistica e i principi in materia di
liberalizzazione del mercato dei servizi sanciti dalla
direttiva 123/2006/CE e dai provvedimenti legislativi che vi
hanno dato attuazione, partendo dalla premessa che la
disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere
intesa in senso assoluto come primazia del diritto di
stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque
l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica,
confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica
amministrazione, di pianificazione urbanistica degli
insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali.
La conclusione a cui si è pervenuti -e che questo Collegio
condivide- è che la questione involge tipicamente un
giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni
urbanistiche opposte dall’autorità comunale rispetto alle
effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o
afferenti all’ordinato assetto del territorio (cfr. Corte
giustizia UE, sez. IV, 26.11.2015, n. 345; sez. II,
24.03.2011, n. 400); esigenze che, per l’appunto, devono
essere sempre riconducibili a motivi imperativi di interesse
generale e non fondate su ragioni meramente economiche e
commerciali, che si pongano quale ostacolo o limitazione al
libero esercizio dell’attività di impresa che non deve
comunque svolgersi in contrasto con l’utilità sociale (in
argomento da ultimo, proprio in materia di apertura di
strutture di vendita e di rapporti fra la direttiva
12.12.2006 n. 2006/123/CE, c.d. Bolkestein, v. Corte cost.,
25.02.2016, n. 39; Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1860;
13.01.2014, n. 70)».
Più di recente, con sentenza n. 4294 del 2023 della medesima
Sezione si è precisato che «gli atti della programmazione
territoriale sono stati ritenuti dalla giurisprudenza non
esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi
per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del
potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare
se, in concreto, essi perseguano effettivamente finalità di
tutela dell’ambiente urbano o siano, comunque, riconducibili
all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del
territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa
dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni
territoriali alla libertà di insediamento delle imprese».
Applicando i principi sopra richiamati al caso di specie, ne
discende che, sebbene gli strumenti urbanistici possano
individuare la destinazione dei suoli e le varie attività
che su di essi possono esplicarsi, una volta che venga
ammessa una particolare tipologia di uso commerciale (e
nella specie la delibera appunto consente l’attività di
commercio al dettaglio) non è poi legittima l’introduzione
di restrizioni quantitative al numero di esercizi (come
appunto la limitazione «ad un solo esercizio di vicinato
per ogni azienda»), la quale non si configura quale
prescrizione meramente urbanistica, ma si traduce in una
limitazione ingiustificata e discriminatoria della libertà
di stabilimento e della libertà d’impresa e in una
regolazione indebita dell’offerta sul mercato.
19. L’appello è dunque meritevole di accoglimento e, in
riforma della sentenza di primo grado, deve essere accolto
il ricorso di primo grado e, per l’effetto, annullati gli
atti con esso impugnati, dunque la determinazione del Comune
n. 55 del 07.04.2017 e la delibera del Consiglio provinciale
n. 2 del 30.01.2017 nella parte in cui, all’interno del PRT
del Nucleo di sviluppo industriale dell’Aquila, pone limiti
al mutamento di destinazione d’uso da industriale a
commerciale, con riferimento agli esercizi di vicinato (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 25.03.2024 n. 2815 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La piscina non è mai una pertinenza e trasforma il territorio:
serve il permesso.
Il Tar Campania boccia il ricorso del proprietario contro l’ordine di
demolizione.
Per la realizzazione di una piscina serve il permesso a costruire e l’opera
non può essere intesa come pertinenza.
È uno dei motivi per i quali il TAR Campania-Napoli - Sez. VI, con la
sentenza
25.03.2024 n. 1995, ha respinto il ricorso di
una persona contro il Comune di Pozzuoli.
La vicenda era sorta quando
dall’amministrazione comunale era partita l’ingiunzione di demolizione di
opere «consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti
volumi interrati, in difetto di titolo edilizio».
Quindi il ricorso al Tar dove, tra le
altre motivazioni, viene evidenziato che a emanare l'ordinanza sarebbe
dovuto essere il sindaco e non il dirigente. Poi un altro aspetto in cui il
ricorrente sottolinea che si tratta di «opere da sempre esistenti, che
sarebbero state soltanto risistemate, con trasformazione in piscina
pertinenziale al fabbricato rurale di antica costruzione, senza alcuna
alterazione dei volumi; di qui la possibilità di realizzarla senza permesso
di
costruire e la assoggettabilità, al più, alla sanzione pecuniaria pari al
doppio
dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione
delle opere stesse».
Non solo, per il ricorrente l'amministrazione avrebbe
dovuto considerare il fatto che si trattava di una «preesistente vasca
irrigua, per motivi strettamente conservativi».
Per i giudici il ricorso non è fondato.
«L'adozione dell'ordinanza di
demolizione di opere sine titulo -sottolineano nel
primo punto- rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei
Comuni sprovvisti della qualifica, in quella
dei responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi implicitamente
abrogata ogni disposizione che faccia
riferimento alla competenza del Sindaco in materia».
Per i giudici la
realizzazione di un piscina «non può essere
intesa sotto il profilo urbanistico-edilizio come pertinenza dando luogo a
una durevole trasformazione del territorio e
non è stato fornito neppure un principio di prova che la struttura fosse
preesistente e che quindi sia stato eseguito
un intervento di manutenzione o di restauro e risanamento conservativo di
strutture già esistenti».
Nella sentenza i
magistrati ricordano anche che «ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è
funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche
allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un
cosiddetto carico urbanistico proprio in
quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale con l'edificio
principale».
Quanto poi al caso specifico
della piscina, ricordano un pronunciamento del Tar della Campania, (VI, 07.01.2022, n. 105) i giudici rimarcano
che «in particolare, quanto alla piscina, non appare ultroneo specificare
che, secondo condivisa giurisprudenza: tutti
gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del
manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di
essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non
qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in
ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella
propria dell'edificio al quale accede».
Pertanto «la realizzazione di una
piscina è
configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia nella misura in
cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed
impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire in
quanto comporta una durevole
trasformazione del territorio» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un piscina non può essere
intesa sotto il profilo urbanistico-edilizio come pertinenza
dando luogo a una durevole trasformazione del territorio.
Di nessuna pertinenza –rientrante nell’alveo dell’art. 6 del
D.P.R. 380/2001 che enuclea gli interventi che costituiscono
la c.d. “attività edilizia libera” e tra di essi, alla
lettera e), “gli elementi di arredo delle aree pertinenziali
degli edifici”- è a parlarsi nella fattispecie.
Orbene, al fine di stabilire se la piscina realizzata dalla
ricorrente sia (o meno) un elemento di arredo
“pertinenziale” (da ciò dipendendo la sua riconducibilità o
meno all’alveo dell’edilizia libera), occorre richiamare il
concetto di pertinenza rilevante ai fini urbanistici.
Secondo giurisprudenza pacifica, l’accezione civilistica di
pertinenza è più ampia di quella applicata nella materia
urbanistico-edilizia.
In particolare, si è affermato che:
“i) "la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando
sussista un oggettivo nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso servente durevole e
sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa a cui esso inerisce";
ii) "a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è
funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche
allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e
non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in
quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale
con l’edificio principale".
Nello stesso senso è stato condivisibilmente affermato che
«la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue
proprie, che la differenziano da quella civilistica dal
momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad
una oggettiva esigenza dell’edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere
anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato
comunque di un volume modesto rispetto all’edificio
principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico,
sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello
principale, incidono con tutta evidenza sull’assetto
edilizio preesistente, determinando un aumento del carico
urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di
costruire; tale criterio è stato applicato anche con
specifico riguardo alla realizzazione di una piscina
nell’area adiacente all’abitazione, la quale, in ragione
della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto
a quella propria dell’edificio al quale accede, non è
pertanto qualificabile come pertinenza in senso
urbanistico».
Con specifico riguardo, poi, alla fattispecie della piscina,
questo TAR ha ancora di recente chiarito che “in
particolare, quanto alla piscina, non appare ultroneo
specificare che, secondo condivisa giurisprudenza:
a) "tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della
volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra
di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in
quanto non qualificabile come pertinenza in senso
urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in
grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al
quale accede";
b) pertanto, “la realizzazione di una piscina è configurabile come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3
comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in
cui realizza l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed
è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R.,
in quanto comporta una durevole trasformazione del
territorio”.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del
Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad
oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in
Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune
di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive
ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020,
consistenti nella realizzazione di una piscina con i
conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente
avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente
deducendo:
...
2. Il ricorso non è fondato.
...
2.2. Il secondo e il terzo mezzo, ben
suscettibili di congiunto scrutinio, non sono fondati.
2.2.1. Non si rinvengono ragioni, invero, per deflettere
dall’orientamento già assunto in sede cautelare, per cui la
“la realizzazione di un piscina non può essere intesa
sotto il profilo urbanistico-edilizio come pertinenza dando
luogo a una durevole trasformazione del territorio (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. III 03.02.2020, n. 483) e non è stato
fornito neppure un principio di prova che la struttura fosse
preesistente e che quindi sia stato eseguito un intervento
di manutenzione o di restauro e risanamento conservativo di
strutture già esistenti”.
2.2.2. Di nessuna pertinenza –rientrante nell’alveo
dell’art. 6 del D.P.R. 380/2001 che enuclea gli interventi
che costituiscono la c.d. “attività edilizia libera”
e tra di essi, alla lettera e), “gli elementi di arredo
delle aree pertinenziali degli edifici”- è a parlarsi
nella fattispecie.
2.2.3. Orbene, al fine di stabilire se la piscina realizzata
dalla ricorrente sia (o meno) un elemento di arredo “pertinenziale”
(da ciò dipendendo la sua riconducibilità o meno all’alveo
dell’edilizia libera), occorre richiamare il concetto di
pertinenza rilevante ai fini urbanistici.
2.2.4. Secondo giurisprudenza pacifica, l’accezione
civilistica di pertinenza è più ampia di quella applicata
nella materia urbanistico-edilizia.
2.2.5. In particolare, si è affermato che:
“i) "la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile
allorquando sussista un oggettivo nesso che non consenta
altro che la destinazione della cosa ad un uso servente
durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del
manufatto rispetto alla cosa a cui esso inerisce";
ii) "a differenza della nozione di pertinenza di derivazione
civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è
funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche
allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e
non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in
quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale
con l’edificio principale" (CdS, VI, 26.04.2021, n.
3318; TAR Lazio, II, 19.11.2021, n. 11976).
Nello stesso senso è stato condivisibilmente affermato che «la
nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue
proprie, che la differenziano da quella civilistica dal
momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad
una oggettiva esigenza dell’edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere
anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato
comunque di un volume modesto rispetto all’edificio
principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico (cfr.,
ex multis, TAR Catania n. 4564/2010), sicché gli interventi
che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con
tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente,
determinando un aumento del carico urbanistico, devono
ritenersi sottoposti a permesso di costruire (TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 10.05.2018, n. 3115); tale criterio è
stato applicato anche con specifico riguardo alla
realizzazione di una piscina nell’area adiacente
all’abitazione, la quale, in ragione della funzione autonoma
che è in grado di svolgere rispetto a quella propria
dell’edificio al quale accede, non è pertanto qualificabile
come pertinenza in senso urbanistico (TAR Campania, Napoli
sez. III, 30.03.2018 n. 2033; TAR Campania, Napoli, sez. III,
11.01.2018, n. 194; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
16.03.2017, n. 1503)» (TAR Campania, II, 30.05.2018, n.
3569).
2.2.6. Con specifico riguardo, poi, alla fattispecie della
piscina, questo TAR ha ancora di recente chiarito (TAR
Campania, VI, 07.01.2022, n. 105) che “in particolare,
quanto alla piscina, non appare ultroneo specificare che,
secondo condivisa giurisprudenza:
a) "tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della
volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra
di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in
quanto non qualificabile come pertinenza in senso
urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in
grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al
quale accede" (cfr. TAR Campania, Napoli, VII, n.
3358/2018);
b) pertanto, “la realizzazione di una piscina è configurabile come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3
comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in
cui realizza l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed
è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R.,
in quanto comporta una durevole trasformazione del
territorio” (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 14/11/2011, n.
5316)”.
2.2.7. In ossequio ai superiori principi, pertanto, ben può
dirsi che l’opera abusiva contestata nel caso di specie (id
est la realizzazione di una piscina adiacente
all’edificio di proprietà della ricorrente) –lungi dal
costituire una mera pertinenza urbanistica– rientra
certamente nella categoria della ristrutturazione edilizia,
tenuto conto della sua autonoma funzionalità, nonché del suo
autonomo valore di mercato e della sua intrinseca attitudine
a trasformare in modo durevole il territorio.
2.2.8. Né può rilevare la labiale allegazione di parte
ricorrente circa la mera “risistemazione” di
manufatti preesistenti.
2.2.9. Ora, costituisce dato pacifico quello in forza del
quale, l'onere della prova circa la effettiva natura ed
entità dei lavori, nonché circa la effettiva natura e
dimensione delle preesistenti opere su cui i nuovi
interventi impattano, grava in capo al soggetto che allega
di avere realizzato essi lavori e allega le ridette
preesistenze; trattandosi di soggetto nella cui sfera di
signoria, quale responsabile dell’abuso o proprietario,
ricade la condotta e il bene immobile su cui insiste (TAR
Campania, VI, 26.06.2020, n. 2680; CdS, II, 30.04.2020, n.
276; CdS, VI, 24.01.2020, n. 588).
2.2.10. E ciò anche in ossequio al cd. “principio di
vicinanza della prova”, in forza del quale è
ragionevolmente esigibile da chi ha posto in essere le opere
la produzione di evidenze documentali atte a comprovare la
natura di esse opere, anche attraverso riferimenti alla
effettiva consistenza dell’immobile, sia ex ante che
ex post (TAR Campania, VI, 28.05.2020, n. 2043; TAR
Lombardia, I, 26.09.2018, n. 2143) e la epoca di
realizzazione.
2.2.11. Si è all’uopo rimarcato, con statuizioni rese in
tema di condono edilizio ma che ben si attagliano anche alla
fattispecie in esame, che “ai fini della concessione del
condono edilizio, l'Amministrazione, pur dovendo sempre
espletare un'istruttoria adeguata anche relativamente
all'epoca della edificazione (onde individuare il regime
giuridico di riferimento), non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l'irrogazione della sanzione,
(anche) prova certa dell'epoca di realizzazione dell'abuso.
Ricade, infatti, in capo al proprietario (o al responsabile
dell'abuso) l'onere di provare la data di ultimazione (con
difforme destinazione d'uso) delle opere edilizie, dal
momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili
atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione
di un manufatto. In difetto di tali prove, resta integro il
potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria
dell'abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione
demolitoria (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. IV,
03/02/2017, n. 463; Consiglio di Stato, sez. IV, 15/06/2016,
n. 2626; Consiglio di Stato, sez. VI, 27/07/2015, n. 3666)”
(CdS, VI, 27.03.2018, n. 1927).
Nella fattispecie nessun principio di prova è stato fornito
dalla parte ricorrente, tale da incrinare gli acclaramenti
operati dagli uffici comunali.
2.2.12. Quanto alla censura concernente la mancata
applicazione della sanzione pecuniaria, va quivi richiamato
quanto costantemente affermato in subiecta materia,
per cui:
- “l'applicabilità della sanzione pecuniaria, in deroga alla
regola generale della demolizione, propria degli illeciti
edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva
impossibilità di procedere alla demolizione delle parti
difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze
materiali, sulla stabilità dell'intero edificio. Inoltre,
l'applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può
essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva
dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un
motivato accertamento tecnico” (CdS, VI, 10.01.2020, n.
254);
- “la valutazione circa la possibilità di dare corso alla
applicazione della sanzione pecuniaria a fronte di una opera
abusiva in luogo di quella ripristinatoria costituisce una
mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla
ingiunzione a demolire, con la conseguenza che la mancata
valutazione della possibile applicazione della sanzione
pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio
dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase
riguardante l'accertamento delle conseguenze derivanti
dall'omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e
della verifica dell'incidenza della demolizione sulle opere
non abusive, dimodoché la verifica di cui all'art. 33, comma
2, d.P.R. n. 380 del 2001 va compiuta su segnalazione della
parte privata durante la fase esecutiva e non
dall’Amministrazione procedente all'atto dell'adozione del
provvedimento sanzionatorio” (CdS, II, 2403.2021, n.
2493; Id., VI, 13.05.2021, n. 3783);
- “le disposizioni dell’art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001 devono
essere interpretate nel senso che la possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria
debba essere valutata dall'amministrazione competente nella
fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma
rispetto all'ordine di demolizione” (TAR Campania, II,
06.02.2023, n. 833) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza
25.03.2024 n. 1995 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce dato affatto ricevuto quello in virtù
del quale “L’adozione dell'ordinanza di demolizione di opere
sine titulo rientra nella competenza del dirigente comunale
ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei
responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi
implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia
riferimento alla competenza del Sindaco in materia”, a nulla
potendo per certo rilevare la assenza di disposizioni
attuative in tal senso dello statuto comunale ovvero di
matrice regolamentare, discendendo tale attribuzione
direttamente dalla legge, e ciò già con l’art. 2, comma 12,
l. 16.06.1998 n. 191.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del
Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad
oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in
Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune
di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive
ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020,
consistenti nella realizzazione di una piscina con i
conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente
avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente
deducendo:
...
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Va in primo luogo scrutinato il primo mezzo che,
in ossequio all’indefettibile ordo quaestionum (CdS,
a.p. 5/15) che connota il processo amministrativo ed a
prescindere da una eventuale volontà di graduazione della
parte ricorrente (volontà peraltro, nella fattispecie, non
mai disvelatasi), assume carattere preliminare, ponendo
questioni di incompetenza e di mancato esercizio del potere
da parte dell’organo competente a rendere un parere, che nel
caso che ne occupa dovrebbe individuarsi nella commissione
edilizia.
2.1.1. Il mezzo non è fondato.
2.1.2. E, invero, costituisce dato affatto ricevuto quello
in virtù del quale “L’adozione dell'ordinanza di
demolizione di opere sine titulo rientra nella competenza
del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della
qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e
servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni
disposizione che faccia riferimento alla competenza del
Sindaco in materia”, a nulla potendo per certo rilevare
la assenza di disposizioni attuative in tal senso dello
statuto comunale ovvero di matrice regolamentare,
discendendo tale attribuzione direttamente dalla legge, e
ciò già con l’art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191 (TAR
Campania, IV, 04.07.2019, n. 3700; Id. VI, 01.02.2019, n.
537; Id., id., 06.03.2018, n. 1416) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza
25.03.2024 n. 1995 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che
verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non
costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di
demolizione, giusta l’inveterato insegnamento per cui
l’omessa, puntuale, indicazione dell'area suscettibile di
essere acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in
caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai
vale a minare la validità ed efficacia dell’ordine di
demolizione.
La ingiunzione a demolire -indirizzata al trasgressore,
ovvero al proprietario dell’area- è direttamente finalizzata
al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90
giorni.
La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere,
della relativa area di sedime e dell'area di pertinenza
urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza
discendente ex lege ed ex post dalla inottemperanza
all’ordine impartito; la puntuale individuazione e
delimitazione della effettiva latitudine di tale effetto
legale di ablazione, indi, ben può essere oggetto di
successive certazioni ad opra della Autorità.
---------------
Costituisce dato pacifico quello in forza del quale ai fini
dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi
edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è
necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
Nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu intesa
può affliggere il gravato provvedimento di ingiunzione a
demolire trattandosi di atto che -certando la esistenza di
un illecito edilizio, ed irrogando la relativa sanzione-
necessita di giustificazione, più che di motivazione,
consistente:
- nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione delle
opere e degli interventi edilizi;
- nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli
necessitanti di un titolo abilitativo;
- nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza
del prescritto provvedimento abilitante.
Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale i
provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto
espressione di actio vincolata nel contenuto, non
abbisognano di specifica motivazione -intesa come
estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse
pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto,
all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in
giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est della
certazione della esistenza di attività edilizia realizzata
in dispregio delle regole.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del
Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad
oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in
Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune
di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive
ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020,
consistenti nella realizzazione di una piscina con i
conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente
avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente
deducendo:
...
2.3. Anche il quarto mezzo non è fondato.
2.3.1. L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà
acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce
motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione,
giusta l’inveterato insegnamento per cui l’omessa, puntuale,
indicazione dell'area suscettibile di essere acquisita
gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di
inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai vale a
minare la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione (ex
pluribus, Tar Campania, VI, 02.02.2021, n. 697; TAR
Lombardia, II, 03.01.2023, n. 54).
2.3.2. La ingiunzione a demolire -indirizzata al
trasgressore, ovvero al proprietario dell’area- è
direttamente finalizzata al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di 90 giorni.
2.3.3. La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle
opere, della relativa area di sedime e dell'area di
pertinenza urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza
discendente ex lege ed ex post dalla
inottemperanza all’ordine impartito; la puntuale
individuazione e delimitazione della effettiva latitudine di
tale effetto legale di ablazione, indi, ben può essere
oggetto di successive certazioni ad opra della Autorità (TAR
Campania, VI, 18.07.2023, n. 4380).
2.3.4. Tutt’affatto irrilevanti, di poi, si appalesano gli
adombrati dubbi di costituzionalità della norma che ne
occupa, di poi, giusta la pluriennale giurisprudenza
formatasi in subiecta materia.
2.4. Anche il quinto mezzo, con cui si veicolano
censure afferenti alla asserita violazione delle prerogative
di partecipazione procedimentale spettanti alla ricorrenti,
non è fondato, atteso che, siccome si è avuto modo di
illustrare supra in sede di negativo scrutinio dei
motivi “afferenti al merito”, il contenuto
dispositivo dell’impugnato provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso.
2.4.1. La certazione giudiziale della legittimità della
azione provvedimentale quivi censurata rende irrilevante la
(asserita) pretermissione procedimentale, attesa la
inidoneità di un qualsiasi apporto collaborativo a
determinare una differente conclusione della vicenda (TAR
Campania, VI, 20.07.2020, n. 3210; TAR Lombardia, I,
26.09.2018, n. 2145).
2.4.2. La ricaduta patologica di tale lamentata violazione “formale
e/o procedimentale” è quindi sterilizzata
dall’applicazione dell’art. 21-octies della legge 241/1990,
norma che ben si attaglia anche alla omessa comunicazione di
avvio del procedimento finalizzato alla adozione della
ingiunzione a demolire.
2.4.3. D’altra parte, costituisce dato pacifico quello in
forza del quale ai fini dell’adozione di provvedimenti
sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata
degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione
dell’avvio del procedimento (TAR Campania, VI, 10.08.2020,
n. 3560; CdS, VI, 12.05.2020, n. 2980; CdS, VI, 11.03.2019,
n. 1621).
2.5. Quanto alla ultima censura di carenza
motivazionale, è sufficiente il rilevare, sul punto, che
nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu
intesa può affliggere il gravato provvedimento di
ingiunzione a demolire trattandosi di atto che -certando la
esistenza di un illecito edilizio, ed irrogando la relativa
sanzione- necessita di giustificazione, più che di
motivazione (TAR Campania, VI, 31.05.2023, n. 3329),
consistente:
- nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione
delle opere e degli interventi edilizi;
- nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli
necessitanti di un titolo abilitativo;
- nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza
del prescritto provvedimento abilitante (TAR Campania, VI,
18.07.2023, n. 4380).
2.5.1. Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale
i provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto
espressione di actio vincolata nel contenuto, non
abbisognano di specifica motivazione -intesa come
estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse
pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto,
all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in
giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est
della certazione della esistenza di attività edilizia
realizzata in dispregio delle regole (TAR Campania, VI,
10.08.2020, n, 3560, cit.; Id., id., 22.05.2020, n. 1939) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
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EDILIZIA PRIVATA:
Distanze, obbligo del rispetto anche se c’è una sola parete
finestrata.
La Cassazione ricorda che la ratio della norma del Dm 1444/1968 non mira a
tutelare solo la riservatezza ma anche e soprattutto la salute pubblica.
L’obbligo di rispettare le distanze minime fissate dal Dm 1444/1968 -e più in
particolare la distanza minima di 10 metri tra le pareti finestrate- va
applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano
sia finestrata.
----------------
Costituisce principio consolidato quello secondo il
quale in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 cod. civ.,
il condono edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti
pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti
tra privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela
ripristinatoria apprestata dall'art. 872 cod. civ. per le violazioni delle
distanze previste dal codice civile e dalle norme regolamentari integratrici.
Invero, la sanatoria o il condono degli illeciti
urbanistici, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, esplicano
i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici
-amministrativi, penali e/o fiscali- e non hanno alcuna incidenza nei
rapporti fra privati, lasciando impregiudicati i diritti dei privati
confinanti derivanti dalla eventuale violazione delle distanze legali
previste dal codice civile e dalla norme regolamentari di esse integratrici.
Ed ancora, l'obbligo di rispettare le distanze legali
-previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non
soltanto a tutela dei proprietari frontisti ma anche per finalità di
pubblico interesse- deve essere osservato a maggior ragione nel caso di
costruzioni abusive, anche se sia intervenuta la relativa sanatoria
amministrativa, i cui effetti sono limitati al campo pubblicistico e non
pregiudicano i diritti dei terzi; pertanto, il proprietario del fondo
contiguo, leso dalla violazione delle norme urbanistiche, ha comunque il
diritto di chiedere ed ottenere l'abbattimento o la riduzione a distanza
legale della costruzione illegittima nonostante sia intervenuto il condono
edilizio.
Peraltro, l’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968
–traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell’art. 41-quinquies l. n.
1150 del 1942 e prescrivendo, per la zona A, quanto alle operazioni di
risanamento conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze
tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti–, rappresenta una disciplina
integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui
rapporti interprivatistici, sicché, sia in caso di adozione di strumenti
urbanistici contrastanti con l’art. 9 citato, sia in presenza di
disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l’obbligo per il
giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art.
873, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato
oltre i limiti, ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente
volume edilizio, o all’integrale eliminazione della nuova edificazione,
qualora invece non sussista alcun preesistente volume.
Inoltre, le norme contenute nei regolamenti edilizi che
stabiliscono le distanze fra le costruzioni e di esse dal confine sono volte
non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici
frontistanti ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la
densità degli edifici in relazione all'ambiente, finalità quest'ultima che
viene realizzata dalle norme regolamentari stabilendo una distanza tra le
costruzioni superiore a quella prevista dall'art. 873 cod. civ., in cui ciò
che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro
fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono; ne
consegue che una convenzione tra le parti che deroghi alle norme sulle
distanze previste nel regolamento edilizio è senz'altro invalida,
trattandosi di norme inderogabili perché non si limitano a disciplinare i
rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare anche interessi
generali.
---------------
Secondo la giurisprudenza
di legittimità, in tema di distanze legali nelle
costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei
regolamenti edilizi, essendo dettate -contrariamente a quelle del codice
civile- a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello
urbanistico, non sono derogabili dai privati: di qui l'invalidità -anche nei
rapporti interni- delle convenzioni stipulate fra proprietari confinanti le
quali si rivelino in contrasto con le norme urbanistiche in materia di
distanze.
---------------
L’obbligo del rispetto della distanza minima
assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti deve
essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si
fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata, non
alla tutela della riservatezza ma alla salvaguardia dell’interesse
pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici
antistanti, quando uno dei due abbia una parete finestrata.
---------------
3. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli artt.
9 d.m. n. 1444/1968 e 872 cod. civ.
Si sostiene l’erroneità della sentenza impugnata, la quale aveva affermato
che il rispetto della distanza minima assoluta tra fabbricati rispondeva a
esigenze pubblicistiche non derogabili, così da evitare il formarsi di
intercapedini, senza tenere conto dell’acquisito condono edilizio, che
aveva, a dire dei ricorrenti, <<valutato e ridimensionato, ovvero
annullato>> l’interesse pubblico in discorso.
3.1. Il motivo è infondato.
Costituisce principio consolidato quello secondo il quale in tema di
distanze nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 cod. civ., il condono
edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra
P.A. e privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti tra privati, i
quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria
apprestata dall'art. 872 cod. civ. per le violazioni delle distanze previste
dal codice civile e dalle norme regolamentari integratrici (tra le tante, v.
Sez. Sez. 2, n. 3031, 06/02/2009, Rv. 606558).
Si era già in precedenza chiarito che la sanatoria o il condono degli
illeciti urbanistici, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore,
esplicano i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici
-amministrativi, penali e/o fiscali- e non hanno alcuna incidenza nei
rapporti fra privati, lasciando impregiudicati i diritti dei privati
confinanti derivanti dalla eventuale violazione delle distanze legali
previste dal codice civile e dalla norme regolamentari di esse integratrici
(Sez. 2, n. 12966, 31/05/2006, Rv. 592543).
Ed ancora, l'obbligo di rispettare le distanze legali -previste dagli
strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei
proprietari frontisti ma anche per finalità di pubblico interesse- deve
essere osservato a maggior ragione nel caso di costruzioni abusive, anche se
sia intervenuta la relativa sanatoria amministrativa, i cui effetti sono
limitati al campo pubblicistico e non pregiudicano i diritti dei terzi;
pertanto, il proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle
norme urbanistiche, ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere
l'abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione
illegittima nonostante sia intervenuto il condono edilizio (Sez. 2, n. n.
18728, 26/09/2005, Rv. 584791).
Peraltro, l’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968 –traendo la sua forza
cogente dai commi 8 e 9 dell’art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 e
prescrivendo, per la zona A, quanto alle operazioni di risanamento
conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli
edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti–, rappresenta una disciplina integrativa dell’art.
873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui rapporti interprivatistici,
sicché, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con
l’art. 9 citato, sia in presenza di disposizioni di divieto assoluto di
costruire, sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione
alla disposizione integrativa dell’art. 873, mediante condanna
all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti, ove il
costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, o
all’integrale eliminazione della nuova edificazione, qualora invece non
sussista alcun preesistente volume (Sez. 2,
23.01.2018 n. 1616, Rv. 647082).
3.2. Sotto altro profilo deve rilevarsi che le norme contenute nei
regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze fra le costruzioni e di
esse dal confine sono volte non solo ad evitare la formazione di
intercapedini nocive fra edifici frontistanti ma anche a tutelare l'assetto
urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione
all'ambiente, finalità quest'ultima che viene realizzata dalle norme
regolamentari stabilendo una distanza tra le costruzioni superiore a quella
prevista dall'art. 873 cod. civ., in cui ciò che rileva è la distanza in sé
delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal
dislivello dei fondi su cui insistono; ne consegue che una convenzione tra
le parti che deroghi alle norme sulle distanze previste nel regolamento
edilizio è senz'altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perché non
si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano
a tutelare anche interessi generali (Sez. 2,
n. 19449, 28/09/2004, Rv. 578209; ma già prima, Cass. nn. 12894/1999 e
4366/2001).
L’indirizzo risulta essere stato, successivamente reiteratamente confermato.
Con la decisione n. 27373/2021 si è approfonditamente fatto nuovamente il
punto.
Appare utile riprenderne il passaggio motivazionale saliente, di evidente
chiarezza: <<Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti,
in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni
contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi, essendo dettate
-contrariamente a quelle del codice civile- a tutela dell'interesse generale
a un prefigurato modello urbanistico, non sono derogabili dai privati: di
qui l'invalidità -anche nei rapporti interni- delle convenzioni stipulate
fra proprietari confinanti le quali si rivelino in contrasto con le norme
urbanistiche in materia di distanze
(Cass., Sez. II, 04.02.2004, n. 2117; Cass., Sez. III, 22.03.2005, n. 6170;
Cass., Sez. II, 23.04.2010, n. 9751).
Questo indirizzo è stato ribadito, successivamente alla proposizione del
presente ricorso, da Cass., Sez. II, 18.10.2018, n. 26270, da Cass., Sez. II,
20.05.2019, n. 13513, e da Cass., Sez. II, 02.09.2020, n. 18218.
Né questo approdo è in contrasto con quanto statuito da Cass., Sez. II,
22.02.2010, n. 4240, con riguardo alla usucapibilità della servitù avente ad
oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella
fissata dalle norme inderogabili degli strumenti urbanistici locali.
Infatti, la usucapibilità del diritto a tenere un immobile a distanza
inferiore a quella legale non equivale alla stipula pattizia di una deroga
in tal senso, perché risponde all'esigenza ulteriore della stabilità dei
rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo.
In sostanza, altro è incidere sui poteri pubblici, o consentire una
generalizzata derogabilità, il che può cagionare effetti lesivi permanenti
dell'interesse generale tutelato; altro è ammettere che operi il fenomeno
dell'usucapione. Esso vale soltanto a riportare il meccanismo di
contemperamento dei diritti soggettivi nell'alveo ordinario previsto dal
legislatore, escludendo la sussistenza, nel circoscritto ambito della
proprietà immobiliare, di diritti soggettivi a tutela rafforzata>>.
4. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 cod.
proc. civ., in quanto, si afferma, la condanna si sarebbe potuta risolvere
in una trasformazione delle finestre in luci. Ciò era stato evidenziato con
l’impugnazione, ma la Corte territoriale non aveva reso risposta.
4.1. La doglianza è priva di fondamento.
È pur vero che la Corte d’appello non ha pronunciato espressamente sul
punto.
Tuttavia, dal complesso argomentativo della decisione si trae la piena
consapevolezza del Giudice che la manifestata disponibilità a trasformare le
vedute in luci, al fine di evitare l’arretramento del fabbricato, non poteva
in alcun modo essere presa in considerazione, stante che la regola dettata
dal d.m. n. 1444/1968 fa riferimento alla sussistenza anche della parete
finestrata su uno solo dei due fabbricati e, nel caso in esame, la Corte
locale, con accertamento in fatto, in questa sede non riesaminabile, ha
verificato che l’immobile attoreo è dotato di finestre.
A pag. 4, p. 4, la sentenza, dopo avere puntualizzato che <<l’obbligo
del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti deve essere applicato anche nel caso in cui
una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la
norma in esame è finalizzata, non alla tutela della riservatezza ma alla
salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata
intercapedine tra gli edifici antistanti, quando uno dei due abbia una
parete finestrata>>, ha
puntualmente richiamato la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass.
nn.
19.02.2019 n. 4834, 5017/2018, 13547/2011, S.U. n. 14953/2011) (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
ordinanza 22.03.2024 n. 7744). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di centro abitato e sua rilevanza urbanistica.
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Edilizia e urbanistica – Centro abitato – Individuazione
– Codice della strada – Strumenti – Differenza.
La nozione di centro abitato trova
riscontro nell’art. 3 del nuovo codice della strada, che, in
un’ottica finalistica di diversificazione delle regole di
circolazione stradale, lo identifica in un “insieme di
edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi
segnali di inizio e fine”.
Lo stesso va, dunque, individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e
vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché
intervallato da strade, piazze, giardini o simili.
La sua rilevanza urbanistica discende, peraltro, dalla legge
n. 765 del 1967 (cosiddetta legge ponte) che, introducendo
l’art. 41-quinquies nella l. n. 1150 del 1942, lo utilizza
quale concetto per disciplinare l’edificazione nei comuni
privi di piano regolatore o di programma di fabbricazione e,
quindi, dal d.m. 01.04.1968, n. 1404, in ordine alle
distanze dell’edificazione dal nastro stradale. (1)
---------------
(1) Precedenti in senso conforme: Cons. Stato, sez. IV, 19.08.2016,
n. 3656.
In senso difforme: Cons. Stato,
sez. II, 17.06.2020, n. 3900; Cons. Stato, sez. IV,
11.03.1999
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.03.2024 n. 2798 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
10. Nel merito, l’appello è fondato.
11. Punto essenziale della vicenda è la chiusura di un vano,
già utilizzato come corridoio d’accesso, successivamente
adibito a rimessaggio a servizio del ristorante.
12. Rileva il Collegio come la difesa civica non neghi
affatto la preesistenza volumetrica, ma pretenda di
dequotarne la sussistenza in ragione dell’originaria
finalizzazione, sicché solo la nuova tipologia di utilizzo
avrebbe reso il locale “volume autonomo”.
La tesi non può essere condivisa. Il volume di un edificio,
infatti, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è
costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal
perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze
effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio
sovrastante. L’inclusione nella stessa di un determinato
locale, dunque, prescinde dalla finalizzazione dello stesso
a mero transito per accedere ad altre stanze, ovvero, una
volta venuta meno ridetta necessità, a magazzino/deposito.
La destinazione d’uso, infatti, ammesso e non concesso possa
assumere rilievo quella di una porzione del manufatto
comunque a servizio dell’intero, non implica certo la
decurtazione dal computo, ovvero la sua inclusione solo in
ragione di ridetta mutata finalizzazione.
13. Chiarito quanto sopra, il Collegio reputa dirimente
individuare la data di realizzazione dell’immobile nella sua
consistenza finale, comprensiva del corridoio, comunque lo
si voglia denominare e a prescindere dalla sua concreta
utilizzazione.
Al riguardo, la giurisprudenza ha da sempre affermato che
l’obbligo di comprovare la preesistente consistenza di un
immobile all’epoca di edificazione libera grava sulla
proprietà. Il privato, cioè, è onerato a provare la data di
realizzazione dell’intervento edilizio, non solo per poter
fruire del beneficio di una sanatoria, ma anche -in
generale- per potere escludere la necessità del previo
rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione di
opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del
regime amministrativo autorizzatorio dello ius
aedificandi.
Solo il privato, infatti, può fornire (in quanto
ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o
altri elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del
manufatto, mentre l’amministrazione non può, in via
generale, materialmente accertare quale fosse la situazione
all’interno del suo territorio negli anni precedenti al 1967
(cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2019,
n. 903; id., 04.03.2019, n. 1476; 20.04.2020, n. 2524;
09.06.2023, n. 5668).
Come è noto, infatti, solo con l’art. 10 della l. n.
765/1967 (entrata in vigore il 01.09.1967), l’obbligo di
licenza edilizia è stato esteso a tutti gli interventi
edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti,
modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere
di urbanizzazione) eseguiti sull’intero territorio comunale.
In precedenza, l’art. 31, comma 1, della l. n. 1150 del 1942
lo prevedeva solo per certi interventi edilizi e
limitatamente ad alcune zone territoriali, ovvero, per
quanto qui di interesse, i centri abitati e, ove esisteva il
piano regolatore comunale, anche le zone di espansione ivi
espressamente indicate, salvo quanto dettato per altre zone
o per tutto il territorio comunale dal Regolamento edilizio,
accompagnato o meno dal Programma di fabbricazione comunale.
14. Al fine di agevolare la prova di tale stato legittimo
dell’immobile, laddove si tratti di manufatti che insistono
in loco da molti anni, il legislatore ha introdotto il comma
2-bis nell’art. 9-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (d.l. n. 76
del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120 del
2020), che consente di attingere ai titoli abilitativi
relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche
alle sue successive vicende trasformative.
15. Nel caso di specie, è documentato che il corridoio
preesistesse al 1967.
La sentenza del Tribunale di Bari n. 1853 del 2023, i cui
esiti sono richiamati anche dalla difesa civica, afferma
espressamente che il volume di cui è causa «[…]
costituito essenzialmente da mura perimetrali, volte e due
portoni in ferro risulta presente in catasto
approssimativamente dal 1953, tempo in cui l’immobile era in
proprietà alla sig.ra Porcelli Nicoletta fu Francesco che
acquista in data 03/03/1953 rep. n. 14547 come accertato a
suo tempo dal tecnico del Catasto a seguito di sopralluogo (cfr.
rif. Mod. 5) per una superficie di circa 34.25 mq.».
Ciò trova conferma in tutte le indicazioni catastali
dettagliatamente evocate da parte appellante, nonché nella
rappresentazione dello stato dei luoghi al momento della
presentazione dell’istanza di rilascio della concessione
edilizia del 2000.
15.1. Il Comune ritiene tuttavia di trarre la prova dell’abusività
dell’opera dalla mancata produzione della licenza edilizia
che comunque sarebbe stata necessaria per chiudere il
corridoio, giusta l’insistenza dell’immobile nel “borgo
antico”.
Affermazione questa che avrebbe potuto avere una qualche
plausibilità ove fosse stato versato in atti il titolo
originario in forza del quale è stato realizzato il
fabbricato, con conseguente prova dell’apertura verso la
strada del corridoio, e quindi, indirettamente, della sua
chiusura solo in epoca successiva.
Diversamente, non è dato comprendere da quale circostanza,
anche fattuale, la difesa civica evinca che la chiusura sia
sopravvenuta e non originaria, e che solo per la stessa
sarebbe stata necessaria una licenza aggiuntiva.
16. Del resto, neppure è stata data prova che per quella
zona la «licenza del podestà» fosse davvero
necessaria a far data dal 1942, stante che l’ubicazione del
fabbricato nel c.d. “borgo antico” non implica
affatto la sua riconduzione a ciò che, secondo le
indicazioni pianificatorie dell’epoca, doveva essere
perimetrato come centro abitato.
17. Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
precisare (Cons. Stato, sez. IV, 19.08.2016, n. 3656), la
definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini
univoci, per cui occorre far riferimento a criteri empirici
elaborati dalla giurisprudenza.
Esso trova ora riscontro nell’art. 3 del c.d. nuovo codice
della strada, che lo identifica in un «insieme di
edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi
segnali di inizio e fine», che tuttavia nasce per
esigenze di diversificazione delle regole di circolazione
stradale. Va dunque individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e
vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché
intervallato da strade, piazze, giardini o simili.
La sua rilevanza urbanistica discende dalla legge n. 765 del
1967 (cosiddetta legge ponte) che introducendo l’art.
41-quinquies nella l. n. 1150 del 1942, lo utilizza quale
concetto per disciplinare l’edificazione nei comuni privi di
piano regolatore o di programma di fabbricazione e, quindi,
dal D.M. 01.04.1968, n. 1404, in ordine alle distanze
dell’edificazione dal nastro stradale.
Non risponde dunque al preciso disposto del richiamato art.
41-quinquies, comma 6, della l. 17.08.1942, n. 1150,
assimilare ciò che nel lessico comune fa pensare
all’originario nucleo abitato (il “borgo antico”,
appunto), alla necessaria perimetrazione di una zona
espressamente richiesta dalla legge. Scolorano quindi le
considerazioni del Comune di Bari sull’irrilevanza della
vetustà della chiusura, in quanto non risulta affatto
provata la necessita del titolo edificatorio in quella zona
del Comune di Bari sin dal 1942, ammesso e non concesso essa
sia sopravvenuta alla realizzazione originaria del
manufatto.
18. Anche a non voler dare rilievo ai dati catastali, la
concessione edilizia n. 550/2000 del 23.04.2001, rilasciata
ai signori Giovanni Spizzico e Angela Ranieri per la
ristrutturazione con cambio di destinazione d’ uso e fusione
di due unità immobiliari, a piano terra, rappresenta
chiaramente l’esistenza del corridoio chiuso.
In particolare, esso risulta nell’elaborato grafico di
rilievo dello stato dei luoghi come corridoio coperto di
accesso e nell’elaborato di progetto come trasformazione da
corridoio di accesso in locale di deposito e passaggio di
servizio, ad uso esclusivo del locale commerciale, nonché
nella relazione tecnico-descrittiva dei lavori.
Né può assumere rilievo contrario il fatto che esso non sia
graficizzato nella successiva d.i.a. n. 2730/2001 del
13.09.2001, favorevolmente esaminata dall’Amministrazione in
data 15 ottobre 2001, in quanto avente ad oggetto interventi
di manutenzione ordinaria e straordinaria all’interno delle
predette unità immobiliari, tra le quali non rientra la
riapertura del vano mediante rimozione del portone.
19. Per quanto sopra detto, l’appello va accolto e per
l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la
Puglia n. 552 del 2023, va accolto il ricorso di primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 22.03.2024 n. 2798 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
È illegittima l’ordinanza che impone l’affissione del
crocifisso in tutti gli edifici pubblici.
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Atto amministrativo - Provvedimenti di urgenza -
Ordinanze contingibili e urgenti – Ordine di immediata
affissione del crocifisso in tutti gli edifici pubblici –
Presupposti – Esclusione - Illegittimità per difetto di
attribuzione.
È illegittimo per difetto di
attribuzione l’ordinanza contingibile e urgente adottata da
un sindaco che ordina l’immediata affissione del crocifisso
in tutti gli edifici pubblici con l’urgenza di “preservare
le attuali tradizioni ovvero mantenere negli edifici
pubblici …la presenza del crocifisso quale simbolo
fondamentale dei valori civili e culturali del nostro
paese”, non ravvisandosi alcuno dei presupposti che
giustificano l’adozione di tale tipologia di provvedimento
(1).
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(1) Precedenti conformi: in generale, sui caratteri delle ordinanze
contingibili e urgenti, Cons. Stato, sez. V, 20.02.2012, n.
904. Sulla necessità dei presupposti dell’urgenza e della
contingibilità per l’adozione di ordinanze contingibili e
urgenti, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.06.2017, n.
2847; Cons. Stato, sez. II, 11.07.2020, n. 4474.
Precedenti difformi: non si
ravvisano precedenti difformi (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 18.03.2024 n. 2567 -
commento tratto da e link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Vigili urbani, l’incarico di comandante è riservato ai dipendenti
della municipale.
Si tratta di mansioni di una certa delicatezza che non sono abilitati a
svolgere funzionari e dirigenti di altri settori “ordinari” dell’ente.
La norma che ha reso possibile il conferimento di incarichi dirigenziali
anche ai dirigenti della polizia municipale non consente il contrario, ossia
che dirigenti esterni ai ruoli della municipale possano diventarne
comandanti.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
15.03.2024 n. 2518.
Il caso
Un dipendente comunale con il profilo professionale di
istruttore direttivo di vigilanza ha impugnato la determinazione con la
quale il
dirigente ad interim della Polizia municipale lo ha nominato responsabile
dell'ufficio supporto operativo e il decreto con cui il sindaco ha conferito
l'incarico di comandante ad interim al dirigente dell'Avvocatura comunale.
Ha contestato che secondo la normativa statale e regionale il ruolo di
comandante della municipale può essere attribuito solo a personale
inquadrato nei ruoli del Corpo o Servizio ed è incompatibile con lo
svolgimento di altre funzioni o incarichi.
Il Tar ha dichiarato fondato il
ricorso
recependo l'istanza secondo cui il ruolo di comandante può essere attribuito
solo a personale inquadrato nei ruoli della polizia locale e a tale regola
non
deroga l'articolo 1, comma 221, della legge 208/2015, che consente al
personale della Polizia municipale di assumere l'incarico di dirigente di
altri settori del comune, ma non consente ai
dirigenti comunali di assumere il ruolo di comandante della municipale.
Gli
incarichi
L'appello proposto dal Comune
viene ora rigettato dalla quinta sezione del Consiglio di Stato, che rileva
la carenza di potere dirigenziale in quanto la
funzione di comandante dei vigili urbani può essere assunta soltanto da
personale dei ruoli della stessa, come
espressamente previsto dalla legge regionale, la cui ratio risiede nel fatto
che il personale dei ruoli della municipale
viene originariamente reclutato con certi criteri e secondo determinati
profili professionali e formativi tali da poter
svolgere funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale.
Mansioni che i giudici di Palazzo Spada
giudicano «di una certa delicatezza che non sono abilitati a svolgere
funzionari e dirigenti di altri settori ordinari
dell'ente».
Del resto, affermano, in caso di assenza o impedimento del
comandante può sopperire solo il vice oppure,
in assenza anche di quest'ultimo, il personale comunque del Corpo o Servizio
di polizia locale.
Nemmeno soccorre il
comma 221 della legge 208/2015, che consente il conferimento degli incarichi
dirigenziali anche ai dirigenti
dell'avvocatura civica e della polizia municipale, ma non il contrario,
ossia che dirigenti esterni alla municipale
possano diventarne comandanti, per due ragioni: per la formulazione
letterale della disposizione, di stretta
interpretazione, e per la ratio di tale divieto di inversione, che risiede
nella constatazione che i dirigenti esterni non
sono formati e reclutati per assumere e svolgere determinate specifiche
funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza
pubblica e stradale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.03.2024).
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SENTENZA
5. Tutto ciò premesso l’appello è infondato e deve essere rigettato per
le ragioni di seguito indicate.
In via preliminare va comunque rigettata l’eccezione di inammissibilità
dell’appello atteso che la formulazione della deliberazione della giunta
comunale n. 489 in data 11.12.2018 (il cui art. 9 riguarda proprio la
disciplina degli “INCARICHI AD AVVOCATI ESTERNI”) è tale per cui,
mentre alla giunta è riservata la decisione di ricorrere ad avvocati esterni
per motivi di conflitto di interessi, al segretario generale può essere
riservata la decisione di circoscrivere tale scelta anche attraverso la
specifica indicazione del legale da incaricare.
E ciò in quanto la formulazione della suddetta delibera non vincola la
giunta a disporre una nomina che sia allo stesso tempo anche fiduciaria
ossia indirizzata ad un legale già ben individuato (una simile attività di
individuazione concreta può infatti ben essere riservata al segretario
generale che, in questi termini, si muove nel rispetto del principio di
legalità e di economicità dell’azione amministrativa).
Anche la seconda eccezione di inammissibilità è chiaramente infondata in
quanto la sostituzione del De Na. con altro dirigente comunale è stata
disposta in stretta esecuzione della sentenza di primo grado e senza operare
acquiescenza alcuna rispetto alla suddetta decisione di primo grado (la
ridetta sostituzione è avvenuta dunque in maniera coatta e non spontanea).
6. Tanto ulteriormente puntualizzato, va ulteriormente rigettata la
riproposta questione di giurisdizione dal momento che si tratta di atti di
macro-organizzazione e dunque si verte pacificamente su linee fondamentali
della organizzazione e del funzionamento degli uffici.
Come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, il provvedimento
impugnato “pianifica le attività complessive e le ripartisce fra il
personale in dotazione alla struttura”.
Sulla base di quanto pure affermato dalla difesa della parte appellata, sono
infatti definiti “atti di macro organizzazione”, attratti alla
giurisdizione amministrativa, i provvedimenti con i quali si definisce
l’assetto complessivo di un apparato amministrativo e si distinguono dagli “atti
di micro organizzazione”, riservati alla cognizione del giudice
ordinario, i quali invece presuppongono già definito l’assetto della
struttura e sono destinati a disciplinare in modo particolare i rapporti di
lavoro del personale addetto a quell’apparato.
In questa direzione, l’atto di macro organizzazione si occupa dunque di
individuare le funzioni, gli obiettivi di azione e relativi i centri di
responsabilità di un apparato amministrativo e, laddove ne individua i ruoli
(dirigenti responsabili, addetti) definendone l’organigramma, non conforma
il rapporto di lavoro di coloro che li rivestono, ma resta sul piano della
gestione generale del servizio, conservando un contenuto funzionale
inscindibile che definisce le interazioni di mezzi, compiti, programmi e
attività.
Gli effetti che l’atto di macro organizzazione riflette in concreto sui
rapporti di lavoro degli addetti all’Ufficio sono dunque indiretti; ciò
da un lato ne esclude la devoluzione al giudice ordinario, dall’altro
radica la posizione differenziata che legittima coloro che sono incardinati
nella relativa struttura amministrativa ad impugnarli davanti al giudice
amministrativo (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 29/04/2019, n. 2774;
Consiglio di Stato sez. III, 11/10/2017, n. 4719).
Ne consegue da quanto detto che la determinazione impugnata ha chiaramente
natura di atto di organizzazione di una struttura amministrativa del Comune
dell’Aquila al quale sono estranei profili di gestione di specifici rapporti
di lavoro del personale addetto.
L’eccezione (ora divenuta motivo di appello) merita dunque ancora di essere
respinta.
...
10. Con riguardo al quarto motivo di appello, la carenza di potere
dirigenziale in effetti sussiste dal momento che:
10.1. La funzione di Comandante dei Vigili Urbani può essere
assunta soltanto da personale dei “ruoli” della stessa polizia
locale. Ciò è espressamente previsto dalla legge regionale n. 42 del 2013.
Numerose in tal senso le segnalazioni della Regione Abruzzo che, nel corso
del giudizio di primo grado, è tra l’altro intervenuta ad adiuvandum.
Si veda a tal fine la nota in data 12.03.2018 del Dipartimento Riforme
Istituzionali della stessa amministrazione regionale;
10.2. Come individuato in quest’ultima nota, infatti, la ratio di
tale scelta legislativa risiede nel fatto che il personale dei ruoli della
PM viene originariamente reclutato con certi criteri e secondo determinati
profili professionali e formativi, tali da poter svolgere funzioni di
polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (mansioni di una certa
delicatezza che non sono abilitati a svolgere funzionari e dirigenti di
altri settori “ordinari” dell’ente);
10.3. Del resto, in caso di assenza o impedimento del comandante
possono sopperire solo il vice comandante oppure, in assenza anche di quest’ultimo,
il personale comunque del Corpo o Servizio di polizia locale (cfr. art. 5,
comma 5, della citata legge regionale n. 42 del 2013);
10.4. Né potrebbe valere quanto previsto dalla legge n. 208 del
2015, comma 221, il quale prevede in particolare al secondo periodo che: “Allo
scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché
il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi
dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche
ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale”. Dunque
i dirigenti della PM e dell’avvocatura comunale possono eccezionalmente
assumere la direzione di uffici ordinari dell’ente ma non anche il contrario
(ossia dirigenti esterni alla PM non possono diventare comandanti della
stessa);
10.5. Depone in tal senso, innanzitutto, la formulazione letterale
della disposizione secondo cui può essere attribuito il “conferimento
degli incarichi dirigenziali” ma non anche il ruolo di avvocato
dell’ente oppure di comandante della polizia locale;
10.6. Sul piano logico e sistematico, la ragione giustificatrice
alla base di tale “divieto di inversione” (dirigenti di struttura
oppure anche della avvocatura che assumano incarico di comandante della
polizia locale) risiede pur sempre nella constatazione che i medesimi –al
netto di ogni caso particolare– non sono in via generale stati formati e
reclutati per assumere e svolgere determinate specifiche funzioni di polizia
giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (cfr. punto 9.2.);
10.7. In altre parole la richiamata disposizione ha consistenza di
norma derogatoria ed eccezionale, rispetto alla ordinaria assegnazione delle
funzioni dirigenziali (a seguito di procedura pubblicistica e comunque a
dirigenti appartenenti ai relativi ruoli dell’amministrazione), e dunque di
stretta interpretazione. Interpretazione che, per le ragioni sopra esposte,
va intesa in chiave soltanto unidirezionale (dirigenti avvocatura e della
polizia locale che assumono temporaneamente funzioni dirigenziali ordinarie)
e non bidirezionale (dirigenti amministrativi e della polizia locale che
assumono funzioni di avvocato dell’ente oppure dirigenti amministravi e
della avvocatura che assumono le funzioni di comandante della Polizia
Locale), e ciò proprio per la specificità sopra ricordata delle funzioni
riservate a tali peculiari organi della PA (avvocatura e polizia locale).
10. A ciò si aggiunga che l’attuale comandante della PM è stato
originariamente reclutato nella PM ma è poi transitato, previo concorso, nei
ruoli della avvocatura comunale. Pertanto non è più nei ruoli della PM così
perdendo non solo gradi ed inquadramento ma anche le specifiche funzioni di
polizia giudiziaria;
10.7. Nei termini suddetti, anche tale motivo di appello deve dunque essere
rigettato. |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
DIRITTO DEL LAVORO – Abuso di permessi ex L. n. 104/1992 –
Lavoratore dipendente – Giusta causa di licenziamento –
Sussiste – Controllo del datore di lavoro – Per mezzo di
agenti investigativi – Adempimento della prestazione –
Illegittimità – Verifica comportamenti penalmente rilevanti
– Legittimità.
L’utilizzo da parte del lavoratore dei
permessi ex lege n. 104/1992 per attività diverse
dall’assistenza al familiare disabile, violando le finalità
per cui il beneficio è concesso, costituisce giusta causa di
licenziamento.
L’assenza dal lavoro per usufruire del permesso deve essere
in relazione diretta con l’assistenza del disabile: la
normativa di riferimento non consente, infatti, di
utilizzare il permesso per motivi diversi da quelli propri
della funzione cui l’assenza è preordinata.
In questo contesto è legittimo il controllo del dipendente
da parte del datore di lavoro per mezzo di agenti
investigativi, il controllo demandato all’agenzia è
legittimo se non ha per oggetto l’adempimento della
prestazione, ma la verifica di comportamenti che possono
configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare
attività fraudolente.
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DIRITTO DEL LAVORO – Legge 104 natura e finalità –
Licenziamento per abuso – Sacrificio organizzativo per il
datore di lavoro e dell’Ente assicurativo – Nesso causale
tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile mancante –
Violazione dei doveri di correttezza e buona fede –
Accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore
in costanza di beneficio – Giudizio di proporzionalità tra
licenziamento disciplinare e addebito contestato – Limiti di
sindacabilità in sede di legittimità – Onere probatorio e
principio di specificità del ricorso.
Il beneficio di cui alla L. n. 104/1992,
comporta un sacrificio organizzativo per il datore di
lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze
riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale)
come meritevoli di superiore tutela, ove il nesso causale
tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi, non
può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua
funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio
ovvero di un abuso del diritto, o, secondo altra
prospettiva, di una grave violazione dei doveri di
correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di
lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di
ordine generale) che dell’Ente assicurativo.
Ciò posto, la verifica in concreto, sulla base
dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal
lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con
modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e
dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene
alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito,
esorbitando dai poteri la pretesa di altro apprezzamento sui
fatti in sindacato di legittimità.
Infatti, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento
disciplinare e addebito contestato, implica inevitabilmente
un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine
alla controversia, ed è sindacabile in sede di legittimità
soltanto quando la motivazione sul punto della sentenza
impugnata manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi
giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su
espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure
perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente
incomprensibili.
Sicché il ricorrente, non solo non può limitarsi ad invocare
una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso
specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione
del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un
fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità,
valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe
condotto ad un diverso esito della controversia con certezza
e non con grado di mera probabilità.
Infine, il lamentato principio secondo cui è necessario che
il datore di lavoro “offra all’incolpato la documentazione
necessaria al fine di consentirgli un’adeguata difesa”,
compete al giudice del merito, sulla base degli atti di
causa, scrutinare la sussistenza di tale rapporto di
necessarietà, incombendo inoltre sul lavoratore l’onere di
specificare “quali sarebbero stati i documenti la cui messa
a disposizione –in tesi negata– sarebbe stata necessaria al
predetto fine”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 12.03.2024 n. 6468 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
2. il primo e il quinto motivo, che possono
valutarsi congiuntamente per connessione, non possono
trovare accoglimento;
2.1. essi presentano diffusi profili di inammissibilità
laddove prospettano come errores in iudicando ciò che
è l’apprezzamento dei giudici del merito in ordine alla
valutazione del materiale probatorio e al governo delle
prove, nella sostanza proponendo una inammissibile diversa
ricostruzione fattuale, asserendo che le attività svolte
dalla S. erano comunque connesse con l’assistenza ai
genitori disabili;
2.2. in diritto, poi, la sentenza è conforme alla
giurisprudenza di questa Corte in tema di condotte abusive
di lavoratori che fruiscano di sospensioni autorizzate del
rapporto per l’assistenza o la cura di soggetti protetti;
invero, per pacifica giurisprudenza di legittimità può
costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da
parte del lavoratore, di permessi ex lege n. 104 del
1992 in attività diverse dall’assistenza al familiare
disabile, con violazione della finalità per la quale il
beneficio è concesso (Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 8784
del 2015; Cass. n. 5574 del 2016; Cass. n. 9749 de1 2016;
più di recente: Cass. n. 23891 del 2018; Cass. n. 8310 del
2019; Cass. n. 21529 del 2019); in coerenza con la ratio
del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del
permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per
il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto,
ossia l’assistenza al disabile; tanto meno la norma consente
di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle
proprie della funzione cui la norma è preordinata: il
beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore
di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze
riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale)
come meritevoli di superiore tutela; ove il nesso causale
tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi, non
può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua
funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio
ovvero di un abuso del diritto (cfr. Cass. n. 17968 del
2016), o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione
dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del
datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per
esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo (v.
Cass. n. 9217 del 2016); ciò posto, la verifica in concreto,
sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta
dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con
modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e
dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene
alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito
(in termini: Cass. n. 509 del 2018; v. anche Cass. n. 29062
del 2017; Cass. n. 30676 del 2018; Cass. n. 21529 del 2019),
sicché la pretesa di un sindacato di legittimità sul punto
esorbita dai poteri di questa Corte (ancora di recente:
Cass. n. 25290 del 2022; Cass. n. 8306 del 2023; Cass. n.
17993 del 2023);
2.3. infine, si critica con modalità inammissibili anche il
giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e
addebito contestato, che, secondo un costante insegnamento
(da ultimo, v. Cass. n. 36427 del 2023), è devoluto al
giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del
2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass.
n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003); difatti, la
valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità,
implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti
storici che hanno dato origine alla controversia, è ora
sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la
motivazione sul punto della sentenza impugnata manchi del
tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti
nell’essere stata essa articolata su espressioni od
argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero
manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini
v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi,
che in caso di contestazione circa la valutazione sulla
proporzionalità della condotta addebitata –che è il frutto
di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi–
la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della
sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare
una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso
specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione
del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un
fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità,
valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe
condotto ad un diverso esito della controversia con certezza
e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del
2016; Cass. n. 20817 del 2016); |
APPALTI:
Gare, valida l’esclusione adottata dal responsabile di fase
ratificata dal Rup.
Un’ordinanza del Tar Abruzzo consente di tracciare con chiarezza i confini
di ruolo tra Responsabile del progetto e le nuove figure di collaborazione
introdotte dal Codice 36.
La recente
ordinanza
12.03.2024
n. 74 del Tar Abruzzo-Pescara
-che respinge la richiesta di
ordinanza cautelare di sospensione di una serie di provvedimenti della
stazione appaltante (compresa l’aggiudicazione)- riveste un certo
interesse in tema di riparto di competenze tra la nuova figura –almeno per
il codice dei contratti- del responsabile di fase dell’affidamento ed il
responsabile unico del progetto.
L'ordinanza, infatti, consente di
rimarcare ulteriormente anche per gli atti adottati dalla stazione
appaltante le
non irrilevanti differenze che esistono tra
i due attori del
procedimento/procedura di affidamento/aggiudicazione del contratto
pubblico. Due attori, di cui uno appunto il responsabile di fase, solo
eventuale
a differenza del responsabile unico del progetto che è sempre presente.
La
necessità del Rup
Sulla necessità del Rup, ad esempio, si può citare il
comma 1 dell'articolo 15 in cui si legge che «nel primo atto di avvio
dell'intervento pubblico da realizzare mediante un contratto le stazioni
appaltanti e gli enti concedenti nominano nell'interesse proprio o di altre
amministrazioni un responsabile unico del progetto (RUP) per le fasi di
programmazione, progettazione, affidamento e per l'esecuzione di ciascuna
procedura soggetta al codice».
Disposizione che deve leggersi in combinato con gli ultimi due periodi del
comma 2 della stessa disposizione citata
in cui si ribadisce che «l'ufficio di Rup è obbligatorio e non può essere
rifiutato» e l'inedita (almeno per il codice dei
contratti) precisazione, che chiude il comma in parola, secondo cui «in caso
di mancata nomina del Rup nell'atto di
avvio dell'intervento pubblico, l'incarico è svolto dal responsabile
dell'unità organizzativa competente per
l'intervento».
Precisazione, questa, che riporta quanto già indicato
nell'art. 5, comma 2, della legge 241/1990 che non
viene richiamata espressamente nell'articolo 15 (a differenza di quanto
accadeva con il pregresso articolo 31).
Mancato richiamo che, come gli estensori hanno voluto sottolineare, ricorda
la oramai definitiva constatazione che
il Rup non è un semplice responsabile di procedimento ma il responsabile di
un intervento/progetto che al suo
interno si compone di una serie di procedimenti amministrativi (e non
sub-procedimenti).
Il responsabile di fase
Come anticipato, il nuovo codice dei contratti nell'articolo 15, comma 4,
prevede che il Rup possa essere affiancato
da collaboratori ed in specie dai responsabili di fase. Uno per la fase di
affidamento e uno, si potrebbe dire, a
competenza tecnica per le fasi della programmazione, progettazione ed
esecuzione del contratto.
Fin dalle prime
indicazioni normative non appare dubbio il fatto che i responsabili di fase
siano semplicemente dei responsabili di
procedimento ed in quanto tali privi della possibilità di adottare
provvedimenti a valenza esterna, prerogativa,
quest'ultima, invece espressamente attribuita dal nuovo codice, a conferma
anche di indirizzi giurisprudenziali
consolidati, al responsabile unico del progetto a prescindere dal fatto
che coincida con il dirigente/responsabile del servizio.
Pertanto, se il responsabile della fase di affidamento, se nominato, è
tenuto ad acquisire il Cig (come previsto
nell'allegato I.2 dedicato ai compiti/attività del Rup) è altrettanto vero
che al responsabile unico compete, ad
esempio, decidere le procedure/procedimenti di aggiudicazione, adottare il
provvedimento di esclusione dalla
competizione. Mentre solo se coincidesse con il dirigente/responsabile del
servizio, può adottare il provvedimento
(la decisione) di aggiudicazione.
Dal nuovo codice, quindi, emerge un quadro
più chiaro delle competenze del Rup
strutturato, anche in ossequio ad una istanza di valorizzazione della
figura, come organo con chiare competenze
decisorie e quindi, per espressa previsione normativa.
L'ordinanza
Giungendo
al caso trattato nell'ordinanza del
giudice pescarese si rileva che il provvedimento di esclusione (del
ricorrente) viene adottato dal responsabile di fase
e non dal Rup. Non a caso, tra l'altro, il responsabile di fase viene
espressamente individuato come «Responsabile di
Procedimento per la fase di affidamento».
Il Rup, come si legge
nell'ordinanza, viene chiamato addirittura post
aggiudicazione ad adottare un provvedimento di ratifica del provvedimento di
esclusione adottato dal responsabile
di fase. Circostanza, almeno una delle circostanze, che inducono il giudice
a non concedere la sospensiva (non solo
sul provvedimento di esclusione ma sullo stesso provvedimento di
aggiudicazione adottato dal soggetto
competente).
L'importanza pratico-operativa dell'ordinanza -fermo restando
che si tratterà di verificare, comunque,
l'epilogo della trattazione nel merito- è data dalla prospettata
possibilità di ratificare l'atto adottato dal responsabile
di fase da parte del Rup.
Atto del responsabile di fase, invece, che avrebbe
potuto essere considerato come non
coerente con il chiaro disposto che ora si legge nell'articolo 7, comma 1, lett. d), dell'allegato I.2, in cui si rimarca che
il responsabile unico (e non il responsabile di fase) «dispone le esclusioni
dalle gare». Prospettiva che conferma il
ruolo fondamentale -irrinunciabile e insostituibile- del responsabile unico
del progetto in ogni fase di realizzazione
dell'intervento pubblico (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 28.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, la demolizione a 4 anni dalla condanna non viola
in sé il diritto abitativo.
Non ci si può opporre validamente all’ordine di demolizione del manufatto
abusivo semplicemente adducendo che è destinato ad abitazione familiare
dell’autore del reato. Infatti, l’interesse pubblico alla tutela del
territorio e alla repressione di condotte illecite può sì recedere di fronte
al diritto garantito alla tutela del domicilio, ma solo a seguito di un
concreto giudizio di proporzionalità.
Quest’ultimo parametro relativo alla
misura esecutiva di demolizione va comunque valutato solo nel caso, appunto,
che l’immobile abusivo sia effettivamente utilizzato come dimora abituale.
Ma la valutazione può propendere per la legittimità della demolizione anche
in base al considerevole lasso di tempo intercorso tra la definitività della
decisione che impone la demolizione e la concreta esecuzione della stessa.
Dato temporale che può ben essere valutato come congruo se consente alla
persona dimorante nel manufatto di reperire una nuova e alternativa
soluzione abitativa.
L’ordine di demolizione e il criterio di proporzionalità
Nel caso concreto la Corte di Cassazione IV Sez. penale -con la
sentenza 08.03.2024 n. 9907- ha respinto il
ricorso del privato che riteneva sproporzionata e quindi illegittima
l’ingiunzione di demolizione assunta dalla Corte di appello ben 4 anni dopo
la condanna per l’abuso.
Secondo il ricorrente la Corte di appello in
funzione di giudice dell’esecuzione non avrebbe tenuto conto del proprio
diritto alla “casa” incidendolo illegittimamente con una misura del tutto
sproporzionata.
La violazione lamentata sarebbe stata -secondo il ricorso-
quella dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che
garantisce il diritto al rispetto della «vita privata e familiare» e al
domicilio.
L’importante precisazione della Suprema Corte
La Cassazione nel rigettare il ricorso fa il punto al fine di delineare il
perimetro del giudizio di proporzionalità che il giudice è tenuto a svolgere
ed esplicitare nell’assumere la propria decisione.
E precisa che, appunto,
non è sufficiente che l’imputato asserisca che l’immobile abusivo colpito
dall’ordine di demolizione sia destinato a propria dimora abituale, ciò non
arresta di per sé l’azione esecutiva, ma obbliga il giudice a verificarne la
proporzionalità ossia l’assenza di violazione di diritti fondamentali della
persona e, in particolare, della garanzia offerta dalla norma convenzionale Cedu.
Infine, la Suprema corte chiarisce che il giudice nel procedere al raffronto
degli interessi contrapposti non può applicare un giudizio puramente
discrezionale, ma deve attenersi al dare rilevanza ad alcuni specifici
elementi:
- l’età del ricorrente;
- lo stato di salute e
- le risorse economiche di chi vive in una casa abusiva.
E, ripercorrendo la propria giurisprudenza e quella della Corte Edu, afferma
che ha anche rilevanza -al fine di affermare la proporzionalità della
misura, cioè il rispetto della garanzia del domicilio- anche il tempo
intercorso tra l’accertamento dell’abuso e l’esecuzione della demolizione
dello stesso.
Un tempo che garantisce il rispetto del diritto “abitativo” -e non proprietario- della persona. Infatti la tutela del diritto di
proprietà afferma la giurisprudenza di legittimità- non è spendibile in sé
per affermare la sproporzione dell’ingiunzione di demolizione (articolo NT+Diritto del 08.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione della richiesta di
accertamento di compatibilità paesaggistica in sanatoria,
secondo giurisprudenza constante, comunque non influisce
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, che va
valutato secondo il principio tempus regit actum, né sulla
procedibilità del gravame potendo al più determinare
l’impossibilità di portare ad esecuzione l’ordinanza nelle
more della definizione dell’istanza.
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Per
consolidata e condivisa giurisprudenza, ai fini
dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi
edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è
necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del
procedimento e, dunque, non è necessario acquisire le
preventive deduzioni dell’interessato.
E, comunque, la censura di difetto di partecipazione trova,
nel caso in questione, dequotazione per l’applicabilità nel
caso di specie dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte,
della Legge n. 241/1990, atteso che le censure volte a
contestare la legittimità dell’ordine di demolizione sono
infondate, come di seguito esposto.
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Giova ricordare che la giurisprudenza è univoca nel
sostenere che in ordine alla risalenza e alla consistenza
edilizia, quali specificamente contestate
dall'amministrazione, l'onere della prova per evitare
sanzioni demolitorie incombe, sulla base del principio di
vicinanza della prova, sul soggetto destinatario della
sanzione.
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Il ricorso è infondato e va respinto secondo quanto segue.
Si rileva in primis che la presentazione
successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione
della richiesta di accertamento di compatibilità
paesaggistica in sanatoria, secondo giurisprudenza constante
anche della sezione, comunque non influisce sulla
legittimità dell’ordine di demolizione, che va valutato
secondo il principio tempus regit actum, né sulla
procedibilità del gravame potendo al più determinare
l’impossibilità di portare ad esecuzione l’ordinanza nelle
more della definizione dell’istanza (cfr., tra le altre, Tar
Napoli, Sez. VI, sent. n. 3264 del 2021 e n. 1125 del 2021;
Sez. II, sent. n. 1345 del 2021, con la giurisprudenza
citata).
Tento premesso, infondati sono innanzitutto i primi due
motivi di ricorso, considerato che il comune di Capri,
tenuto conto che l’immobile interessato dalle opere abusive
era (ed è) in comproprietà dei sig.ri -OMISSIS- -OMISSIS- e
-OMISSIS- -OMISSIS- mentre l’ordinanza di demolizione n.
150/2019 era stata notificata ad uno solo dei
comproprietari, ha ritenuto opportuno, con l’ordinanza in
questione, ritirare la precedente ordinanza di demolizione
per sostituirla con una nuova ordinanza con cui l’ordine di
demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi è stato
indirizzato ad entrambi i proprietari, con ciò emendando
solo per questo specifico aspetto l’ordinanza precedente.
Anche l’ordinanza n. 8 del 2022 trova, quindi, fondamento
nei precedenti accertamenti tecnici già effettuati
dall’Ufficio Tecnico del Comune di Capri unitamente al
Comando della Guardia di Finanza e non necessitava l’avvio
di un nuovo iter istruttorio e, del resto, i ricorrenti non
comprovano in alcun modo che lo stato dei luoghi sia mutato
rispetto agli accertamenti già compiuti e, anzi,
rappresentano di aver presentato istanza di compatibilità
paesaggistica in relazione ai manufatti per cui è causa.
Inoltre, per consolidata e condivisa giurisprudenza, ai fini
dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi
edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è
necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del
procedimento (cfr. tra le altre Cons di Stato 12.05.2020, n.
2980; Cons di Stato 11.03.2019, n. 1621) e, dunque, non è
necessario acquisire le preventive deduzioni
dell’interessato. E comunque la censura di difetto di
partecipazione trova, nel caso in questione, dequotazione
per l’applicabilità nel caso di specie dell'art. 21-octies,
comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990, atteso che le
censure volte a contestare la legittimità dell’ordine di
demolizione sono infondate, come di seguito esposto.
Infondate sono le censure relative al manufatto di cui al
punto 1) dell’ordinanza di demolizione (“realizzazione,
sul terrazzamento lato monte, di un manufatto completamente
abusivo delle dimensioni in pianta di circa 6.00 mt. X 6,50
realizzazione con muratura con pietrame a faccia a vista e
solaio in poutrelles e tavelloni, di altezza media mt. 2,45
utilizzato allo stato come deposito. Il locale si presenta
con porta d'accesso e finestra parzialmente chiusa da
elementi in legno”), in quanto le allegazioni di parte
ricorrente, rimaste sfornite di un adeguato supporto
probatorio, non valgono ad incrinare l’impianto istruttorio
su cui fonda l’ordinanza impugnata.
Si rileva, infatti, che i ricorrenti non offrono prova
adeguata della asserita preesistenza dell’opera (nella
consistenza rilevata dal comune nel sopralluogo del 2019)
all’anno 1967.
In proposito giova ricordare che la giurisprudenza è univoca
nel sostenere che in ordine alla risalenza e alla
consistenza edilizia, quali specificamente contestate
dall'amministrazione, l'onere della prova per evitare
sanzioni demolitorie incombe, sulla base del principio di
vicinanza della prova, sul soggetto destinatario della
sanzione (ex multis, Cons. di Stato, Sez. II,
30.04.2020, n. 276; Cons. di Stato, Sez. VI, 24.01.2020, n.
588; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, n. 1073/2017; n.
3813/2020).
Orbene, la carenza finanche di un principio di prova -che
non può essere rinvenuto né nel volo aereo del 1955
depositato in giudizio (che offre un immagine del tutto
inidonea a comprovare la esistenza e consistenza del
manufatto in questione così come accertata dal comune nei
sopralluoghi del 2019) né nelle mere asserzioni contenute
nella perizia tecnica di parte- circa (non solo la esistenza
in sé, ma) la effettiva consistenza del manufatto in data
antecedente al 1967 depriva di concreta significanza le
censure di parte ricorrente.
E, invero, la asserita “preesistenza” al 1967 -in
quanto funzionale a contrastare l’ordinanza in questione-
deve riferirsi al manufatto nelle dimensioni e nella
consistenza accertata all’esito dei sopralluoghi effettuati
dall’amministrazione nel 2019 e posti alla base del
provvedimento impugnato.
Sul punto, i ricorrenti, oltre ad aver prodotto un volo
aereo del 1955 che offre una immagine sgranata e poco chiara
e del tutto inidonea a provare l’esistenza e la consistenza
dello specifico manufatto in questione così come accertata
dal comune nei sopralluoghi del 2019, si limitano a produrre
un perizia tecnica di parte che formula dei generici rilievi
in ordine alla realizzazione non recente del manufatto che “verosimilmente”
risalirebbe “a circa 50 anni addietro” e ciò in
considerazione delle “tecniche costruttive impiegate”,
della “tipologia dei mattoni rossi utilizzati (oggi
prodotti in maniera limitata e usati per lo più in restauro)”
e dello “stato avanzato di deterioramento che fa apparire
la malta di colore scuro”: rilievi che restano mere e
apodittiche asserzioni di parte, attesa la mancanza di
qualsivoglia supporto di analisi stratigrafiche dei
materiali utilizzati dalle quali si potrebbe desumere una
possibile e prossima epoca di realizzazione delle opere in
questione, come persuasivamente rilevato dal tecnico del
comune nella relazione del 05.06.2020 depositata in atti; e
come tali non idonee all’assoluzione dell’onere probatorio
ricadente in carico ai ricorrenti.
Né l’asserita esistenza nel 2008, secondo la lettura della
ortofoto della regione Campania propugnata dai ricorrenti,
di opera del genere di quella in questione -pacificamente
realizzata sine titulo– potrebbe valere a deprivare
di fondamento l’ordinanza impugnata, né può valere a tal
fine il certificato di destinazione urbanistica rilasciato
dal Comune in data 21.07.1986 all’atto della compravendita
dell’intero immobile, non essendo elementi idonei ad
attestare la preesistenza dello specifico manufatto in
questione ante 1967 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 08.03.2024 n. 1595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante e condivisa giurisprudenza, nei
rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo la
regola è quella dell'autonomia, fermo il disposto di cui
all'art. 654 c.p.p., secondo cui il giudicato penale non
determina un vincolo assoluto all'amministrazione per
l'accertamento dei fatti rilevanti nell'attività di
vigilanza edilizia. Né la sentenza penale può condizionare
in modo inderogabile il giudizio amministrativo.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre
solo l'accertamento dei “fatti materiali” e non anche la
loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane
circoscritta al processo penale e non può condizionare
l'autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o
civile o dell’amministrazione.
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Per giurisprudenza costante e condivisa, “Nel momento in cui
un'opera è realizzata al soddisfacimento di esigenze non
temporanee non è possibile beneficiare, anche quando la
stessa sia stata realizzata con materiali facilmente
amovibili, del regime delle opere precarie”.
D’altra parte, ciò che assume rilevanza nella indagine circa
la esistenza di una duratura trasformazione del territorio è
un criterio di tipo teleologico-funzionale, piuttosto che di
natura meramente morfologico-strutturale.
Per cui, ai fini dello scrutinio circa la necessità del
permesso di costruire, si devono valutare come opere di
“nuova costruzione” quelle opere che comunque implichino una
stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare
esigenze non precarie del committente sotto il profilo
funzionale e della destinazione dell'immobile, dovendosi,
pertanto, da ciò logicamente inferire che, allora, sono
soggetti a titolo edilizio tutti i manufatti che, pur
semplicemente aderenti al suolo, alterino lo stato dei
luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente
occasionale.
Inoltre, va ricordato che, come da costante giurisprudenza
in materia, “a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più
idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio in
zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che
rileva, al fine dell'irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in
essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo
abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che
urbanistico”.
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Infondate anche sono le censure relative alle ulteriori
opere abusive sanzionate dal comune basate sull’asserito
rilievo pertinenziale e sulla asserita carenza di incidenza
delle stesse sul carico urbanistico e paesaggistico.
In primis, si rileva che per costante e condivisa
giurisprudenza nei rapporti tra giudizio penale e giudizio
amministrativo la regola è quella dell'autonomia, fermo il
disposto di cui all'art. 654 c.p.p., secondo cui il
giudicato penale non determina un vincolo assoluto
all'amministrazione per l'accertamento dei fatti rilevanti
nell'attività di vigilanza edilizia. Né la sentenza penale
può condizionare in modo inderogabile il giudizio
amministrativo.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre
solo l'accertamento dei “fatti materiali” e non anche
la loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane
circoscritta al processo penale e non può condizionare
l'autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o
civile o dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
sent. n. 9656 del 03.11.2022 con la giurisprudenza citata).
Tanto premesso, le censure sono infondate.
Per giurisprudenza costante e condivisa, infatti, “Nel
momento in cui un'opera è realizzata al soddisfacimento di
esigenze non temporanee non è possibile beneficiare, anche
quando la stessa sia stata realizzata con materiali
facilmente amovibili, del regime delle opere precarie” (cfr.
Cons. di Stato, VI, 10.01.2020, n. 260) e, nella fattispecie
in questione, il carattere stabile e duraturo del fabbricato
di cui al punto a) dell’ordinanza è del resto pacificamente
riconosciuto dagli stessi ricorrenti che nel ricorso
affermano che il manufatto “è strutturalmente funzionale
all’immobile principale” e realizzato “da oltre un
decennio”, oltre che riscontrato dall’amministrazione, e
anche il fabbricato di cui al punto b) ha carattere stabile
e duraturo (nella stessa perizia di parte si afferma che “per
come indicato dal proprietario è adibito ad uso abitazione”
ed è anche dotato di un bagno).
D’altra parte, ciò che assume rilevanza nella indagine circa
la esistenza di una duratura trasformazione del territorio è
un criterio di tipo teleologico-funzionale, piuttosto che di
natura meramente morfologico-strutturale (cfr. Cons. di
Stato, VI, 01.04.2016, n. 1291).
Per cui, ai fini dello scrutinio circa la necessità del
permesso di costruire, si devono valutare come opere di “nuova
costruzione” quelle opere che comunque implichino una
stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare
esigenze non precarie del committente sotto il profilo
funzionale e della destinazione dell'immobile, dovendosi,
pertanto, da ciò logicamente inferire che, allora, sono
soggetti a titolo edilizio tutti i manufatti che, pur
semplicemente aderenti al suolo, alterino lo stato dei
luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente
occasionale (TAR Campania, III, 02.03.2020, n. 948; TAR
Campania, VI, 05.08.2019, n. 4286).
Inoltre, va ricordato che, come da costante giurisprudenza
in materia, “a prescindere dal titolo edilizio ritenuto
più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio
in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che
rileva, al fine dell'irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in
essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo
abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che
urbanistico” (così Tar Napoli, sent. n. 1524 del 2022,
sent. n. 3264 del 2021; cfr., tra le altre, anche Consiglio
di Stato, sent. n. 7426 del 2021) (TAR Campania-Napoli, Sez.
VI,
sentenza 08.03.2024 n. 1595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Atti tributari con firma a stampa
del funzionario. Va indicato il provvedimento dirigenziale. La
Cassazione chiarisce i contenuti degli avvisi di accertamento emanati dagli
enti locali.
Gli avvisi di accertamento emanati dagli enti territoriali
possono essere sottoscritti con firma a stampa del funzionario responsabile
del tributo. È speciale la norma che attribuisce agli enti locali questa
facoltà e non è stata abrogata da disposizioni di legge successive. È però
richiesto che gli atti siano prodotti mediante sistemi informatici
automatizzati e che il funzionario e la fonte dei dati siano riportati in un
provvedimento dirigenziale, i cui estremi vanno indicati nell'atto impositivo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
07.03.2024 n. 6142.
Per i giudici di legittimità, la sottoscrizione dell'avviso può avvenire in
maniera autografa, ovvero mediante l'indicazione a stampa del nominativo del
soggetto responsabile, in base a quanto stabilito dall'articolo 1, comma 87,
della legge 549/1995, norma che “è speciale e non abrogata da successivi
provvedimenti di legge”.
E' imposto che “gli atti siano prodotti mediante
sistemi informatici automatizzati” e “che il nominativo del funzionario
responsabile e la fonte dei dati siano riportati in un apposito
provvedimento di livello dirigenziale”. Inoltre, gli estremi del
provvedimento dirigenziale devono essere indicati “nell'avviso di
accertamento, insieme alla dicitura che si tratta di firma a stampa”.
Dunque, sono legittimi gli atti di accertamento riguardanti i tributi
regionali e locali sottoscritti con firma a stampa, purché siano prodotti da
sistemi informativi automatizzati. La sottoscrizione può essere sostituita
dall'indicazione a stampa del soggetto responsabile, a condizione che ciò
risulti da un'apposita determina dirigenziale, i cui estremi devono essere
riportati negli atti impositivi, come previsto dall'articolo 1, comma 87,
della legge sopra citata.
Questa disposizione si applica non solo alla
gestione diretta, ma anche a quella in concessione delle attività di
recupero dei crediti. Infatti, nonostante il provvedimento di livello
dirigenziale si riferisca a un atto della pubblica amministrazione, lo
stesso principio vale qualora l'attività sia gestita da un concessionario.
In questo caso la firma autografa può essere sostituita da quella a stampa,
a condizione che il nominativo del responsabile, nonché la fonte dei dati,
risultino indicati in un apposito atto sottoscritto dal concessionario
oppure da un altro soggetto che da questi abbia ricevuto il relativo potere.
Non è necessaria una nomina ad hoc qualora il legale rappresentante della
società concessionaria abbia mantenuto la responsabilità diretta
dell'attività.
Mentre in un caso c'è delega di poteri al dirigente pubblico,
nell'altro il potere discende dalla carica ricoperta nell'ambito
dell'organigramma societario. La verifica della nomina può essere effettuata
tramite il registro delle imprese, istituito presso le camere di commercio.
Forma oggetto di contenzioso l'obbligo o meno di allegare all'atto impositivo la determina dirigenziale che autorizza la firma a stampa.
La
corte di giustizia tributaria di primo grado di Salerno (sentenza 781/2023)
ha stabilito che sono nulli gli avvisi di accertamento o le ingiunzioni di
pagamento sottoscritti con la firma a stampa se non viene prodotto in
giudizio, in caso di contestazione del contribuente, il provvedimento
dirigenziale che autorizza la sottoscrizione senza la firma autografa.
Il
mancato deposito impedirebbe all'interessato e al giudice di verificare
l'esistenza e la validità della delega del potere di firma del funzionario
che ha emanato il provvedimento amministrativo.
Per i giudici tributari,
l'ingiunzione di pagamento era stata regolarmente sottoscritta con firma a
stampa ed erano stati indicati gli estremi del prodromico provvedimento
dirigenziale, che però non risultava depositato in giudizio. Pertanto, ha
ritenuto fondata la contestazione dell'omessa allegazione dell'atto
amministrativo
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2024).
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ORDINANZA
1. La prima censura deduce <ex art. art. 360, comma 1, n. 5, cod.
proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è
stato oggetto di discussione tra le parti, sulla mancanza della
firma autografa, non sostituibile dalla firma digitale>.
Secondo la società ricorrente, l’avviso di accertamento n. 231 del
12.06.2019 avente a oggetto l’imposta comunale di soggiorno per
l’anno 2017 non reca alcuna firma autografa, in quanto la possibilità di
sottoscrizione digitale, e dunque l’applicabilità dell’art.
2, comma 6-bis, d.lgs. 18.11.2005, n. 85 (in vigore dal 27.01.2018), estesa
anche agli atti di natura sanzionatoria tributaria, è subordinata alla
successiva emanazione dei decreti
attuativi, mai emessi.
Il fatto controverso, pertanto, investe la necessità o meno della firma
autografa dell’atto di accertamento impugnato ovvero l’ammissibilità della
firma digitale anche in
assenza di un decreto attuativo per l’applicabilità del Codice
digitale.
Detto fatto inoltre è stato oggetto di discussione tra le parti, tant’è che
sia l’appellante Ta. sia l’appellato Comune di Racines avevano discusso la
tematica da pagina 5 a pagina 8 del
ricorso in appello del 21.09.2020 ( doc. n. 9 del fascicoletto ex art.
369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., già costituente l’atto
introduttivo di secondo grado) rispettivamente da pagina 3 a
pagina 7 della comparsa di costituzione con controdeduzioni del
20.10.2020 (doc. n. 10 del fascicoletto ex art. 369, secondo
comma, n. 4, cod. proc. civ., già costituente l’atto di costituzione del
Comune di Racines in secondo grado).
La C.T. di I° grado di
Bolzano, nella sentenza n. 59/2020 aveva erroneamente ritenuto
che il nuovo comma 6-bis dell’art 2 del d.lgs. 07.03.2005, n. 82
prevedesse, ai fini dell’applicabilità del Codice digitale,
l’emanazione di un decreto attuativo solo per le attività e funzioni
ispettive e di controllo fiscale e non invece per gli atti di
accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria di
cui al comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005.
Mentre i giudici di appello hanno risolto la controversia in funzione della
ragion più liquida senza esaminare la questione pregiudiziale di merito.
...
7. La prima censura è destituita di fondamento.
Indubbiamente, i giudici di appello hanno omesso di statuire sull’eccezione
pregiudiziale relativa alla nullità dell’avviso per la presenza della firma
digitale.
Tuttavia, la deduzione della omessa pronuncia su un motivo di appello
integra un error in procedendo che legittima il giudice di legittimità
all'esame degli atti del giudizio, in quanto l'oggetto di
scrutinio attiene al modo in cui il processo si è svolto, ossia ai fatti
processuali; quando, con il ricorso per cassazione, venga dedotto
un error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità
investe direttamente l'invalidità denunciata, mediante l'accesso
diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente
dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al
riguardo, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche
del fatto (Cass. 16028 del 07/06/2023; Cass. del
13/08/2018, n. 20716; Cass. 30684 del 21/12/2017).
Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica
amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al
Regolamento comunitario noto con l’acronimo eIDAS, entrato in vigore
direttamente in tutti gli Stati Membri UE,
senza necessità di atti di recepimento, il 17.09.2014, e
divenuto applicabile a decorrere dal 01.07.2016, impone ormai come regola
generale l’adozione dei documenti informatici,
residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.
Ai sensi dell’art. 40 C.A.D., le pubbliche amministrazioni formano gli
originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole
tecniche fissate dal D.P.C.M. 13.11.2014.
Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non
rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni
ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente
riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche
ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di
irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi
“all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo, attività
che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole
per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.
La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di
verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale
vigente.
Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici
all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che
nell’ambito di tali attività di verifica si
impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere
munito di firma digitale, sicché l’applicazione del C.A.D.
determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo
al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali
incombenti (Cass. 2021 n. 1557).
Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente
sottoposto a verifiche fiscali, all'art. 12, comma 7, conferma la
distinzione delle due attività imponendo, a pena di
illegittimità dell'atto impositivo emesso "ante tempus", l'osservanza
di un termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione
dell'avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei
cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una
verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del
processo verbale di chiusura delle operazioni.
Il d.lgs. 13.12.2017, n. 217 art. 2, lett. e), che ha aggiunto all’art. 2
C.A.D., il comma 6-bis, ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti
di liquidazione, rettifica, accertamento e di
irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un
successivo decreto e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.
Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura
di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è
indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione
esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di
controllo fiscale.
Deve ritenersi applicabile il Codice dell’Amministrazione digitale,
modificato dal d.lgs. 13.12.2017, n. 217 all’attività dell’Agenzia delle
entrate concernente gli atti di accertamento,
rettifica, liquidazione e, come nel caso in esame, irrogazione
sanzioni, firmati digitalmente e notificati al domicilio digitale del
privato. In realtà, il descritto intervento normativo ha sciolto una
serie di precedenti dubbi interpretativi sull’applicabilità di detto
Codice alle attività ispettive e di controllo dell'Agenzia che,
comunque, rientrano nell’attività di accertamento lato sensu.
Ai sensi dell’art. 23 CAD, <Le copie su supporto analogico di documento
informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata
o digitale hanno la stessa efficacia probatoria
dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in
tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò
autorizzato>.
Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo
presentava la sottoscrizione digitale (in tema di sentenze sottoscritte
digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017; Cass. 08.07.2022, n. 21712; Cass.
21.01.2021, n. 1150).
Questa Corte
(ordinanza n. 29820/2021) ha confermato la legittimità
della sottoscrizione degli avvisi di accertamento mediante l'apposizione
della "firma a stampa" del funzionario responsabile del tributo.
L'articolo 1, comma 162, della legge 27.12.2006, n. 296 stabilisce che
l'avviso di accertamento deve essere sottoscritto dal funzionario
responsabile del tributo. La sottoscrizione dell'avviso di accertamento può
avvenire in diversi modi, a seconda della forma dell'avviso stesso.
Nel caso dell'avviso di accertamento cartaceo, normalmente ancora utilizzato
per i contribuenti che non sono dotati di un domicilio digitale, la
sottoscrizione dell'avviso può avvenire in maniera autografa, ovvero
mediante l'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, in
base a quanto previsto dall'articolo 1, comma 87, della legge 28.12.1995, n.
549 norma che, ha sottolineato la Corte di cassazione, è speciale e non
abrogata da successivi provvedimenti di legge (Cassazione n. 20628/2017, n.
9079/2015).
Nel caso dei tributi regionali o locali ciò può avvenire
solo a una serie di condizioni:
- che gli atti siano prodotti mediante sistemi informatici
automatizzati;
- che il nominativo del funzionario responsabile e la fonte dei
dati siano riportati in un apposito provvedimento di livello dirigenziale;
- che gli estremi del provvedimento dirigenziale siano indicati
nell'avviso di accertamento, insieme alla dicitura che si tratta di firma a
stampa e l'indicazione della fonte normativa.
La legittimità dell'utilizzo della firma a stampa, alle condizioni sopra
indicate, è confermata anche da altre pronunce di questa Corte di cassazione
(n. 20628/2017 e n. 12756/2019) ed è altresì possibile che la stessa venga
impiegata dal concessionario dei tributi comunali, come confermato dalla
sentenza n. 31707/2018. |
EDILIZIA PRIVATA:
Decadenza del titolo edilizio e regime giuridico delle opere
parzialmente eseguite e non successivamente completate.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Permesso di
costruire – Decadenza – Opere edilizie parzialmente eseguite
– Regime giuridico.
E’ rimesso all’Adunanza plenaria il
seguente quesito:
- quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere
parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio
decaduto e che non siano state oggetto di intervento di
completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio.
Da un lato, la giurisprudenza dominante ha ritenuto
che la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione
dei lavori nei termini -cioè per fatto imputabile al
titolare e relativo alle modalità di utilizzo/inutilizzo del
titolo- ha efficacia ex nunc e non ex tunc e, quindi, non
implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere
realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le
quali, perciò, non possono essere ritenute abusive) -ove
queste risultino conformi al progetto approvato con il
permesso di costruire- ma comporta semplicemente la
necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo
permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate.
Con la conseguenza che, in mancanza di proroga o rinnovo del
titolo, gli interventi effettuati successivamente alla
decadenza del titolo risultano abusivi, il che comporta la
legittimità dell'ordine di demolizione solo per quanto
realizzato successivamente all'intervenuta decadenza, ma non
per quanto realizzato in precedenza.
Dall’altro, l’art. 38 del d.P.R. 380 del 2001 si
ispira ad un principio di tutela degli interessi del
privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più
mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo
abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri
interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di
titolo, sì da ottenere la conservazione del bene. (1)
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(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. VI, 27.06.2022, n. 5258;
Cons. Stato, 19.03.2021, n. 1377; Cons. Stato, sez. IV,
06.08.2019 n. 5588; Cons. Stato, sez. VI, 19.12.2019 n.
8605; Cons. Stato, sez. VI, 2018, n. 2155 (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza non definitiva 07.03.2024 n. 2228 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA NON DEFINITIVA
28. Viene, a questo punto, in esame il profilo di
appello relativo alla sorte delle opere eseguite in costanza
di un titolo edilizio successivamente decaduto.
28.1. Come esposto in premesse, il giudice di prime cure ha
affermato che, sebbene il permesso decada –decorso
inutilmente il termine di conclusione dei lavori– per la
sola parte non eseguita, il mantenimento delle opere
presuppone la possibilità di portare a compimento l’opera
iniziata; diversamente opinando, dovrebbe ammettersi la
possibilità per il privato titolare di un permesso di
costruire di abbandonare l’opera incompiuta –specie se
funzionalmente non autonoma– con ingiustificato deturpamento
del contesto circostante, specie se l’opera contrasti con la
regolamentazione urbanistica dell’area.
28.2. L’appellante censura il capo di sentenza, osservando
che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio valido
ma poi decaduto non possono essere oggetto di ordine di
demolizione ex art. 31 del D.P.R. 380/2001, che riguarda le
opere eseguite sine titulo ovvero abusivamente, e
data la tassatività delle norme sanzionatorie non può essere
esteso a fattispecie non espressamente contemplate.
29. Il Collegio osserva che sulla questione si è
ripetutamente espressa la giurisprudenza di questo
Consiglio, affermando che la decadenza dal titolo edilizio
per mancata ultimazione dei lavori nei termini -cioè per
fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di
utilizzo /inutilizzo del titolo- ha efficacia ex nunc
e non ex tunc e quindi non implica l'obbligo di
disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo
di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non
possono essere ritenute abusive) -ove queste risultino
conformi al progetto approvato con il permesso di costruire-
ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare
decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione
delle opere non ancora ultimate; in mancanza di proroga o
rinnovo del titolo, gli interventi effettuati
successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi,
il che comporta la legittimità dell'ordine di demolizione
solo per quanto realizzato successivamente all'intervenuta
decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza
(Consiglio di Stato sez. VI, 27/06/2022, n. 5258,
19/03/2021, ord n. 1377 ed ivi richiam. Cons. St., IV,
06.08.2019 n. 5588).
Per Consiglio di Stato, sez. VI, 19.12.2019 n. 8605, una
eventuale decadenza del titolo edilizio per mancata
ultimazione dei lavori nel termine triennale non
consentirebbe la demolizione del manufatto, operando
l'effetto decadenziale ex nunc e lasciando, pertanto,
salve le opere a tale data già realizzate: <Invero, in
una corretta interpretazione dell'articolo 15 del DPR n. 380
del 2001, la decadenza impedisce solo l'ulteriore corso dei
lavori ma non determina illeceità urbanistica di quanto già
realizzato nella vigenza del titolo edificatorio.
Come più sopra precisato, infatti, l'abusività dell'opera (e
la sua conseguente demolizione) avrebbe potuto
legittimamente predicarsi solo per effetto dell'annullamento
del permesso di costruire per vizi di legittimità,
determinazione questa nella specie mai assunta.>.
29.2. D’altra parte, si può osservare che, se l’art. 31 del
D.P.R. 380/2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti
in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla
rimozione o alla demolizione, l’art. 38 dello stesso Decreto
ha disciplinato il particolare caso di “interventi
eseguiti in base a permesso di costruire annullato”,
prevedendo la possibilità che in luogo dell’ingiunzione a
demolire possa essere applicata dall’Amministrazione una
sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere.
Il Consiglio di Stato (cfr. ad es. sent. n. 6753/2018 della
Sez. VI) ha evidenziato che l’art. 38 del DPR 380/2001 si
ispira ad un principio di tutela degli interessi del
privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più
mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo
abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri
interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di
titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (cfr. ex
multis Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 2155/2018).
Motivo per cui striderebbe con i principi ritraibili
dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione
estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art. 31 in
una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo
(nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto.
30. D’altra parte, il Collegio osserva che l’orientamento
del giudice di prime cure appare non irragionevole e
tuttavia, in carenza di una norma che espliciti il regime
delle opere parzialmente eseguite cui non faccia seguito il
completamento dei lavori in virtù di un nuovo titolo (come
nel caso in questione, in cui l’impresa si è vista
respingere per due volte un progetto di completamento, in
virtù di atti cui ha prestato acquiescenza), andrebbe
esclusa l’applicazione analogica di una disciplina
sanzionatoria espressamente circoscritta ad opere eseguite
senza titolo (o in difformità dallo stesso).
31. Potrebbe, tuttavia, ritenersi che l’opera parziale
costituisca un manufatto difforme dall’intervento edilizio
autorizzato, e per questa via possa ritenersene precluso il
mantenimento.
32. Poiché la tesi da ultimo suggerita potrebbe porsi in
frizione con gli orientamenti precedentemente richiamati, il
Collegio ritiene di sollecitare l’intervento dell’Adunanza
plenaria.
33. Viene dunque rimesso all’Adunanza plenaria di questo
Consiglio di Stato il seguente quesito:
quale sia la disciplina giuridica applicabile alle
opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio
decaduto e che non siano state oggetto di intervento di
completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza non definitiva 07.03.2024 n. 2228 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono, nullo l’atto del Comune che non rispetta la scadenza per
le integrazioni.
Il Tar Campania boccia il diniego dell’ente che anticipa con un preavviso di
diniego il termine di 90 giorni concesso al proprietario per documentare la
richiesta.
Nella pratica di condono è nullo l’atto del Comune che non rispetta il
termine di 90 giorni per la presentazione di integrazioni.
È quanto emerge
da una
sentenza
04.03.2024 n. 587 pronunciata dal TAR Campania-Salerno, Sez. II, in merito alla richiesta di condono presentata da una
persona al Comune di Angri per un’opera realizzata senza titolo in un’area
non distante da un corso d’acqua che scorre su un alveo in cemento.
La vicenda ha inizio quando viene
presentata istanza di condono edilizio per un'opera realizzata senza titolo.
Dal Comune arriva il diniego per carenza dell'autorizzazione paesaggistica,
del nulla osta del Consorzio di Bonifica per aree ricadenti nei 10 metri dai
fiumi e dai canali (L.R.C. 14/1982), della relazione di compatibilità
idrogeologica (in quanto le opere ricadono nel Piano Stralcio dell'Autorità
di
Bacino) e della denuncia ai fini della T.A.R.R.U..
Nel ricorso si eccepisce
che
«il temine per l'integrazione documentale deve essere pari a novanta giorni,
mentre, nella fattispecie, con il preavviso di diniego del 02.12.2021,
al
ricorrente sono stati concessi solo trenta giorni per fornire la
documentazione richiesta».
Per i giudici il ricorso è fondato.
Ricordando le
norme relative ai tempi per la presentazione di integrazioni documentali i
magistrati, guardano al caso in specie
rimarcano che «il Comune ha emesso un provvedimento recante Avvio del
procedimento di diniego, con cui ha
richiesto documentazione integrativa e disposto che la mancata trasmissione
della stessa entro il termine di trenta
giorni avrebbe comportato l'improcedibilità della domanda».
Non solo:
«Successivamente ha disposto, con il
provvedimento in questa sede impugnato, il diniego dell'istanza di condono
per il mancato deposito delle
integrazioni - argomentano ancor a-. Risulta quindi evidente che
l'Amministrazione, non avendo rispettato il termine
previsto dalla legge a vantaggio della parte per procedere alle integrazioni
documentali, è incorsa nel vizio lamentato
dalla ricorrente.
Né vale, in senso contrario, invocare l'improcedibilità
della domanda di sanatoria per mancato
riscontro alla richiesta di integrazione del 27.10.2006, posto che tale
circostanza non è stata posta a
fondamento del gravato diniego, avendo anzi il Comune, nel riattivato
procedimento, rinnovato la domanda di
integrazione documentale (senza però, come detto, riconoscere in favore
della parte il termine minimo legale)».
In
conclusione, «il ricorso è manifestamente fondato sotto tale assorbente
profilo, con conseguente annullamento del
provvedimento del Comune» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.03.2024).
----------------
SENTENZA
Il ricorso è fondato.
Invero, ai sensi dell’art. 39, comma 4, della Legge n. 724/1994, come
modificato dall’art. 2, comma 37, lett. d), della Legge n. 662/1996, “La
mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di
tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune
comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della
concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione”.
Osserva il Collegio che, come chiarito dal Consiglio di Stato, “La stessa
causa di improcedibilità vige anche per le domande presentate ai sensi del
condono edilizio ex L. n. 326/2003, il quale richiama e rinvia alle stesse
procedure di cui alla L. n. 47/1985 e L. n. 724/1994 tramite i commi 25, 38
e 40 dell’art. 32 D.L. n. 269-2003 convertito con modifiche in L. n.
326/2003” (Cons. Stato, Sez, II, sentenza n. 1766/2020).
Orbene, nel caso di specie il Comune ha emesso un provvedimento recante “Avvio
del procedimento di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della Legge 241/1990
della domanda di concessione edilizia in sanatoria del 10/12/2004, prot. n.
28616, pratica n. 2004/00442/CON326 presentata ai sensi della Legge 326/2004”,
con cui ha richiesto documentazione integrativa e disposto che la mancata
trasmissione della stessa entro il termine di trenta giorni avrebbe
comportato l’improcedibilità della domanda.
Successivamente ha disposto, con il provvedimento in questa sede impugnato,
il diniego dell’istanza di condono per il mancato deposito delle
integrazioni.
Risulta quindi evidente che l’Amministrazione, non avendo rispettato il
termine previsto dalla legge a vantaggio della parte per procedere alle
integrazioni documentali, è incorsa nel vizio lamentato dalla ricorrente.
Né vale, in senso contrario, invocare l’improcedibilità della domanda di
sanatoria per mancato riscontro alla richiesta di integrazione del
27.10.2006, posto che tale circostanza non è stata posta a fondamento del
gravato diniego, avendo anzi il Comune, nel riattivato procedimento,
rinnovato la domanda di integrazione documentale (senza però, come detto,
riconoscere in favore della parte il termine minimo legale).
In conclusione, il ricorso è manifestamente fondato sotto tale assorbente
profilo, con conseguente annullamento del provvedimento del Comune di Angri
prot. 28616 di data 10.02.2022. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul permesso di costruire che si è formato a seguito del
decorso del tempo, in assenza di un espresso diniego da
parte del Comune.
Il consolidato orientamento secondo il
quale il silenzio-assenso previsto in tema di permesso di
costruire non si forma per il solo fatto dell'inutile
decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa
dell'amministrazione comunale e dell'adempimento degli oneri
documentali necessari per l'accoglimento della domanda, ma
presuppone che la parte onerata dia prova della sussistenza
di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è
subordinato il rilascio del titolo edilizio, risulta allo
stato mutato alla luce della più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato.
In particolare, il Consiglio di Stato ha affermato che: “va
richiamata quella giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la
quale ritiene che anche ove l’attività oggetto del
provvedimento di cui si chiede l'adozione non sia conforme
alle norme, si rende comunque configurabile la formazione
del silenzio-assenso.
Ciò, si ritiene confermato da puntuali ed univoci indici
normativi con il quali il legislatore ha inteso chiaramente
sconfessare la tesi secondo cui la possibilità di conseguire
il silenzio-assenso sarebbe legata, non solo al decorso del
termine, ma anche alla ricorrenza di tutti gli elementi
richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo:
in tal senso si fa richiamo tra l’altro per la parte di
interesse ai fini della questione in esame alla espressa
previsione della annullabilità d'ufficio di cui all’art.
21-nonies l. 241/1990 anche nel caso in cui il
“provvedimento si sia formato ai sensi dell'art. 20”,
presuppone evidentemente che la violazione di legge non
incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva
(secondo i canoni generali) in termini di illegittimità
dell'atto”.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento di rigetto della
richiesta presentata dal ricorrente in data 15.02.2023, prot.
n. -OMISSIS-/2023, volta ad ottenere, in relazione alla
istanza di permesso di costruire presentata il 15.07.2022, "l''attestazione
del silenzio-assenso ex artt. 20 d.P.R. n. 380/2001 e 62
D.L. Semplificazioni n. 77/2021, convertito nella L. n.
108/2021, in relazione all’art. 20 L. n. 241/1990 (comma
2-bis)".
...
1. Con il ricorso in esame è impugnato il provvedimento del
01.03.2022 con cui il Comune di Capri, a seguito della
richiesta del ricorrente circa il rilascio di una
attestazione relativa alla avvenuta formazione del silenzio
assenso sulla istanza di rilascio di permesso a costruire,
ha opposto che il titolo edilizio non si era formato.
Il Comune ha ritenuto che non si fosse perfezionato il
silenzio assenso sulla istanza di permesso a costruire ai
sensi dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. 380 del 2001 in
quanto, nella specie, i progettati interventi di “riqualificazione
funzionale e straordinaria manutenzione con diverso utilizzo
del locale commerciale, fusione e cambio di destinazione
d’uso di abitazione in ristorante” non fossero
consentiti dal vigente strumento urbanistico e che non
potessero applicarsi le disposizioni contenute nel SIAD
rappresentando le stesse un mero indirizzo per lo sviluppo
delle attività commerciali escludendo la loro capacità di
derogare alla vigente normativa a tutela del regolare
assetto del territorio, del paesaggio e comunque delle norme
igienico-sanitarie.
All’uopo il Comune evidenzia che l’istanza in parola
prevedeva l’unione dell’immobile ad uso residenziale con un
preesistente immobile già a destinazione commerciale il che
era in contrasto il vigente PRG il quale prevede che "a
condizione che non venga modificata la destinazione
residenziale, sono ammessi interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria e di restauro conservativo
dell'edilizia esistente, senza incrementi della cubatura
complessiva e della superficie interna utile e senza
alterazione sostanziale della preesistente volumetria”:
dunque il PRG non consentirebbe aumenti di cubatura e che
tale regola avrebbe prevalenza anche sugli indirizzi
contenuti nel SIAD.
2. Il ricorrente impugna la predetta determinazione
rilevandone la illegittimità per molteplici profili di
violazione di legge ed eccesso di potere.
2.1 Secondo la prospettiva del ricorrente, risulterebbe
violato l'art. 20 del d.P.R. n. 380/01 poiché sarebbero
stati applicati principi che la giurisprudenza del Consiglio
di Stato ritiene ormai superati a seguito delle innovazioni
introdotte in materia dal d.lgs. n. 127/2016, in vigore dal
28.07.2016, e dal d.l. n. 77/2021, in vigore dal 01.07.2021.
Il potere dell’amministrazione di opporre un diniego tardivo
verrebbe meno con il decorso del termine procedimentale,
residuando successivamente la sola possibilità di
intervenire in autotutela sull’assetto di interessi
formatosi ‘silenziosamente’.
A sostegno delle sue difese il ricorrente ha indicato le
norme di legge che concorrono a delineare il predetto
principio.
...
4. Il ricorso è fondato.
L’art. 20, comma 8, del d.P.R. 380 del 2001 dispone che: “Decorso
inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento
conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio
non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di
permesso di costruire si intende formato il
silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano
vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le
disposizioni di cui agli articoli da 14 e seguenti della
legge 07.08.1990, n. 241. Fermi restando gli effetti
comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per
l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici
giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione
circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di
richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase
e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso
termine, comunica all’interessato che tali atti sono
intervenuti”.
Nel caso in esame, come si evince dalla documentazione in
atti, parte ricorrente aveva presentato istanza volta al
rilascio del permesso a costruire in data 15.07.2022
rilasciando le dichiarazioni richieste dal formulario
predisposto dal Comune di Capri.
Il Comune non ha adottato alcun provvedimento espresso di
diniego né ha svolto istruttoria in contraddittorio con
l’interessato tendente ad promuovere chiarimenti sulla
consistenza delle opere da eseguirsi o sulla necessità di
acquisire altri permessi o nulla osta.
Tuttavia, alla formale richiesta del privato di rilascio
della attestazione della avvenuta formazione del titolo
per silentium, l’Amministrazione ha opposto che il
permesso di costruire non poteva dirsi formato per contrasto
dell’intervento edilizio con la disciplina urbanistica
vigente.
6. Orbene, sul punto, va rilevato che la giurisprudenza da
sempre ferma nel ritenere che il silenzio assenso sul
permesso a costruire potesse formarsi solo in presenza di
requisiti non solo formali ma anche sostanziali a sostegno
della istanza del privato, ha da ultimo virato verso una
interpretazione dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. 380 del
2001 ritenuta più coerente con le esigenze di
semplificazione perseguite dal legislatore.
6.1 Ed infatti, il consolidato orientamento secondo il quale
il silenzio-assenso previsto in tema di permesso di
costruire non si forma per il solo fatto dell'inutile
decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa
dell'amministrazione comunale e dell'adempimento degli oneri
documentali necessari per l'accoglimento della domanda, ma
presuppone che la parte onerata dia prova della sussistenza
di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è
subordinato il rilascio del titolo edilizio (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 25.02.2021, n. 1629; Cons. Stato Sez. IV,
01.07.2021, n. 5018) risulta allo stato mutato alla luce
della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato.
In particolare, il Consiglio di Stato ha affermato che: “va
richiamata quella giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato
sez. VI - 08/07/2022, n. 5746), condivisa dal Collegio, la
quale ritiene che anche ove l’attività oggetto del
provvedimento di cui si chiede l'adozione non sia conforme
alle norme, si rende comunque configurabile la formazione
del silenzio-assenso.
Ciò, si ritiene confermato da puntuali ed univoci indici
normativi con il quali il legislatore ha inteso chiaramente
sconfessare la tesi secondo cui la possibilità di conseguire
il silenzio-assenso sarebbe legata, non solo al decorso del
termine, ma anche alla ricorrenza di tutti gli elementi
richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo:
in tal senso si fa richiamo tra l’altro per la parte di
interesse ai fini della questione in esame alla espressa
previsione della annullabilità d'ufficio di cui all’art.
21-nonies l. 241/1990 anche nel caso in cui il
“provvedimento si sia formato ai sensi dell'art. 20”,
presuppone evidentemente che la violazione di legge non
incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva
(secondo i canoni generali) in termini di illegittimità
dell'atto” (ex multis, Cons. St. 04.09.2023, n.
8156).
6.2 Nel prendere atto di tale orientamento, ritiene il
Collegio che illegittimamente il Comune di Capri abbia
opposto la mancata formazione del titolo edilizio per
contrasto dell’intervento con le norme del vigente P.R.G.
poiché il permesso di costruire si è formato a seguito del
decorso del tempo, in assenza di un espresso diniego da
parte del Comune di Capri.
7. In conclusione, il ricorso va accolto e va accertata
l’avvenuta formazione del silenzio-assenso sull’istanza n.
prot. 18204 del 15.07.2022 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 29.02.2024 n. 1388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In tema di edilizia e urbanistica, l'obbligazione assunta da
chi stipula una convenzione edilizia di provvedere alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione riveste natura
propter rem, sicché dev'essere adempiuta non solo dal
firmatario dell'atto, ma anche dai soggetti che richiedono
la concessione, da quelli che realizzano l'edificazione e
dai loro aventi causa.
Per pacifica giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato, “l'obbligazione assunta di provvedere
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui
che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem.
La natura reale dell'obbligazione comporta dunque che
all'adempimento della stessa saranno tenuti non solo i
soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che
richiedono la concessione, quelli che realizzano
l'edificazione ed i loro aventi causa.
In senso conforme è la giurisprudenza amministrativa,
secondo la quale l'assunzione, all'atto della stipulazione
di una convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé,
per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di
realizzare una serie di opere di urbanizzazione del
territorio e di costituire su una parte di quelle aree una
servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione
propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del
terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione,
sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della
concessione edilizia nell'ambito della lottizzazione, sia
infine sui successivi proprietari della medesima res, per
cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a
carico di quest'ultimo in sede di convenzione di
lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora
dovuti, risultando inopponibile all'Amministrazione
qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e
qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni
in questione;
Invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva
dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non
trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in "parti"
a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende
semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni
presi”.
Analogamente, è stato chiarito che “Relativamente agli
obblighi assunti con le convenzioni urbanistiche, il dato
normativo di riferimento, univocamente individuato dalla
giurisprudenza, per postulare la sussistenza di tale
tipologia di obbligazione, è l'art. 28, comma 7, della L.
17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'art. 8 della L.
06.08.1967, n. 765.
Secondo la norma in questione "Il rilascio delle licenze
edilizie nell'ambito dei singoli lotti è subordinato
all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di
urbanizzazione primaria relativa ai lotti stessi.".
La sua interpretazione, nel senso di costituire la fonte di
un'obbligazione propter rem, è il frutto di un consolidato
orientamento giurisprudenziale, il quale si è anche
premurato di individuare quali sono i possibili successori
nell'obbligo, in ragione della presupposta ambulatorietà
dell'obbligazione.
Invero è stato affermato che tale obbligazione ob rem "va
adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha
stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui
che realizza opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata
al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi
obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è
con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento
degli oneri di urbanizzazione.
La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i
soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono
la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione, ed i
loro aventi causa; non anche i soggetti che utilizzano le
opere di urbanizzazione da altri realizzate per una loro
diversa edificazione, senza avere con i primi alcun
rapporto, e che, per ottenere la loro diversa concessione
edilizia, devono pagare al Comune concedente, per loro
conto, i relativi oneri di urbanizzazione.".
Principi analoghi sono stati sanciti anche questo Consiglio,
che ha ribadito come, dovendosi qualificare come
obbligazione propter rem quella scaturente dalla convenzione
di lottizzazione, "legittimati passivi dell'obbligazione di
realizzazione delle opere di urbanizzazione debbono
ritenersi non solo i lottizzanti che hanno concluso la
convenzione, ma anche coloro che risultano attuali
proprietari delle aree incluse nel comparto lottizzato e che
utilizzano le stesse, quali aventi causa degli originali
lottizzanti o successivi aventi causa, e comunque in ogni
caso di acquisto a titolo originario o a titolo derivativo."
.
Non è superfluo rilevare che secondo un recente precedente
di questo Consiglio, che il Collegio condivide e intende
ribadire, l'orientamento relativo alla natura reale delle
obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche può
essere riferito anche ad obblighi diversi da quelli
strettamente attinenti alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione, in ragione della specifica natura di tali
convenzioni, finalizzate non solo alla realizzazione di
interessi privati, ma soprattutto all'interesse pubblico al
corretto assetto del territorio”.
---------------
1. L’odierno appellante ha acquistato nel 1991 un’area
interessata dalla convenzione di lottizzazione stipulata fra
il suo dante causa ed il Comune di Amaroni.
A partire dal 1996, il Comune avanzava nei confronti degli
aventi causa, nel frattempo titolari delle relative
concessioni edilizie, pretese di carattere patrimoniale
relative all’adempimento degli oneri connessi all’esecuzione
delle opere di urbanizzazione, relative agli immobili
edificati in base alle suddette concessioni, che il Comune
stesso aveva dovuto eseguire, previa stipula di un mutuo
bancario, nell’inerzia dei ridetti proprietari.
Con sentenza n. 1232/2018 il TAR della Calabria, sede di
Catanzaro, all’esito della riassunzione di identico ricorso
dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione dalla
Corte di Appello di Catanzaro con sentenza n. 372 del 2018,
ha in parte respinto, e in parte dichiarato inammissibile il
ricorso proposto dall’odierno appellante per l’annullamento
dell’ingiunzione del 23.09.2005, con la quale il Comune di
Amaroni ha richiesto il pagamento di 36.836,16 euro per la
realizzazione di tali opere di urbanizzazione primaria.
Il ricorrente in primo grado ha impugnato l’indicata
sentenza con ricorso in appello.
Il Comune di Amaroni si è costituito in giudizio per
resistere al ricorso.
Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione
all’udienza straordinaria del 10.01.2024.
2. Va anzitutto osservato che la sentenza gravata ha
respinto le censure di carattere formale avanzate dal
ricorrente nel giudizio di primo grado: su tale capo di
sentenza non c’è impugnazione, onde lo stesso è passato in
autorità di cosa giudicata.
Nei tre motivi di gravame l’appellante contesta la sentenza
impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibili le
censure, di merito, relative alla pretesa comunale, sul
presupposto della mancata impugnazione delle precedenti
ingiunzioni adottate nel 2001 e nel 2003 dal Comune di
Amaroni per sollecitare il ricorrente all’esecuzione delle
opere di cui si tratta (primo motivo).
Con il secondo ed il terzo motivo di appello
deduce invece l’illegittimità del provvedimento comunale
impugnato in primo grado per le ragioni non esaminate dal
TAR, arrestatosi alla declaratoria d’inammissibilità.
3. Il primo motivo di appello è fondato.
Come correttamente dedotto dall’appellante la pretesa
oggetto di giudizio, estrinsecantesi attraverso atti
paritetici e non autoritativi dell’amministrazione, attiene
alla tutela di un diritto soggettivo del proprietario, la
cui cognizione è devoluta al giudice amministrativo in sede
di giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 2, lett. f),
cod. proc. amm.: tale tutela è dunque soggetta all’ordinario
termine di prescrizione, e non soggiace a termini
decadenziali (ex multis, Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria, sentenza n. 12/2018; sez. II; sentenza n.
3327/2020).
4. Con il secondo motivo l’appellante lamenta
anzitutto che la lottizzazione “Scianni”, in forza
della quale il Comune di Amaroni pretende il pagamento degli
oneri di urbanizzazione, sarebbe priva di effetti giuridici
perché priva del prescritto nulla-osta regionale; che la
scrittura privata sottoscritta dal procuratore del
lottizzante (in base a procura della cui validità
l’appellante pure dubita) e dall’amministrazione, recante
gli obblighi assunti dal primo, sarebbe invalida perché
avrebbe dovuto assumere le forme dell’atto pubblico, e
perché nulla ex art. 1346 cod. civ. in quanto “in essa
non sono state previste in modo univoco le obbligatorie
garanzie fidejussorie che il lottizzante avrebbe dovuto
fornire al comune a garanzia del completo adempimento delle
obbligazioni a suo carico”, e comunque perché non
risulta trascritta nei pubblici registri immobiliari (e
sottoscritta da soggetto privo di valido mandato).
La convenzione avrebbe poi lasciato in bianco la parte
relativa alla determinazione degli oneri.
La vendita frazionata dell’area sarebbe stata dunque
consentita al lottizzante, che “non ha mai provveduto a
realizzare alcuna urbanizzazione, primaria e secondaria, né
mai ha ceduto gratuitamente all’amministrazione le aree
interessate dalle suddette”, “pur se la stessa fosse
priva di alcuna opera di urbanizzazione e senza nemmeno aver
richiesto la concessione edilizia perpetrando, così, una
vera e propria lottizzazione abusiva”.
L’appellante deduce poi che “l’amministrazione comunale,
allorquando ha autorizzato le varie costruzioni nella
località “Scianni”, ha omesso di imporre ai richiedenti
delle concessioni edilizie l’obbligo di provvedere alle
opere di urbanizzazione, relative ai rispettivi manufatti”;
e che “la P.A. non ha mai inteso fare ricadere, almeno in
parte, i relativi oneri sul proprietario terriero, bensì
quello di addossarli tutti ai malcapitati acquirenti dei
vari “appezzamenti” di terreno i quali, tra l’altro, hanno
versato la rispettiva quota-parte di urbanizzazione, al
momento del rilascio delle relative concessioni edilizie”.
5. Con il terzo motivo l’appellante lamenta che la
richiesta comunale di eseguire le opere di urbanizzazione
sarebbe stata avanzata “allorquando (anno 1996) la
convenzione era già divenuta inefficace sia per decorso del
termine quinquennale, ex articolo 2 della “convenzione”, sia
di quello decennale ex art. 20 L. n. 1150/1942”, e che “Tale
ingiunzione e le successive diffide sindacali non sono state
trascritte presso il competente Ufficio dei Registri
Immobiliari per come imposto dal comma 3 del richiamato art.
20 legge n. 1150”.
6. Va preliminarmente osservato che per pacifica
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (si veda in tal
senso, ex multis, la sentenza n. 199/2019), “l'obbligazione
assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia
è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I,
20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II,
26.11.1988, n. 6382);
d) la natura reale dell'obbligazione comporta dunque che
all'adempimento della stessa saranno tenuti non solo i
soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che
richiedono la concessione, quelli che realizzano
l'edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ.,
15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n.
12571);
e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la
quale l'assunzione, all'atto della stipulazione di una
convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i
propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una
serie di opere di urbanizzazione del territorio e di
costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso
pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che
grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia
stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che
abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia
nell'ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi
proprietari della medesima res (Tar Trento, sez. I,
06.11.2014, n. 394; in senso conforme Tar Campania, Napoli,
sez. II, 09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII,
16.04.2014, n. 2170; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n.
467; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per
cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a
carico di quest'ultimo in sede di convenzione di
lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora
dovuti (Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747),
risultando inopponibile all'Amministrazione qualsiasi
previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi
vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in
questione;
f) invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva
dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non
trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in "parti"
a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende
semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni
presi (Tar Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843)”.
Analogamente, la sentenza n. 6894/2020 ha chiarito che “Relativamente
agli obblighi assunti con le convenzioni urbanistiche, il
dato normativo di riferimento, univocamente individuato
dalla giurisprudenza, per postulare la sussistenza di tale
tipologia di obbligazione, è l'art. 28, comma 7, della L.
17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'art. 8 della L.
06.08.1967, n. 765 (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n.
6382; Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947).
Secondo la norma in questione "Il rilascio delle licenze
edilizie nell'ambito dei singoli lotti è subordinato
all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di
urbanizzazione primaria relativa ai lotti stessi.".
La sua interpretazione, nel senso di costituire la fonte di
un'obbligazione propter rem, è il frutto di un consolidato
orientamento giurisprudenziale (può nuovamente citarsi,
Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382, ripresa dalle
successive pronunce), il quale si è anche premurato di
individuare quali sono i possibili successori nell'obbligo,
in ragione della presupposta ambulatorietà
dell'obbligazione.
Invero è stato affermato che tale obbligazione ob rem "va
adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha
stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia (vedi Cassazione civile
sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cassazione civile, sez.
II, 26.11.1988 n. 6382, citata dallo stesso ricorrente);
ovvero nel senso che colui che realizza opere di
trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della
concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei
confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano
sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo
solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione (vedi Cassazione civile sez. III, 17.06.1996,
n. 5541). La natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa; non anche
i soggetti che utilizzano le opere di urbanizzazione da
altri realizzate per una loro diversa edificazione, senza
avere con i primi alcun rapporto, e che, per ottenere la
loro diversa concessione edilizia, devono pagare al Comune
concedente, per loro conto, i relativi oneri di
urbanizzazione." (Cass. civ., sez. II, 27.08.2002, n. 12571;
cfr. anche Cass. civ., sez. III, 15.05.2007, n. 11196).
Principi analoghi sono stati sanciti anche questo Consiglio,
che ha ribadito come, dovendosi qualificare come
obbligazione propter rem quella scaturente dalla convenzione
di lottizzazione, "legittimati passivi dell'obbligazione di
realizzazione delle opere di urbanizzazione debbono
ritenersi non solo i lottizzanti che hanno concluso la
convenzione, ma anche coloro che risultano attuali
proprietari delle aree incluse nel comparto lottizzato e che
utilizzano le stesse, quali aventi causa degli originali
lottizzanti o successivi aventi causa, e comunque in ogni
caso di acquisto a titolo originario o a titolo derivativo."
(Cons. Stato, sez. IV, 09.01.2019, n. 199). Non è superfluo
rilevare che secondo un recente precedente di questo
Consiglio, che il Collegio condivide e intende ribadire,
l'orientamento relativo alla natura reale delle obbligazioni
derivanti dalle convenzioni urbanistiche può essere riferito
anche ad obblighi diversi da quelli strettamente attinenti
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione (Cons.
Stato, sez. II, 23.09.2019, n. 6282: nel caso deciso da
questa pronuncia si trattava della cessione gratuita delle
aree prevista nella convenzione), in ragione della specifica
natura di tali convenzioni, finalizzate non solo alla
realizzazione di interessi privati, ma soprattutto
all'interesse pubblico al corretto assetto del territorio”.
7. L’applicazione dei surrichiamati princìpi alla
fattispecie dedotta nel presente giudizio conduce al
rigetto, perché infondati, dei due motivi di appello in
esame (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 28.02.2024 n. 1952 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione
di una piscina interrata (con volumetria lorda pari a 123,28 mc
e con una superficie lorda pari a 68,49 mq) al servizio
della propria abitazione unifamiliare è da qualificarsi come
"nuova costruzione". Inoltre, il medesimo intervento
è oneroso.
La giurisprudenza nettamente prevalente ritiene che la piscina interrata
costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso
di costruire e non sia qualificabile in termini di
pertinenza dell’edificio principale in ragione della
significativa trasformazione del territorio giacché “la
piscina, in considerazione della sua consistenza
modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una
nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli
interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui
all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001”.
In materia, si richiamano altresì i seguenti principi
affermati dalla recente giurisprudenza:
- “Pure infondata è la terza censura con cui parte ricorrente
lamenta che la piscina avrebbe carattere pertinenziale e non
richiederebbe il permesso di costruire.
E infatti, giova
richiamare anche sul punto l’orientamento dominante della
giurisprudenza amministrativa secondo cui la realizzazione
di una piscina non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è
necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non
è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi
della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura
edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio
dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso
di costruire
[...]
Pertanto, è da escludere che, nella fattispecie,
possano trovare applicazione le normative invocate con le
censure che prevedono titoli di autoamministrazione (s.c.i.a.)
compatibili unicamente con la conservazione delle
preesistenze, in funzione della tutela del diritto di
proprietà senza alcuna “innovazione” sul territorio e la cui
mancanza è sanzionabile solo pecuniariamente.
Non appare poi
corretta l’affermazione di parte ricorrente secondo cui la
realizzazione di una piscina e la sostituzione del suolo
agricolo con pavimentazione non immuti lo stato dei luoghi e
non abbia impatto paesaggistico, tenuto conto che si tratta
di modifiche sostanziali alla configurazione del territorio
sul quale tali opere insistono; sotto questo profilo la
circostanza che la piscina interrata e la pavimentazione non
si sviluppino in verticale, non esclude che esse alterino la
consistenza dei suoli e costituiscano interventi edilizi
sostanzialmente innovativi e modificativi dell’assetto
edilizio del territorio, senza che, come detto, residui
alcun margine di ponderazione tra interessi pubblici e
privati, come, invece, preteso da parte attrice”;
- “6.2. Come è noto, la giurisprudenza amministrativa tende a
circoscrivere la nozione di “pertinenza urbanistica”,
fornendone una definizione più ristretta rispetto a quella
civilistica. […]
6.5. In particolare, è stato condivisibilmente affermato che “le piscine non sono
pertinenze in senso urbanistico in quanto comportanti
trasformazione durevole del territorio. L’aspetto funzionale
relativo all’uso del manufatto è altresì condiviso da altra
recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi
strutturali concorrono al computo di volumetria dei
manufatti, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve
intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non
qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in
ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere
rispetto a quella propria dell’edificio cui accede.
La
piscina, infatti, a differenza di altri manufatti, non può
essere attratta alla categoria urbanistica delle mere
pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare
all’uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per
lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in
quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula,
pertanto, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad
aedificandum, costituito dal permesso di costruire” […]
7. Orbene dal momento che la
costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza
modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio
(nella specie, trattasi di un’opera interrata, avente una
superficie totale di circa 62,50 mq.), non può essere
ascritta al novero degli “interventi di manutenzione
straordinaria” e degli “interventi minori” ai sensi
dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del2001, rientrando invece
nel novero degli interventi di nuova costruzione, ne deriva
che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del
d.P.R. n. 380cit., per la relativa edificazione è richiesto
il permesso di costruire, trattandosi di attività
qualificabile come intervento di nuova costruzione, che
comporta la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio”.
In applicazione dei richiamati principi giurisprudenziali,
risulta pertanto corretta la qualificazione da parte
dell’Amministrazione comunale dell’intervento oggetto di
segnalazione quale “nuova costruzione”.
---------------
E' destituita di fondamento la tesi difensiva della ricorrente
laddove sostiene che l’esclusione
dell’onerosità dell’intervento edilizio in questione
dovrebbe desumersi da quanto previsto dall’art. 17, comma 3,
lett. b), D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale “Il
contributo di costruzione non è dovuto: […] b) per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Secondo la ricorrente, infatti, se la legge, al fine di
favorire la piccola proprietà immobiliare, ha escluso in
questi casi l’obbligo del pagamento del contributo di
costruzione, a maggior ragione dovrebbe esserne esente, a
pena di irrazionalità del sistema, la realizzazione di una
piscina pertinenziale non eccedente il 20% del volume
dell'edificio principale.
Al riguardo, premesso che l’intervento oggetto di segnalazione non può pacificamente
qualificarsi né come ristrutturazione né come ampliamento ai
sensi della predetta norma (la quale, peraltro, avendo
natura eccezionale, non può essere applicata
analogicamente), il Collegio ritiene che non sussista la
prospettata irrazionalità del sistema paventata da parte
ricorrente.
Ed invero, secondo l’interpretazione fornita dalla
giurisprudenza, “…l’esenzione dal contributo di costruzione
per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici
unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%,
costituisce oggetto di una previsione di carattere
eccezionale (applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal
legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta
sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di
salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli
interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle
necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio
unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla
norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà
immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è
meritevole di un trattamento differenziato”.
Ciò posto, essendo la ratio della citata norma di esclusione
dal contributo di costruzione quella di agevolare gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento funzionali
all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del
nucleo familiare, non risulta ravvisabile alcuna
irragionevolezza nel non contemplare tra le predette ipotesi
di esclusione la costruzione di un nuovo manufatto esterno
all’abitazione non strettamente connesso alle citate
necessità abitative del nucleo familiare.
---------------
La sig.ra -OMISSIS- ha presentato al Comune di -OMISSIS- una
segnalazione certificata di inizio attività, protocollata
dall’ente in data -OMISSIS-, per la realizzazione di una
piscina interrata (con volumetria lorda pari a 123,28 mc e
con una superficie lorda pari a 68,49 mq) al servizio della
propria abitazione unifamiliare.
Con provvedimento prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS- il Comune
di -OMISSIS- –rilevato che “La costruzione di nuova
piscina interrata al servizio della residenza privata
costituisce opera di nuova costruzione e non di
ristrutturazione, ancorché riferita a pertinenza,
accessorio, o qualsivoglia definizione del nuovo manufatto
interrato venga utilizzata dal Segnalante: per tale motivo è
assoggettata a Permesso di Costruire ovvero a SCIA
sostitutiva del permesso di Costruire…”– ha ordinato
alla sig.ra -OMISSIS- di non effettuare l’intervento
segnalato, avvertendo che qualunque opera eseguita sarebbe
stata priva di titolo abilitativo.
Avverso tale provvedimento, la sig.ra -OMISSIS- ha proposto
ricorso davanti a questo Tribunale chiedendone
l’annullamento.
...
La ricorrente, con unico motivo di ricorso, censura
il provvedimento impugnato per violazione degli artt. 3,
comma 1, lett. e), 17, comma 3, lett. b), D.P.R. n. 380/2001
e 27 l.r. n. 12/2005, in quanto avrebbe erroneamente
qualificato l’intervento oggetto di segnalazione quale “nuova
costruzione”, soggetta a permesso di costruire o a SCIA
ad esso alternativa, e non quale attività edilizia “gratuita”
soggetta a semplice SCIA.
Il ricorso è infondato.
In primo luogo, parte ricorrente sostiene che la costruzione
di una piscina di volume inferiore al 20% dell’edificio
principale consisterebbe in un intervento pertinenziale non
rientrante tra quelli indicati dall’art. 3, comma 1, lett. e.6),
D.P.R. n. 380/2001 (“gli interventi pertinenziali che le
norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione
alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico
delle aree, qualifichino come interventi di nuova
costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un
volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”),
e quindi non qualificabile quale “intervento di nuova
costruzione”.
La tesi non è condivisibile.
Ed invero, in un precedente analogo questa Sezione ha
rilevato che “La giurisprudenza nettamente prevalente,
che il Collegio condivide, ritiene che la piscina interrata
costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso
di costruire e non sia qualificabile in termini di
pertinenza dell’edificio principale in ragione della
significativa trasformazione del territorio giacché “la
piscina, in considerazione della sua consistenza
modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una
nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli
interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui
all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez.
II, 02/08/2022, n. 703; TAR Napoli, sez. VII, 16/03/2017, n.
1503)” (Tar Lombardia–Brescia, sent. n. 993/2022).
In materia, si richiamano altresì i seguenti principi
affermati dalla recente giurisprudenza:
- “Pure infondata è la terza censura con cui parte ricorrente
lamenta che la piscina avrebbe carattere pertinenziale e non
richiederebbe il permesso di costruire. E infatti, giova
richiamare anche sul punto l’orientamento dominante della
giurisprudenza amministrativa secondo cui la realizzazione
di una piscina non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è
necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non
è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi
della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura
edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio
dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso
di costruire (TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n.
42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642)
[...] Pertanto, è da escludere che, nella fattispecie,
possano trovare applicazione le normative invocate con le
censure che prevedono titoli di autoamministrazione (s.c.i.a.)
compatibili unicamente con la conservazione delle
preesistenze, in funzione della tutela del diritto di
proprietà senza alcuna “innovazione” sul territorio e la cui
mancanza è sanzionabile solo pecuniariamente. Non appare poi
corretta l’affermazione di parte ricorrente secondo cui la
realizzazione di una piscina e la sostituzione del suolo
agricolo con pavimentazione non immuti lo stato dei luoghi e
non abbia impatto paesaggistico, tenuto conto che si tratta
di modifiche sostanziali alla configurazione del territorio
sul quale tali opere insistono; sotto questo profilo la
circostanza che la piscina interrata e la pavimentazione non
si sviluppino in verticale, non esclude che esse alterino la
consistenza dei suoli e costituiscano interventi edilizi
sostanzialmente innovativi e modificativi dell’assetto
edilizio del territorio, senza che, come detto, residui
alcun margine di ponderazione tra interessi pubblici e
privati, come, invece, preteso da parte attrice” (Tar
Campania–Napoli, sent. n. 3874/2020);
- “6.2. Come è noto, la giurisprudenza amministrativa tende a
circoscrivere la nozione di “pertinenza urbanistica”,
fornendone una definizione più ristretta rispetto a quella
civilistica. […] 6.5. In particolare, è stato
condivisibilmente affermato che “le piscine non sono
pertinenze in senso urbanistico in quanto comportanti
trasformazione durevole del territorio. L’aspetto funzionale
relativo all’uso del manufatto è altresì condiviso da altra
recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi
strutturali concorrono al computo di volumetria dei
manufatti, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve
intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non
qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in
ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere
rispetto a quella propria dell’edificio cui accede. La
piscina, infatti, a differenza di altri manufatti, non può
essere attratta alla categoria urbanistica delle mere
pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare
all’uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per
lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in
quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide
invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula,
pertanto, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad
aedificandum, costituito dal permesso di costruire” (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 09/09/2020, n. 3730; Cons. di
Stato, sent. n. 35/2016)” […] 7. Orbene dal momento che la
costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza
modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio
(nella specie, trattasi di un’opera interrata, avente una
superficie totale di circa 62,50 mq.), non può essere
ascritta al novero degli “interventi di manutenzione
straordinaria” e degli “interventi minori” ai sensi
dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del2001, rientrando invece
nel novero degli interventi di nuova costruzione, ne deriva
che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del
d.P.R. n. 380cit., per la relativa edificazione è richiesto
il permesso di costruire, trattandosi di attività
qualificabile come intervento di nuova costruzione, che
comporta la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio” (Tar Puglia–Lecce, sent. n. 845/2022).
In applicazione dei richiamati principi giurisprudenziali,
risulta pertanto corretta la qualificazione da parte
dell’Amministrazione comunale dell’intervento oggetto di
segnalazione quale “nuova costruzione”.
La ricorrente sostiene inoltre che l’esclusione
dell’onerosità dell’intervento edilizio in questione
dovrebbe desumersi da quanto previsto dall’art. 17, comma 3,
lett. b), D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale “Il
contributo di costruzione non è dovuto: […] b) per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Secondo la ricorrente, infatti, se la legge, al fine di
favorire la piccola proprietà immobiliare, ha escluso in
questi casi l’obbligo del pagamento del contributo di
costruzione, a maggior ragione dovrebbe esserne esente, a
pena di irrazionalità del sistema, la realizzazione di una
piscina pertinenziale non eccedente il 20% del volume
dell'edificio principale.
Anche tale tesi risulta destituita di fondamento.
Premesso che l’intervento oggetto di segnalazione, come
anche ammesso dalla ricorrente, non può pacificamente
qualificarsi né come ristrutturazione né come ampliamento ai
sensi della predetta norma (la quale, peraltro, avendo
natura eccezionale, non può essere applicata
analogicamente), il Collegio ritiene che non sussista la
prospettata irrazionalità del sistema paventata da parte
ricorrente.
Ed invero, secondo l’interpretazione fornita dalla
giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa motivi per
discostarsi, “…l’esenzione dal contributo di costruzione
per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici
unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%,
costituisce oggetto di una previsione di carattere
eccezionale (applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal
legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta
sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di
salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli
interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle
necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio
unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla
norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà
immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è
meritevole di un trattamento differenziato (TAR
Lombardia-Milano, sez. IV – 02/07/2014 n. 1707)” (Tar
Lombardia–Brescia, sent. n. 449/2018, cfr. di recente Tar
Emilia Romagna, Bologna, sent. n. 848/2022).
Ciò posto, essendo la ratio della citata norma di esclusione
dal contributo di costruzione quella di agevolare gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento funzionali
all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del
nucleo familiare, non risulta ravvisabile alcuna
irragionevolezza nel non contemplare tra le predette ipotesi
di esclusione la costruzione di un nuovo manufatto esterno
all’abitazione non strettamente connesso alle citate
necessità abitative del nucleo familiare.
Alla luce di tutte le argomentazioni suesposte, il ricorso
risulta infondato e deve essere respinto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 11.01.2024 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Negozi, ampliamento della superficie possibile solo entro il 20%.
Il Tar Lazio ricorda i limiti ammessi in caso di ristrutturazioni: in
termini assoluti l’aumento non può comunque mai superare i 200 mq.
In caso di lavori di ristrutturazione di immobili commerciali, l’eventuale
ampliamento della superficie utile lorda non può superare il 20 per cento
della superficie utile lorda originaria e, comunque, i 200 metri quadrati.
Anche in caso di realizzazione di soppalchi.
È quanto emerge da una
sentenza
20.12.2023 n. 19294 del TAR Lazio-Roma, Sez. IV-ter, relativa a una vicenda che riguardava alcuni
interventi portati avanti all’interno di un locale commerciale.
Roma
Capitale aveva respinto l'istanza di condono presentata dall'azienda
proprietaria del locale in merito alla realizzazione di due soppalchi
commerciali di 98 metri quadrati e 274 metri cubi all'interno dell'immobile.
Quindi il ricorso contro il diniego.
I giudici ricordano, nella
ricostruzione del
procedimento che «il provvedimento negativo si fonda sul rilevato
superamento dei limiti di superficie stabiliti dall'art. 2, comma 1, lett.
e), della
citata legge regionale che, per le opere di ristrutturazione edilizia degli
immobili ad uso commerciale, prevede che l'eventuale ampliamento della
superficie utile lorda non può superare il 20 per cento della superficie
utile
lorda originaria e, comunque, i 200 metri quadrati».
Alla luce di questa
premessa il Collegio giudicante «ritiene che le censure proposte da parte
ricorrente non sono meritevoli di
favorevole esame».
Oltre a dichiarare non fondata la parte relativa a un
eventuale silenzio-assenso i giudici, nel caso
specifico, sottolineano che «nel caso di specie, è incontroverso, sul piano fattuale, che la superficie dei soppalchi
realizzati superi il 20% della superficie originaria dell'immobile e che,
quindi, non ricorresse la condizione richiesta
dalla legge regionale per l'accoglimento dell'istanza di condono, risultando
superato il limite di superficie imposto
dall'art. 2, comma 1, lett. e), della menzionata legge regionale» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.01.2024).
---------------
SENTENZA
5. Giova premettere, in punto di fatto e per il migliore inquadramento
della vicenda contenziosa, che viene in rilievo l’impugnazione del diniego
di condono di cui all’istanza di parte ricorrente presentata ai sensi della
legge n. 326 del 2003, per opere consistenti nella realizzazione di
realizzazione senza titolo, all’interno dell’immobile sito in Via ... n. 28,
di due soppalchi commerciali di mq. 98,00 rispetto alla superficie
originaria di 172,60 mq..
Il provvedimento negativo si fonda sul rilevato superamento dei limiti di
superficie stabiliti dall’art. 2, comma 1, lett. e), della citata legge
regionale che, per le opere di ristrutturazione edilizia degli immobili ad
uso commerciale, prevede che “l’eventuale ampliamento della superficie
utile lorda non può superare il 20 per cento della superficie utile lorda
originaria e, comunque, i 200 metri quadrati”.
6. Tanto premesso, il Collegio ritiene che le censure proposte da parte
ricorrente non sono meritevoli di favorevole esame.
7. Con riguardo al primo motivo di ricorso, con il quale la parte
ricorrente afferma essersi formato il silenzio-assenso sull’istanza
presentata ben prima dell’emanazione del gravato diniego, va richiamato
l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “il silenzio-assenso previsto
in tema di condono edilizio non si forma solo in virtù dell’inutile decorso
del termine prefissato per la pronuncia espressa dell’amministrazione
comunale e dell’adempimento degli oneri documentali ed economici necessari
per l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova della
ricorrenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è
subordinata l’ammissibilità del condono. Ne deriva che il titolo abilitativo
tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto ove la domanda
sia conforme al relativo modello legale e, quindi, sia in grado di
comprovare che ricorrano tutte le condizioni previste per il suo
accoglimento” (cft. Consiglio di Stato sez. VII - 12/06/2023, n. 5742).
Nel caso di specie, è incontroverso, sul piano fattuale, che la superficie
dei soppalchi realizzati superi il 20% della superficie originaria
dell’immobile e che, quindi, non ricorresse la condizione richiesta dalla
legge regionale per l’accoglimento dell’istanza di condono, risultando
superato il limite di superficie imposto dall’art. 2, comma 1, lett. e),
della menzionata legge regionale.
Pertanto deve escludersi che, nella vicenda in esame, si possa essere
consolidato il silenzio-assenso sull’istanza presentata dalla parte
ricorrente.
8. Anche il secondo motivo di ricorso, di ordine procedimentale,
risulta privo di pregio, tenuto conto che nella motivazione del
provvedimento impugnato vi è un passaggio espressamente dedicato alle
controdeduzioni presentate dalla parte ricorrente a seguito della
trasmissione del preavviso di rigetto, le quali vengono considerate inidonee
a superare l’ostacolo relativo al “superamento dei limiti di superficie
regionali”.
Peraltro, come evidenziato dalla giurisprudenza, la norma sulla
comunicazione dei motivi ostativi e sul conseguente dovere
dell’Amministrazione procedente di indicare nella motivazione del
provvedimento finale le ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni
presentate dall’interessato trova un limite nelle ipotesi in cui
l’Amministrazione svolga attività vincolata, come nel caso di specie, stante
la contestuale presenza dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della
stessa legge 07.08.1990, n. 241, che trova applicazione anche nel caso in
cui la violazione procedimentale sia costituita dall’omessa motivazione
circa il mancato accoglimento delle osservazioni comunicazione dei motivi
ostativi. |
VARI:
La caduta sul marciapiede va risarcita in base alle Tabelle di
Milano.
Non è un incidente stradale quindi non si applicano i valori ministeriali,
più bassi.
Il danno biologico riportato da un pedone caduto su un marciapiede a causa
dell’inclinazione di un tombino non va risarcito con i criteri previsti dal
Codice delle assicurazioni private (Cap, Dlgs 209/2005) per gli incidenti stradali:
va fatto riferimento dal diritto comune.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con l'ordinanza
21.11.2023 n. 32373 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.12.2023). |
VARI:
Su Facebook si può dire (quasi) tutto ciò che si pensa dei
politici.
Secondo la Cassazione utilizzare su Facebook espressioni apparentemente
offensive nei confronti di un’alta carica istituzionale non per forza
costituisce reato di diffamazione.
Secondo la Corte di Cassazione
- Sez. V penale (sentenza 20.11.2023 n. 46496) utilizzare su Facebook espressioni apparentemente
offensive nei confronti di un’alta carica istituzionale o persino –come
nella vicenda– nei confronti di un Ministro non per forza costituisce reato
di diffamazione.
E ciò è vero soprattutto in caso di espressioni offensive che pur aspre,
sono comunque strettamente connesse all’attività politica del soggetto
passivo, tanto più se incentrate su dati veri (articolo NT+Diritto del 14.12.2023).
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SENTENZA
1. Va premesso che, in materia di diffamazione, la
Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva
della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità
procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della
materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle
frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa,
pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato
(Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145; Sez. 5, n.
48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 41869 del
14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706).
2. Ciò detto, il ricorso è fondato.
3. Nel caso di specie non si discute della verità o veridicità del fatto
esposto, né dell'interesse pubblico alla notizia.
Non è in discussione che, nel momento in cui il commento del quale si
discute fu pubblicato, fosse in corso un dibattito sul c.d. decreto Lorenzin
e che fosse del tutto corrispondente all'interesse pubblico
l'approfondimento ed il dibattito, anche in chiave critica, di tutte le
questioni che l'obbligo vaccinale da tale decreto introdotto comportava.
In materia di diffamazione a mezzo stampa o, come nel caso
sottoposto a giudizio, con «altro mezzo di pubblicità», il diritto di
critica politica consentito, che trova fondamento nell'interesse
all'informazione dell'opinione pubblica e nel controllo democratico nei
confronti degli esponenti politici e dei pubblici amministratori, non deve
comunque essere avulso da un nucleo di verità
(Sez. 5,
sentenza 09.11.2020 n. 31263, Capozza,
Rv. 279909). Il nucleo di verità insito nel commento
critico è, appunto, relativo alla decisione che il Ministro aveva proposto.
Detto ciò, non si discute del diritto del ricorrente di esprimere la propria
opinione, anche con toni aspri proprio in ragione della natura pubblica del
personaggio oggetto di attacchi, e cioè del Ministro della Salute che si
identificava con la persona e con la responsabile dell'istituzione
direttamente coinvolta nella scelta politica sottoposta a censura. Si
discute, invece, del tono e delle espressioni utilizzate, nella prospettiva
del riconoscimento, o meno, dell'invocata scriminante.
La parte civile, nella memoria con la quale ha replicato alle argomentazioni
del Procuratore generale, ha correttamente osservato che non corrisponde
alla verità o veridicità del fatto storico la circostanza che il Ministro
della Salute fosse corrotta; ed altrettanto correttamente ha osservato che
la frase utilizzata dal ricorrente (si discute, come è chiaro, della seconda
parte del commento, quello cioè nel quale si parla di "politici più
corrotti del mondo" e di "vaccino anticorruzione") fosse
suscettibile di ledere la reputazione del soggetto preso di mira.
Partendo dall'ultima osservazione, nel momento stesso in cui si invoca, da
parte del ricorrente, la scriminante del diritto di critica si dà per
presupposto che la reputazione sia stata lesa, perché se la frase di cui si
discute non fosse stata offensiva mancherebbe la stessa tipicità del fatto,
e cioè appunto l'offesa alla reputazione; il ricorrente, invece, invoca il
diritto di critica che incide, come ogni causa di giustificazione,
sull'antigiuridicità del fatto, certamente tipico.
Dunque, non si discute dell'offensività della frase, ma della sua illiceità
alla luce del diritto di critica politica.
Nemmeno coglie nel segno l'ulteriore osservazione che riguarda la "verità"
del fatto. Non si discute certo della verità o veridicità di una notitia
criminis di corruzione, bensì della notizia relativa all'annunciato
decreto vaccinale.
Su di esso si è innestata la reazione critica del ricorrente (e di altri
frequentatori della piattaforma sulla quale il commento fu pubblicato),
espressa con la frase di cui si discute, e della quale dunque non va
valutata la verità o veridicità, ma solo la continenza, secondo gli approdi
cui è giunta la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di c.d.
critica politica.
4. Il diritto di critica si concretizza in un giudizio
valutativo che, postulando l'esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto
del discorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamente
sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza va esclusa
la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio
figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano adeguate e
funzionali all'opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi e
i valori che si ritengono compromessi
(Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Surano, Rv. 261122).
La critica, quale espressione di opinione meramente
soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per
definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica
(Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284).
Nondimeno, occorre rispettare il requisito della "continenza"
delle espressioni utilizzate per esprimere la propria opinione.
Nella valutazione di tale requisito non si può prescindere dal considerare
le "espressioni utilizzate"
(Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651), il
lessico (Sez. 5, n. 6925 del
21/12/2000, dep. 2001, Arcomanno, Rv. 218282), la modalità
espositiva e il tenore del linguaggio
(Sez. 5,
sentenza 04.03.2021 n. 8898, Fanini,
Rv. 280571; Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010, dep. 2011, Morelli, Rv. 250218;
Sez. 5, n. 31096 del 04/03/2009, Spartà, Rv. 244811; Sez. 5, n. 25138 del
21/02/2007, Feltri, Rv. 237248).
Occorre però tener presente che, ferma l'esigenza di
evitare gratuite ed immotivate aggressioni, il diritto di critica consente
l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il
significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto
alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato
(Sez. 5,
sentenza 05.06.2020 n. 17243, Lunghini,
Rv. 279133); e che occorre considerare il significato che
le espressioni assumono nel contesto comune, laddove sono accettate dalla
maggioranza dei cittadini espressioni più aggressive e disinvolte di quelle
ammesse nel passato, per effetto del mutamento della sensibilità e della
coscienza sociale (cfr. Sez. 5,
sentenza 24.09.2019 n. 39059, Fiorato, Rv. 276961).
Ciò è tanto più vero quando si discuta di commenti
pubblicati sui social networks, dove è frequente l'uso di espressioni
forti in chiave di immediato e poco meditato commento critico, espressioni
che vanno considerate penalmente illecite solo laddove immediatamente e
inequivocabilmente percepibili come offensive secondo parametri di comune
comprensione, ancorati al registro di verifica dell'uomo medio
(Sez. 5,
sentenza 16.01.2023 n. 1365, Simone,
Rv. 284044): pena, altrimenti, la violazione dei principi
che la giurisprudenza interna ha stabilito, in ossequio alla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo sull'art. 10 della Convenzione europea per i
diritti dell'uomo, che richiede la più ampia tutela e protezione della
libertà di espressione, specie quando riguardi la manifestazione di opinioni
su questioni di interesse pubblico
(su quest'ultimo punto si veda Corte EDU, Antunes Emídio e Soares Gomes da
Cruz c. Portogallo, 24/09/2019).
Inoltre, anche una frase che pure abbia connotazioni
indubitabilmente offensive può connotarsi in termini di mero giudizio
critico negativo, a seconda del contesto nel quale essa viene pronunciata
(Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866).
Da questo punto di vista, va sottolineato che il commento pubblicato dal
ricorrente si inseriva in un più ampio contesto, inaugurato da un messaggio
offensivo che proveniva da un esponente politico di opposizione, al quale
avevano fatto seguito diversi messaggi, dal tono più o meno pesante. Si
trattava, dunque, di un contesto nel quale l'oggetto del dibattere era
costituito dal decreto vaccini, rispetto al quale i partecipanti alla
discussione esprimevano il proprio punto di vista di radicale dissenso.
Non va taciuto, nella ricostruzione del contesto, che se non vi è dubbio che
il Ministro della salute pro tempore fosse nominativamente indicata,
sia nel messaggio in oggetto che in altri messaggi, come il soggetto cui
erano indirizzate le critiche, la frase che riveste tono offensivo è in
questo caso rivolta alla classe politica intera, apostrofata in chiave
critica attraverso l'uso, in termini generici e grossolani, dell'aggettivo "corrotta".
L'espressione finale, poi, si caratterizza per una formula iperbolica
(attraverso il riferimento al "vaccino anticorruzione") tipica di un
linguaggio volutamente polemico e acceso, ma non contenente un argomento
ad hominem.
La parte civile ricorda una sentenza di questa Sezione che non ha ritenuto
scriminata l'accusa di "corruzione" rivolta ad un magistrato, ed
invoca parità di trattamento per un esponente politico.
In generale l'osservazione va naturalmente condivisa, ma occorre considerare
che il caso citato dalla parte civile (Sez. 5, n. 27930 del 13/04/2018,
Morini, non massimata) era decisamente diverso da quello qui esaminato, sia
perché il commento offensivo definiva espressamente il giudice preso di
mira, indicato per nome, come "giudice corrotto", sia perché
l'affermazione offensiva era
accompagnata dall'allegazione di circostanze false, sicché difettava anche
il preliminare requisito della verità o veridicità del fatto commentato.
Verità o veridicità che, nel contesto qui giudicato, sussiste con riguardo
al fatto al quale il commento offensivo si riferisce, e cioè all'iniziativa
politica dell'odierna parte civile.
A proposito di quest'ultimo aspetto, ed in conclusione, si
deve tener conto anche della perdita di carica offensiva di alcune
espressioni nel contesto politico, in cui la critica assume spesso toni
aspri e vibrati e del fatto che la critica può assumere forme tanto più
incisive e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del
destinatario (Sez. 5, n. 27339 del
13/06/2007, Tortoioli, Rv. 237260): come ha correttamente
osservato il Procuratore generale, «il livello e l'intensità, pur
notevoli delle censure indirizzate a mo' di critica a coloro che occupano
posizioni di rilievo nella vita pubblica, non escludono l'operatività della
scriminante, poiché nell'ambito politico risulta preminente l'interesse
generale al libero svolgimento della vita democratica».
In conclusione, le espressioni offensive utilizzate, pur aspre, sono
strettamente connesse all'attività politica del soggetto passivo, tanto più
che il commento davvero irriverente è genericamente riservato, quale chiosa
all'esposizione del dato vero della volontà politica del Ministro che il
ricorrente non apprezzava, all'intera classe politica.
Il fatto tipico dunque sussiste, ma esso non è antigiuridico in quanto
scriminato ai sensi dell'art. 51 cod. pen.
5. Pertanto la sentenza va annullata senza rinvio, perché il fatto non
costituisce reato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Tettoia senza permessi se serve a riparare dalla pioggia un punto
di accesso.
Il Tar Campania passa in rassegna i vari casi di interventi in edilizia
libera e accoglie il ricorso di un proprietario contro un’ordinanza di
demolizione.
Torniamo a soffermarci ancora sulle tettoie, ma questa volta
per dimostrare come non sempre il privato sia artefice di un abuso edilizio.
Molto istruttiva, al riguardo, la
sentenza 08.11.2023
n. 6151, emessa del TAR Campania-Napoli - Sez. IV, che ha accolto
il ricorso di un privato contro un’ordinanza comunale di demolizione avente
ad oggetto proprio una tettoia (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 21.11.2023).
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SENTENZA
6. Il ricorso è fondato, condividendosi il secondo motivo, con il quale
parte ricorrente contesta la correttezza della configurazione giuridica
dell’opera come “intervento di ristrutturazione edilizia”, ex art. 3, comma 1,
lett. d), del citato d.P.R. 380/2001.
7. Pare opportuno preliminarmente precisare che, in materia di struttura
esterne annesse ad edifici e realizzate in aree aperte (terrazzi, giardini,
patii), con funzione di riparo da agenti atmosferici, non vi è allo stato un
quadro normativo che brilla per chiarezza.
Le disposizioni normative di riferimento, che vanno interpretate, per quanto
possibile, secondo il loro tenore letterale (Cons. Stato, IV sez., 02.10.2023, n. 8610),
da un lato, non prendono in considerazione la tipologia
della “tettoia”, dall’altro, qualificano come soggette al regime
dell’edilizia libera, ex art. 6 del d.P.R. 380/2001, (tra l’altro) gli
interventi edilizi esemplificati nel glossario del D.M. 02.03.2018,
costituiti dalla “installazione, riparazione, sostituzione, rinnovamento di
tenda, tenda a pergola, pergotenda, copertura leggera di arredo".
Cosicché, è stata l’attività interpretativa della giurisprudenza a riempire
di contenuto, ad esempio, la nozione di “pergotenda” allo scopo di
distinguerla,
- per un verso, dalle altre tipologie di strutture comunque
elencate nel glossario e sottoposte al medesimo regime giuridico, ex art. 6
del d.P.R. 380/2001, come ad esempio i gazebo e le “tende retrattili”
[cfr.
Cons. Stato, Sez. II, 04.05.2022, n. 3488 “non sembra esservi totale
chiarezza, nella giurisprudenza amministrativa, sulla distinzione tra i
concetti di tenda retrattile e di c.d. "pergotenda" (cosa che, peraltro,
pare essere logica conseguenza del fatto che tale ultima dizione, piuttosto
che integrare un bene giuridicamente ben definito, è frutto del recepimento
nel più recente lessico giuridico di terminologie semplicemente trasfuse
dalla prassi, anche commerciale, degli operatori del settore).
Sicché non
sembra inutile, in argomento, uno sforzo definitorio più perspicuo: che, pur
muovendo necessariamente dalla riferita prassi, individui l'elemento
differenziale della c.d. "pergotenda", rispetto a una mera tenda retrattile,
nella necessaria esistenza -non già, come si sostiene da parte del Comune
appellante, di una struttura di supporto, laterale o frontale, rigida e
leggera (solitamente in alluminio) a sostegno del telo (la quale è invece in
sé necessaria a mantenere in tensione ogni tenda esposta al vento: cfr.
C.d.S., VI, 27.04.2016, n. 1619); quanto piuttosto- di una serie di
profili rigidi (nella prassi c.d. "frangitratta"), distanziati loro di circa
50-100 centimetri, aventi la specifica funzione di dare alla copertura
maggior resistenza strutturale alla formazione di sacche d'acqua o al carico
nevoso accidentale (altresì consentendone la chiusura "a pacchetto", anziché
a rullo), tanto da consentirne l'utilizzo a copertura di superfici
notevolmente più ampie”];
- per un altro verso, dalla “tettoia” –nozione
invece non rinvenibile negli atti legislativi nazionali– che, seppure
aperta su tre lati e quindi inidonea a creare nuova volumetria, sarebbe
comunque sottoposta al regime del permesso di costruire, anche alla stregua
dell’attuale quadro normativo.
In dettaglio, la pergotenda, analogamente ad un’altra tipologia di struttura
indicata come “pergolato”, si distinguerebbe dalla “tettoia” soprattutto per
le caratteristiche della sua copertura.
La giurisprudenza, anche recente,
infatti qualifica come “pergolato” la struttura aperta su tre lati e anche
nella parte superiore, che come tale rientra nell’edilizia libera, ex art. 6
del d.P.R. 380/2001, mentre ritiene che debba parlarsi di “tettoia”,
soggetta al permesso di costruire ex art 10 del medesimo d.P.R. 380/2001, se
il “pergolato” è coperto da una struttura “non facilmente amovibile” (cfr.
da ultimo Cons. Stato, VI sez., 22.09.2023, n. 8475 che richiama il
precedente Cons. St., Sez. IV, 22.08.2018, n. 5008, comunque antecedente
alla novella dell’art. 6 del d.P.R. 380/2001).
Secondo l’opinione che si
riporta, pertanto,
- se la struttura, comunque ancorata al suolo anche per
realizzare in sicurezza la funzione di riparo dagli agenti atmosferici, ha
la copertura in lamelle orientabili di alluminio, non è annoverabile tra le
opere di “edilizia libera” ex art. 6 del d.P.R. 380/2001;
- se invece è
coperta da una struttura in PVC impacchettabile, pur avendo la medesima
funzione dell’altra copertura, per le prestazioni di efficientamento
energetico che assicura, nonché di sicurezza per la tutela dell’incolumità
dei soggetti che usufruiscono della struttura all’aperto, e pur non essendo
la copertura in PVC non facilmente amovibile (che è cosa diversa dall’essere
impacchettabile), corrisponderebbe alla nozione di pergotenda indicata dal
legislatore (cfr. da ultimo TAR Lazio-Roma Sez. II-bis, 27.07.2023,
n. 12772; TAR Emilia Romagna Bologna Sez. II, 06.03.2023, n. 112;
TAR Lazio, Sez. II-quater, 23.01.2023, n. 1117; Cons. Stato, sez.
VI, 02.11.2022 n. 9470; TAR Puglia Bari, sez. III, 18.11.2022
n. 1562; TAR Campania, Napoli, sez. II, 17.05.2022, n. 3332; TAR
Campania Napoli, sez. III, 25.01.2022 n. 479).
Per esigenze di completezza di motivazione, deve però anche essere
menzionato un orientamento minoritario, benché più risalente, secondo cui
una struttura aperta sui lati, con coperture in lamelle orientabili, sarebbe
“in tutto e per tutto assimilabile alla "pergotenda", non trattandosi
infatti di opera che determina volumi chiusi, né che costituisce aumento
della superficie utile, avendo infatti le caratteristiche di elemento di
arredo urbano (…) in ragione delle sue caratteristiche costruttive (la
struttura è aperta da tutti i lati ed è quindi priva di tamponature; le
lamelle site nella parte superiore sono usualmente in posizione verticale e
quindi vi è una apertura anche verso l'alto” (Cons. Stato Sez. VI, 09.07.2018, n. 4177).
Così come va rilevato che, a rendere la cornice di riferimento ancora più
complessa, concorre, all’attualità, la recente novella dell’articolo 6 del
D.P.R. n. 380 del 2001 per effetto dell’entrata in vigore dell’art.
33-quater "Norme di semplificazione in materia di installazione di vetrate
panoramiche amovibili" del D.L. 09.08.2022, n. 115 "Misure urgenti in
materia di energia, emergenza idrica, politiche sociali e industriali",
convertito dalla L. 21.09.2022, n. 142 in vigore dal 22.09.2022 che disciplina "gli interventi di realizzazione e installazione di
vetrate panoramiche amovibili e totalmente trasparenti, cosiddette VEPA,
dirette ad assolvere a funzioni temporanee di protezione dagli agenti
atmosferici, miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche,
riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle
acque meteoriche dei balconi aggettanti dal corpo dell'edificio o di logge
rientranti all'interno dell'edificio, purché tali elementi non configurino
spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di
superfici, come definiti dal regolamento edilizio-tipo, che possano generare
nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d'uso
dell'immobile anche da superficie accessoria a superficie utile. Tali
strutture devono favorire una naturale microaerazione che consenta la
circolazione di un costante flusso di arieggiamento a garanzia della
salubrità dei vani interni domestici ed avere caratteristiche
tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l'impatto
visivo e l'ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee
architettoniche", specificando così dettagli tecnici che riguardano le
chiusure laterali, senza prendere in considerazione la tipologia della
copertura.
Con l’effetto che, alla stregua della normativa vigente e dell’orientamento
maggioritario sopra riportato, mentre una “pergotenda” aperta su tre lati e
con copertura in lamelle orientabili non rientra nel regime di edilizia
libera, vi rientra la medesima struttura, anche se chiusa da VEPA su tre
lati e ancorata al suolo e generalmente costituita da elementi portanti di
alluminio, purché sia coperta da una struttura in PVC retraibile o in
tessuto.
8. Alla luce di tale ricostruzione, ritiene il Collegio che la
qualificazione della struttura come “tettoia” non sia sufficiente a
supportare la legittimità della qualificazione giuridica contenuta nel
provvedimento impugnato, poiché tale nozione, come sopra osservato, non ha
alcun riferimento normativo nell’ordinamento giuridico.
È invece dirimente la questione della sua qualificabilità alla stregua delle
categorie giuridiche di interventi edilizi rinvenibili nel d.P.R. 380/2001
ovvero, nello specifico, della sussumibilità dell’opera specifica, come
descritta negli atti di accertamento (ivi compresa la documentazione
fotografica), tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia”, ex art. 3,
lett. d), e 33 del d.P.R. 380/2001, secondo la prospettazione del Comune.
9. L’art. 3, comma 1, lett. d), nella formulazione vigente ratione temporis
(l’atto impugnato è stato adottato in data -OMISSIS-), prevede che gli
“interventi di ristrutturazione edilizia", sono quelli “rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di
demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma,
prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per
l'applicazione della normativa sull'accessibilità, per l'istallazione di
impianti tecnologici e per l'efficientamento energetico. L'intervento può
prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione
vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria
anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono
inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché, fatte salve le
previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle
zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa
regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici
consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e
architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma,
prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche
dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”,
essendo stata la lettera d) novellata dall'art. 10, comma 1, lett. b), n.
2), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120.
Anche al momento dell’adozione dell’ordinanza di demolizione pertanto, il
carattere essenziale –mantenuto poi anche nella formulazione vigente–
della ristrutturazione cd. pesante è costituito dall’effetto dell’intervento
complessivo che, pur incidendo su un manufatto preesistente, deve condurre
ad un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” per
effetto di un “insieme sistematico di opere”.
Con riguardo alle strutture poste in aree esterne, la giurisprudenza ha ad
esempio precisato (prendendo comunque l’abbrivio dalla nozione di
“tettoia”) che “una tettoia di rilevanti dimensioni” che determini
un'evidente alterazione dello stato dei luoghi e incida sull'assetto
edilizio precedente, sì da integrare gli estremi dell'intervento di
ristrutturazione edilizia, comportante modifica della volumetria e della
sagoma complessive dell'edificio, determina la realizzazione di un organismo
edilizio diverso dal precedente ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), del
D.P.R. n. 380 del 2001 necessitante, ai fini di una legittima realizzazione,
del titolo abilitativo espresso, conformemente al disposto dell'art. 10,
comma 1, lett. c), del medesimo d.P.R. (TAR Lazio Roma, II Stralcio, 22.05.2023, n. 8727).
10. Tanto premesso, ritiene il Collegio che tali caratteristiche, però, non
sussistano nel caso di specie, per la modesta dimensione del manufatto (che
copre una superficie di 15 metri quadri), come peraltro già rilevato nel
precedente sopra citato (TAR Napoli, II Sez., 25.06.2022, n. 2650),
per la sua evidente funzione di riparo dagli agenti atmosferici derivante
dalla sua specifica collocazione in una zona di passaggio tra un livello e
l’altro dei lastrici di copertura, per la sua inidoneità a trasformare anche
solo in parte l’edificio cui è annesso, idoneità di di cui non è traccia né
negli atti istruttori o né nel provvedimento impugnato.
Ne consegue che l’applicazione degli articoli 3, comma 1, lett. d), e 33 del d.P.R. 380/2001, non appare sorretta da un’adeguata istruttoria, che, alla
luce delle categorie giuridiche di interventi edilizi delineati dal
legislatore, abbia considerato la specifica opera di cui si tratta, come
dedotto da parte ricorrente nel relativo motivo di ricorso.
11. Quanto al richiamato Regolamento Edilizio del Comune di Napoli ex art.
33 L. 1150/1942 approvato dal Consiglio Comunale con del. 104 del
28/04/1998, va osservato che le norme relative alle categorie degli
interventi edilizi, alla individuazione del conseguente regime giuridico
(permesso di costruire, S.C.I.A., c.d. super-S.C.I.A., attività libera,
C.I.L. e C.I.L.A.), nonché del regime sanzionatorio degli abusi edilizi, ivi
compresi i presupposti per la misura demolitoria o pecuniaria, rientrano tra
i principi fondamentali della materia del “governo del territorio” che,
secondo un consolidato orientamento della Corte Costituzionale, sono
riservati alla legislazione nazionale (cfr., tra le altre con riguardo ai
titoli edilizi, Corte cost. 01.10.2003, n. 303; Corte cost. 20.11.2014, n. 259; Corte cost. 17.06.2021, n. 124; Sentenza Corte cost. 13.01.2021, n. 2).
Tuttavia, nel caso in esame, anche la lettura della normativa edilizia
locale conduce al medesimo risultato, poiché, come correttamente rilevato da
parte ricorrente, gli interventi di manutenzione ordinaria (come tali,
pertanto, esclusi dal previo rilascio del permesso di costruire) sono quelli
che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture delle costruzioni e quelle necessarie a integrare o mantenere in
efficienza gli impianti tecnologici esistenti, sempre che non comportino
alterazione delle preesistenti caratteristiche degli edifici, ed in
particolare quelli “: a) relativi alle opere di finitura quali […]
sostituzione di tegole lesionate o mancanti; sostituzione di parti
deteriorate dei sistemi di smaltimento delle acque piovane; riparazione e
rinnovo di impermeabilizzazione delle coperture piane …” (art. 5) e, come
sopra osservato, nessuna alterazione delle preesistente caratteristiche
dell’edificio è stata apportata, con la sostituzione della copertura in
plastica.
12. In conclusione il ricorso va accolto, con assorbimento delle restanti
censure. |
APPALTI:
Turbativa d’asta, la perdita di guadagno (chance) fa scattare
l’estorsione.
Lo afferma una informazione provvisoria delle SS.UU. penali sciogliendo il
quesito posto con l’ordinanza di rinvio n. 41379 dell’ottobre 2023.
Arriva la stretta delle Sezioni Unite su chi allontani, con violenza e
minacce, gli altri concorrenti da una gara pubblica. Il reato di turbata
libertà degli incanti può infatti concorrere con quello di estorsione nel
caso in cui la perdita di chance sia “seria e consistente”.
Lo afferma un’informazione provvisoria delle Sezioni Unite penali
sciogliendo il quesito posto con l’ordinanza di rinvio
12.10.2023 n. 41379 (Sez. VI penale).
In sintesi, le due questioni poste riguardavano:
l’una, la configurabilità,
oltre al reato di “Turbata libertà degli incanti” (articolo 353 cod. pen.)
anche del reato di estorsione (articolo 629 cod. pen.) nella condotta di
chi, con violenza o minaccia, allontani gli offerenti da una gara nei
pubblici incanti o nelle licitazioni private;
l’altra, strettamente connessa
alla prima, relativa al se nella nozione di danno patrimoniale di cui
all’articolo 629 cod. pen. rientri anche la perdita dell’aspettativa di
conseguire un vantaggio economico.
La necessità di risolvere una volta per tutte le “anzidette questioni”,
spiega l’ordinanza di rinvio, è legata, principalmente, alla necessità di
definire la “nozione di perdita di chance, in relazione alla quale si
registrano orientamenti contrastanti, con conseguenti ripercussioni sulla
sussistenza o meno di un danno rilevante ai sensi dell’art. 629 cod. pen. e,
quindi, sulla configurabilità del concorso del delitto di estorsione con
quello di turbata libertà degli incanti, nell’ipotesi di allontanamento, con
violenza o minaccia, di offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle
licitazioni private”.
La VI Sezione penale, dunque, nel rinvio, ha posto l’accento sulla necessità
di comprendere il “significato da assegnare alla categoria chance e, quindi,
di sciogliere il nodo sul se nella nozione di danno del reato di estorsione
rientri qualsiasi chance o debba ricomprendersi soltanto la chance come
delineata in sede civile, che presuppone la prova in via presuntiva e
probabilistica della concreta e consistente possibilità di conseguire
vantaggi economicamente apprezzabili”. E “ancora più radicalmente” di capire
“se la perdita di chance, come delineata in sede civile, possa concretizzare
il danno del reato di estorsione”.
Per il massimo consesso, informazione provvisoria pubblicata oggi sul sito
della Corte, “rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 cod. pen.
anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un
risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base della nozione
di causalità propria del diritto penale”.
Anche riguardo l’altra questione, e cioè se, in relazione alla condotta di
chi, con violenza o minaccia, allontani gli offerenti da una gara nei
pubblici incanti o nelle licitazioni private, il reato di turbata libertà
degli incanti possa concorrere con quello di estorsione, le Sezioni unite
penali rispondono affermativamente: “Nella nozione di danno collegata alla
estorsione rientra anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un
vantaggio economico”. “A condizione però -specifica la Corte che
ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i reati, in rapporto di
specialità reciproca fra loro” (articolo NT+Diritto del 29.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può ritenersi incompatibile con la destinazione agricola
di un terreno il suo uso per lo svolgimento di attività
sportiva dilettantistica all’aperto e senza l’utilizzo di
attrezzature idonee a pregiudicare definitivamente la
destinazione naturale del fondo o che comportino la
deruralizzazione del territorio.
Il Collegio condivide l’orientamento alla stregua del quale
devono ritenersi compatibili con la destinazione agricola
anche usi del territorio diversi, ovvero, comunque, non
immediatamente riferibili all’uso agricolo-produttivo,
dovendo escludersi che la suddetta destinazione imponga un
obbligo a carico del proprietario di utilizzare
effettivamente il proprio fondo per tali finalità.
Ciò che
la destinazione agricola impone è, dunque, la preservazione
delle caratteristiche di naturalità del territorio, ciò sia
in funzione di un futuro ed eventuale suo utilizzo per
finalità produttive, sia in funzione di tutela del
territorio nella sua dimensione paesaggistica ed ambientale.
Invero,
- “I terreni a destinazione agricola sono aree del territorio
urbano sottratte all’edilizia residenziale e destinate sia
alla salvaguardia degli interessi dell’agricoltura che alla
tutela del paesaggio in genere poiché tendono ad evitare
l’edificazione di ulteriori insediamenti edilizi che possano
risultare pregiudizievoli per il più conveniente equilibrio
di vivibilità della popolazione”;
- “Non è preclusa al proprietario di un
terreno agricolo la possibilità di sfruttamento ulteriore e
diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo
riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso
agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il
parcheggio, la caccia, lo sport e l'agriturismo”.
Dunque, salvo che a ciò non ostino le previsioni
urbanistiche di zona, non può ritenersi incompatibile con la
destinazione agricola di un terreno il suo uso per lo
svolgimento di attività sportiva dilettantistica all’aperto
e senza l’utilizzo di attrezzature idonee a pregiudicare
definitivamente la destinazione naturale del fondo o che
comportino la deruralizzazione del territorio.
---------------
Con il ricorso all’esame, la società Campo Base ha impugnato
il provvedimento del 07.03.2022 con il quale il Comune di
Abano Terme ha vietato la prosecuzione dell’attività
sportiva a cielo aperto, dalla stessa esercitata su un’area
a destinazione agricola di proprietà del socio sig. Cl.Co..
La ricorrente deduce di essere una società sportiva
dilettantistica, dedita alla promozione dell’esercizio di
attività sportive agonistiche e non agonistiche, di attività
ludico-motorie ed amatoriali all’aperto.
Intendendo dare avvio a corsi per lo svolgimento di attività
motoria a corpo libero sul fondo del socio sig. Co., la
ricorrente ha presentato al SUAP di Abano Terme, in data 18.06.2021, l’autocertificazione del possesso dei requisiti
professionali per l’esercizio di attività motorie e sportive
non finalizzate all’agonismo, ai sensi dell’art. 22 L.R.
8/2015.
In data 13.12.2021, dopo lo svolgimento di tre
sopralluoghi, il Comune ha notificato la comunicazione di
avvio del procedimento finalizzato al divieto di
prosecuzione dell’attività e, successivamente, in data 07.03.2022, le ha comunicato il provvedimento definitivo di
divieto oggetto di impugnazione.
La ricorrente ha impugnato il provvedimento per i seguenti
motivi:
1. Violazione degli artt. 19, 20 L. 241/1990 Eccesso di potere
per difetto d’istruttoria, errata interpretazione degli artt.
18, 18-bis e 19 L. 241/1990 e degli artt. 46 e 47 D.P.R.
445/2000.
Sull’istanza presentata dalla ricorrente in data 18.06.2021 (autocertificazione del possesso dei requisiti
professionali per l’esercizio di attività motorie e sportive
non finalizzate all’agonismo ex art. 22 L.R. n. 8/2015) si
sarebbe formato il silenzio-assenso, ovvero sarebbe maturato
il titolo di autolegittimazione previsto dall’art. 19 L.
241/1990. Il provvedimento impugnato, non costituente
esercizio di autotutela, sarebbe tardivo e, pertanto,
illegittimo.
2. Eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e
contraddittorietà manifesta. Motivazione erronea e
violazione dell’art. 3 L. 241/1990, violazione dell’art. 5 L.R. 8/2015.
La motivazione del provvedimento di divieto è costituita
dall’asserita incompatibilità dell’attività sportiva che in
essa si svolge con la destinazione agricola (ZTO AcE)
dell’area. Tale motivazione è erronea, dovendo ritenersi
compatibile con la zona agricola lo svolgimento di attività
sportiva, ove avvenga con modalità tali da non determinare
trasformazioni del territorio che ne alterino
permanentemente i caratteri di naturalità.
3. Violazione degli artt. 3 e 10, L. 241/1990. Eccesso di
potere per erronea ed insufficiente istruttoria.
Non
risultano valutate e, dunque, motivatamente respinte, le
osservazioni presentate dalla ricorrente a riscontro della
comunicazione di avvio del procedimento. Ne deriverebbe il
difetto di istruttoria e motivazione del provvedimento
finale.
...
1. Il ricorso merita accoglimento, essendo fondato il
secondo motivo di ricorso.
Il Collegio condivide l’orientamento alla stregua del quale
devono ritenersi compatibili con la destinazione agricola
anche usi del territorio diversi, ovvero comunque, non
immediatamente riferibili all’uso agricolo-produttivo,
dovendo escludersi che la suddetta destinazione imponga un
obbligo a carico del proprietario di utilizzare
effettivamente il proprio fondo per tali finalità.
Ciò che
la destinazione agricola impone è, dunque, la preservazione
delle caratteristiche di naturalità del territorio, ciò sia
in funzione di un futuro ed eventuale suo utilizzo per
finalità produttive, sia in funzione di tutela del
territorio nella sua dimensione paesaggistica ed ambientale
(“I terreni a destinazione agricola sono aree del territorio
urbano sottratte all’edilizia residenziale e destinate sia
alla salvaguardia degli interessi dell’agricoltura che alla
tutela del paesaggio in genere poiché tendono ad evitare
l’edificazione di ulteriori insediamenti edilizi che possano
risultare pregiudizievoli per il più conveniente equilibrio
di vivibilità della popolazione” C.d.S., sez II, n. 2536/1994
e sez. V, n. 968/1993; “Non è preclusa al proprietario di un
terreno agricolo la possibilità di sfruttamento ulteriore e
diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo
riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso
agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il
parcheggio, la caccia, lo sport e l'agriturismo”. Cass. SS.UU 10.11.2010 n. 22802, cass. n. 12862 del 2010; cass. n.
10280 del 2004).
Dunque, salvo che a ciò non ostino le previsioni
urbanistiche di zona, non può ritenersi incompatibile con la
destinazione agricola di un terreno il suo uso per lo
svolgimento di attività sportiva dilettantistica all’aperto
e senza l’utilizzo di attrezzature idonee a pregiudicare
definitivamente la destinazione naturale del fondo o che
comportino la deruralizzazione del territorio.
Nel caso di specie, non risulta contestato che per lo
svolgimento dell’attività sportiva sul fondo del sig.
Co., la ricorrente non abbia installato né utilizzi
attrezzature idonee a determinare una trasformazione
permanente del territorio o a determinarne la
deruralizzazione.
Dagli atti risulta, infatti, che “l’area (…) è stata adibita
a palestra a cielo aperto con percorsi training costruiti
tramite utilizzo di alcuni tronchi d’albero legati assieme,
gomme da trattore, fusti di ferro e attrezzi vari” (cfr.
verbale di sopralluogo del 03.07.2021 doc. 7) ed,
inoltre, lo stesso Comune nel provvedimento impugnato
afferma trattarsi di opere assentibili previa C.I.L.A.
L’attività svolta non appare neppure in contrasto con le
previsioni urbanistiche che disciplinano l’area.
Essa è classificata dallo strumento urbanistico comunale
come zona agricola di conservazione (AcE), facente parte del
più ampio “sistema ambientale”, ossia di quelle aree del
territorio nelle quali il Comune prevede di “favorire
l'utilizzo a parco dell'ambiente rurale, compatibilmente con
l'uso agricolo del territorio; favorire la realizzazione di
aree boscate nel territorio agricolo; mantenere e
ripristinare il sistema dei canali e delle scoline al fine
di favorire e migliorare il regolare deflusso delle acque”.
L’utilizzo a parco dell’ambiente rurale implica la
conservazione del territorio agricolo nella sua dimensione
naturale per consentirne la pubblica fruizione, dunque,
senza prevederne uno sfruttamento agricolo-produttivo. Non
si vede, dunque, come tale finalità possa dirsi
incompatibile con un’attività sportiva a corpo libero che si
svolge mediante l’utilizzo di attrezzature in legno,
evocanti elementi naturalistici, non idonee per la loro
facile amovibilità e la loro funzione, equiparabile a quella
di elementi d’arredo volti a rendere maggiormente fruibile
l’utilizzo dell’area (ad es. panchine, o attrezzature per
pic nic) a modificare in modo permanente e stabile l’assetto
dei luoghi ed a deruralizzare il contesto.
Né la tipologia di opere presenti sul fondo appare
incompatibile con gli interventi ammissibili nell’area.
Ai sensi dell’art. 21 N.T.A. del P.I. sono consentiti nelle
zone AeC “gli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, restauro e risanamento conservativo,
ristrutturazione (esclusa la demolizione con ricostruzione
per i soli edifici vincolati ai sensi della parte seconda
del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 o con valore storico,
testimoniale o ambientale.) nonché gli ampliamenti degli
edifici esistenti, per il mantenimento delle attività e
degli elementi del paesaggio esistenti. Sono consentiti
interventi di nuova edificazione limitatamente alla
costruzione di nuovi annessi rustici con le specificazioni
di cui al punto 2.3 di questo stesso articolo”.
Le attrezzature presenti sul fondo, che, per ammissione
dello stesso Comune sarebbero autorizzabili con C.I.L.A.,
rientrano negli interventi sopra menzionati.
Tenuto conto della sostanziale assenza di opere idonee a
determinare una permanente trasformazione del suolo e la sua
deruralizzazione e delle norme urbanistiche che disciplinano
l’area non risulta, dunque, una radicale incompatibilità
dell’attività svolta dalla ricorrente sull’area.
Dunque -in disparte la necessità di regolarizzare sotto il
profilo strettamente edilizio le opere realizzate in assenza
di CILA- il provvedimento di diniego deve ritenersi
illegittimo nella parte in cui fonda il divieto di
svolgimento dell’attività sportiva dilettantistica sul
contrasto della stessa con la destinazione urbanistica del
fondo.
2. Il ricorso è, dunque, fondato. Le spese, tenuto conto
della peculiarità delle questioni esaminate, possono essere
compensate (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.01.2023 n. 83 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste la responsabilità del Comune
per aver definito la pratica di condono edilizio a distanza di 30 anni
laddove l’istante e il suo avente causa non hanno dimostrato di essersi
interessati alla definizione della domanda di sanatoria nel corso dei
decenni trascorsi essendosi attivati solo in occasione della richiesta di
altro permesso di costruire.
---------------
Con ricorso, notificato il 30.10.2019 e depositato il 29.11.2019, Ti.Lu. -che in virtù di testamento pubblico del 27/09/1999, riceveva dal
bisnonno, Ti.Lu., un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale e
capannoni adibiti sempre all’attività agricola- riferisce, in fatto, che:
- il di lui bisnonno, Ti.Lu., con prot. n. 25215/86,
depositava presso il Comune di Benevento domanda di condono edilizio ai
sensi della Legge 47/1985, (allegando alla suddetta domanda relazione tecnica
illustrativa, planimetria degli immobili e bollettini postali comprovanti il
versamento dell’oblazione) con la quale chiedeva che venissero sanate le
costruzioni da lui realizzate consistenti in una ampliamento di mq. 18,02
della propria abitazione rurale (realizzazione di un bagnetto e ampliamento
della cucina) nonché un deposito pari a complessivi mq 72,62 adibito a
ricovero di merce e mezzi agricoli nonché a forno e in parte a pollaio e le
opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola;
- con il deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu.
aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto
del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione
1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di
superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc.,
opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986 come
da documentazione che si allega (all. n. 3);
- la pratica giaceva presso il Comune di Benevento per oltre 33
anni senza che l’Ente avesse mai emesso alcun provvedimento o richiesto
alcun documento, tant’è che soltanto a seguito di richiesta di permesso di
costruire formulata dal ricorrente, il citato Comune si accorgeva finalmente
dell’esistenza della suddetta pratica e chiedeva una integrazione della
stessa e, precisamente, una relazione tecnica che comprovasse la idoneità
statica del fabbricato, documento previsto dal legislatore successivamente
alla domanda di condono del Ti.;
- a tanto provvedeva tempestivamente il ricorrente come da
documentazione del 30/07/2019 depositata in data 02/08/2019 al prot. n.
71462 presso il Comune di Benevento Sportello Unico delle Attività
Produttive che, conseguentemente emetteva provvedimento dirigenziale
intitolato “Atto di determinazione delle somme dovute a titolo di
sanatoria”, con il quale, a riscontro della domanda di sanatoria di abuso
edilizio presentata da Ti.Lu., in data 05.09.1986 con protocollo n.
25125, relativamente all’ampliamento di un fabbricato rurale sito alla c.da
San Domenico, “Vista la documentazione integrativa prodotta in data
02/08/2019 con protocollo n. 71462 dalla ditta Ti.Lu.”, ”Considerato
che per l’abuso commesso l’oblazione versata è congrua”, “determinava
la somma da versare per contributo di costruzione in euro 64.872,69”.
Date tali premesse e preso atto che l’atto con il quale è stata determinata
la somma dovuta a titolo di sanatoria era incomprensibile non essendo stato
chiarito dall’Ente, seppur formalmente richiesto, i criteri adottati e, in
ogni caso, errato, Ti.Lu., nella spiegata qualità, ha impugnato, innanzi a
questo Tribunale, il predetto atto.
...
Il ricorso è infondato nei termini di seguito precisati.
...
Con la terza censura si deduce la decorrenza dei termini previsti
dall’art. 35 della Legge 47/1985, per la formazione del silenzio-assenso,
atteso che:
- l’art. 35 prevede che: “Decorso il termine perentorio di
ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende
accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme
eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico
erariale della documentazione necessaria all’accatastamento. Trascorsi
trentasei mesi si prescrive l’eventuale diritto al conguaglio o al rimborso
spettanti”, mentre nella specie non sono decorsi 36 mesi ma circa 33
anni dal deposito della domanda di condono, in quanto la stessa venne
protocollata il 05/05/1986 con gli allegati, ratione termporis,
richiesti dall'art. 35 e, precisamente, descrizione delle opere per le quali
si chiedeva la sanatoria, apposita dichiarazione da cui risultava il
completamento delle opere che fra l’altro erano state anche ritualmente
accatastate come da richiesta del 26/08/1986 che si allega in copia;
- tuttavia, parte della documentazione allegata dal ricorrente è
stata smarrita dal Comune di Benevento, come accertato dal ricorrente nel
visionare la pratica ma, in ogni caso, dalla copia della richiesta di
condono, risultano chiaramente indicati i documenti depositati per modo che
può affermarsi che l’allora richiedente avesse provveduto a depositare la
pratica in maniera completa ed esaustiva, come previsto dall’art. 35,
anteriormente alla modifica pervenuta con il dlgs. n. 2 del 12/01/1988;
- ne consegue che essendo decorsi i termini cui al citato art. 35,
il comune avrebbe dovuto concedere il permesso di costruire in sanatoria per
silenzio-assenso e prendere atto della prescrizione per ogni eventuale
diritto di conguaglio o rimborso dovuto;
- in ogni caso, anche a prescindere dal più breve termine previsto
dal richiamato articolo 35 della legge 47/1985, appare evidente che il lasso
di tempo intercorso dalla presentazione della domanda (datata 05.05.1986) e
la richiesta da parte del Comune delle somme dovute a titolo di contributo
di costruzione (datata 06.08.2019) conseguente, peraltro, ad una attività
posta in essere dall’erede del signor Ti.Lu., ossia il signor Ti.Lu., sia
tale da non lasciare spazio a dubbi circa l’intervenuta prescrizione di
qualsivoglia diritto in capo alla Pubblica Amministrazione.
La censura è destituita di fondatezza.
Infatti, secondo l’univoca giurisprudenza amministrativa: <<Il termine di
prescrizione può decorrere soltanto dal momento in cui il diritto può essere
fatto valere (art. 2935 c.c. e, quindi, soltanto dal momento in cui
l’amministrazione disponga di tutti gli elementi necessari per quantificare
la misura del conguaglio eventualmente dovuto>> (C.d.S., sez. II,
27.04.2020, n. 2701; sez. II, 29.11.2019, n. 8181; sez. II, 10.08.2018, n.
4900).
Correttamente, il Comune di Benevento ha escluso che si fosse maturata
alcuna ipotesi di prescrizione estintiva del credito, rilevando che, nel
caso di specie, la pratica di sanatoria non era completa di tutta la
documentazione all’uopo occorrente, tant’è che, nel mese di luglio 2019, il
Comune ha chiesto un’integrazione documentale riscontrata dal privato ad
agosto 2019 (in modo peraltro non integralmente esaustivo non avendo il Ti.
prodotto il certificato di imprenditore agricolo a titolo principale).
Pertanto, oltre a non essersi formato alcun silenzio-assenso, il termine di
prescrizione è iniziato a decorrere dalla data della integrazione
documentale e, per l’effetto, non si è verificata alcuna estinzione del
diritto al pagamento del contributo di costruzione.
In via gradata e nella denegata ipotesi in cui l’adito Tribunale dovesse
ritenere per qualsivoglia motivo ancora dovuti gli oneri così come
determinati dal resistente a titolo di contributo di costruzione, parte
ricorrente chiede che gli stessi vengano rideterminati in base ai valori
vigenti all’epoca del deposito della domanda, attesa comunque la
responsabilità dell’ente che ha fatto cattivo uso della buona
amministrazione come prevista dall’art. 97 della carta costituzionale.
Ad
avviso di parte ricorrente, la quantificazione all’attualità delle somme
dovute a titolo di oneri di costruzione consegue esclusivamente alla inerzia
della Pubblica Amministrazione, e nella specie del competente compulsato
Comune di Benevento, essendo stata la pratica edilizia, come detto,
regolarmente presentata nei termini di legge per modo che la quantificazione
dei detti oneri dovrà essere senza dubbio effettuata con riguardo a quanto
dovuto all’epoca della presentazione della domanda.
Tale censura non ha miglior sorte delle precedenti.
Al riguardo giova ribadire che la domanda non era completa e non poteva
essere istruita e definita all’epoca della presentazione, essendo ciò
avvenuto solo con l’integrazione documentale riscontrata dal privato nel
mese di agosto 2019: quindi, l’istanza di condono è stata correttamente
definita secondo i valori vigenti al momento della definizione del
procedimento.
Infine, in merito alla responsabilità del Comune per aver definito la
pratica di sanatoria a distanza di 30 anni, si evidenzia che l’istante e il
suo avente causa non hanno dimostrato di essersi interessati alla
definizione della domanda di condono nel corso dei decenni trascorsi
essendosi attivati solo in occasione della richiesta di altro permesso di
costruire.
In definitiva il ricorso si appalesa infondato e va, quindi, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.10.2021 n. 6655 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
rientrano nella ristrutturazione edilizia le modifiche rilevanti
dell'edificio.
Non costituisce ristrutturazione edilizia ma nuova costruzione l'intervento
con il quale si stravolge il preesistente manufatto nelle sue
caratteristiche essenziali, determinando una vera e propria trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio realizzabile con permesso di
costruire (in caso di conformità con il Prg) e non con Scia.
Nella nozione di nuova costruzione art. 3, lett. e), del dpr 380/2001
rientrano non solo gli interventi segnati dal carattere di stabilità al
suolo e permanenza temporale ma anche quelli che -mediante una modifica
radicale dell'originario immobile- diano vita a un'opera oggettivamente
diversa rispetto a esso.
Anche dopo la novella normativa contenuta nel Dl 76/2020, convertito dalla
legge 120/2020, (1° decreto semplificazioni) che ha dilatato il perimetro
della qualificazione giuridica della ristrutturazione edilizia a seguito del
colpo di scure della sentenza n. 70/2020 della Corte Costituzionale, va
ribadito con nettezza il criterio distintivo con la nuova costruzione.
Secondo il Consiglio di Stato (sentenza
13.01.2021 n. 423) la ristrutturazione
edilizia può comprendere esclusivamente modifiche volumetriche e di sagoma
di portata limitata e facilmente riconducibili all'organismo preesistente e
non anche, come nel caso risolto, una modifica volumetrica e un insieme di
opere che lo rendano evidentemente diverso.
Torna cosi di attualità la vexata quaestio della definizione dell'istituto
della ristrutturazione edilizia previsto dall'articolo 3, lettera d) del Dpr
380/2001 che, dopo il Dl 76/2020, relativamente agli immobili non vincolati
dal codice del paesaggio (intendendo per questi sia i manufatti che le
aree), può ricomprendere anche gli interventi di demolizione e ricostruzione
di un fabbricato esistente con modifica di sagoma, prospetti, area di sedime,
caratteristiche plano-volumetriche e tipologiche.
Restano immodificabili, invece, la volumetria complessiva e la destinazione
d'uso dell'immobile, realizzandosi in caso contrario una nuova costruzione,
assentibile soltanto con permesso di costruire o segnalazione certificata di
inizio attività.
Sul punto, va segnalata la sentenza 124/2021 della Corte Costituzionale che
ha censurato una norma della Regione Liguria che aveva ritenuto ammissibili
con Scia i cambi di destinazione d'uso previsti dall'articolo 23-ter del dpr
380/2001, anche fra diverse categorie funzionali e senza opere, sul
presupposto che la destinazione d'uso condiziona il carico urbanistico,
legato al fabbisogno di strutture e di spazi pubblici, e incide
sull'ordinata pianificazione del territorio
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.08.2021).
---------------
SENTENZA
12.2 Con gli altri motivi di gravame, suscettibili per il loro
tenore di trattazione congiunta, parte appellante lamenta l’erroneità della
impugnata pronuncia, poiché questa non ha considerato la reale consistenza
dell’intervento, tale da stravolgere la fisionomia del rustico preesistente
anche con l’aggiunta di due piani (di cui uno interrato).
Giova rammentare, prima di esaminare tali rilievi, i seguenti passaggi della
vicenda di causa:
- l’odierno appellato conseguiva, in data 19.07.2002, la
concessione edilizia n. 8259 per la costruzione di un annesso agricolo,
costituito da un corpo di fabbrica posto su un solo piano, interamente fuori
terra e composto da due rimesse, un porticato e un magazzino per una
superficie complessiva coperta di mq. 248;
- con istanza del 09.04.2008, l’appellato chiedeva il rilascio di
un permesso di costruire per completamento e variante, istanza che veniva
respinta con atto del 04.12.2008, per avere l’Amministrazione riscontrato, a
seguito di un sopralluogo del 22.10.2008, la presenza delle seguenti
difformità: un ulteriore piano soppalco, accessibile dall’interno del piano
terra; un ulteriore piano interrato, accessibile mediante scala interna dal
piano terra, destinato a garage e quindi munito di un autonomo accesso
dall’esterno; un portico di dimensioni maggiori rispetto a quelle in
progetto e la sua traslazione sul lato opposto della costruzione;
- con una ulteriore istanza del 23.12.2008, l’appellato, dopo aver
apportato talune modifiche alla costruzione per rendere inaccessibili sia il
piano interrato che il piano soppalcato, nell’intento di ricondurre il
manufatto nei parametri urbanistici consentiti, chiedeva la sanatoria, ai
sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, delle seguenti difformità: del
piano interrato così come tombato; di due lucernari d’areazione; del
soppalco “plafonato” e quindi reso non accessibile per mancanza di
scala di collegamento; di talune aperture esterne sull’edificio assentito;
di un portico;
- erano emessi, quindi, i provvedimenti impugnati in primo grado,
coi quali l’Amministrazione respingeva la domanda di sanatoria e,
conseguentemente, ordinava la demolizione del manufatto così come
realizzato;
- tale ulteriori determinazioni sono motivate, essenzialmente, per
il fatto che le difformità apportate alla costruzione, così come assentita
con la concessione edilizia originaria, sono di tale rilevanza da rendere
l’immobile qualificabile come nuova costruzione, così incorrendo nelle
previsioni ostative della variante generale al PRG (adottata con la
deliberazione di C.C. n. 28 del 21.03.2006 e approvata con la deliberazione
di C.C. n. 75 del 13.08.2008), che riconduce l’area alla zona G7, di tutela
ambientale e verde privato, che esclude la nuova edificazione.
Venendo al merito delle deduzioni sollevate dall’appellante, occorre
osservare che, per quanto riguarda la questione afferente alla effettiva o
meno sanabilità dell’intervento, la distanza tra le contrapposte posizioni
delle parti di causa attiene alla qualificazione dell’opus così come
esistente, cioè il rustico frutto dei lavori autorizzati con la citata
concessione edilizia e poi interrotti, siccome oggetto di variante in corso
d’opera non autorizzata.
La tesi del Comune è che si tratterebbe di un edificio non più riconducibile
a quello inizialmente autorizzato, in quanto la concessione edilizia del
2002 consentiva la realizzazione di un manufatto monopiano , quando invece
quello oggi esistente è dislocato su più livelli; osserva altresì il Comune
che le modifiche apportate dal ricorrente dopo la domanda di variante
rimasta denegata costituiscono meri ‘palliativi’, non eliminando i
due piani in più realizzati, ma soltanto rendendoli inaccessibili e pertanto
il manufatto, così come esistente, verrebbe a costituire una nuova
costruzione non assentibile, in considerazione della rilevanza ambientale
dei luoghi, tutelata dalla variante generale al PRG nell’assegnare all’area
destinazione G7.
Ritiene il Collegio che l’intervento edilizio descritto in atti ha
senz’altro determinato una notevole trasformazione dell’assetto edilizio
preesistente, tanto che da un volume distribuito su di un unico livello si è
pervenuti ad un edificio su tre livelli. Le modifiche interne apportate al
manufatto, finalizzate a rendere inaccessibili parti del fabbricato che, per
le loro caratteristiche morfologiche, si atteggiano a veri e propri due
autonomi livelli, ovverosia piano interrato e soppalco, non sono idonee a
neutralizzare la notevole portata innovativa delle difformità realizzate
rispetto al progetto iniziale, nella loro permanente fisicità oltre che
verosimile incidenza su sagoma e prospetto.
Fatta questa precisazione di ordine costruttivo, il Collegio ritiene di non
condividere il ragionamento che affiora dai passaggi motivazionali
dell’impugnata sentenza, perché il Tar indulge nel ritenere tecnicamente
esistente il manufatto sulla base di considerazioni che si muovono sul piano
della mera astrazione concettuale, evidenziando che il Comune avrebbe
implicitamente riconosciuto l’esistenza del manufatto così da essere
attratto alla più favorevole disciplina introdotta dalla variante generale
laddove consente, in zona G7, il completamento degli edifici “esistenti”.
Ci si riferisce al seguente significativo passaggio della motivazione: “La
qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione appare
innanzitutto in contraddizione con la riconosciuta possibilità di
completamento della costruzione”.
Ritiene invece il Collegio che la questione sollevata dall’appellante deve
essere affrontata alla luce del consolidato orientamento di questo Consiglio
secondo cui quando un manufatto viene stravolto nelle sue caratteristiche
essenziali, così come autorizzate, l’intervento è da qualificare non di “ristrutturazione”
bensì di “nuova costruzione”.
Con tale locuzione si intende qualsiasi intervento che consista in una
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso
opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni
lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal
grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica
e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto
che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e
qualificante viene, dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale
dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti
edilizi fuori terra o interrati o nell’ampliamento di quelli esistenti
all’esterno della sagoma stabilita (Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2020, n.
1536).
Orbene, nella nozione di nuova costruzione possono rientrare anche gli
interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell’entità delle
modifiche apportate al volume e alla collocazione dell’immobile, possa
parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che
l’opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella
preesistente (Cons. Stato, sez. II, 06.04.2020, n. 2304).
La ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un
immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con
conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in
rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un
disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura
originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari
abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra
nella nozione di nuova costruzione.
Pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di
qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività
volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma
o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea
distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova
costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche
volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili
all’organismo preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2016, n. 328).
Così tracciata la linea di demarcazione tra ristrutturazione dell’esistente
e nuova costruzione, non può innanzitutto condividersi quanto affermato dal
Tar nel senso che “non si comprende perché il Comune consideri il titolo
edilizio decaduto quale unico parametro di riferimento dell’attività di
completamento”, dovendosi invece rilevare se la differenza tra quanto
originariamente assentito e quanto invece realizzato sia tale da attribuire
al manufatto esistente una fisionomia edilizia del tutto nuova che recide il
legame con l’opera in progetto. Non può essere infatti ricompreso nel
tessuto edilizio esistente ciò che si palesa abusivamente realizzato.
Orbene, le caratteristiche del manufatto sono completamente diverse da
quelle inizialmente assentite già solo per il fatto che, come traspare dai
rilievi planimetrici allegati alla domanda di “Rinnovo titolo per
completamento” (depositato agli atti del presente giudizio in data
31.01.2020 e comunque acquisibile ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a.
perché “indispensabile ai fini della decisione della causa”),
l’edificio ha una diversa ubicazione (con parziale rototraslazione) rispetto
a quella assentita e presenta, oltre ai due ulteriori livelli di cui si è
detto, le seguenti difformità come elencate nella stessa istanza:
“1) variazione della quota d’imposta e del sistema di fondazione
a causa della natura e morfologia del terreno non idonea alla fondazione
superficiale,
2) variante di orientamento (parallelo alle curve di livello) e di
ubicazione contenuto nei limiti ammissibili (area insediabile L1-1/6L1 e
L2-1/6L2,
3) approfondimento del piano di posa su terreno di natura marnosa
ubicato mediamente a ml 2.00 circa dal piano di campagna originale,
4) diminuzione di ml 2.00 della dimensione longitudinalmente del
corpo di fabbrica,
5) conseguente modifica della dimensione e ubicazione del portico.”
A ciò deve aggiungersi una diversa, sia pur ridotta, volumetria, del corpo
di fabbrica principale (232 mq lordi –di cui mq. 214 netti– in luogo dei 248
mq assentiti) e l’aumento di quella del portico (mq. 32 in luogo dei 28
assentiti).
La consistenza complessiva delle difformità realizzate fa sì che il
manufatto si atteggi ad un quid alium rispetto a quanto assentito,
cosicché costituisce una nuova costruzione integralmente abusiva.
Per esigenze di completezza va tuttavia rilevato che, come dianzi rilevato,
gli accorgimenti ai quali l’appellato ha fatto ricorso per rendere
inaccessibili i due livelli non assentiti sono inefficaci, perché non ne
elidono la consistenza fisico-materiale; inoltre apportare modifiche,
peraltro così significative (tali da “isolare” due livelli
dell’edificio), ad un’opera edilizia di cui si chiede la sanatoria ex art.
36 del T.u.ed. é in stridente contrasto con la stessa ratio della norma, che
è quella di consentire la conservazione degli immobili interessati da abusi
solo formali.
Questo Consiglio ha già avuto modo di osservare che (sentenza, sez. VI,
04.07.2014, n. 3410) l’art. 36 cit. “non prevede sanatorie parziali o
condizionate di edificazioni strutturalmente unitarie”.
Si è quindi consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui “il
rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si
subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che
consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica
vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice,
innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la
previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa
la doppia conformità dell’opera, dimostrando che tale conformità non
sussiste se non attraverso l’esecuzione di modifiche ulteriori e postume
(rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in
sanatoria)”.
A medesime conclusioni si deve pervenire quando le modifiche allo status
quo sono apportate preliminarmente su iniziativa dello stesso
richiedente il titolo in sanatoria, tanto più che esse rappresentano un
ulteriore stadio costruttivo a sua volta non autorizzato e quindi comunque,
financo se dettato da esigenze manutentive, di carattere abusivo (Cons.
Stato, sez. VI, 12.10.2020, n. 6060).
Ne deriva che l’appello è fondato ove si assume, in termini decisivi della
controversia, che l’intervento descritto in atti non è comunque assentibile
in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, sia perché in contrasto con
la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della realizzazione
dell’intervento (tanto più che lo stesso ricorrente ammette di aver
realizzato le opere prima della richiesta di variante e quindi in totale
difformità al titolo rilasciato secondo la disciplina urbanistica localmente
vigente) sia in relazione alla disciplina “al momento della presentazione
della domanda”, appunto perché, destinandola a zona G7, essa riconosce
la rilevanza ambientale dei luoghi ed esclude la edificabilità di una nuova
costruzione avente la diversa sagoma, quale appunto deve intendersi quella
in questione.
12. In conclusione, l’appello va accolto e pertanto, in riforma
dell’impugnata sentenza, il ricorso di primo grado, e relativi motivi
aggiunti, sono da respingere. |
AGGIORNAMENTO AL 31.03.2024 (ore 23,59) |
In
materia di accesso ai documenti
amministrativi della P.A.: |
1)
l'esame è gratuito, mentre
2)
il rilascio di copia è subordinato soltanto
al rimborso del costo di riproduzione, salve le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i
diritti di ricerca e di visura, sicché
3) è illegittimo il provvedimento (nella specie,
una delibera di Giunta comunale) che introduca una
tariffa per la visione degli atti e preveda
oneri economici maggiori, rispetto a quelli
anzidetti, per l'estrazione di copia.
Poi, in materia di
accesso civico:
4)
l’accesso civico generalizzato è azionabile
da chiunque, senza previa dimostrazione di un
interesse concreto e attuale in relazione con la
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e
senza oneri di motivazioni in tal senso;
5)
la possibilità di imputare diritti di ricerca
non è prevista dalla disciplina di settore;
6)
è ragionevole sostenere che corrisponda alla
voluntas legis l’esclusione dei costi del
personale impiegato nella gestione delle pratiche di
accesso civico, inclusi quelli relativi all’attività
di estrazione dei dati e dei documenti dai relativi
archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità
generale:
7)
detto altrimenti, la disciplina del F.O.I.A. (Freedom
of Information Act) prevede il principio di
gratuità dell’accesso: possono essere addebitati
solo i costi strettamente necessari per la
riproduzione di dati e documenti richiesti, ad
esclusione di qualsiasi altro onere a carico del
cittadino (id est, le spese per il personale
e quelle riferibili a servizi commerciali come l’I.V.A.).
In particolare, il costo rimborsabile,
corrispondente a quello “effettivamente
sostenuto e documentato dall’amministrazione per la
riproduzione”, non include il costo per il
personale impiegato nella trattazione delle
richieste di accesso, essendo quest’ultimo un onere
che, in linea di principio, grava sulla collettività
che intenda dotarsi di un’amministrazione moderna e
trasparente.
Quindi, ribadito che "Il rilascio di dati o
documenti in formato elettronico o cartaceo è
gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente
sostenuto e documentato dall'amministrazione per la
riproduzione su supporti materiali", nel
costo di riproduzione del quale
l’amministrazione può chiedere il rimborso rientrano
le seguenti voci:
- il costo per la fotoriproduzione su
supporto cartaceo;
- il costo per la copia o la
riproduzione su supporti materiali (ad es.
CD-rom);
- il costo per la scansione di documenti
disponibili esclusivamente in formato cartaceo, in
quanto attività assimilabile alla fotoriproduzione e
comunque utile alla più ampia fruizione favorita
dalla dematerializzazione dei documenti (art. 42,
d.lgs. n. 82 del 2005);
- il costo di spedizione dei documenti,
qualora espressamente richiesta in luogo dell’invio
tramite posta elettronica o posta certificata e
sempre che ciò non determini un onere eccessivo per
la pubblica amministrazione. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso ai documenti amministrativi: è illegittimo il
provvedimento che introduce una tariffa per la visione degli
atti o impone oneri economici maggiori di quelli previsti
dall'art. 25, comma 1, l. 241/1990 per l'estrazione di
copia.
In tema di accesso ai documenti
amministrativi, ai sensi dell'art. 25, comma 1, della l.
07.08.1990, n. 241 («Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi»),
«[l]'esame dei documenti è gratuito», mentre
«[i]l rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del
costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in
materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura».
Sicché è illegittimo il provvedimento (nella specie, una
delibera di Giunta comunale) che introduca una tariffa per
la visione degli atti e preveda oneri economici maggiori,
rispetto a quelli anzidetti, per l'estrazione di copia.
---------------
... per la riforma della
sentenza 26.04.2019 n. 615 del Tribunale
Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), resa tra le parti, della deliberazione della
Giunta del Comune di Lucca n. 252 del 11.12.2012 avente ad
oggetto "Richieste di visione o estrazione di copie,
riferite a pratiche giacenti presso gli archivi
dell’Edilizia privata, presso l’Archivio storico e presso
l’archivio di deposito di San Filippo – Approvazione nuove
tariffe".
...
1. Con la delibera giuntale n. 252 dell’11.12.2012 il Comune
di Lucca stabiliva la revisione delle tariffe relative alla
richiesta di visione o estrazione di copia riferita a
pratiche giacenti presso gli archivi degli Uffici “Edilizia
privata”, in particolare presso l’Archivio storico e
presso l’Archivio San Filippo.
2. Con il ricorso iscritto al N.R.G. 1061/2013, proposto
dinanzi al TAR per la Toscana, il Sig. St.To., Geometra, ha
impugnato il provvedimento deducendo che detta tariffa
sarebbe stata superiore ai meri costi di riproduzione, in
violazione del principio della gratuità del diritto di
accesso sancito dalla L. 241 del 1990, oltre che dallo
Statuto comunale.
3. Il TAR adito, con la
sentenza 26.04.2019 n. 615 ha accolto il ricorso,
annullando il provvedimento impugnato.
In particolare, il primo giudice richiamava la sentenza n.
11 del 2017 emessa fra le medesime parti che, muovendo dal
dato normativo di cui all’art. 25 della legge n. 241/1990,
affermava che l'esame e l’ostensione dei documenti sono
gratuiti, salvo il mero pagamento dei costi di riproduzione,
sicché la facoltà delle amministrazioni di determinare i
predetti costi non può spingersi fino ad elidere il
principio di gratuità, dovendo la stessa essere esercitata
secondo il canone di ragionevolezza e proporzionalità.
...
7. Con il primo motivo, l’appellante censura la
sentenza di prime cure per aver respinto l’eccezione di
difetto di legittimazione e carenza di interesse proposta in
primo grado.
All’uopo, il Comune evidenzia come la mera iscrizione ad un
Albo Professionale non potrebbe costituire ragione
sufficiente a fondare una posizione giuridica astrattamente
tutelata in relazione all’azione proposta. Evidenzia che e
l’odierno appellato non aveva allegato alcun interesse
concreto e attuale ad accedere a pratiche di archivio presso
il Comune di Lucca.
In particolare, l’accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett.
b), della legge n. 241/1990, definisce come “interessati”
all’accesso non già tutti i soggetti indiscriminatamente, ma
esclusivamente i soggetti privati, compresi quelli portatori
di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso.
7.1 Il motivo è infondato.
7.2 In generale, il riconoscimento del diritto di accesso e
la legittimazione all'esercizio della correlata pretesa
ostensiva postulano, in quanto riferiti a "soggetti
privati", ancorché eventualmente portatori di interessi
superindividuali, la sussistenza di un "interesse diretto,
concreto e attuale”, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso.
7.3 Peraltro, nel caso di specie viene in oggetto
l’interesse non tanto all’accesso ai documenti quanto
all’impugnativa di un atto lesivo della situazione giuridica
azionata dall’odierno appellato che, nell’espletamento della
propria attività professionale, effettua frequenti accessi
alla documentazione edilizia del Comune di Lucca.
7.4 Conseguentemente sussiste la invocata legittimazione, in
quanto il rapporto che scaturisce dalla determinazione della
tariffa in questione intercorre tra l'Amministrazione e gli
amministrati che professionalmente agiscono attraverso
l’esercizio di una situazione giuridica soggettiva specifica
che viene ad essere disciplinata, sul versante organizzativo
ed economico, dagli atti impugnati; quindi, il singolo
professionista subisce il pregiudizio giuridico ed economico
derivante dalla supposta erronea determinazione delle voci
di costo, cosicché in capo allo stesso soggetto sussiste la
facoltà (e l'onere) di contestare la determinazione
tariffaria.
8. Con il secondo motivo, il Comune appellante
censura la sentenza di prime cure per non aver adeguatamente
motivato l’accoglimento dei motivi di ricorso.
In particolare, il Giudice di prime cure non censura
l’asserita irragionevolezza delle motivazioni poste dal
Comune di Lucca con il proprio provvedimento, ma si limita a
rilevare che, sempre in forza del proprio medesimo
precedente, quest’ultimo aveva già statuito sulla non
sussistenza di un distinguo –ai fini appunto della gratuità
del diritto all’accesso- tra diritto all’accesso per sola
visione ovvero mediante (o anche mediante) estrazione di
copia, distinguo invece sussistente allorché il secondo è
oneroso.
Erroneamente il Giudice di primo grado ammetterebbe per
l’Amministrazione la sola facoltà di stabilire costi di
riproduzione, ma in tal caso i costi di riproduzione
dovrebbero comprendere anche i diritti di ricerca che,
invece, la norma invocata prevede espressamente come voce
ulteriore e diversa rispetto al costo di riproduzione (art.
25, comma 1, della L. n. 241/1990).
Ne discende che il costo di riproduzione comprenderebbe
anche il costo o comunque i diritti per la ricerca e
l’evasione della pratica, costi che, peraltro, verrebbero
sostenuti anche per la visione e non soltanto nel caso di
richiesta di copia.
8.1 Anche tale motivo è infondato.
8.2 Ai sensi dell'art. 25, l. n. 241 del 1990 “L'esame
dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato
soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti
di ricerca e di visura”.
8.3 Pur dinanzi alla generalità della formulazione, la norma
statuisce che, sul punto in questione, il diritto di accesso
consta di due momenti: quello dell'esame e della estrazione
di copia degli atti.
L'esame è gratuito, mentre l'estrazione di copia è
subordinato alla corresponsione dei diritti di segreteria.
Gli interessati, pertanto, dopo aver formulato l'istanza di
accesso hanno diritto di verificare che gli atti messi a
disposizione dall'Amministrazione coincidano con quanto di
loro interesse; svolta tale verifica e circoscritta la
documentazione che intendono acquisire, essi devono
corrispondere i predetti diritti di segreteria.
8.4 In materia, la visione dei documenti non può che essere
gratuita; se così non fosse, la regola della trasparenza,
ormai vigente come principio generale dell'azione
amministrativa e quindi da intendersi anche come ampliativo
ed estensivo delle disposizioni in materia di diritto di
accesso, non avrebbe una idonea attuazione.
L’Amministrazione, nella fissazione dei costi per la
riproduzione deve limitarsi a richiedere l'importo esatto
dell'onere di riproduzione in concreto delle copie secondo i
criteri di ragionevolezza e proporzionalità. In ogni caso
quindi la somma richiesta non può eccedere i costi effettivi
sopportati, escluso ovviamente qualsiasi utile, non potendo
l'amministrazione ricavare profitti dall'esercizio di
un'attività istituzionale connessa al diritto di accesso.
8.5 Gli oneri conseguenti all’esercizio di tale diritto, per
la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno
quindi, finanziati attraverso la fiscalità, in tema di bollo
e di diritti di segreteria e di visura, al pari di quanto
avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del
meccanismo democratico.
8.6 Pertanto, va condivisa la conclusione del Tar, che
esclude come possa istituirsi una specifica e nuova tassa
extra ordinem, come avvenuto nel caso di specie in cui
la tariffa di 20 o 35 euro per la visione delle pratiche
sarebbe finalizzata a coprire i costi delle attività di
ricerca e messa a disposizione della documentazione.
8.7 In definitiva, la previsione impugnata è illegittima
sia laddove prevede un costo per la visione, in diretto
contrasto con il principio predetto, sia laddove
introduce una somma autonoma e distinta, per lo svolgimento
di un’attività (quindi in termini di tassa) di ricerca,
rispetto alle vigenti disposizioni in tema di bollo e di
diritti di segreteria e di visura.
8.8 È evidente che l’incremento delle attività connesse
all’attuazione del principio di trasparenza abbia dei costi
in termini di tempo e di risorse organizzative, in termini
di politica economica; le relative conseguenze tuttavia non
possono essere individuate con modalità scollegate dalla
norma di principio che regola l’esercizio di un diritto,
quale quello di accesso, posto a garanzia del cittadino nei
confronti dell’attività autoritativa (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 12.02.2024 n. 1366 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sui presupposti dell’accesso civico generalizzato e sul
rapporto con l’accesso documentale.
---------------
Atto amministrativo – Accesso civico – Presupposti –
Accesso ai documenti – Rapporto – Inclusione e
completamento.
L’accesso civico generalizzato è
azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un
interesse concreto e attuale in relazione con la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di
motivazioni in tal senso.
Il rapporto tra la disciplina dell’accesso documentale e
quella dell’accesso civico generalizzato deve essere
interpretato non già secondo un criterio di esclusione
reciproca, quanto piuttosto di inclusione e completamento,
finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che
sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli
regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che
rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle
singole discipline (1).
---------------
(1) Precedenti conformi: sui presupposti per l’accesso civico
generalizzato, Cons. Stato, sez. V, 04.01.2021, n. 60; Cons.
Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861. Sul rapporto tra
accesso civico generalizzato e accesso documentale, Cons.
Stato, Ad. plen., 02.04.2020, n. 10.
Precedenti difformi: non
risultano precedenti difformi (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.02.2024 n. 1117 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
L’appello non è fondato.
Con un primo mezzo di gravame il comune appellante
deduce: “error in judicando - violazione e falsa
applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e
s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i.
- difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, il giudice di primo grado
avrebbe errato nel disattendere l’eccezione di
inammissibilità, formulata dal comune in primo grado e
fondata sul rilevo della mancata impugnazione, nei termini
di legge, dell’unico e solo provvedimento di diniego
espresso, emesso dal Responsabile dell’U.T.C. con nota prot.
del 24.11.2022, atteso che la successiva nota del
Responsabile dell’U.T.C. prot. n. 786 del 14.02.2023
costituirebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella
sentenza impugnata, un atto meramente confermativo del
precedente diniego prot. n. 6138 del 24.11.2022.
La premessa, da cui muove il comune appellante, è quella
secondo cui la mera reiterazione di una richiesta di accesso
agli atti, già oggetto di un provvedimento di rifiuto, che
non sia basata su elementi nuovi rispetto alla richiesta
originaria o su una diversa prospettazione dell’interesse a
base della posizione legittimante l’accesso, non vincola
l’amministrazione ad un riesame della stessa e rende
legittimo e non autonomamente impugnabile il provvedimento
meramente confermativo del precedente rigetto.
Dall’accoglimento di tale premessa la parte appellante fa
pertanto discendere l’inammissibilità del ricorso di primo
grado, essendo stato lo stesso esperito a fronte di un atto
meramente confermativo del primo diniego, non impugnato.
L’assunto della parte appellante, pur essendo astrattamente
condivisibile, in quanto conforme alla constante
giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. IV,
13.01.2020 n. 279 e, nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV,
22.09.2020 n. 5549), non può trovare applicazione alla
fattispecie oggetto del presente giudizio, in relazione alla
quale, contrariamente a quanto ritenuto nel primo motivo di
appello, non viene in rilievo una mera reiterazione della
prima richiesta di accesso documentale, in assenza di nuovi
elementi, ma una nuova richiesta di accesso basata sul
diverso istituto dell’accesso civico generalizzato.
L’accesso civico generalizzato, come noto, costituisce un
diritto fondamentale che contribuisce al miglior
soddisfacimento degli altri diritti fondamentali che
l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato
rinviene, infatti, fondamento, oltre che nella Carta
costituzionale (artt. 1, 2, 97 e 117) e nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42), anche
nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione
include la libertà di ricevere informazioni e le eventuali
limitazioni, per tutelare altri interessi pubblici e privati
in conflitto, sono solo quelle previste dal legislatore,
risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva
di legge.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della
persona a ricercare informazioni, quale diritto che consente
la partecipazione al dibattito pubblico e di conoscere i
dati e le decisioni delle amministrazioni al fine di rendere
possibile quel controllo “democratico” che l’istituto
intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni
amministrative consente, infatti, la partecipazione alla
vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e
governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability)
della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non
occorre verificare, così come per l’accesso documentale, la
legittimazione dell’accedente, né è necessario che la
richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente,
contrariamente a quello documentale, a “chiunque” di
visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti
“ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione
obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n.
33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di
conoscibilità generalizzata delle informazioni
amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom
of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente
è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto
“right to know”), non altrimenti limitabile se non in
ragione di contrastanti esigenze di riservatezza
espressamente individuate dalla legge, mentre l’accesso
documentale( e ancor di più quello difensivo) risponde al
paradigma del “need to know”, con tutto ciò che ne consegue
in punto di
Dalle considerazioni che precedono emerge la netta
distinzione, sul piano strutturale e funzionale, tra
l’istituto dell’accesso documentale e quello civico
generalizzato, da cui ulteriormente discende la legittima
facoltà di azionare il secondo anche quando non sussistono (
o non sussistono più) i presupposti per esercitare il primo.
Con un secondo mezzo di gravame il comune appellante
deduce: “error in judicando - violazione e falsa
applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e
s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i.
- difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, la sentenza di primo grado
sarebbe erronea per avere il giudice di primo grado
apoditticamente ritenuto “sussistenti” tutti i
presupposti per l’accoglimento dell’istanza di accesso ai
sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 33/2013.
Ciò, in quanto l’istanza di accesso del 02.02.2023 e, ancor
di più, la successiva domanda giurisdizionale, lungi dal
raggiungere un benché minimo grado di concretezza, sarebbero
fondate soltanto su mere e indimostrate “illazioni”
circa la possibile perdita del finanziamento e come tali si
rileverebbero del tutto pretestuose.
Inoltre, tali richieste di accesso sarebbero state formulate
in modo del tutto disfunzionale rispetto alla finalità che
si propongono di realizzare, trasformandosi, in ragione
dell’ampia e ingiustificata ostensione documentale, in una
causa di intralcio al buon funzionamento della P.A., tale da
compromettere lo svolgimento degli ordinari compiti di
ufficio che già spettano al funzionario comunale
Il motivo non è fondato.
Per individuare l’ambito di estensione e gli eventuali
limiti dell’accesso civico generalizzato si possono
richiamare i principi espressi nel parere della sez. I del
Consiglio di Stato 30.03.2021, n. 545.
È stato in precedenza ricordato che l’accesso civico
“generalizzato” consente a “chiunque” di visionare ed
estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori”
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria
(art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque,
senza previa dimostrazione di un interesse, concreto e
attuale in relazione con la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal
senso (tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 04.01.2021, n.
60; sez. VI, 05.10.2020, n. 5861).
E’ stato precisato (Cons.
Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861) che con l’accesso
civico generalizzato il legislatore ha inteso superare il
divieto di controllo generalizzato sull’attività delle
pubbliche amministrazioni, su cui è incentrata la disciplina
dell’accesso di cui agli artt. 23 e ss., l. 07.08.1990,
n. 241, così che l’interesse individuale alla conoscenza è
protetto in sé, ferme restando le eventuali contrarie
ragioni di interesse pubblico o privato di cui alle
eccezioni espressamente stabilite dalla legge a presidio di
determinati interessi ritenuti di particolare rilevanza per
l’ordinamento giuridico.
E’ stato altresì puntualizzato che il rapporto tra le due
discipline (dell’accesso documentale e dell’accesso civico
generalizzato, oltre il rapporto tra tali due discipline
generali e quelle settoriali) deve essere interpretato non
già secondo un criterio di esclusione reciproca, quanto
piuttosto di inclusione/completamento, finalizzato
all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia
assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli
regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che
rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle
singole discipline (cfr. Adunanza Plenaria 10/2020).
La regola della generale accessibilità è peraltro temperata
dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi
pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla
diffusione generalizzata di talune informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33
del 2013, sono state classificate in assolute e in relative
e al loro ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo
caso) o possono (nel secondo) rifiutare l'accesso.
Le eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato
sono quelle individuate all'art. 5-bis, comma 3 (segreto di
Stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazione
previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è
subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di
specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di
cui all'art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990), mentre quelle
relative sono previste ai commi 1 e 2 del medesimo articolo
(la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza
nazionale; la difesa e le questioni militari; le relazioni
internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed
economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e
il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività
ispettive; la protezione dei dati personali, in conformità
con la disciplina legislativa in materia; la libertà e la
segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e
commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi
la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti
commerciali).
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida Anac,
adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016
(recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti
all'accesso civico generalizzato), è stato chiarito che il
legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni
assolute, una generale e preventiva individuazione di
esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una
attività valutativa che deve essere effettuata dalle
Amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per
caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata
e la tutela di altrettanti validi interessi presi in
considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta
accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione
degli atti possa comunque determinare un pericolo di
concreto pregiudizio agli interessi indicati dal
Legislatore.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Collegio
rileva che dalla analisi della motivazione del provvedimento
di diniego si ricava l’assenza di qualsivoglia riferimento
ad una delle suindicate ragioni che precludono i diritti
all’accesso generalizzato.
Più in radice, come correttamente rilevato dal giudice di
prime cure, in riferimento all’istanza presentata ai sensi
dell’accesso civico generalizzato, di fatto, il comune non
si è proprio pronunciato.
Il che appare già sufficiente per la conferma della sentenza
impugnata.
Peraltro, nemmeno può essere condiviso l’assunto che, nel
caso in esame, si verserebbe nell’ipotesi di abuso del
diritto all’accesso civico generalizzato.
Come noto, l’abuso del diritto, secondo la definizione più
accreditata anche in dottrina, consiste nella deviazione
dell'esercizio del diritto rispetto allo "scopo" per il
quale il diritto stesso è stato riconosciuto.
Orbene, dalla natura degli atti richiesti al Comune di
Cotrone, (relativi al procedimento di riqualificazione di un
edificio storico) emerge, contrariamente a quanto ritenuto
dal comune appellante, non solo la ragionevole esigenza
conoscitiva dei ricorrenti in primo grado, ma, venendo in
rilievo l’utilizzo di risorse pubbliche, anche la conformità
della richiesta documentale alle finalità cui è preordinata
la previsione dello strumento dell’accesso civico
generalizzato, che, come anticipato, mira, a favorire forme
di diffuse di controllo sull’ esercizio dei pubblici poteri.
Il riferimento, infine, alla possibile paralisi dell’ufficio
tecnico comunale a fronte della massiva richiesta di
accesso, costituisce, ad avviso del Collegio, una
inammissibile integrazione in giudizio della motivazione del
provvedimento di diniego dell’accesso.
Il maggioritario e condivisibile indirizzo interpretativo
del Consiglio di Stato assume, infatti, l’inammissibilità
della motivazione postuma (specie quando, come nel caso in
esame, avviene per il tramite degli scritti difensivi),
ritenendola in contrasto anche con le regole del giusto
procedimento amministrativo.
Tale condivisibile orientamento
trae ulteriore argomento dalla condivisibile considerazione
per cui «il difetto di motivazione nel provvedimento non può
essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un
presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno
mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi
dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990,
il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non
invalidanti» (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione
terza, 07.04.2014, n. 1629; sezione sesta, 22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247;
sezione quinta, 27.03.2013, n. 1808).
L’indirizzo giurisprudenziale in esame ha ricevuto, inoltre,
l’autorevole avallo della Corte costituzionale, la quale ha
dichiarato, con l’ordinanza 26.05.2015, n. 92, la
manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della n. 241 de
1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e
117, primo comma, della Costituzione, da una sezione
giurisdizionale regionale della Corte dei conti, motivando,
tra l’altro, che la rimettente si era sottratta al doveroso
tentativo di sperimentare l’interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
chiedendo un improprio avallo a una determinata
interpretazione della norma censurata.
Dalle considerazioni che precedono discende il respingimento
dell’appello con conseguente conferma della sentenza
impugnata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.02.2024 n. 1117 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Tar Piemonte: i costi di riproduzione per l’accesso
civico generalizzato non devono tradursi in una tassa extra ordinem.
Con la
sentenza 23.03.2021 n. 332, il TAR Piemonte -Sez. II-
dichiara l’illegittimità di un provvedimento di rigetto di
una richiesta di accesso civico generalizzato, richiamando
le circolari del Dipartimento della Funzione Pubblica a
proposito del regime dei costi. La disciplina Foia prevede
il principio di gratuità dell’accesso: è ammesso l’addebito
dei soli costi di riproduzione, tra i quali non possono
ricomprendersi le spese per il personale e quelle riferibili
a servizi commerciali come l’I.V.A.
Ecco la storia.
Un Comitato ha chiesto a una società in house l’ostensione
–cumulativamente, a titolo di accesso procedimentale,
accesso civico generalizzato e accesso ambientale– di una
serie di dati relativi ai flussi veicolari su base oraria
registrati nell’area urbana di Torino in un determinato
lasso di tempo. La società ha ritenuto l’istanza
inammissibile, data la inesistenza dei dati richiesti e
l’assenza di un obbligo di elaborarli a richiesta.
A seguito dell’accoglimento del ricorso da parte del Tar
Piemonte con
pronuncia n. 720/2020 la società in house ha comunicato
all’istante di essere disponibile a mettere a disposizione
un DVD contenente i dati richiesti, previo pagamento di un
importo superiore a 2mila euro a copertura dei costi
sostenuti per le attività di estrazione, così calcolati: 3
giorni uomo per un analista dati (euro 1.536,00 IVA esclusa)
e 1 giorno uomo per un gestore servizi (euro 560,00 IVA
esclusa).
L’istante ha nuovamente proposto ricorso al TAR Piemonte,
lamentando, tra le altre cose, la violazione del principio
della gratuità esplicitato all’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013,
secondo cui “il rilascio di dati o documenti in formato
elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del
costo effettivamente sostenuto e documentato
dall’amministrazione per la riproduzione su supporti
materiali” (disposizione peraltro richiamata esplicitamente
dal Regolamento sull’accesso civico della società).
Nell’accogliere il ricorso, il Tar Piemonte ha, anzitutto,
fatto proprio il chiarimento fornito nella
Circolare n. 1/2019 del Ministro della pubblica
amministrazione, secondo cui “possono essere addebitati solo
i costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e
documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere
a carico del cittadino.
In particolare, il costo
rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente
sostenuto e documentato dall’amministrazione per la
riproduzione”, non include il costo per il personale
impiegato nella trattazione delle richieste di accesso,
essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio,
grava sulla collettività che intenda dotarsi di
un’amministrazione moderna e trasparente” (par. 4).
Su questa base, constatato che i costi inerenti ad attività
umane sono generalmente quelli di ricerca ed estrazione del
dato/documento, ha chiarito che tali costi non possono
essere posti interamente a carico dei richiedenti, neppure
in base all’art. 25 della L. n. 241/1990, che prevede la
possibilità di imporre “diritti di ricerca” (da aggiungersi
ai costi di riproduzione), ma intendendoli al più come
compartecipazione alle spese, e non come prestazione di
servizi a carattere commerciale (alla cui logica, peraltro,
sembra ispirarsi il provvedimento impugnato, assoggettando a
IVA la prestazione).
A sostegno di tale orientamento, il TAR Piemonte ha altresì
invocato l’iter parlamentare che ha portato all’approvazione
del
d.lgs. n. 97/2016, rilevando che, mentre l’iniziale
schema di decreto sul punto (art. 6) subordinava il rilascio
di dati in formato elettronico o cartaceo “al rimborso del
costo sostenuto dall’amministrazione”, il testo finale
approvato fa riferimento al più restrittivo concetto di
“costo effettivamente sostenuto e documentato
dall’amministrazione per la riproduzione su supporti
materiali”.
Pertanto, secondo il Tar Piemonte, in virtù “di una
interpretazione non solo letterale della norma ma anche
logico-evolutiva, è ragionevole sostenere che corrisponda
alla voluntas legis l’esclusione dei costi del personale
impiegato nella gestione delle pratiche di accesso civico,
inclusi quelli relativi all’attività di estrazione dei dati
e dei documenti dai relativi archivi, facendo gli stessi
carico alla fiscalità generale. Ciò vale, in linea di
principio per tutte le forme di accesso, come peraltro
ribadito dalla più recente giurisprudenza”.
Questa pronuncia si pone in linea di continuità con altri
precedenti sul tema. Tra questi, si può richiamare il Tar
Toscana (sez. I,
sentenza 26.04.2019 n. 615)
secondo cui “la garanzia del diritto di accesso
costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a
carico delle amministrazioni a garanzia della trasparenza
che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto
individuale”, cosicché “gli oneri conseguenti
all'esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il
mero costo di riproduzione, vanno finanziati attraverso la
fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti
correlati al funzionamento del meccanismo democratico come
quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul
cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem” (commento tratto
da e link a https://foia.gov.it).
---------------
MASSIMA
DIVIETO DI ADDEBITO AL CITTADINO DEI COSTI DI RICERCA ED
ESTRAZIONE DEI DATI IN CASO DI RICHIESTA DI ACCESSO CIVICO
La disciplina dettata dall’art. 25, comma 1, L. 241/1990 in
materia di accesso documentale prevede la possibilità di
imporre diritti di ricerca (da aggiungersi ai costi di
riproduzione), da intendersi comunque come compartecipazione
alle spese e mai come mero ribaltamento dei costi o come
prestazione di servizi a carattere commerciale.
In materia
di accesso civico la possibilità di imputare diritti di
ricerca non è prevista dalla disciplina di settore.
Alla
luce di una ragionevole interpretazione non solo letterale
della norma ma anche logico-evolutiva, è ragionevole
sostenere che corrisponda alla voluntas legis l’esclusione
dei costi del personale impiegato nella gestione delle
pratiche di accesso civico, inclusi quelli relativi
all’attività di estrazione dei dati e dei documenti dai
relativi archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità
generale.
Tuttavia, la più recente giurisprudenza (TAR
Toscana (Firenze), Sez. I, 26.04.2019, n. 615)
ha ribadito che tale conclusione si estenderebbe, in
linea di principio, a tutte le forme di accesso
(tratta da www.consiglio.provincia.tn.it) |
ATTI AMMINISTRATIVI: E' illegittimo l’atto
amministrativo (impugnato) nella parte in cui richiede alla
parte ricorrente la corresponsione di costi diversi da
quelli di mera riproduzione su supporto materiale.
Il regime dei costi legati al diritto di accesso è un tema
che è stato a lungo dibattuto con riferimento a tutte le
diverse forme con cui tale istituto è stato disciplinato
nell’ordinamento.
Per quanto qui interessa il legislatore dispone, all’art. 5,
comma 4, del d.lgs. n. 33/2013, che “il rilascio di dati o
documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito,
salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e
documentato dall’amministrazione per la riproduzione su
supporti materiali”.
Tale previsione è stata oggetto della circolare esplicativa
n. 1/2019 del Ministero della pubblica amministrazione che,
al paragrafo 4 (Regime dei costi), precisa la portata del
principio di gratuità sancito dalla disposizione normativa.
In particolare prevede che possono essere addebitati solo i
costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e
documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere
a carico del cittadino. In particolare, il costo
rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente
sostenuto e documentato dall’amministrazione per la
riproduzione”, non include il costo per il personale
impiegato nella trattazione delle richieste di accesso,
essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio,
grava sulla collettività che intenda dotarsi di
un’amministrazione moderna e trasparente.
Nel costo di
riproduzione del quale l’amministrazione può chiedere il
rimborso rientrano le seguenti voci:
- il costo per la fotoriproduzione su supporto cartaceo;
- il costo per la copia o la riproduzione su supporti
materiali (ad es. CD-rom);
- il costo per la scansione di documenti disponibili
esclusivamente in formato cartaceo, in quanto attività
assimilabile alla fotoriproduzione e comunque utile alla più
ampia fruizione favorita dalla dematerializzazione dei
documenti (art. 42, d.lgs. n. 82 del 2005);
- il costo di spedizione dei documenti, qualora
espressamente richiesta in luogo dell’invio tramite posta
elettronica o posta certificata e sempre che ciò non
determini un onere eccessivo per la pubblica
amministrazione.
In assenza di discipline speciali di settore che
stabiliscano specifiche modalità di accesso, l’applicazione
della disciplina generale in tema di accesso civico
generalizzato non esclude che ai costi addebitabili al
richiedente possano cumularsi –come avviene per l’accesso procedimentale alla documentazione urbanistica e/o edilizia– gli oneri in materia di bollo e i diritti di ricerca e visura.
La Relazione tecnica di accompagnamento al d.lgs. n.
97 del 2016 (art. 6), infatti, fa salve le disposizioni in
materia, precisando che “all’esercizio [del diritto di
accesso civico generalizzato] da parte dei consociati le
amministrazioni fanno fronte nell’ambito delle risorse
umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione
vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo
l’accesso civico gratuito, lo stesso è comunque subordinato
al rimborso del costo sostenuto
dall’amministrazione per il rilascio di dati e documenti in
formato elettronico o cartaceo, ferme restando le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti
di ricerca e di visura”.
---------------
In tema di accesso i costi inerenti attività umane sono
generalmente quelli di ricerca del dato/documento che
includono l’estrazione degli stessi. Ma anche questi non
sono ribaltabili e non possono essere posti interamente a
carico dei richiedenti. La disciplina dettata dall’art. 25
della L. n. 241/1990, ad esempio, prevede la possibilità di
imporre “diritti di ricerca” (da aggiungersi ai costi di
riproduzione) intesi come compartecipazione alle spese, ma
mai come mero ribaltamento dei costi né come prestazione di
servizi a carattere commerciale (alla cui logica, peraltro,
sembra ispirarsi il provvedimento impugnato dal momento in
cui assoggetta ad IVA la prestazione, indicando gli importi
come “IVA esclusa”).
Occorre inoltre precisare che, in materia di accesso civico,
la possibilità di imputare diritti di ricerca non è neanche
prevista dalla disciplina di settore.
Ad ulteriore precisazione si consideri che il testo dello
schema di decreto legislativo -trasmesso al Parlamento ed al
Consiglio di Stato per i relativi pareri e poi versato con
modifiche nel D.Lgs. n. 97/2016 (il cd. FOIA) che ha
modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 in commento– sul
punto, all’art. 6, recava la seguente previsione: “Il
rilascio di dati in formato elettronico o cartaceo è
subordinato soltanto al rimborso del costo sostenuto
dall’amministrazione”.
La relazione di accompagnamento (come evidenziato peraltro
anche dalla citata circolare n. 1/2019) precisava che
“all'esercizio di tale diritto da parte dei consociati le
amministrazioni fanno fronte nell'ambito delle risorse
umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione
vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo
l'accesso gratuito, lo stesso è comunque subordinato al
rimborso del costo sostenuto dall'amministrazione per il
rilascio di dati e documenti in formato elettronico
cartaceo, ferme restando le disposizioni vigenti in materia
di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
Tale disposizione è stata oggetto di vaglio critico in sede
consultiva
- sia avanti le Commissioni Parlamentari (nei relativi pareri
infatti si legge: “[All'articolo 6, comma 1, capoverso Art.
5, comma 3], sopprimere la previsione del rimborso a carico
del cittadino, rendendo sicuramente gratuito l'accesso ai
documenti in modalità digitale, con il solo rimborso,
comunque da giustificare, dei costi effettivamente sostenuti
per l'eventuale riproduzione su supporti materiali”)
- che del Consiglio di Stato (che nel parere n. 515/2016 così si
esprime “11.4 […] Orbene, la Sezione invita
l'Amministrazione ad immaginare, […] con riduzione evidente
di costi per la finanza pubblica e di oneri per il
personale, un percorso più semplice, efficiente e lineare
che veda, da una parte, l'inoltro esclusivamente telematico
della domanda, quanto meno "di norma", e fatti salvi casi
veramente eccezionali, dall'altra l'individuazione di un
unico ufficio sportello, per ogni amministrazione, deputato
alla ricezione e alla prima gestione delle istanze,
correttamente segnalato nella sezione del sito
istituzionale, che agisca come una sorta di "desk telematico
unico per la trasparenza", costituendo così esso
l'interfaccia naturale, facilmente individuabile, per il
cittadino che intende accedere. 11.5 Tale previsione
ridurrebbe considerevolmente, fino forse a renderli
irrilevanti, anche i costi sostenuti dall'amministrazione,
che devono essere rimborsati dal richiedente ai sensi
dell'ultimo periodo del medesimo comma 3; sicché, a
completamento della riformulazione suggerita sub 11.4, ben
si potrebbe espungere la previsione del rimborso a carico
del cittadino”).
A valle dell’iter appena descritto, la previsione di un
rimborso del “costo sostenuto dall’amministrazione”
(descritto come il “costo sostenuto dall'amministrazione per
il rilascio dei dati e dei documenti”) è scomparsa e la
norma ha assunto la formulazione definitiva che, invece,
prevede il “costo effettivamente sostenuto e documentato
dall’amministrazione per la riproduzione su supporti
materiali”.
Alla luce, pertanto, di una interpretazione non solo
letterale della norma ma anche logico-evolutiva, è
ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis
l’esclusione dei costi del personale impiegato nella
gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli
relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti
dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla
fiscalità generale.
Ciò vale, in linea di principio per tutte le forme di
accesso, come peraltro ribadito dalla più recente
giurisprudenza. Invero:
- “La garanzia del diritto di accesso costituisce un vero e proprio
compito che la legge pone a carico delle amministrazioni a
garanzia della trasparenza che è valore pubblico ancor prima
di tradursi in diritto individuale. Gli oneri conseguenti
all'esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il
mero costo di riproduzione, vanno quindi, finanziati
attraverso la fiscalità (al pari di quanto avviene per gli
altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo
democratico come quello di voto) senza che sia consentito
trasferirli sul cittadino istituendo una vera e propria
tassa extra ordinem”.
Del resto sia la prassi che la giurisprudenza hanno
individuato temperamenti al rischio di una possibile
lievitazione dei costi dovuti alla gestione della
trasparenza “reattiva” per il sistema pubblico. L’ANAC,
nella Delibera 1309/2016 (recante Linee guida recanti
indicazioni operative ai fini della definizione delle
esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art.
5, co. 2, del d.lgs. 33/2013) ha previsto, con riferimento
alle richieste cd. “massive” che “L’amministrazione è tenuta
a consentire l’accesso generalizzato anche quando riguarda
un numero cospicuo di documenti ed informazioni, a meno che
la richiesta risulti manifestamente irragionevole, tale cioè
da comportare un carico di lavoro in grado di interferire
con il buon funzionamento dell’amministrazione. Tali
circostanze, adeguatamente motivate nel provvedimento di
rifiuto, devono essere individuate secondo un criterio di
stretta interpretazione, ed in presenza di oggettive
condizioni suscettibili di pregiudicare in modo serio ed
immediato il buon funzionamento dell’amministrazione”.
Questo Tribunale ha avuto modo di precisare che “Possono
costituire oggetto di accesso civico, come precisato da
consolidati orientamenti di prassi e di giurisprudenza,
esclusivamente informazioni e dati immediatamente
ostendibili, non richiesti in forma massiva (tale da
ingolfare il regolare svolgimento dei compiti e l’ordinaria
organizzazione dei soggetti destinatari) indipendentemente
dalla loro forma di rappresentazione, purché versabili su un
qualsiasi tipo di supporto adatto alla comunicazione e
trasmissione. Questo al fine di evitare sia atteggiamenti
meramente esplorativi sia la surrettizia committenza
gratuita di forniture o servizi di elaborazione dati”.
Anche il Consiglio di Stato ha avuto modo di evidenziare che
“notevole sarebbe l’incremento dei costi di gestione del
procedimento di accesso da parte delle singole pubbliche
amministrazioni (e soggetti equiparati), del quale -nell’attuale
applicazione della normativa sull’accesso generalizzato, che
si basa sul principio della gratuità (salvo il rimborso dei
costi di riproduzione)- si è fatto carico l’interprete (in
particolare, con riferimento alle richieste “massive o
manifestamente irragionevoli”, cfr. Linee Guida ANAC, par.
4.2, nonché gli arresti giurisprudenziali che fanno leva
sulla nozione di “abuso del diritto”)".
L’ordinamento, pertanto, legittima il rigetto delle
richieste massive che, o in unica soluzione, o mediante la
proposizione di più istanze in sequenza, ostacolino il
lavoro ed il buon andamento della pubblica amministrazione
aggravandone in modo sproporzionato i costi (e dopo che tale
eccessiva onerosità emerga a valle di un doveroso dialogo
cooperativo con l'istante finalizzato a ridefinire l'oggetto
della domanda entro limiti compatibili con i principi di
buon andamento e di proporzionalità).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento e/o declaratoria della
contrarietà a diritto
- della nota prot. n. 715/2020 del 09.12.2020, con cui 5T s.r.l. ha
comunicato al Comitato Torino Respira l'obbligo di
corrispondere euro 2.096,00 iva esclusa per le attività di
estrazione dei dati oggetto di richiesta di accesso agli
atti, nonché della successiva nota prot. n. 762/2020 del
18.12.2020, con cui 5T s.r.l. ha reiterato la propria
posizione quanto alla debenza di euro 2.096,00 iva esclusa,
nonché di tutti gli atti presupposti, connessi e
conseguenziali anche se non conosciuti
nonché per la condanna
-
di 5T s.r.l. alla ostensione della documentazione oggetto di
richiesta di accesso agli atti così come riconosciuto dal
Tar Piemonte n. 720/2020, senza che ciò generi
l'obbligazione di pagamento imposta dall'Ente al Comitato
Torino Respira come da atti sopra indicati
od occorrendo, in subordine, per l'esatta ottemperanza
- della sentenza Tar Piemonte, Sez. I, 12.11.2020, n. 720, non
sospesa ed esecutiva, previo ogni opportuna declaratoria di
nullità degli atti impugnati con il presente ricorso.
...
1. Il Comitato Torino Respira, costituito nel 2018, ha lo
scopo di promuovere ed adottare iniziative finalizzate a
tutelare e migliorare la qualità dell’aria nella Città di
Torino e nell’area metropolitana torinese.
Con ricorso n. 503/2020 il Comitato impugnava un diniego di
accesso agli atti emanato dalla 5T S.r.l., società in house
del Comune di Torino, della Regione Piemonte e della Città
Metropolitana, a fronte di una istanza di accesso multipla
(formulata contemporaneamente sia come accesso documentale,
ai sensi degli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990, sia come
accesso civico generalizzato, ex art. 5 D.Lgs. n. 33/2013,
sia come accesso alle informazioni ambientali ex art. 6 del
D.Lgs. n. 195/2005).
Questo Tribunale con sentenza n. 720/2020 riconosceva la
parziale fondatezza del ricorso ed in particolare
riconosceva il diritto del ricorrente ad accedere a parte
delle informazioni richieste (a titolo di accesso civico e/o
di accesso alle informazioni ambientali) ed il dovere della
Società all’ostensione delle informazioni, rimettendone al
suo prudente apprezzamento le modalità tecnico operative.
La Società, in esecuzione della sentenza, comunicava con
nota del 09.12.2020 (prot. n. 715) l’assolvimento
dell’obbligo, la produzione di un DVD quale supporto
ritirabile presso la sede sociale ed una richiesta di spese
pari a 2.096,00 (IVA esclusa) ottenuti dal ribaltamento dei
seguenti costi: 3 giorni uomo per un analista dati (per euro
1.536,00 IVA esclusa) e 1 giorno uomo per un gestore servizi
(per euro 560,00 IVA esclusa).
Seguiva un carteggio tra le parti, terminato con nota della
Società del 18.12.2020 (prot. 762/2020) in cui confermava
l’addebito delle somme indicate quali costi di estrazione e
riproduzione.
2. Avverso tali atti è insorto il Comitato con ricorso
notificato il 08.01.2021 e depositato avanti questo
Tribunale con il quale se ne chiede l’annullamento, la
condanna all’ostensione senza il pagamento delle somme
indicate e, in subordine, l’esatta ottemperanza della
sentenza n. 720/2020.
In data 08.02.2021 si è costituita la 5T s.r.l. eccependo
inammissibilità del ricorso e controdeducendo nel merito.
Sono seguite il deposito di memorie di entrambe le parti (in
data 01.03.2020) e delle memorie di replica (il 05.03.2021
ed il 06.03.2021).
Alla camera di consiglio del 17.03.2021, sentiti i difensori
delle parti ai sensi dell’art. 25 del D.L. n. 137/2020, la
causa è stata trattenuta in decisione.
3. Il ricorso è fondato.
4. Il Collegio ritiene di scrutinare preliminarmente
l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Società
resistente nella propria memoria di costituzione, nella
quale censura la scelta di procedere mediante il rito
previsto dall’art. 116 c.p.a. invece che con giudizio di
ottemperanza.
A tacere il fatto che il ricorso presenta, in
subordine, anche domanda di ottemperanza della sentenza n.
720/2020, si osserva che l’iter del percorso di accesso non
si è compiuto in quanto anche se la documentazione è stata
messa a disposizione della ricorrente, sulla stessa incombe
comunque l’onere di rifondere le somme richieste. La
posizione giuridica dedotta nel presente ricorso, in altri
termini, risulta strettamente connessa e funzionale al
regolare e pieno riconoscimento ed esercizio del diritto di
accesso.
Ciò a prescindere dal fatto che la Società abbia
imposto o meno il preventivo pagamento delle somme richieste
rispetto al materiale ritiro del DVD prodotto. A legittimare
il rito speciale di cui all’art. 116 c.p.a. infatti, non è
la prospettazione delle parti o il segmento procedimentale
dedotto in giudizio, quanto l’intero rapporto giuridico
coperto dal diritto di accesso che include tutte le
prestazioni e gli adempimenti dovuti sino alla sua piena
soddisfazione, incluse quelle funzionali ed accessorie.
Per tali ragioni l’eccezione non è condivisibile.
5. Con il primo (ed unico) motivo di ricorso si lamenta la
violazione/falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, e
dell’art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 33/2013, dell’art. 6
d.lgs. n. 195/2005, oltre che della circolare del Ministro
per la semplificazione e la pubblica amministrazione n.
2/2017, della circolare del Ministro per la pubblica
amministrazione n. 1/2019 e dell’art. 2.1 del Regolamento 5T
per l’accesso civico.
Il Comitato ricorrente sostiene, sostanzialmente, la
violazione del principio della gratuità esplicitato all’art.
5 del D.Lgs. n. 33/2013 (disposizione richiamata
esplicitamente dall’art. 2.1 del Regolamento 5T sull’accesso
civico) e alla circolare 1/2019 citata.
La censura coglie nel segno.
Il regime dei costi legati al diritto di accesso è un tema
che è stato a lungo dibattuto con riferimento a tutte le
diverse forme con cui tale istituto è stato disciplinato
nell’ordinamento.
Per quanto qui interessa il legislatore dispone, all’art. 5,
comma 4, del d.lgs. n. 33/2013, che “il rilascio di dati o
documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito,
salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e
documentato dall’amministrazione per la riproduzione su
supporti materiali”.
Tale previsione è stata oggetto della circolare esplicativa
n. 1/2019 del Ministero della pubblica amministrazione che,
al paragrafo 4 (Regime dei costi), precisa la portata del
principio di gratuità sancito dalla disposizione normativa.
In particolare prevede che possono essere addebitati solo i
costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e
documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere
a carico del cittadino. In particolare, il costo
rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente
sostenuto e documentato dall’amministrazione per la
riproduzione”, non include il costo per il personale
impiegato nella trattazione delle richieste di accesso,
essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio,
grava sulla collettività che intenda dotarsi di
un’amministrazione moderna e trasparente.
Nel costo di
riproduzione del quale l’amministrazione può chiedere il
rimborso rientrano le seguenti voci:
- il costo per la fotoriproduzione su supporto cartaceo;
- il costo per la copia o la riproduzione su supporti
materiali (ad es. CD-rom);
- il costo per la scansione di documenti disponibili
esclusivamente in formato cartaceo, in quanto attività
assimilabile alla fotoriproduzione e comunque utile alla più
ampia fruizione favorita dalla dematerializzazione dei
documenti (art. 42, d.lgs. n. 82 del 2005);
- il costo di spedizione dei documenti, qualora
espressamente richiesta in luogo dell’invio tramite posta
elettronica o posta certificata e sempre che ciò non
determini un onere eccessivo per la pubblica
amministrazione.
In assenza di discipline speciali di settore che
stabiliscano specifiche modalità di accesso, l’applicazione
della disciplina generale in tema di accesso civico
generalizzato non esclude che ai costi addebitabili al
richiedente possano cumularsi –come avviene per l’accesso procedimentale alla documentazione urbanistica e/o edilizia– gli oneri in materia di bollo e i diritti di ricerca e visura.
La Relazione tecnica di accompagnamento al d.lgs. n.
97 del 2016 (art. 6), infatti, fa salve le disposizioni in
materia, precisando che “all’esercizio [del diritto di
accesso civico generalizzato] da parte dei consociati le
amministrazioni fanno fronte nell’ambito delle risorse
umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione
vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo
l’accesso civico gratuito, lo stesso è comunque subordinato
al rimborso del costo sostenuto
dall’amministrazione per il rilascio di dati e documenti in
formato elettronico o cartaceo, ferme restando le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti
di ricerca e di visura”.
La Società resistente sostiene che la norma prevedendo la
rimborsabilità dei costi “per la riproduzione” questi
possano comprendere gli oneri di “estrazione”, vale a dire
le attività necessarie per il reperimento dei dati e/o dei
documenti da versare successivamente su supporto materiale
divulgabile.
Tale ricostruzione non risponde alla ratio della norma in
commento.
In tema di accesso, infatti, i costi inerenti attività umane
sono generalmente quelli di ricerca del dato/documento che
includono l’estrazione degli stessi. Ma anche questi non
sono ribaltabili e non possono essere posti interamente a
carico dei richiedenti. La disciplina dettata dall’art. 25
della L. n. 241/1990, ad esempio, prevede la possibilità di
imporre “diritti di ricerca” (da aggiungersi ai costi di
riproduzione) intesi come compartecipazione alle spese, ma
mai come mero ribaltamento dei costi né come prestazione di
servizi a carattere commerciale (alla cui logica, peraltro,
sembra ispirarsi il provvedimento impugnato dal momento in
cui assoggetta ad IVA la prestazione, indicando gli importi
come “IVA esclusa”).
Occorre inoltre precisare che, in materia di accesso civico,
la possibilità di imputare diritti di ricerca non è neanche
prevista dalla disciplina di settore.
Ad ulteriore precisazione si consideri che il testo dello
schema di decreto legislativo -trasmesso al Parlamento ed
al Consiglio di Stato per i relativi pareri e poi versato
con modifiche nel D.Lgs. n. 97/2016 (il cd. FOIA) che ha
modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 in commento– sul
punto, all’art. 6, recava la seguente previsione: “Il
rilascio di dati in formato elettronico o cartaceo è
subordinato soltanto al rimborso del costo sostenuto
dall’amministrazione”.
La relazione di accompagnamento (come
evidenziato peraltro anche dalla citata circolare n. 1/2019)
precisava che “all'esercizio di tale diritto da parte dei
consociati le amministrazioni fanno fronte nell'ambito delle
risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a
legislazione vigente, anche in considerazione del fatto che,
pur essendo l'accesso gratuito, lo stesso è comunque
subordinato al rimborso del costo sostenuto
dall'amministrazione per il rilascio di dati e documenti in
formato elettronico cartaceo, ferme restando le disposizioni
vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e
di visura”.
Tale disposizione è stata oggetto di vaglio
critico in sede consultiva sia avanti le Commissioni
Parlamentari (nei relativi pareri infatti si legge:
“[All'articolo 6, comma 1, capoverso Art. 5, comma 3],
sopprimere la previsione del rimborso a carico del
cittadino, rendendo sicuramente gratuito l'accesso ai
documenti in modalità digitale, con il solo rimborso,
comunque da giustificare, dei costi effettivamente sostenuti
per l'eventuale riproduzione su supporti materiali”) che del
Consiglio di Stato (che nel parere n. 515/2016 così si
esprime “11.4 […] Orbene, la Sezione invita
l'Amministrazione ad immaginare, […] con riduzione evidente
di costi per la finanza pubblica e di oneri per il
personale, un percorso più semplice, efficiente e lineare
che veda, da una parte, l'inoltro esclusivamente telematico
della domanda, quanto meno "di norma", e fatti salvi casi
veramente eccezionali, dall'altra l'individuazione di un
unico ufficio sportello, per ogni amministrazione, deputato
alla ricezione e alla prima gestione delle istanze,
correttamente segnalato nella sezione del sito
istituzionale, che agisca come una sorta di "desk telematico
unico per la trasparenza", costituendo così esso
l'interfaccia naturale, facilmente individuabile, per il
cittadino che intende accedere.
11.5 Tale previsione
ridurrebbe considerevolmente, fino forse a renderli
irrilevanti, anche i costi sostenuti dall'amministrazione,
che devono essere rimborsati dal richiedente ai sensi
dell'ultimo periodo del medesimo comma 3; sicché, a
completamento della riformulazione suggerita sub 11.4, ben
si potrebbe espungere la previsione del rimborso a carico
del cittadino”).
A valle dell’iter appena descritto, la
previsione di un rimborso del “costo sostenuto
dall’amministrazione” (descritto come il “costo sostenuto
dall'amministrazione per il rilascio dei dati e dei
documenti”) è scomparsa e la norma ha assunto la
formulazione definitiva che, invece, prevede il “costo
effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione
per la riproduzione su supporti materiali”.
Alla luce, pertanto, di una interpretazione non solo
letterale della norma ma anche logico-evolutiva, è
ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis
l’esclusione dei costi del personale impiegato nella
gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli
relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti
dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla
fiscalità generale.
Ciò vale, in linea di principio per tutte le forme di
accesso, come peraltro ribadito dalla più recente
giurisprudenza. “La garanzia del diritto di accesso
costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a
carico delle amministrazioni a garanzia della trasparenza
che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto
individuale. Gli oneri conseguenti all'esercizio di tale
diritto, per la parte che eccede il mero costo di
riproduzione, vanno quindi, finanziati attraverso la
fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti
correlati al funzionamento del meccanismo democratico come
quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul
cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem”
(Tar Toscana, Sez. I, 26.04.2019, n. 615).
Del resto sia la prassi che la giurisprudenza hanno
individuato temperamenti al rischio di una possibile
lievitazione dei costi dovuti alla gestione della
trasparenza “reattiva” per il sistema pubblico. L’ANAC,
nella Delibera 1309/2016 (recante Linee guida recanti
indicazioni operative ai fini della definizione delle
esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013) ha previsto, con riferimento alle
richieste cd. “massive” che “L’amministrazione è tenuta a
consentire l’accesso generalizzato anche quando riguarda un
numero cospicuo di documenti ed informazioni, a meno che la
richiesta risulti manifestamente irragionevole, tale cioè da
comportare un carico di lavoro in grado di interferire con
il buon funzionamento dell’amministrazione. Tali
circostanze, adeguatamente motivate nel provvedimento di
rifiuto, devono essere individuate secondo un criterio di
stretta interpretazione, ed in presenza di oggettive
condizioni suscettibili di pregiudicare in modo serio ed
immediato il buon funzionamento dell’amministrazione”.
Questo Tribunale ha avuto modo di precisare che “Possono
costituire oggetto di accesso civico, come precisato da
consolidati orientamenti di prassi e di giurisprudenza,
esclusivamente informazioni e dati immediatamente ostendibili, non richiesti in forma massiva (tale da
ingolfare il regolare svolgimento dei compiti e l’ordinaria
organizzazione dei soggetti destinatari) indipendentemente
dalla loro forma di rappresentazione, purché versabili su un
qualsiasi tipo di supporto adatto alla comunicazione e
trasmissione. Questo al fine di evitare sia atteggiamenti
meramente esplorativi sia la surrettizia committenza
gratuita di forniture o servizi di elaborazione dati” (TAR
Piemonte, sent. 12/11/2020, n. 720).
Anche il Consiglio di
Stato ha avuto modo di evidenziare che “notevole sarebbe
l’incremento dei costi di gestione del procedimento di
accesso da parte delle singole pubbliche amministrazioni (e
soggetti equiparati), del quale -nell’attuale applicazione
della normativa sull’accesso generalizzato, che si basa sul
principio della gratuità (salvo il rimborso dei costi di
riproduzione)- si è fatto carico l’interprete (in
particolare, con riferimento alle richieste “massive o
manifestamente irragionevoli”, cfr. Linee Guida ANAC, par.
4.2, nonché gli arresti giurisprudenziali che fanno leva
sulla nozione di “abuso del diritto”)” (Cons Stato, sent.
02/08/2019, n. 5502).
L’ordinamento, pertanto, legittima il
rigetto delle richieste massive che, o in unica soluzione, o
mediante la proposizione di più istanze in sequenza,
ostacolino il lavoro ed il buon andamento della pubblica
amministrazione aggravandone in modo sproporzionato i costi
(e dopo che tale eccessiva onerosità emerga a valle di un
doveroso dialogo cooperativo con l'istante finalizzato a
ridefinire l'oggetto della domanda entro limiti compatibili
con i principi di buon andamento e di proporzionalità).
Ciò precisato, appare inconferente il richiamo al passaggio
della sentenza n. 720/2020 di questo Tribunale, più volte
ripetuto nelle memorie di parte resistente, che recita
“quanto alle modalità tecnico-operative di assolvimento
queste sono rimesse al prudente apprezzamento della
Società”. Tale passaggio non può, per le ragioni sopra
esposte, costituire una deroga al principio della gratuità o
un ulteriore temperamento rispetto a quelli normativamente
previsti.
Non colgono nel segno le argomentazioni di parte resistente
che mirano a differenziare la posizione della società in
house rispetto a quella delle pubbliche amministrazioni
strettamente intese, poiché tale distinzione non è
riconosciuta e legittimata né dalla legge (cfr art. 2, comma
2, lett. b), del D.Lgs. n. 33/2013) né dalla prassi (cfr. la
citata delibera ANAC n. 1309/2016 che precisa “2. […] La
medesima disciplina prevista per le pubbliche
amministrazioni sopra richiamate è estesa, “in quanto
compatibile”, anche a: a) enti pubblici economici e ordini
professionali; b) società in controllo pubblico come
definite dal decreto legislativo emanato in attuazione
dell’art. 18 della legge 07.08.2015, n. 124 (d.lgs.
175/2016 c.d. Testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica) […] Per le categorie di soggetti di
cui ai punti 2 e 3 il legislatore prevede che la disciplina
della trasparenza si applichi “in quanto compatibile”.
Il
principio della compatibilità, tuttavia, concerne la sola
necessità di trovare adattamenti agli obblighi di
pubblicazione in ragione delle caratteristiche organizzative
e funzionali dei citati soggetti. Non è invece operante per
quel che concerne l’accesso generalizzato, stante la ratio e
la funzione del generalizzato descritta nel primo paragrafo
delle presenti Linee guida.
L’accesso generalizzato,
pertanto, è da ritenersi senza dubbio un istituto
“compatibile” con la natura e le finalità dei soggetti sopra
elencati ai punti 2 e 3, considerato che l’attività svolta
da tali soggetti è volta alla cura di interessi pubblici”).
Allo stesso modo non colgono nel segno le considerazioni
relative al fatto che l’attività implicita all’ostensione di
cui si tratta non si limiti ad una mera collazione dei dati
ma alla diversa attività di estrazione che non afferisce i
normali protocolli dell’attività ordinaria di 5T (così come
definiti negli accordi di servizio e/o negli atti di
affidamento delle amministrazioni committenti).
Gli oneri di
cui si parla, infatti, discendono direttamente dalla
previsione legale e, come condivisibilmente precisato da
ANAC nelle linee guida più volte citate “L’intento del
legislatore è quello di garantire che la cura concreta di
interessi della collettività, anche ove affidati a soggetti
esterni all’apparato amministrativo vero e proprio,
rispondano comunque a principi di imparzialità, del buon
andamento e della trasparenza.
Si ritiene che nel novero di
tali attività possano rientrare quelle qualificate come tali
da una norma di legge, dagli atti costitutivi o dagli
statuti delle società, l’esercizio di funzioni
amministrative, la gestione di servizi pubblici nonché le
attività che pur non costituendo diretta esplicazione della
funzione o del servizio pubblico svolti sono ad esse
strumentali”.
Per le ragioni che precedono il primo motivo di ricorso è
fondato.
6. In considerazione degli esiti relativi al primo motivo
non si ritiene di dover scrutinare la domanda subordinata di
cui al secondo motivo di ricorso.
7. Per le ragioni di cui ai punti precedenti il ricorso è
fondato e dev’essere accolto.
Per l’effetto l’atto impugnato dev’essere annullato nella parte in cui richiede alla parte
ricorrente la corresponsione di costi diversi da quelli di
mera riproduzione su supporto materiale così come
individuati nella presente sentenza; viene confermato il
diritto di accesso già accertato dalla sentenza n. 720/2020
e, di conseguenza, la Società dev’essere condannata alla
ostensione dei dati estratti e raccolti (TAR Piemonte, Sez.
II,
sentenza 23.03.2021 n. 332
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E' illegittimo un Regolamento comunale che preveda una
tariffa per la mera "visione" delle pratiche.
La giurisprudenza -muovendo dal dato
normativo ricavabile dall'art. 25, comma 1, della legge n.
241/1990, il quale stabilisce che l'esame e l’ostensione dei documenti
sono gratuiti, salvo il mero pagamento dei costi di
riproduzione,- ha sancito che la facoltà delle
amministrazioni di determinare i predetti costi non può
spingersi fino ad elidere il principio di gratuità dovendo
la stessa essere esercitata secondo il canone di
ragionevolezza e proporzionalità.
Invero, è stato messo in evidenza come la
distinzione fra diritto di accesso e visione delle pratiche
non abbia fondamento normativo non potendo differenziarsi la
natura del diritto a seconda che sia esercitato da un
privato o da un professionista su incarico del primo.
A ciò va aggiunto che la garanzia del diritto di accesso
costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a
carico della amministrazioni a garanzia della trasparenza
che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto
individuale.
Gli oneri conseguenti all’esercizio di tale diritto, per la
parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno
quindi, finanziati attraverso la fiscalità (al pari di
quanto avviene per gli altri diritti correlati al
funzionamento del meccanismo democratico come quello di
voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino
istituendo una vera e propria tassa extra ordinem.
---------------
... per l'annullamento:
- della deliberazione della Giunta del Comune di Lucca n. 252 del
11.12.2012 avente ad oggetto "Richieste di visione o
estrazione di copie, riferite a pratiche giacenti presso gli
archivi dell’Edilizia privata, presso l’Archivio storico e
presso l’archivio di deposito di San Filippo – Approvazione
nuove tariffe".
...
Il ricorrente, che agisce nella sua qualità di geometra che
svolge regolarmente nell’espletamento della sua attività
professionale accessi alla documentazione edilizia del
Comune di Lucca, si duole del fatto che con la delibera n.
252/2011 la Giunta del predetto ente avrebbe assoggettato
l’estrazione e la visione di atti giacenti presso l’Archivio
storico ad una tariffa superiore ai meri costi di
riproduzione in violazione del principio della gratuità del
diritto di accesso sancito dalla L. 241 del 1990 oltre che
dallo Statuto comunale.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di Lucca ha eccepito
il difetto di legittimazione ed interesse a ricorrere avendo
agito il ricorrente alla stregua di un quisque de populo,
e, nel merito, ha sostenuto che oggetto della delibera non
sarebbe il diritto di accesso di cui alla L. 241/1990 ma la
"visione di pratiche" di archivio da parte di professionisti
per finalità diversa dalla mera trasparenza.
Infatti, mentre il diritto di accesso ai documenti
amministrativi sarebbe istituto di garanzia del cittadino
direttamente e personalmente interessato alla conoscenza di
atti e documenti che lo riguardano, nell'ambito dei principi
di trasparenza e partecipazione riferiti all'agire delle
amministrazioni, la richiesta di visione o rilascio di copie
di atti contenuti nelle "pratiche" degli archivi
comunali sarebbe riferita ad una platea di soggetti
legittimati più vasta ed indeterminata.
Si tratterebbe, solitamente, di richieste presentate da
professionisti o "terzi" privati, i quali, rispettivamente,
preferirebbero, per loro comodità, compulsare direttamente
gli archivi pubblici anziché il committente, ovvero
integrare lacune o smarrimenti dei fascicoli personali.
Il ricorso è ammissibile e fondato.
Il Collegio non può che rifarsi alla recente sentenza n. 11
del 2017 emessa fra le medesime parti che ha deciso il
ricorso con cui il Sig. St. aveva impugnato una delibera
precedente a quella oggetto dell’odierno gravame con la
quale, parimenti, veniva sottoposta a tariffa l’estrazione
di documenti dagli archivi edilizi.
In quella sede è stato deciso che la qualità di geometra
iscritto al relativo Albo professionale costituisce una
posizione legittimante al ricorso comportando un accesso
continuo agli archivi di cui si tratta che vale a
differenziare lo status del ricorrente dal quisque de populo.
Nel merito la sentenza muovendo dal dato normativo
ricavabile dall'art. 25, comma 1, della legge n. 241/1990,
il quale stabilisce che l'esame e l’ostensione dei documenti
sono gratuiti, salvo il mero pagamento dei costi di
riproduzione, ha sancito che la facoltà delle
amministrazioni di determinare i predetti costi non può
spingersi fino ad elidere il principio di gratuità dovendo
la stessa essere esercitata secondo il canone di
ragionevolezza e proporzionalità.
La sentenza ha, inoltre, messo in evidenza come la
distinzione fra diritto di accesso e visione delle pratiche
non abbia fondamento normativo non potendo differenziarsi la
natura del diritto a seconda che sia esercitato da un
privato o da un professionista su incarico del primo.
A ciò va aggiunto che la garanzia del diritto di accesso
costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a
carico della amministrazioni a garanzia della trasparenza
che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto
individuale.
Gli oneri conseguenti all’esercizio di tale diritto, per la
parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno
quindi, finanziati attraverso la fiscalità (al pari di
quanto avviene per gli altri diritti correlati al
funzionamento del meccanismo democratico come quello di
voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino
istituendo una vera e propria tassa extra ordinem.
Ciò è quanto è, invece, accaduto nel caso di specie atteso
che, stando alla ricostruzione offerta dalla difesa
comunale, la tariffa di 20 o 35 euro per la visione delle
pratiche sarebbe finalizzata a coprire i costi delle
attività di ricerca e messa a disposizione della
documentazione dei quali, per le ragioni già dette, deve
farsi carico la p.a.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 26.04.2019 n. 615 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche:
● M. Lucca,
Il costo della trasparenza e del diritto di accesso (18.05.2019
- link a www.mauriziolucca.com).
...
La I sez. del TAR Toscana, con la sentenza 26.04.2019 n.
615, definisce i poteri dell’Amministrazione sulla
determinazione dei costi in materia di accessibilità ed
estrazione copia dei documenti amministrativi.
Si premette che la questione investe il diritto di accesso
documentale (ex art. 22 della Legge n. 241/1990) considerato
(prima dell’accesso civico inserito in quel processo di
accountability che anima la recente riforma in tema di
trasparenza, ex D.Lgs. n. 33/2013, secondo il modello FOIA)
il principale strumento di partecipazione, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse: principio generale
dell’attività amministrativa, finalizzato a favorire e ad
assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione
amministrativa: un istituto di controllo democratico delle
decisioni amministrative da parte dei cittadini generalmente
considerati, che sostanzia uno strumento a disposizione del
singolo per tutelare propri interessi giuridici nei rapporti
con l’Amministrazione pubblica. (...continua). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
La “ratio” dell’esenzione di cui
cui all’art. 17, comma 3,
lett. b), del TUE è quella di favorire
gli edifici unifamiliari, quindi la piccola proprietà
immobiliare, meritevole di un trattamento contributivo
differenziato per agevolare interventi di ristrutturazione o
di limitato ampliamento di unità immobiliari destinate al
soddisfacimento dei bisogni abitativi di una famiglia;
Insomma si tratta di un’esenzione da contributo per finalità
di carattere eminentemente sociale laddove la finalità della
norma è quella di garantire una “decorosa sistemazione
abitativa”.
---------------
... per l'annullamento
- per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
dell'Avviso di rilascio del Permesso di Costruire n. 72/2018, prot.
n. 13345 del 04.09.2018, notificato in pari data, nella parte
in cui dispone che, ai fini del rilascio del Permesso di
Costruire, debba essere pagato il contributo di costruzione
ammontante complessivamente ad € 25.332,12 (doc. 1), e di
ogni atto presupposto o conseguente o comunque connesso alla
liquidazione del contributo di costruzione e l'accertamento
del diritto della ricorrente all'esonero dal pagamento del
contributo di costruzione e comunque della non debenza dello
stesso o, eventualmente, del minore importo da
corrispondere, con richiesta di restituzione della somma
indebitamente pagata, pari ad € 25.332,12 o a quella diversa
somma che risulterà in corso di causa;
- per quanto riguarda i motivi aggiunti:
per l’annullamento degli atti già impugnati con ricorso
introduttivo del giudizio e per l’accoglimento delle altre
domande ivi formulate, nonché per l’accertamento e la
declaratoria del diritto in capo alla ricorrente allo
scomputo del contributo di costruzione e/o alla riconduzione
ad equità degli impegni assunti mediante sottoscrizione di
atto unilaterale d’obbligo allegato al permesso di costruire
n. 72/2018.
...
1. La signora An.Ci. otteneva dal Comune di Olginate (LC) il
permesso di costruire (PdC) n. 72/2018 per il restauro
conservativo di un fabbricato adibito a residenza rurale,
per la ristrutturazione del fabbricato ad uso deposito e il
suo mutamento di destinazione d’uso in fabbricato
residenziale, con riguardo ad un compendio immobiliare sito
alla via ... n. 1.
Con il ricorso principale in epigrafe la stessa contestava
la pretesa del Comune di ottenere il pagamento del
contributo di costruzione per euro 25.332,12 in relazione al
permesso di cui è causa.
Contestualmente era chiesto l’accertamento del diritto
all’esonero dal pagamento del contributo, con richiesta di
restituzione delle somme pagate.
Con ricorso per motivi aggiunti –sottoscritto da un nuovo
difensore che aveva sostituito quello originario–
l’esponente confermava la propria richiesta di esenzione dal
pagamento del contributo di costruzione per l’intervento
edilizio di cui è causa e contestualmente chiedeva
l’accertamento della non debenza o in ogni caso la riduzione
delle somme da essa dovute ai sensi dell’art. 21 delle norme
di attuazione (NTA) del Piano di Governo del Territorio (PGT,
vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale ai
sensi degli articoli 7 e seguenti della legge regionale n.
12 del 2005).
...
2. Il ricorso principale ed i motivi aggiunti possono essere
trattati congiuntamente, attesa la loro omogeneità.
2.1 Nel primo motivo del gravame principale e nel
motivo aggiunto n. 3 (continua la numerazione del ricorso
introduttivo) l’esponente lamenta la violazione sotto vari
profili degli articoli 16 e 17 del DPR n. 380 del 2001
(Testo Unico dell’edilizia o anche solo “TUE”) e degli
articoli 43 e 44 della legge regionale sul governo del
territorio n. 12 del 2005.
La tesi di parte ricorrente è che il proprio intervento
edilizio non dovrebbe essere assoggettato a contributo di
costruzione, dovendo applicarsi l’ipotesi di esenzione di
cui all’art. 17, comma 3, lettera b), del TUE, che prevede
la gratuità degli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, degli edifici
unifamiliari.
La censura non merita condivisione.
La “ratio” dell’esenzione di cui sopra è quella di
favorire gli edifici unifamiliari, quindi la piccola
proprietà immobiliare, meritevole di un trattamento
contributivo differenziato per agevolare interventi di
ristrutturazione o di limitato ampliamento di unità
immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni
abitativi di una famiglia; insomma si tratta di un’esenzione
da contributo per finalità di carattere eminentemente
sociale (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, sentenza n.
449 del 2018, peraltro richiamata seppure impropriamente
dall’esponente, nella quale si evidenzia correttamente che
la finalità della norma è quella di garantire una “decorosa
sistemazione abitativa”; si veda anche nello stesso
senso, TAR Veneto, Sezione II, sentenza n. 289 del 2019).
Dalla documentazione versata in giudizio appare però
evidente che l’immobile di cui è causa non può essere
minimamente ricondotto all’ipotesi di cui al succitato art.
17 del TUE.
Il complesso immobiliare ricade in zona A1 agricola ed è
costituito da un fabbricato principale un tempo destinato ad
abitazione del coltivatore diretto e da un altro fabbricato
ad uso stalla o deposito.
L’intervento assentito con il PdC di cui è causa comporta la
ristrutturazione con cambio d’uso da rurale a residenziale,
la creazione di un pergolato ad uso parcheggio, la
sistemazione dell’area esterna con realizzazione di un
cancello carrabile sulla via Bedesco (cfr. il doc. 1 della
ricorrente).
La relazione tecnica di progetto (cfr. il doc. 3 della
ricorrente) ammette che quest’ultimo riguarda “la
ristrutturazione dell’esistente fabbricato rurale allo scopo
di renderlo idoneo all’uso abitativo” (si veda pag. 3
della relazione, punto 1.3).
Inoltre, se il fabbricato principale è considerato in “discrete
condizioni”, quello accessorio è definito come
fatiscente e in parte crollato, sicché sullo stesso dovranno
realizzarsi interventi importanti per creare un’unità
abitativa, con nuovi locali ad uso bagno e lavanderia (si
vedano sul punto anche le fotografie degli immobili, doc. 19
della ricorrente e le planimetrie degli interventi, in
particolare quella doc. 13 della ricorrente).
A ciò si aggiunga che il complesso immobiliare non può
certamente qualificarsi come edificio unifamiliare; è
sufficiente a tale proposito ancora la lettura della
relazione di progetto e delle fotografie allegate, che
individuano con chiarezza due strutture distinte (cfr.
ancora il doc. 3 della ricorrente).
Anche la documentazione catastale evidenzia due diverse
unità immobiliari (cfr. i documenti n. 1 e n. 2 del
resistente).
Non si tratta, quindi, di un edificio unifamiliare, senza
contare che la trasformazione in residenza del vecchio
edificio fatiscente un tempo adibito ad uso stalla e fienile
implica un aumento della superficie utile ben superiore alla
misura di legge del 20%.
Nello stesso ricorso principale (cfr. pag. 14) l’esponente
ammette peraltro che l’immobile è composto da ben nove vani
per una superficie abitabile di circa 200 metri quadrati, il
che appare di per sé incompatibile con la nozione di “edificio
unifamiliare”.
Non può neppure sostenersi, come invece viene affermato nei
motivi aggiunti, che l’intervento edilizio non darebbe luogo
ad aumento del carico urbanistico in quanto anche il vecchio
edificio abitato dal coltivatore diretto aveva comunque
destinazione residenziale.
L’argomento difensivo è privo di pregio, considerato che si
realizza la trasformazione ad uso abitativo del fabbricato
ad uso deposito (stalla e fienile), senza contare che la
vecchia casa del coltivatore diretto è ormai di fatto non
più abitabile, sicché la creazione della nuova e più ampia
residenza darà luogo ad incremento del carico urbanistico.
I motivi n. 1 e n. 3 devono quindi rigettarsi (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.03.2024 n. 719 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'intervento
edilizio di ampliamento del fabbricato unifamiliare, la
superficie residenziale (passata da mq. 82,88 a mq.
116,56) ha subito un incremento del 40,63%, mentre la
superficie accessoria (passata da mq. 18,22 a mq. 46,51)
ha subito un incremento del 155%.
Per entrambe le tipologie di superficie, l’intervento
edilizio ha comportato un incremento superiore al 20% di
quella esistente e, pertanto, non può (poteva) considerarsi
gratuito ex art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001.
---------------
... per l'accertamento e la declaratoria del diritto del
ricorrente all'esenzione, ai sensi dell'art. 17, comma 3,
lett. b), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, dal pagamento del
contributo di costruzione di cui al precedente art. 16 del
medesimo D.P.R. in relazione all'intervento edilizio di
ampliamento del proprio fabbricato unifamiliare, con
conseguente annullamento e/o disapplicazione della nota del
Comune di Monte San Vito n. 6995 del 26.06.2009
limitatamente alla parte contenente la determinazione e
quantificazione del predetto contributo, insieme agli atti
successivi.
...
1. Il ricorrente allega di essere proprietario di un
edificio unifamiliare di civile citazione (composto da vani
residenziali e vani accessori) e di aver chiesto, al Comune
di Monte San Vito, il permesso di costruire per un
ampliamento della destinazione residenziale sull’area di
sedime occupata dai vani accessori di cui era prevista la
totale demolizione.
Il Comune, nell’assentire il progetto, ha chiesto il
pagamento del contributo concessorio che, tuttavia, il
ricorrente contesta ritenendo trattasi di intervento
edilizio gratuito, ex art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n.
380/2001, poiché l’ampliamento è inferiore al 20% della
superficie esistente.
L’amministrazione comunale si è costituita per resistere al
gravame.
2. Va innanzitutto disattesa l’eccezione di tardività del
ricorso. L’odierna controversia riguarda diritti soggettivi
paritetici tutelabili entro il termine di prescrizione di 10
anni (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 30/08/2018 n. 12).
3. Con un’unica ed articolata censura viene dedotta
violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 16 e 17 del
DPR n. 380/2001 nonché eccesso di potere per
contraddittorietà e illogicità dell’azione amministrativa.
In particolare viene dedotto che l’amministrazione,
nell’effettuare il proprio calcolo della misura
dell’ampliamento (concludendo che fosse superiore al 20%),
abbia erroneamente escluso il computo del corpo accessorio
che viene demolito per lasciare spazio all’ampliamento
residenziale.
La superficie di tale struttura andava invece
computata poiché parte integrante dell’edificio unifamiliare
originario.
Le censure non possono trovare condivisione.
In disparte la riconducibilità dell’intervento alla parziale
nuova costruzione (come sostiene il Comune anche attraverso
i propri scritti difensivi) o alla ristrutturazione con
ampliamento (come sostiene parte ricorrente), a giudizio del
Collegio la controversia va risolta confrontando le
superfici dell’edificio prima e dopo l’intervento (al netto
dei muri come emerge dagli elaborati progettuali depositati
dal Comune in data 12/01/2010 e non oggetto di
contestazione).
L’esistente era così composto:
SUPERFICIE RESIDENZIALE
PT
cucina mq. 15,12;
PT vano soggiorno mq. 26,54;
P1 camera mq. 15,12;
P1 disimpegno mq. 3, 57;
P1 bagno mq. 4,50;
P1 camera mq. 18,03,
per un totale di mq. 82,88 oltre alla scala interna di
superficie non quantificata.
SUPERFICIE ACCESSORIA
PT ripostiglio mq. 3,76;
PT deposito mq. 14,46,
per un totale di mq. 18,22.
L’edificio, dopo l’ampliamento, presenta la seguente
configurazione:
SUPERFICIE RESIDENZIALE
PT + P1 mq. 82,88 come da esistente oltre alla scala interna di
superficie non quantificata;
PT nuovo bagno mq. 4,62;
PT nuovo disimpegno mq. 1,37;
PT nuova camera mq. 15,33,
per un totale di mq. 116, 56 oltre alla scala interna.
SUPERFICIE ACCESSORIA
P1 nuova terrazza mq. 46,51.
Da quanto sopra si può quindi facilmente dedurre che la
superficie residenziale (passata da mq. 82,88 a mq. 116,56)
ha subito un incremento del 40,63%, mentre la superficie
accessoria (passata da mq. 18,22 a mq. 46,51) ha subito un
incremento del 155%.
Per entrambe le tipologie di superficie, l’intervento
edilizio ha comportato un incremento superiore al 20% di
quella esistente e, pertanto, non poteva considerarsi
gratuito ex art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001.
4. Il ricorso va quindi respinto (TAR Marche,
sentenza 27.02.2024 n. 191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 9 della legge n. 10/1977 stabilisce per le
ipotesi dallo stesso previste l’esenzione dal contributo di
cui al precedente art. 3, provvedendo esclusivamente ad
individuare –in deroga al principio di
onerosità del permesso di costruire- delle fattispecie
tipiche di esenzione, senza in alcun modo voler concepire
una forma di concessione differente rispetta a quello di
carattere generale.
Con riferimento all’interpretazione del citato art. 9, lett.
d), della legge n. 10/1977 quale ipotesi di esenzione dal
pagamento del contributo concessorio “per gli interventi di
restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e
di ampliamento, in misura non superiore al 20% di edifici
unifamiliari”, occorre rammentare che, secondo la costante
giurisprudenza in materia di edilizia il pagamento degli
oneri concessori rappresenta la regola, con la conseguenza
che si impone un’interpretazione restrittiva delle deroghe,
da ritenere, pertanto, quali ipotesi tassativamente previste
dalla legge.
---------------
L’art. 9, comma 1, lett. d), della legge n. 10/1977, nel
prevedere che il contributo non è dovuto per gli interventi
di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari, si pone l’obiettivo di
esentare dal contributo concessorio ogni intervento edilizio sugli edifici esistenti
destinati all'abitazione di un solo nucleo familiare.
Il
legislatore, pertanto, individua -quali beneficiari
dell’esenzione- i nuclei familiari, per l’appunto
proprietari di alloggi unifamiliari, nell’ottica di
migliorare in loro favore le condizioni di abitabilità degli
edifici medesimi.
D'altronde il presupposto del contributo di costruzione, se
per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è
costituito dalla compartecipazione alle spese che il
maggiore carico urbanistico derivante dall'intervento
genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è
correlato all'aumento di valore che consegue all'intervento.
Pertanto, si giustifica la sottrazione all'imposizione
dell'aumento di valore che la famiglia consegue per effetto
della ristrutturazione solo per le finalità di ordine
sociale sopra individuate.
Ne discende la condivisibilità della tesi sostenuta dal
giudice di primo grado secondo cui che la deroga
all’onerosità della concessione prevista dal citato art. 9
della legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. b), del
d.P.R. n. 380 del 2001) ha “un fondamento sociale, con
l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve
avere una accezione strutturale, ma socio-economica,
coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole
per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un
trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie
edilizie”.
---------------
1. La sig.ra Ol.Ca. ha chiesto la riforma della sentenza
n. 631, depositata l’01.10.2018, con la quale il giudice
di primo grado ha respinto la domanda volta all’annullamento
della clausola della concessione edilizia n. 67/96 del 16.09.1996 che ha imposto il pagamento di 34.550.290 di
vecchie lire, a titolo di oneri di urbanizzazione, e di
13.600.000 milioni di vecchie lire, a titolo di contributo
di concessione, e alla conseguente declaratoria del diritto
alla restituzione delle somme versate, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi.
1.2. L’appellante ha esposto che:
a) ha ottenuto dal Comune di Ancona la concessione edilizia
n. 67/96 per la demolizione e ricostruzione di un edificio
unifamiliare per civile abitazione e cambio d'uso con opere
di annesso agricolo, ubicato in via ... n. 32, concessione seguita da due varianti;
b) con nota del 17.11.1998 ha fatto riserva avverso la
clausola di onerosità, essendo la concessione stata
sottoposta al pagamento di 34.550.290 di vecchie lire, a
titolo di oneri di urbanizzazione, e di 13.600.000 milioni
di vecchie lire, a titolo di contributo di concessione;
c) con lettera del 15.07.1999 prot. n. 49817 il Comune
di Ancona ha richiesto il versamento di 13.600.000 di
vecchie lire, corrispondente al costo di costruzione;
d) con nota del 28.07.1999 la sig.ra Ca. ha dedotto
che il termine di pagamento di tale importo non era ancora
scaduto, attesa la proroga correlata alle varianti
intervenute e con successiva nota dell’11.08.1999 ha
osservato che la concessione è stata illegittimamente
sottoposta ad onerosità, dovendo esserne esente, ai sensi
dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, rientrando la
demolizione e ricostruzione nella nozione di
ristrutturazione, e ai sensi dell'art. 11 della medesima
legge, atteso che l'istante ha dovuto eseguire a proprie
spese le opere di urbanizzazione;
e) con nota dell’11.10.1999 il Comune ha reiterato
quanto affermato il 15.07.1999 e il 30.12.1999 la
sig.ra Ca. ha versato la somma richiesta, riservandosi
di agire per la restituzione di tutto quanto pagato.
1.3. L’appellante deduce l’erroneità della sentenza di primo
grado laddove, pur dando atto dell’esistenza di un
orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui
l'esenzione dal costo di costruzione, di cui alla lettera d)
dell'art. 9 della legge n. 10/1977, fosse applicabile anche
agli interventi di demolizione e ricostruzione, afferma “la
deroga all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9
della legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito
dall’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha
un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di
edificio unifamiliare non deve avere una accezione
strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola
proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di
ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento
differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar
Campania Salerno, 22.06.2015, n. 1416; Tar Lombardia
Milano, 10.10.1996, n. 1480; Tar Toscana, 26.04.2017, n. 616; Tar Marche,
09.01.2018, n. 9).”.
In particolare l’appellante lamenta che l'interpretazione
restrittiva seguita dal giudice di primo grado, frutto di un
più recente orientamento della giurisprudenza, si porrebbe
in contrasto con l'art. 111 Cost. essendo mancata un'attenta
ponderazione degli effetti del mutamento
dell'interpretazione normativa a significativa distanza
dall'introduzione del giudizio e dal rilascio del titolo
edilizio, nonché deduce l’erroneità della sentenza laddove
afferma che parte istante non avrebbe assolto all’onere
probatorio relativo al carattere unifamiliare del fabbricato
non avendo il Comune contestato che si trattasse di una ex
tipica casa colonica delle campagne marchigiane, che
l’intervento fosse qualificabile come ristrutturazione e che
l'ampliamento fosse contenuto nel 20%.
La sentenza sarebbe erronea anche per la parte in cui ha
negato l’applicabilità dell’art. 11 della legge n. 10/1977 in
quanto, secondo la giurisprudenza anche in assenza di un
atto d'obbligo l'amministrazione potrebbe tenere conto della
domanda di scomputo delle opere già realizzate senza il
previo dettato comunale ove sussista la relativa previsione,
anche se solo in forma generica, nella concessione edilizia
ovvero la discrezionale determinazione di accettazione ex
post delle opere da parte del Comune che secondo parte
istanze dovrebbe desumersi nel caso di specie dal parere
favorevole della C.E. del 22.07.1997.
2. Il Comune di Ancona si è costituito in giudizio ed ha
eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità della
produzione in giudizio da parte dell’appellante chiedendo lo
stralcio e la cancellazione dei seguenti documenti nuovi
depositati:
"2. relazione arch. Ro.Pa. 05.07.1999; 3.
concessione in variante; 4. relazione arch. Ro.Pa.
17.11.1998.", nonché l’inammissibilità dell’appello per
genericità ed assenza di specificità delle censure che
integrano una mera richiesta di riesame dei motivi di
impugnazione formulati in primo grado.
2.1. Nel merito il Comune ha concluso per il rigetto
dell’appello e per la conferma della sentenza di primo grado
che correttamente avrebbe escluso l’applicabilità alla
fattispecie in esame dell’esenzione dall’onerosità, ai sensi
dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, così come
l’applicabilità dell’art. 11 della medesima legge n.
10/1977.
...
5. L’appello non è fondato nel merito e va respinto,
circostanza che esime il Collegio dall’esame delle eccezioni
preliminari, ivi compresa quella di inammissibilità della
produzione di nuovi documenti da parte dell’appellante in
considerazione della loro non rilevanza ai fini della
decisione.
6. Il Collegio osserva che l’art. 9 della legge n. 10/1977
stabilisce per le ipotesi dallo stesso previste l’esenzione
dal contributo di cui al precedente articolo 3, provvedendo
esclusivamente ad individuare –in deroga al principio di
onerosità del permesso di costruire- delle fattispecie
tipiche di esenzione, senza in alcun modo voler concepire
una forma di concessione differente rispetta a quello di
carattere generale (Consiglio di Stato, IV sez., 01.06.2020, n. 3405).
Con riferimento all’interpretazione del citato art. 9, lett.
d), della legge n. 10/1977 quale ipotesi di esenzione dal
pagamento del contributo concessorio “per gli interventi di
restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e
di ampliamento, in misura non superiore al 20% di edifici
unifamiliari”, occorre rammentare che, secondo la costante
giurisprudenza in materia di edilizia il pagamento degli
oneri concessori rappresenta la regola, con la conseguenza
che si impone un’interpretazione restrittiva delle deroghe,
da ritenere, pertanto, quali ipotesi tassativamente previste
dalla legge (Consiglio di stato, IV sez., 07.06.2018, n.
3422; Consiglio di stato, V sez., 07.05.2013, n. 2467).
7. Nel caso di specie dalla documentazione in atti emerge
che l’intervento assentito è consistito in una demolizione e
ricostruzione dell’edificio di cui si controverte, nonché
nel cambio di destinazione d’uso dello stesso da rurale a
residenziale e che sin dal suo rilascio la concessione è
stata sottoposta a “contributo per complessive £.
48.150.290, di cui £. 34.550.290 per oneri di urbanizzazione
e £. 13.600.000 per costo di costruzione”.
7. A fronte della contestazione della clausola di onerosità
da parte dell’appellante, il Collegio osserva che l’art. 9,
comma 1, lettera d), della legge n. 10/1977, nel prevedere
che il contributo non è dovuto per gli interventi di
restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e
di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari, si pone l’obiettivo di esentare dal contributo
concessorio ogni intervento edilizio sugli edifici esistenti
destinati all'abitazione di un solo nucleo familiare. Il
legislatore, pertanto, individua -quali beneficiari
dell’esenzione- i nuclei familiari, per l’appunto
proprietari di alloggi unifamiliari, nell’ottica di
migliorare in loro favore le condizioni di abitabilità degli
edifici medesimi.
D'altronde il presupposto del contributo di costruzione, se
per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è
costituito dalla compartecipazione alle spese che il
maggiore carico urbanistico derivante dall'intervento
genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è
correlato all'aumento di valore che consegue all'intervento.
Pertanto, si giustifica la sottrazione all'imposizione
dell'aumento di valore che la famiglia consegue per effetto
della ristrutturazione solo per le finalità di ordine
sociale sopra individuate.
7.1. Ne discende la condivisibilità della tesi sostenuta dal
giudice di primo grado secondo cui che la deroga
all’onerosità della concessione prevista dal citato art. 9
della legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. b), del
d.P.R. n. 380 del 2001) ha “un fondamento sociale, con
l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve
avere una accezione strutturale, ma socio-economica,
coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole
per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un
trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie
edilizie”.
7.2. Nel caso in esame dalla documentazione allegata non
risulta l’esatta consistenza dell’edificio e continua a
mancare la prova del suo carattere di edificio unifamiliare
nel senso appena detto di “piccola proprietà immobiliare”
meritevole di un trattamento differenziato, prova che
avrebbe dovuto essere fornita dall’appellante.
Al contrario l’importo elevato degli oneri concessori sembra
far deporre diversamente soprattutto con riguardo alla
consistenza dell’edificio.
7.3. Né, infine, sussiste il lamentato contrasto con l’art. 111
Cost. in quanto il giudice di primo grado ha applicato un
orientamento giurisprudenziale consolidatosi da lungo tempo,
rammentando anche che in precedenza vi era stato un
contrasto tra orientamenti diversi.
E, infatti, il contrasto tra diversi orientamenti della
giurisprudenza in ordine alla medesima questione non integra
una lesione del diritto ad un processo equo e giusto, né può
ingenerare un legittimo affidamento in capo alla parte che
la sua causa sarà decisa secondo uno piuttosto che secondo
l’altro orientamento (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 09.01.2024 n. 302 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è costante nell’affermare che la
concessione gratuita è una figura eccezionale, mentre la
regola è quella dell’onerosità: infatti, la norma che la
prevede, l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n.
380/2001 -ai sensi del quale “il contributo di costruzione
non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”- è sempre stata intesa come previsione
derogatoria rispetto alla suindicata regola e, dunque, da interpretare restrittivamente.
La chiara finalità della previsione dettata all’art. 17, c.
3, lett. b), è di natura sociale, essendo essa diretta ad
apprestare un concreto strumento di tutela e di salvaguardia
alla piccola proprietà immobiliare per quegli interventi di
adeguamento dell'immobile che siano effettivamente
funzionali alle necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla
suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di
"edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la
piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che
soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare
è meritevole di un trattamento differenziato.
Invero, è stato ritenuto non
manifestamente illogico o irrazionale definire "edificio
unifamiliare", non soggetto al pagamento del contributo concessorio, "un alloggio che abbia ... una superficie utile
non superiore a 110 mq'', con l'ulteriore previsione che "le
limitazioni di cui ai bagni ed alla superficie utile possono
essere superate" nel "caso in cui venga dimostrato che
nell'alloggio la superficie utile per abitante non è
superiore a 20 mq . ... ".
La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell'art. 9,
comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, "in relazione al
quale la giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire che il
carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione
abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche
dell'edificio, in ragione del volume, della superficie, del
numero e della funzione e caratteristica dei vani, in
rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da
parte di un unico nucleo familiare".
---------------
Nel caso di specie, per le ampie dimensioni del fabbricato
–una volumetria di 982 mc e una superficie di oltre di 300
mq- e per essere destinato ad un nucleo familiare che, al
momento del rilascio del permesso di costruire, era composto
da tre sole persone, il medesimo edificio non può
qualificarsi quale “piccola proprietà immobiliare” e non è,
quindi, meritevole di esenzione dal contributo di
costruzione.
---------------
Il sig. Gi.Co. ha contestato la decisione del Comune
di Colle Brianza di assoggettare a contributo di costruzione
(pari a euro 20.602,20) l’intervento edilizio di
ristrutturazione e ampliamento dell’immobile di sua
proprietà, oggetto del permesso di costruire n. 14/2012,
deducendone l’illegittimità per violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 17, comma 3, lett. b), d.P.R. n.
380/2001, eccesso di potere per travisamento dei fatti,
difetto dei presupposti, arbitrarietà, ingiustizia
manifesta, sviamento di potere.
...
Il Comune di Colle Brianza ha negato l’esenzione dal
contributo di costruzione prevista all’art. 17, c. 3, lett.
b), d.P.R. n. 380/2001, in caso di “interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”, ritenendo non
riconducibile a tale fattispecie l’abitazione di proprietà
del sig. Co., occupata da un nucleo di tre persone,
avente una volumetria oggetto di ristrutturazione di 877,58 mc oltre a un volume di 105,02 mc di ampliamento.
Il ricorrente ha contestato la legittimità di tale decisione
deducendo la violazione dell’art. 17, c. 3, lett. b), d.P.R.
n. 380/2001 e il travisamento dei fatti: nel caso di specie
sussisterebbero i presupposti richiesti dalla norma, poiché
l’edificio è strutturalmente destinato all’uso abitativo di
un solo nucleo familiare, la destinazione ad esclusiva
residenza abitativa preesiste all’intervento e permane anche
dopo di esso e l’intervento edilizio non ha carattere di
lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di
abitabilità dell’edificio medesimo.
A suo avviso, l’utilizzo di un criterio dimensionale per
individuare la nozione di edificio unifamiliare non sarebbe
corretto ma, quand’anche volesse essere farsi ricorso ad
esso, l’intervento edilizio sull’immobile –un edificio
strutturato su due livelli: un piano terra (di 151,45 mq) e
un piano seminterrato (di 151,45 mq) i cui locali non sono
abitabili, avendo un’altezza non superiore a 2,60 m.-
andrebbe comunque esente dal contributo.
Il ricorso è infondato.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che la
concessione gratuita è una figura eccezionale, mentre la
regola è quella dell’onerosità: infatti, la norma che la
prevede, l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n.
380/2001 -ai sensi del quale “il contributo di costruzione
non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”- è sempre stata intesa come previsione
derogatoria rispetto alla suindicata regola (cfr. C.d.S.,
Sez. IV, 14.02.2018, n. 945; Sez. V, 07.05.2013, n.
2467, e 24.03.2006, n. 1523; sull’art. 9 cit. cfr. Corte
cost., ord. 23.06.1988, n. 714; C.d.S., Sez. V, 06.02.2003, n. 617) e, dunque, da interpretare restrittivamente (C.d.S., Sez. IV,
01.06.2020, n. 3405).
La chiara finalità della previsione dettata all’art. 17, c.
3, lett. b), è di natura sociale, essendo essa diretta ad
apprestare un concreto strumento di tutela e di salvaguardia
alla piccola proprietà immobiliare per quegli interventi di
adeguamento dell'immobile che siano effettivamente
funzionali alle necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla
suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di
"edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la
piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che
soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare
è meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia,
Milano, sez. IV, 02.07.2014, n. 1707, che ha ritenuto non
manifestamente illogico o irrazionale definire "edificio
unifamiliare", non soggetto al pagamento del contributo concessorio, "un alloggio che abbia ... una superficie utile
non superiore a 110 mq'', con l'ulteriore previsione che "le
limitazioni di cui ai bagni ed alla superficie utile possono
essere superate" nel "caso in cui venga dimostrato che
nell'alloggio la superficie utile per abitante non è
superiore a 20 mq . ... ").
La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell'art. 9,
comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, "in relazione al quale la
giurisprudenza (cfr. TAR 07.09.1999 n. 770; TAR Veneto
30.03.1996 n. 480) aveva avuto modo di chiarire che il
carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione
abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche
dell'edificio, in ragione del volume, della superficie, del
numero e della funzione e caratteristica dei vani, in
rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da
parte di un unico nucleo familiare" (cfr. TAR Brescia,
sez. I , 13.05.2011 n. 713).
Nel caso di specie, l’edificio oggetto dell’intervento
edilizio si struttura su due piani, con un piano terra di
151,45 mq (articolato in un ampio soggiorno con cucina a
vista, un piccolo ripostiglio due stanze da letto e bagni) e
un piano seminterrato anch’esso di 151,45 mq (con un ampio
locale destinato a taverna, bagno, cantina, ripostiglio,
lavanderia, magazzino, locale caldaia e locale ricovero
attrezzi) (doc. 8).
Al piano seminterrato, alcuni locali, per quanto formalmente
non abitabili, hanno comunque altezze ragguardevoli e
destinazioni tali da consentirne, di fatto, un uso abitativo
(la taverna e il bagno). Anche i locali adibiti a deposito,
lavanderia, magazzino, cantina, centrale termica e ricovero
attrezzi, per quanto non abitabili, vanno, comunque, ad
incrementare le dimensioni dell’edificio e non possono
essere ritenuti privi di rilievo.
Proprio per le sue ampie dimensioni –una volumetria di 982 mc e una superficie di oltre di 300 mq- e per essere
destinato ad un nucleo familiare che, al momento del
rilascio del permesso di costruire, era composto da tre sole
persone, non può qualificarsi quale “piccola proprietà
immobiliare” e non è quindi meritevole di esenzione dal
contributo di costruzione.
Per le ragioni esposte il ricorso è infondato e deve essere
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.12.2023 n. 3093 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La questione circa la debenza degli oneri di
urbanizzazione e dei costi di costruzione nel caso di un
intervento di demolizione e ricostruzione dello stesso
immobile, senza variazione di volumetria e superficie, di
sagoma o di destinazione d'uso, profilandosi dunque lo
stesso carico urbanistico è stata affrontata più volte dalla
giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “non
verificandosi una nuova e diversa attività di trasformazione
del territorio, già oggetto della precedente edificazione,
non sussistono i presupposti per l'imposizione degli oneri
di urbanizzazione”.
In particolare, sul tema è stato statuito
quanto segue:
“Il Collegio ritiene opportuno esaminare separatamente i
presupposti per l'applicazione degli oneri di urbanizzazione
e del costo di costruzione.
Con riferimento ai primi, la ricorrente ha rilevato
l'assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito della
demolizione e ricostruzione dell’originario edificio avente
destinazione in parte a cinema ed in parte a uffici.
Va ribadito sul tema che il contributo per
oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici
che la nuova costruzione ne ritrae.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d'uso concretamente impressa all'alloggio, di tal che
l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza
correlata alla variazione del carico urbanistico.
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare
che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata
accompagnata da un'alterazione del carico urbanistico,
tenendo conto che l’intervento di cui si discute ha
interessato un edificio avente in precedenza destinazione a
cinema e uffici.
In ogni caso, ritiene il Collegio che in presenza di un
insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche
funzionali, l'amministrazione, per poter legittimamente
esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione,
avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle
condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico
addebitabile alla nuova destinazione”.
Ed ancora, (sul tema della
demolizione/ricostruzione senza cambiamento di destinazione
d’uso):
“In materia
urbanistica, il contributo per oneri di urbanizzazione è
definito dalla giurisprudenza un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici
che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché l'uso dà la
giustificazione giuridica dell'"an debeatur", mentre le
modalità dell'uso danno la ragione del "quantum".
La causa
giuridica della debenza del contributo va ricercata, quindi,
anche nella utilità che la nuova costruzione trae dalle
opere di urbanizzazione già esistenti, utilità che sta in
stretta relazione con l'uso della costruzione e, pertanto,
con la destinazione d'uso della stessa.
Ne consegue che nel
caso di demolizione e ricostruzione di un edificio la cubatura preesistente va esentata dal
contributo soltanto nella ipotesi in cui per essa non si sia
verificato un cambiamento di destinazione d'uso incidente
sulle spese di urbanizzazione e quindi urbanisticamente
rilevante”.
Con riferimento al costo di costruzione, la
conclusione cui perviene questo Decidente è identica,
sebbene per ragioni differenti.
La giurisprudenza, sia amministrativa che tributaria, ha
avuto modo di precisare che il contributo in questione ha
natura tributaria: esso è, invero, dovuto in quanto
l’attività di trasformazione del territorio è considerata
dal legislatore manifestazione di “ricchezza”, cioè indice
di capacità contributiva.
Quindi, in linea di principio esso è dovuto per ogni
attività di trasformazione edilizia, salve le esenzioni
previste dalla legge (come è noto, in materia tributaria le
esenzioni sono di stretta interpretazione).
---------------
... per l'accertamento e la declaratoria della non debenza
degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione in
assenza di un maggiore carico urbanistico.
...
La questione circa la debenza degli oneri di
urbanizzazione e dei costi di costruzione nel caso di un
intervento di demolizione e ricostruzione dello stesso
immobile, senza variazione di volumetria e superficie, di
sagoma o di destinazione d'uso, profilandosi dunque lo
stesso carico urbanistico è stata affrontata più volte dalla
giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “non
verificandosi una nuova e diversa attività di trasformazione
del territorio, già oggetto della precedente edificazione,
non sussistono i presupposti per l'imposizione degli oneri
di urbanizzazione” (cfr. TAR Veneto–Venezia, Sez. II,
06/04/2006, n. 878).
In particolare, sul tema si richiama un precedente di questo
TAR Sicilia–Sezione distaccata di Catania che, con la
pronuncia n. 2249/2013 del 19.09.2013 ha statuito
quanto segue:
“Il Collegio ritiene opportuno esaminare separatamente i
presupposti per l'applicazione degli oneri di urbanizzazione
e del costo di costruzione.
Con riferimento ai primi, la ricorrente ha rilevato
l'assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito della
demolizione e ricostruzione dell’originario edificio avente
destinazione in parte a cinema ed in parte a uffici.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di
urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico di
natura non tributaria, posto a carico del costruttore a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae (cfr. ex multis Cons. Stato,
sez. V, 21.04.2006, n. 2258; TAR Sicilia Catania,
sez. I, 13.01.2011, n. 485; TAR Puglia Bari, sez. III - 10/02/2011 n. 243).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d'uso concretamente impressa all'alloggio, di tal che
l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza
correlata alla variazione del carico urbanistico.
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare
che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata
accompagnata da un'alterazione del carico urbanistico,
tenendo conto che l’intervento di cui si discute ha
interessato un edificio avente in precedenza destinazione a
cinema e uffici.
In ogni caso, ritiene il Collegio che in presenza di un
insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche
funzionali, l'amministrazione, per poter legittimamente
esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione,
avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle
condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico
addebitabile alla nuova destinazione (cfr. TAR Lombardia
Milano, sez. IV - 04/05/2009 n. 3604)”.
Dall’esame del progetto depositato agli atti del giudizio,
si evince che non vi è stato alcun aumento del carico
urbanistico né cambio di destinazione d’uso (sul tema della
demolizione/ricostruzione senza cambiamento di destinazione
d’uso si segnala tra tutte TRGA Trentino-Alto Adige
Bolzano, 06/03/2000, n. 59 secondo cui “In materia
urbanistica, il contributo per oneri di urbanizzazione è
definito dalla giurisprudenza un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici
che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché l'uso dà la
giustificazione giuridica dell'"an debeatur", mentre le
modalità dell'uso danno la ragione del "quantum". La causa
giuridica della debenza del contributo va ricercata, quindi,
anche nella utilità che la nuova costruzione trae dalle
opere di urbanizzazione già esistenti, utilità che sta in
stretta relazione con l'uso della costruzione e, pertanto,
con la destinazione d'uso della stessa. Ne consegue che nel
caso di demolizione e ricostruzione di un edificio (come
nella specie) la cubatura preesistente va esentata dal
contributo soltanto nella ipotesi in cui per essa non si sia
verificato un cambiamento di destinazione d'uso incidente
sulle spese di urbanizzazione e quindi urbanisticamente
rilevante”).
Deve, in conclusione ritenersi non dovuto l’importo
richiesto dell’Ente a titolo di oneri di urbanizzazione.
Con riferimento al costo di costruzione, la conclusione cui
perviene questo Decidente è identica, sebbene per ragioni
differenti.
La giurisprudenza, sia amministrativa che tributaria, ha
avuto modo di precisare che il contributo in questione ha
natura tributaria: esso è, invero, dovuto in quanto
l’attività di trasformazione del territorio è considerata
dal legislatore manifestazione di “ricchezza”, cioè indice
di capacità contributiva. Quindi, in linea di principio esso
è dovuto per ogni attività di trasformazione edilizia, salve
le esenzioni previste dalla legge (come è noto, in materia
tributaria le esenzioni sono di stretta interpretazione).
Nel caso in esame, il ricorrente invoca l’applicazione
dell’art. 17, terzo comma, lettera b), del D.P.R. n.
380/2001. La norma si riferisce espressamente agli
“interventi di ristrutturazione di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Ai sensi
dell’art. 3, primo comma, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001
negli interventi di ristrutturazione edilizia “(…) sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e
ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma,
prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e
tipologiche (…)” persino con aumento di volumetria, sempre
se sia consentito dalla legislazione vigente o dagli
strumenti urbanistici comunali.
Nel caso di specie, la volumetria non è stata incrementata,
anzi sembra esservi stata una diminuzione (vedi progetto
definitivo depositato agli atti).
Ne deriva che l’esenzione è applicabile, atteso che, come
risulta dalla concessione edilizia n. 5061 del 28.07.2014, si tratta di demolizione e ricostruzione di un
edificio unifamiliare.
Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio, ritenendo
non dovuti gli oneri di urbanizzazione e i costi di
costruzione richiesti dall’Ente locale, accoglie il ricorso (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 15.11.2023 n. 3434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il criterio orientativo generale in materia è
quello della onerosità del permesso di costruire. Il
contributo di costruzione –come anche di recente evidenziato
dal Consiglio di Stato nella sua più autorevole composizione
(cfr. Adunanza Plenaria n.
12 del 2018)- rappresenta un corrispettivo di diritto
pubblico nel quale si concretizza la compartecipazione del
privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione.
In sostanza, fatte salve le ipotesi di esenzione dal
contributo indicate dall’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001,
il contributo è sempre dovuto, sicché le ipotesi di
esenzione non possono configurarsi in casi non previsti
dalla norma citata.
---------------
Con specifico riguardo all’ipotesi di esenzione di cui
all’art. 17, comma 3, lett. b), la giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare come tutte
le ipotesi di riduzione ed esenzione dall'obbligo
contributivo contenute nell'art. 17 D.P.R. n. 380/2001 sono
volte al perseguimento di interessi generali, di natura solidaristica o di incentivo ad attività o interventi che
abbiano un positivo impatto sull'ambiente.
Non può, pertanto, fare eccezione la causa di esenzione
prevista dalla lett. b) della norma in parola, secondo cui "il
contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari" - che deve
essere interpretata in conformità allo scopo di tutela cui è
preposta.
La ratio dell'esenzione di cui alla norma citata
va, cioè, rinvenuta nella tutela e salvaguardia delle
necessità abitative del nucleo familiare, perseguite
attraverso la gratuità degli interventi funzionali
all'adeguamento dell'immobile ove il nucleo risiede.
La
nozione di "edificio unifamiliare" richiamata dalla norma
deve, pertanto, essere intesa nella sua accezione
socio-economica che coincide "con la piccola proprietà
immobiliare", poiché soltanto ove presenti tali caratteri è
meritevole di un trattamento differenziato.
D'altronde il
presupposto del contributo di costruzione, se per la parte
relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla
compartecipazione alle spese che il maggiore carico
urbanistico derivante dall'intervento genera, per la parte
relativa al costo di costruzione, è correlato all'aumento di
valore che consegue all'intervento.
Pertanto la sottrazione all'imposizione dell'aumento di
valore che la famiglia consegue per effetto della
ristrutturazione si giustifica solo per le finalità di
ordine sociale sopra individuate.
Altresì,
circa gli estremi per l’applicazione dell’esenzione di cui
al ridetto art. 17, comma 3, lett. b), del D.P.R. n.
380/2001 pacifica giurisprudenza circoscrive l’operatività
agli interventi che non abbiano mutato sostanzialmente
l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile,
e non ne abbiano elevato in modo apprezzabile il valore
economico.
---------------
5. Il ricorso è infondato e va respinto.
Osserva preliminarmente il Collegio che il criterio
orientativo generale in materia è quello della onerosità del
permesso di costruire. Il contributo di costruzione –come
anche di recente evidenziato dal Consiglio di Stato nella
sua più autorevole composizione (cfr. Adunanza Plenaria n.
12 del 2018)- rappresenta un corrispettivo di diritto
pubblico nel quale si concretizza la compartecipazione del
privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione.
In sostanza, fatte salve le ipotesi di esenzione dal
contributo indicate dall’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001,
il contributo è sempre dovuto, sicché le ipotesi di
esenzione non possono configurarsi in casi non previsti
dalla norma citata.
Con specifico riguardo all’ipotesi di esenzione di cui
all’art. 17, comma 3, lettera b), la giurisprudenza (cfr.
TAR Veneto, Sez. II, 05.03.2019, n. 289; TAR Sez. I,
Brescia, 26.04.2018, n. 449; TAR Toscana, Sez. III,
26.04.2017 n. 616; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 22.06.2015 n. 1416;
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014 n. 2180 e TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
02.07.2014 n. 1707) ha avuto modo di evidenziare come tutte
le ipotesi di riduzione ed esenzione dall'obbligo
contributivo contenute nell'art. 17 D.P.R. n. 380/2001 sono
volte al perseguimento di interessi generali, di natura solidaristica o di incentivo ad attività o interventi che
abbiano un positivo impatto sull'ambiente.
Non può,
pertanto, fare eccezione la causa di esenzione prevista
dalla lettera b) della norma in parola, secondo cui "il
contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari" - che deve
essere interpretata in conformità allo scopo di tutela cui è
preposta.
La ratio dell'esenzione di cui alla norma citata
va, cioè, rinvenuta nella tutela e salvaguardia delle
necessità abitative del nucleo familiare, perseguite
attraverso la gratuità degli interventi funzionali
all'adeguamento dell'immobile ove il nucleo risiede.
La
nozione di "edificio unifamiliare" richiamata dalla norma
deve, pertanto, essere intesa nella sua accezione
socio-economica che coincide "con la piccola proprietà
immobiliare", poiché soltanto ove presenti tali caratteri è
meritevole di un trattamento differenziato.
D'altronde il
presupposto del contributo di costruzione, se per la parte
relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla
compartecipazione alle spese che il maggiore carico
urbanistico derivante dall'intervento genera, per la parte
relativa al costo di costruzione, è correlato all'aumento di
valore che consegue all'intervento.
Pertanto la sottrazione
all'imposizione dell'aumento di valore che la famiglia
consegue per effetto della ristrutturazione si giustifica
solo per le finalità di ordine sociale sopra individuate (cfr.
TAR Veneto, sez. II, 05/03/2019, n. 289; TAR sez. I,
Brescia, 26/04/2018, n. 449; TAR Toscana, Sez. III, 26.04.2017 n. 616,
TAR Campania, Salerno, Sez. I, 22.06.2015 n. 1416, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014 n. 2180 e
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; TAR Piemonte,
02.05.2022, n. 412).
5.1. Tanto premesso in linea generale, ritiene il Collegio
che nel caso di specie queste finalità di ordine sociale non
possano ritenersi sussistenti, tenuto conto della rilevanza
dell'intervento assentito che ha evidentemente causato un
sostanziale mutamento del fabbricato ed un apprezzabile
aumento del suo valore economico.
È tranciante la lettura della relazione tecnica allegata al
progetto di ristrutturazione (allegato 004 del deposito
documentale del Comune di -OMISSIS- del 10.07.2023,
pagg. 2 e 3), nella quale il tecnico incaricato evidenzia,
per un verso, come “…L’intervento proposto prevede la
fusione in un’unica unità immobiliare delle due distinte
costruzioni da cui è attualmente costituito l’immobile in
oggetto. Ciò comporta la ridistribuzione di ambienti e
funzioni oltre al necessario miglioramento delle
caratteristiche prestazionali dell’edificio…” e, per altro
verso, che “…Tali interventi comprendono il consolidamento,
il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso,
l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo
edilizio...”.
In sostanza, la lettura della documentazione in atti esclude
che nella fattispecie possano sussistere gli estremi per
l’applicazione dell’esenzione di cui al ridetto art. 17,
comma 3, lettera b), del D.P.R. n. 380 del 2001 di cui, come
già detto, pacifica giurisprudenza, circoscrive
l’operatività agli interventi che, a differenza di quanto
risulta nella fattispecie, non abbiano mutato
sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione
spaziale dell’immobile, e non ne abbiano elevato in modo
apprezzabile il valore economico (cfr. TAR Bologna, Sez.
II, 26.10.2022, n. 848).
6. In conclusione per le ragioni esposte il ricorso è
destituito di fondamento giuridico e va pertanto respinto (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 31.10.2023 n. 3249 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In primis, devesi considerare che:
- l’art. 17, comma 3, lett. a), del d.p.r. n. 380/2001
stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto …
per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del
fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'art. 12 della l. 09.05.1975
n. 153»;
- come enunciato dal Consiglio di Stato,
«trattasi di una scelta evidentemente di favore ancorata
alla sussistenza di due condizioni, una oggettiva,
costituita dal rapporto con la conduzione del fondo, l'altra
soggettiva, ovvero la qualifica di imprenditore agricolo a
titolo principale del richiedente … in quanto norma
derogatoria di una regola rispondente comunque a finalità di
ordine generale, ne è evidente la necessaria lettura di
rigore che le amministrazioni chiamate ad applicarla devono
darne».
In secundis:
- l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001
stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto …
per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari»;
- ebbene, il ricorrente neppure è riuscito a dimostrare, ai
sensi dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., che il
progetto approvato col PdC n. 59/2023 concernesse un
“edificio unifamiliare”, ossia quella tipologia edilizia cui
unicamente la disposizione citata circoscrive la propria
portata applicativa, senza margini per interpretazioni
estensive, incompatibili con la natura derogatoria ed
eccezionale della premialità dalla stessa contemplata;
- viceversa, il compendio immobiliare sottoposto
all’assentita ristrutturazione edilizia, piuttosto che
configurarsi a guisa di “edificio unifamiliare”, si presenta
articolato in due distinti fabbricati, l’uno padronale,
distribuito su tre piani (terra, primo e sottotetto) e
ragguagliante una volumetria complessivamente pari a ben mc
3.889,85, e l’altro colonico, costituito da un unico piano
terraneo e ragguagliante una volumetria complessivamente
pari a mc 991,28;
- non solo: come eccepito dal Comune,
senza ricevere smentita ex adverso, il progetto assentito
prevede la suddivisione del compendio immobiliare in parola
in un numero di cinque unità abitative, debordante,
all’evidenza, dal nesso di strumentalità all’esercizio
imprenditoriale agricolo;
- al riguardo, la giurisprudenza ha condivisibilmente statuito che: «La ratio
dell'esenzione prevista dall'art. 17 del d.p.r. n. 380 del
2001 … risiede … nel promuovere le opere di adeguamento dei
manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo
familiare, circoscrivendone l'operatività agli interventi
che non mutino sostanzialmente l'entità strutturale e la
dimensione spaziale dell'immobile e non ne elevino (in modo
apprezzabile) il valore economico …
Sotto un profilo più
generale si deve osservare, condividendo, sul tema, il
consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa,
che la partecipazione del privato al costo delle opere di
urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini
un incremento del peso insediativo con un'oggettiva
rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso
di costruire è funzionale a sopportare il carico
socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza ha statuito che l'esenzione dal
contributo di costruzione per il caso di interventi di
ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di
ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione
di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di
stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti
dal legislatore).
La chiara finalità della norma è di natura
sociale, essendo essa diretta ad apprestare un concreto
strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà
immobiliare per quegli interventi di adeguamento
dell'immobile che siano effettivamente funzionali alle
necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla
suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di
"edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la
piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che
soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare
è meritevole di un trattamento differenziato».
---------------
Da ultimo,
nel contempo:
- per giurisprudenza consolidata, la quota di contributo di
costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve
la prioritaria funzione di compensare la collettività per
l’ulteriore carico urbanistico generato da un nuovo
intervento edilizio, mediante redistribuzione dei costi
sociali delle opere di urbanizzazione all’uopo necessarie; e
si rende, quindi, esigibile, se e in quanto detto intervento
comporti un incremento della domanda di servizi nella zona
di relativa localizzazione, e cioè imponga
all’amministrazione di sostenere le spese per rendere
accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato
edificio;
- se così è, e cioè se il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è da intendersi dovuto solo nel caso in cui
l'intervento abbia determinato un aumento del carico
urbanistico, è evidente che la
modalità di recupero del manufatto preesistente mediante
restauro conservativo e ristrutturazione, senza ampliamenti
o mutamenti delle destinazioni d’uso, così come prevista nel
progetto assentito col PdC n. 59/2023, è insuscettibile di generare l’obbligazione ex
art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, la cui insorgenza
è sinallagmaticamente ancorata a tutti gli interventi
implicanti una trasformazione funzionale o strutturale con
incidenza quali-quantitativa sul carico urbanistico.
---------------
Premesso che:
- col ricorso in epigrafe, Be.Er.Ma. (in
appresso, B.E.M.) agiva per:
-- l’annullamento, previa
sospensione, della nota prot. n. 22412/2023, con la quale il
Responsabile dell’Area Urbanistica – Edilizia Privata –
Demanio – Patrimonio del Comune di Capaccio Paestum, con
riferimento ai lavori assentiti col permesso di costruire (PdC)
n. 59/2023 e consistenti nel “restauro e risanamento
conservativo di un fabbricato diruto esistente”, ubicato in
Capaccio Paestum, località Filette, e censito in catasto al
figlio 17, particella 405, sub 2, 3, 4, 5 e 6, aveva
determinato, ai sensi ex art. 16 del d.p.r. n. 380/2001, la
quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione
nella misura di € 7.982,49 e la quota di contributo relativa
al costo di costruzione nella misura di € 35.949,25;
--
l’accertamento negativo dell’obbligazione di pagamento delle
somme richiestegli a titolo di contributo di costruzione;
--
la condanna del Comune di Capaccio Paestum alla restituzione
delle somme indebitamente versategli a titolo di contributo
di costruzione;
- a sostegno dell’esperito gravame, deduceva, in estrema
sintesi, che:
-- ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. a) e
b), del d.p.r. n. 380/2001, egli avrebbe dovuto considerarsi
esonerato dall’obbligo di pagamento del contributo di
costruzione, l’intervento assentito ricadendo in zona
agricola, essendo funzionale all’esercizio dell’attività
imprenditoriale agricola del B. e consistendo in una mera
ristrutturazione edilizia senza ampliamenti;
-- a fronte di
quest’ultima connotazione progettuale, nonché
dell’insussistenza di previsioni di mutamenti delle
originarie destinazioni d’uso, non sarebbe stato
configurabile alcun aggravio del carico urbanistico e non si
sarebbe, quindi, giustificato l’addebito della quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione;
...
Considerato, innanzitutto, che:
- l’art. 17, comma 3, lett. a), del d.p.r. n. 380/2001
stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto …
per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del
fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'articolo 12 della l. 09.05.1975
n. 153»;
- come enunciato da Cons. Stato, sez. II, n. 235/2022,
«trattasi di una scelta evidentemente di favore ancorata
alla sussistenza di due condizioni, una oggettiva,
costituita dal rapporto con la conduzione del fondo, l'altra
soggettiva, ovvero la qualifica di imprenditore agricolo a
titolo principale del richiedente … in quanto norma
derogatoria di una regola rispondente comunque a finalità di
ordine generale, ne è evidente la necessaria lettura di
rigore che le amministrazioni chiamate ad applicarla devono
darne»;
- nel caso in esame, la sussistenza dell’indefettibile
requisito oggettivo per la fruizione dell’esonero dal
pagamento del contributo di costruzione, costituito dalla
preordinazione funzionale dell’intervento assentito rispetto
alla conduzione del fondo ed alle esigenze dell'imprenditore
agricolo a titolo principale, ossia dalla sua connessione
alla gestione dell’attività agricola entro l’aera di
relativa localizzazione, non è comprovata da parte
ricorrente, ai sensi dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm.,
ed è, anzi, sconfessata sia dalle evidenze documentali
afferenti agli indirizzi della residenza (Roma, via
..., n. 85) del B. e della sede dell’impresa in
sua titolarità (Agropoli, via ..., n. 112) –entrambi
diversi da quelli corrispondenti al complesso edilizio
ubicato in Capaccio Paestum, località Filette, e censito in
catasto al figlio 17, particella 405, sub 2, 3, 4, 5 e 6–,
sia dalle evidenze documentali afferenti alla natura ed
all’entità dell’opera progettata, consistente nella
ristrutturazione di un ingente compendio immobiliare
(articolato in un grosso fabbricato padronale e in un
annesso fabbricato colonico) e debordante la soglia
dell’inerenza all’attività agricola;
- a prescindere dal possesso del requisito soggettivo
integrato dalla qualifica di imprenditore agricolo, non
risulta, cioè, verificata, in capo al B., la necessità di
risiedere all’interno del fondo onde assicurare la
produttività dell’azienda agricola in sua titolarità (sul
punto, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n.
973/2021); né, tanto meno, risulta verificato il nesso di
strumentalità tra l’intervento assentito e la conduzione del
fondo (sul punto, cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I,
n. 426/2016, secondo cui «la mera indicazione dell'impiego
del bene e della sua localizzazione non soddisfa la
dimostrazione del nesso di strumentalità tra l'opera per cui
è chiesto il titolo edilizio e l'attività agricola, atteso
che non tutte le opere realizzate in zona agricola sono, per
tale solo fatto, funzionali alla conduzione del fondo,
sicché spetta al privato fornire un riscontro documentale di
tale destinazione»);
Considerato, poi, che:
- l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001
stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto …
per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari»;
- ebbene, il ricorrente neppure è riuscito a dimostrare, ai
sensi dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., che il
progetto approvato col PdC n. 59/2023 concernesse un
“edificio unifamiliare”, ossia quella tipologia edilizia cui
unicamente la disposizione citata circoscrive la propria
portata applicativa, senza margini per interpretazioni
estensive, incompatibili con la natura derogatoria ed
eccezionale della premialità dalla stessa contemplata;
- viceversa, il compendio immobiliare sottoposto
all’assentita ristrutturazione edilizia, piuttosto che
configurarsi a guisa di “edificio unifamiliare”, si presenta
articolato in due distinti fabbricati, l’uno padronale,
distribuito su tre piani (terra, primo e sottotetto) e
ragguagliante una volumetria complessivamente pari a ben mc
3.889,85, e l’altro colonico, costituito da un unico piano
terraneo e ragguagliante una volumetria complessivamente
pari a mc 991,28;
- non solo: come eccepito dal Comune di Capaccio Paestum,
senza ricevere smentita ex adverso, il progetto assentito
prevede la suddivisione del compendio immobiliare in parola
in un numero di cinque unità abitative, debordante,
all’evidenza, dal nesso di strumentalità all’esercizio
imprenditoriale agricolo;
- al riguardo, TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, n.
848/2022 ha condivisibilmente statuito che: «La ratio
dell'esenzione prevista dall'art. 17 del d.p.r. n. 380 del
2001 … risiede … nel promuovere le opere di adeguamento dei
manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo
familiare, circoscrivendone l'operatività agli interventi
che non mutino sostanzialmente l'entità strutturale e la
dimensione spaziale dell'immobile e non ne elevino (in modo
apprezzabile) il valore economico …
Sotto un profilo più
generale si deve osservare, condividendo, sul tema, il
consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa,
che la partecipazione del privato al costo delle opere di
urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini
un incremento del peso insediativo con un'oggettiva
rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso
di costruire è funzionale a sopportare il carico
socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la
giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 09.05.2012, n. 2136) ha statuito che l'esenzione dal
contributo di costruzione per il caso di interventi di
ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di
ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione
di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di
stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti
dal legislatore).
La chiara finalità della norma è di natura
sociale, essendo essa diretta ad apprestare un concreto
strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà
immobiliare per quegli interventi di adeguamento
dell'immobile che siano effettivamente funzionali alle
necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto,
nell'accezione socio-economica assunta dalla suddetta norma
di carattere eccezionale, il concetto di "edificio
unifamiliare" coincide, in concreto, con la piccola
proprietà immobiliare, con la conseguenza che soltanto se
presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare è meritevole
di un trattamento differenziato (TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
02.07.2014, n. 1707)»;
Considerato, nel contempo, che:
- per giurisprudenza consolidata, la quota di contributo di
costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve
la prioritaria funzione di compensare la collettività per
l’ulteriore carico urbanistico generato da un nuovo
intervento edilizio, mediante redistribuzione dei costi
sociali delle opere di urbanizzazione all’uopo necessarie; e
si rende, quindi, esigibile, se e in quanto detto intervento
comporti un incremento della domanda di servizi nella zona
di relativa localizzazione, e cioè imponga
all’amministrazione di sostenere le spese per rendere
accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato
edificio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n.
1586/2021; n. 148/2022; sez. II, n. 235/2022; n. 5297/2022;
TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 607/2022; TAR Campania,
Napoli, sez. VII, n. 1550/2023; sez. IV, n. 6272/2023);
- se così è, e cioè se il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è da intendersi dovuto solo nel caso in cui
l'intervento abbia determinato un aumento del carico
urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n.
2611/2004; n. 4950/2015; TAR Piemonte, Torino, sez. II, n.
1009/2013; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 2198/2018; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, n. 207/2021), è evidente che la
modalità di recupero del manufatto preesistente mediante
restauro conservativo e ristrutturazione, senza ampliamenti
o mutamenti delle destinazioni d’uso, così come prevista nel
progetto assentito col PdC n. 59/2023 (cfr. Relazione
tecnica a corredo dell’istanza del 13.12.2022, prot.
n. 52387), è insuscettibile di generare l’obbligazione ex
art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, la cui insorgenza
è sinallagmaticamente ancorata a tutti gli interventi
implicanti una trasformazione funzionale o strutturale con
incidenza quali-quantitativa sul carico urbanistico;
Ritenuto, quindi, che:
- stante la ravvisata fondatezza del solo ordine di
doglianze in ultimo scrutinato, il ricorso in epigrafe va
accolto limitatamente ad esso;
- conseguentemente, va annullata in parte qua la gravata
nota prot. n. 22412/2023, va negativamente accertato, nella
misura di € 7.982,49, il credito con essa vantato (a titolo
quota di contributo di costruzione relativa agli oneri di
urbanizzazione) nei confronti del B. e va condannato il
Comune di Capaccio Paestum alla restituzione della
corrispondente somma indebitamente percepita (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.10.2023 n. 2376 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' infondato il motivo di ricorso, in appello,
laddove si lamenta che il Tar
avrebbe errato nel ritenere sussistente l’ipotesi di esonero
dal pagamento del contributo previsto dall’art. 17, comma 3,
lett. b), T.U. edilizia, in quanto edificio unifamiliare,
poiché la giurisprudenza amministrativa esclude il diritto
al beneficio, in caso di edifici di grandi dimensioni, come
accade nel caso di specie, trattandosi di immobile che
sviluppa oltre 600 mc. di volumi abitabili, in contrasto con
il parametro di cui all’art. 3 del D.M. 1444 del 1968
assunto a riferimento dalla giurisprudenza amministrativa.
E’ indubbiamente vero che la giurisprudenza amministrativa
più recente, in merito alla ipotesi di esonero dal
contributo riferita agli edifici unifamiliari, prevista
dall’art. 17, comma 3, lett. b), T.U. edilizia, ha precisato
che deve essere rispettata una regola implicita di
proporzionalità tra le dimensioni dell’immobile e la
funzione sociale di accoglienza di un nucleo familiare,
computando un massimo di 80 mc. per ciascun componente il
nucleo familiare, mutuando tale parametro dall’art. 3 del
D.M. n. 1444 del 1968, mentre nel caso di specie l’immobile
cuba 626 mc. per una superficie utile di circa 200 mq.,
superiore al predetto parametro.
In senso opposto reputa il Collegio che nel caso di specie
debba essere valorizzato il parametro successivamente
introdotto dalla Regione Piemonte con l’art. 48, commi 1 e
1-bis, della legge regionale n. 56 del 1977, come integrata
dall’art. 43 della l.r. 3/2015, secondo cui nel territorio
piemontese possono essere eseguiti senza titolo e non sono
onerosi i mutamenti di destinazione d'uso di unità
immobiliari pari fino a 700 mc (interventi che possono anche
determinare un aumento del carico urbanistico).
E’ vero, come eccepisce il Comune, che la disposizione,
introdotta nel 2015, è successiva all’intervento in
contestazione e alla richiesta di pagamento del comune e
quindi non dovrebbe applicarsi per il principio del tempus
regit actum ma è anche vero che tale disposizione
sopravvenuta rileva certamente a fini interpretativi, nella
individuazione del parametro normativo massimo di cubatura
ritenuto compatibile con la non onerosità dell’intervento.
La legge statale, infatti, non solo non contempla in modo
espresso tale limite ma neppure indica il relativo parametro
di riferimento che è necessariamente variabile, da regione a
regione, in relazione alle caratteristiche territoriali di
densità della popolazione oltre che socio-economiche, non
potendosi comparare, per intuitive ragioni, immobili posti
in contesti rurali periferici con quelli situati in zone
fortemente urbanizzate, tenuto conto che un immobile di 600 mc. e 200 mq.,
nel primo caso rappresenta una ordinaria
fattispecie di abitazione unifamiliare della classe media,
nella seconda configura invece una abitazione di lusso che
non giustifica la finalità sociale dell’esonero.
Del resto la più risalente giurisprudenza della sezione aveva ritenuto che “Come
appare evidente, l'esenzione dal pagamento dei contributi di
cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di
alloggi unifamiliari, presumendo il Legislatore che gli
interventi edilizi sugli stessi non abbiano carattere di
lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di
abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla
loro dimensione”, a conferma che solo successivamente si è
ritenuto di inserire il limite dimensionale –per finalità
di contrasto ad iniziative speculative– invero non
richiesto dalla legge sicché neppure si pone un problema di
interpretazione restrittiva rispetto ad un presupposto
normativo non previsto (il limite dimensionale
dell’abitazione), valendo piuttosto la regola opposta, del
diritto all’esonero nel caso di alloggi unifamiliari, ferma
la necessità, intrinseca alla ratio della disposizione, di
operare una verifica sui limiti massimi ammissibili che
tenga conto, caso per caso, anche delle caratteristiche
delle diverse zone geografiche e di quelle socio economiche
di contesto, al fine di prevenire intenti speculativi che
travalichino la finalità di tutela del diritto sociale
all’abitazione.
E’ indubbiamente vero che l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, contemplando una previsione
derogatoria al principio di onerosità da cui discende
l’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione,
debba essere interpretato in senso restrittivo
ma ciò non può implicare la introduzione di presupposti
normativi non contemplati dalla fattispecie se non nei
limiti in cui gli stessi possano ritenersi oggettivamente
desumibili dalla ratio della stessa e nei limiti della
ragionevolezza.
---------------
Nel caso di specie le dimensioni dell’immobile non sono tali
da evidenziare finalità speculative, come si desume
- sia dal
parametro legale successivamente introdotto dal legislatore
regionale (ma che evidentemente codifica indici socio-economico-territoriali preesistenti)
- sia dal fatto che
il volume complessivo e la superficie utile non sono mutate,
a conferma che l’immobile è rimasto adibito alle originarie,
effettive, esigenze abitative del nucleo familiare che con
l’intervento ha legittimamente inteso migliorare la
fruibilità interni degli spazi, oltre che i profili igienico-sanitari (modifica dell’altezza interpiano e creazione di un
bagno), prevedendo anche locali di servizio.
Il parametro desunto dall’art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968
può essere impiegato come criterio sussidiario per la
verifica della congruità dei limiti dimensionali, in
mancanza di indicazioni rinvenibili nella legislazione
regionale ma ha comunque natura non vincolante bensì
orientativa e, come tale, è suscettibile di confutazione da
parte degli interessati che potranno dimostrarne in giudizio la
inattendibilità, tenuto conto delle caratteristiche
geografiche e socio economiche in cui si colloca l’immobile
ma anche del fatto che l’edificio unifamiliare, nonostante
la ristrutturazione, continui a soddisfare esigenze
abitative ordinarie, in quanto immutate nel tempo.
Del resto lo stesso precedente citato dalla appellante precisa
- “che la
nozione di “edifici unifamiliari” va intesa in un’accezione
non tanto strutturale –come pretende il Comune–, ma
socio-economica, cioè riguardante la piccola proprietà
immobiliare, poiché soltanto questa è meritevole di un
trattamento differenziato”
laddove, come evidenziato, il
riferimento alla accezione “socio-economica” va invero più
opportunamente operato adattando il concetto giuridico al
contesto geografico, territoriale e socio-economico che può
condizionare in modo rilevante lo standard medio ordinario
della abitazione adibita alle primarie esigenze di vita
familiari: in particolare, come già evidenziato,
- in contesti
rurali e, in generale, meno urbanizzati, si registrano
presenze di immobili unifamiliari di dimensioni sicuramente
superiori al parametro dell’art. 3 del D.M. 1444 del 1968 –che peraltro, come noto, assolve ad altri finalità– e che
comunque, pur non essendo necessariamente riconducibili al
concetto di “piccola” proprietà immobiliare, sono, ciò non
di meno, meritevoli del beneficio di legge, in quanto
coerenti con la ratio di assicurare il diritto alla casa,
secondo uno standard di adeguatezza ordinario, coerente con
il contesto socio-economico di riferimento, rispetto al
quale restano invece certamente escluse le abitazioni di
lusso e quelle di dimensioni oggettivamente esorbitanti,
come già chiarito nel precedente richiamato.
---------------
I signori Cl.Mi. e Al.Se. in data 26.11.2010 hanno
presentato denuncia di inizio attività n. 2033/2010 per la
ristrutturazione del fabbricato unifamiliare residenziale di
loro proprietà in via ... n. 39 nel Comune di Cambiano.
Il progetto prevedeva il rifacimento dei due solai esistenti
e del balcone, modifiche alla tramezzatura interna, il
rifacimento degli intonaci e dei pavimenti, la modifica
delle aperture esterne, la realizzazione di un nuovo bagno
al piano primo, la realizzazione del collettore solare, il
recupero della legnaia da adibirsi a locale da sgombero.
L’edificio, essendo stato costruito prima del 1975 era già
abitabile in via di fatto, su entrambi i piani, sebbene i
locali fossero, prima della ristrutturazione, di altezza
interna pari a 2,55 mt., inferiore all’altezza minima di
2,70 mt. prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975.
L’intervento di ristrutturazione consentiva di ottenere, per
tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la
demolizione e ricostruzione dei solai interni.
Per effetto dell’intervento di ristrutturazione non si
determinavano incrementi di volume o di superficie utile o
cambio di destinazione d’uso né veniva aumentato il numero
di unità immobiliari.
Poiché il Comune di Cambiano determinava il contributo di
costruzione, ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380 del
2001, in euro 9.749,35 i ricorrenti adivano il Tar per il
Piemonte sostenendo la gratuità dell’intervento e deducendo,
conseguentemente, la violazione degli artt. 11, 16, 17 e 22
del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché eccesso di potere sotto
diversi profili.
Con
sentenza 21.04.2017 n. 532 il Tar per il Piemonte
ha accolto il ricorso rilevando che il contributo di
costruzione non era dovuto in quanto:
- non vi era stato incremento del carico urbanistico, come
erroneamente ritenuto dal Comune, anche perché non si
trattava di d.i.a. alternativa a permesso di costruire ma di
una ristrutturazione c.d. leggera;
- la gratuità dell’intervento andava riconosciuta anche alla luce
della previsione dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del
d.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di ristrutturazione di
edificio unifamiliare.
- ha assorbito le ulteriori censure riferite alle delibere di
Consiglio comunale ed alla delibera regionale n. 179/CR-4170
del 1977 di cui i ricorrenti avevano chiesto la
disapplicazione nella parte in cui applicavano il contributo
di costruzione anche agli interventi non comportanti aumento
del carico urbanistico;
- ha condannato il Comune alle spese di lite.
Avverso la predetta sentenza ha interposto appello il Comune
di Cambiano per chiederne la integrale riforma in quanto
errata in diritto.
...
1. Con un primo motivo il Comune lamenta che il Tar
avrebbe errato nel ritenere assorbita la questione della
legittimità della delibera del Consiglio Regionale
26.05.1977 n. 179/CR - 4170 e di quelle comunali nn. 100 e
101 del 13.09.1977 di determinazione del contributo di
costruzione, nella parte in cui ne dispongono espressamente
l’applicazione anche in caso di assenza di incremento di
carico urbanistico, poiché, trattandosi del presupposto
logico-giuridico necessario della richiesta di pagamento,
occorreva esaminare preventivamente la loro legittimità. Nel
merito osserva che i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare
formalmente i predetti atti per chiederne l’annullamento,
non potendosi nel caso di specie invocare il potere di
disapplicazione del giudice amministrativo.
2. Con un secondo motivo deduce che il Tar avrebbe
errato nel ritenere insussistente un incremento di carico
urbanistico, pur in presenza di fattispecie di
ristrutturazione leggera mediante d.i.a., ricorrendo nel
caso di specie:
a) un mutamento della realtà strutturale con modifica dell’altezza
interpiano da 2.55 ml. a 2,70 ml.; una diversa distribuzione
interna degli spazi; la praticabilità del tetto con apertura
di due finestre;
b) una maggiore fruibilità urbanistica dell’immobile considerato
che per effetto della d.i.a. si passa da una abitabilità di
fatto, tollerata, ad una di diritto, con altezza interpiano
a 2,70 conforme al D.M. 05.07.1975;
c) un conseguente incremento di valore dell’immobile.
Si tratterebbe infatti di ipotesi in cui la giurisprudenza
amministrativa ha invero rivenuto sussistente l’incremento
del carico urbanistico, affermando l’obbligo del pagamento
del contributo di costruzione.
3. Con un terzo motivo lamenta che il Tar avrebbe
errato nel ritenere sussistente l’ipotesi di esonero dal
pagamento del contributo previsto dall’art. 17, comma 3,
lett. b), T.U. edilizia, in quanto edificio unifamiliare,
poiché la giurisprudenza amministrativa esclude il diritto
al beneficio, in caso di edifici di grandi dimensioni, come
accade nel caso di specie, trattandosi di immobile che
sviluppa oltre 600 mc. di volumi abitabili, in contrasto con
il parametro di cui all’art. 3 del D.M. 1444 del 1968
assunto a riferimento dalla giurisprudenza amministrativa.
4. Con un quarto motivo si duole della statuizione
del Tar sulle spese di lite, rimarcando l’ingiustizia della
decisione di condannare l'amministrazione comunale
nonostante abbia agito in ottemperanza a norme che non
poteva disattendere (la delibera regionale e quelle del
Consiglio comunale.
Così sinteticamente esposti i motivi di appello, il Collegio
reputa di poter prendere le mosse dalla terza doglianza,
in applicazione del criterio della ragione più liquida (cfr.
Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del 2015, § 5.3. lett. a) punto
IV).
Il motivo è infondato.
E’ indubbiamente vero che la giurisprudenza amministrativa
più recente, in merito alla ipotesi di esonero dal
contributo riferita agli edifici unifamiliari, prevista
dall’art. 17, comma 3, lett. b), T.U. edilizia, ha precisato
che deve essere rispettata una regola implicita di
proporzionalità tra le dimensioni dell’immobile e la
funzione sociale di accoglienza di un nucleo familiare,
computando un massimo di 80 mc. per ciascun componente il
nucleo familiare, mutuando tale parametro dall’art. 3 del
D.M. n. 1444 del 1968, mentre nel caso di specie l’immobile
cuba 626 mc. per una superficie utile di circa 200 mq.,
superiore al predetto parametro.
Tali rilevanti dimensioni, per il Comune appellante,
sarebbero incompatibili con la finalità sociale che
giustifica la misura di esonero, finalizzata a garantire il
diritto alla casa; inoltre, trattandosi di disposizione
derogatoria rispetto alla regola della onerosità, sarebbe di
stretta interpretazione.
In senso opposto reputa il Collegio che nel caso di specie
debba essere valorizzato il parametro successivamente
introdotto dalla Regione Piemonte con l’art. 48, commi 1 e
1-bis, della legge regionale n. 56 del 1977, come integrata
dall’art. 43 della l.r. 3/2015, secondo cui nel territorio
piemontese possono essere eseguiti senza titolo e non sono
onerosi i mutamenti di destinazione d'uso di unità
immobiliari pari fino a 700 mc (interventi che possono anche
determinare un aumento del carico urbanistico).
E’ vero, come eccepisce il Comune, che la disposizione,
introdotta nel 2015, è successiva all’intervento in
contestazione e alla richiesta di pagamento del comune e
quindi non dovrebbe applicarsi per il principio del tempus
regit actum ma è anche vero che tale disposizione
sopravvenuta rileva certamente a fini interpretativi, nella
individuazione del parametro normativo massimo di cubatura
ritenuto compatibile con la non onerosità dell’intervento.
La legge statale infatti non solo non contempla in modo
espresso tale limite ma neppure indica il relativo parametro
di riferimento che è necessariamente variabile, da regione a
regione, in relazione alle caratteristiche territoriali di
densità della popolazione oltre che socio-economiche, non
potendosi comparare, per intuitive ragioni, immobili posti
in contesti rurali periferici con quelli situati in zone
fortemente urbanizzate, tenuto conto che un immobile di 600 mc. e 200 mq.,
nel primo caso rappresenta una ordinaria
fattispecie di abitazione unifamiliare della classe media,
nella seconda configura invece una abitazione di lusso che
non giustifica la finalità sociale dell’esonero.
Del resto la più risalente giurisprudenza della sezione (cfr.
Sez. IV, 11.10.2006, n. 6065), aveva ritenuto che “Come
appare evidente, l'esenzione dal pagamento dei contributi di
cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di
alloggi unifamiliari, presumendo il Legislatore che gli
interventi edilizi sugli stessi non abbiano carattere di
lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di
abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla
loro dimensione”, a conferma che solo successivamente si è
ritenuto di inserire il limite dimensionale –per finalità
di contrasto ad iniziative speculative– invero non
richiesto dalla legge sicché neppure si pone un problema di
interpretazione restrittiva rispetto ad un presupposto
normativo non previsto (il limite dimensionale
dell’abitazione), valendo piuttosto la regola opposta, del
diritto all’esonero nel caso di alloggi unifamiliari, ferma
la necessità, intrinseca alla ratio della disposizione, di
operare una verifica sui limiti massimi ammissibili che
tenga conto, caso per caso, anche delle caratteristiche
delle diverse zone geografiche e di quelle socio economiche
di contesto, al fine di prevenire intenti speculativi che
travalichino la finalità di tutela del diritto sociale
all’abitazione.
E’ indubbiamente vero che l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, contemplando una previsione
derogatoria al principio di onerosità da cui discende
l’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione,
debba essere interpretato in senso restrittivo (come
rammentato da Cons. Stato, sez. II, 12.04.2021 n. 2939)
ma ciò non può implicare la introduzione di presupposti
normativi non contemplati dalla fattispecie se non nei
limiti in cui gli stessi possano ritenersi oggettivamente
desumibili dalla ratio della stessa e nei limiti della
ragionevolezza.
Nel caso di specie le dimensioni dell’immobile non sono tali
da evidenziare finalità speculative, come si desume sia dal
parametro legale successivamente introdotto dal legislatore
regionale (ma che evidentemente codifica indici
socio-economico-territoriali preesistenti) sia dal fatto che
il volume complessivo e la superficie utile non sono mutate,
a conferma che l’immobile è rimasto adibito alle originarie,
effettive, esigenze abitative del nucleo familiare che con
l’intervento ha legittimamente inteso migliorare la
fruibilità interni degli spazi, oltre che i profili igienico-sanitari (modifica dell’altezza interpiano e creazione di un
bagno), prevedendo anche locali di servizio.
Il parametro desunto dall’art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968
può essere impiegato come criterio sussidiario per la
verifica della congruità dei limiti dimensionali, in
mancanza di indicazioni rinvenibili nella legislazione
regionale ma ha comunque natura non vincolante bensì
orientativa e, come tale, è suscettibile di confutazione da
parte degli interessati che potranno –come accaduto nel
presente giudizio- dimostrarne in giudizio la
inattendibilità, tenuto conto delle caratteristiche
geografiche e socio-economiche in cui si colloca l’immobile
ma anche del fatto che l’edificio unifamiliare, nonostante
la ristrutturazione, continui a soddisfare esigenze
abitative ordinarie, in quanto immutate nel tempo.
Del resto lo stesso precedente citato dalla appellante (Cons.
Stato, sez. II, 12.04.2021 n. 2939) precisa che “che la
nozione di “edifici unifamiliari” va intesa in un’accezione
non tanto strutturale –come pretende il Comune–, ma
socio-economica, cioè riguardante la piccola proprietà
immobiliare, poiché soltanto questa è meritevole di un
trattamento differenziato” laddove, come evidenziato, il
riferimento alla accezione “socio-economica” va invero più
opportunamente operato adattando il concetto giuridico al
contesto geografico, territoriale e socio-economico che può
condizionare in modo rilevante lo standard medio ordinario
della abitazione adibita alle primarie esigenze di vita
familiari: in particolare, come già evidenziato, in contesti
rurali e, in generale, meno urbanizzati, si registrano
presenze di immobili unifamiliari di dimensioni sicuramente
superiori al parametro dell’art. 3 del D.M. 1444 del 1968 –che peraltro, come noto, assolve ad altri finalità– e che
comunque, pur non essendo necessariamente riconducibili al
concetto di “piccola” proprietà immobiliare, sono, ciò non
di meno, meritevoli del beneficio di legge, in quanto
coerenti con la ratio di assicurare il diritto alla casa,
secondo uno standard di adeguatezza ordinario, coerente con
il contesto socio-economico di riferimento, rispetto al
quale restano invece certamente escluse le abitazioni di
lusso e quelle di dimensioni oggettivamente esorbitanti,
come già chiarito nel precedente richiamato.
Alla luce delle considerazioni che precedono il motivo deve,
pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.09.2023 n. 8323 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che la previsione
di cui all’art. 17, comma 3,
lett. b), del DPR 380/2001 ha “carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore)”, in
quanto derogatoria alla regola generale che impone la corresponsione del
contributo quale “obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge
con il rilascio della concessione edilizia” e, in particolare, quale “corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo
manufatto”.
L’esenzione in esame rinviene la propria ratio in esigenze <<di natura
sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e
di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi
funzionali all'adeguamento dell'immobile alle necessità abitative del nucleo
familiare: l'edificio unifamiliare, nell'accezione socio economica assunta
dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare,
e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento
differenziato>>”.
In sostanza, la disposizione in esame ha <<la funzione di agevolare i
proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli
interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione
di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi,
indipendentemente dalla loro dimensione>>.
La disposizione è, quindi, diretta <<a promuovere le opere di adeguamento
dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare,
circoscrivendone l'operatività agli interventi che non mutino
sostanzialmente l'entità strutturale e la dimensione spaziale dell'immobile
e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico>>.
---------------
Con ricorso, notificato il 30.10.2019 e depositato il 29.11.2019, Ti.Lu. -che in virtù di testamento pubblico del 27/09/1999, riceveva dal
bisnonno, Ti.Lu., un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale e
capannoni adibiti sempre all’attività agricola- riferisce, in fatto, che:
- il di lui bisnonno, Ti.Lu., con prot. n. 25215/86,
depositava presso il Comune di Benevento domanda di condono edilizio ai
sensi della Legge 47/1985, (allegando alla suddetta domanda relazione tecnica
illustrativa, planimetria degli immobili e bollettini postali comprovanti il
versamento dell’oblazione) con la quale chiedeva che venissero sanate le
costruzioni da lui realizzate consistenti in una ampliamento di mq. 18,02
della propria abitazione rurale (realizzazione di un bagnetto e ampliamento
della cucina) nonché un deposito pari a complessivi mq 72,62 adibito a
ricovero di merce e mezzi agricoli nonché a forno e in parte a pollaio e le
opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola;
- con il deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu.
aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto
del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione
1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di
superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc.,
opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986 come
da documentazione che si allega (all. n. 3);
- la pratica giaceva presso il Comune di Benevento per oltre 33
anni senza che l’Ente avesse mai emesso alcun provvedimento o richiesto
alcun documento, tant’è che soltanto a seguito di richiesta di permesso di
costruire formulata dal ricorrente, il citato Comune si accorgeva finalmente
dell’esistenza della suddetta pratica e chiedeva una integrazione della
stessa e, precisamente, una relazione tecnica che comprovasse la idoneità
statica del fabbricato, documento previsto dal legislatore successivamente
alla domanda di condono del Ti.;
- a tanto provvedeva tempestivamente il ricorrente come da
documentazione del 30/07/2019 depositata in data 02/08/2019 al prot. n.
71462 presso il Comune di Benevento Sportello Unico delle Attività
Produttive che, conseguentemente emetteva provvedimento dirigenziale
intitolato “Atto di determinazione delle somme dovute a titolo di
sanatoria”, con il quale, a riscontro della domanda di sanatoria di abuso
edilizio presentata da Ti.Lu., in data 05.09.1986 con protocollo n.
25125, relativamente all’ampliamento di un fabbricato rurale sito alla c.da
San Domenico, “Vista la documentazione integrativa prodotta in data
02/08/2019 con protocollo n. 71462 dalla ditta Ti.Lu.”, ”Considerato
che per l’abuso commesso l’oblazione versata è congrua”, “determinava
la somma da versare per contributo di costruzione in euro 64.872,69”.
Date tali premesse e preso atto che l’atto con il quale è stata determinata
la somma dovuta a titolo di sanatoria era incomprensibile non essendo stato
chiarito dall’Ente, seppur formalmente richiesto, i criteri adottati e, in
ogni caso, errato, Ti.Lu., nella spiegata qualità, ha impugnato, innanzi a
questo Tribunale, il predetto atto.
...
Il ricorso è infondato nei termini di seguito precisati.
...
Con la seconda censura si chiede, in via gradata, l’esenzione
soltanto parziale dell’onere di costruzione, atteso che il comune ha omesso
di valutare che le opere che riguardano il fabbricato rurale sono consistite
in un ampliamento non superiore al 20% dell’edificio unifamiliare, come
previsto sia dall’art. 9 della legge 10/1977 che dall’art. 17 del DPR
380/2001: “3. Il contributo di costruzione non è dovuto: ... b) per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al
20%, di edifici unifamiliari; “).
Pertanto, il ricorrente chiede che sia decurtato l’importo relativo al
fabbricato unifamiliare consistente nell’ampliamento dello stesso pari a 18
mq essendo lo stesso non superiore al 20% dell’edifico unifamiliare come da
perizia che si allega. Ne consegue che va decurtato tale importo.
La censura non coglie nel segno.
In primo luogo la previsione dell’esenzione di cui alla lettera b) riguarda
gli interventi al di fuori delle zone agricole, mentre per le opere in zona
agricola (come quella per cui vi è causa) è applicabile unicamente -ove
ovviamente ne sussistano i relativi presupposti- l’esenzione di cui alla
lettera a), ossia quella relativa alle residenze degli imprenditori agricoli
a titolo principale.
In ogni caso, non risultano provati né in sede amministrativa né tanto in
giudizio i presupposti di applicabilità della normativa de qua, ossia la
natura unifamiliare dell’edificio e l’ampliamento inferiore al 20%.
In argomento, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che la riferita
previsione ha “carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore)” (cfr.
TAR per la Lombardia – sede di Brescia, sez. I, 26.04.2018, n. 449), in
quanto derogatoria alla regola generale che impone la corresponsione del
contributo quale “obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge
con il rilascio della concessione edilizia” (cfr., ex aliis,
Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.02.2017, n. 728), e, in particolare, quale “corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo
manufatto” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950).
L’esenzione in esame rinviene la propria ratio in esigenze <<di natura
sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e
di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi
funzionali all'adeguamento dell'immobile alle necessità abitative del nucleo
familiare: l'edificio unifamiliare, nell'accezione socio economica assunta
dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare,
e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento
differenziato>>” (TAR per la Lombardia–Brescia, sez. I, 26.04.2018, n.
449; TAR per la Lombardia–Milano, Sez. IV, 02.07.2014, n. 1707).
In sostanza, la disposizione in esame ha <<la funzione di agevolare i
proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli
interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione
di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi,
indipendentemente dalla loro dimensione>> (Consiglio di Stato, Sez. IV,
11.10.2006, n. 6065).
La disposizione è, quindi, diretta <<a promuovere le opere di adeguamento
dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare,
circoscrivendone l'operatività agli interventi che non mutino
sostanzialmente l'entità strutturale e la dimensione spaziale dell'immobile
e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico>> (TAR per
la Lombardia – sede di Brescia, sez. I, 26.04.2018, n. 449).
Nel caso di specie, parte ricorrente non ha fornito prova della
riconducibilità degli interventi condonati nella previsione normativa
invocata
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 22.10.2021 n. 6655 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I ricorrenti hanno effettuato una
ristrutturazione edilizia “leggera” senza demolire e
ricostruire l’edificio, senza aumentare la superficie, il
volume ed il numero di unità immobiliari, senza mutare la
destinazione d’uso. E’ stato realizzato un nuovo bagno al
piano primo.
Siccome costruito prima del 1975, l’edificio era già
abitabile su entrambi i piani, sebbene i locali fossero,
prima della ristrutturazione, di altezza interna pari a 2,55
mt. (e perciò inferiore all’altezza minima di 2,70 mt.
prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975).
L’intervento di ristrutturazione ha consentito di ottenere,
per tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la
demolizione e ricostruzione delle solette interne. Ma ciò
non ha determinato un incremento del carico urbanistico,
come erroneamente ritenuto dal Comune.
Di talché, il suddetto intervento edilizio deve intendersi
gratuito.
Invero, il contributo di costruzione costituisce un
corrispettivo di diritto pubblico previsto a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione,
ovvero un contributo speciale che ha la propria causa
giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione
pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione
dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei
detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui
l’intervento abbia determinato un aumento del carico
urbanistico.
Nella specie, per il combinato disposto dell’art. 22, terzo
comma – lett. a) e quinto comma, e dell’art. 10, primo comma
– lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, l’intervento non è
soggetto a contributo di costruzione.
Peraltro, la gratuità dell’intervento discende (anche) dalla
previsione dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del d.P.R.
n. 380 del 2001, relativo alle ristrutturazioni di edifici
unifamiliari.
---------------
... per l'accertamento
- della gratuità dell’intervento di ristrutturazione edilizia
oggetto della d.i.a. del 26.11.2010 n. 2033, relativa
all’edificio in via ... n. 39 – Cambiano;
- per l’annullamento del provvedimento prot. n. 791/956 in data
26.01.2011 a firma del responsabile del Servizio Edilizia
Privata del Comune di Cambiano, che ha determinato il
contributo in complessivi euro 9.749,35;
- e per l’annullamento, ove occorra, delle delibere del Consiglio
comunale di Cambiano n. 100 e n. 101 del 1977 e successivi
aggiornamenti, nonché della deliberazione del Consiglio
regionale n. 179/CR-4170 in data 26.05.1977;
...
I ricorrenti hanno presentato denuncia di inizio attività,
in data 26.11.2010, per la ristrutturazione del fabbricato
unifamiliare residenziale di loro proprietà in via ... n.
39.
Il progetto ha previsto il rifacimento del solaio del primo
piano e del balcone, modifiche alla tramezzatura interna, il
rifacimento degli intonaci e dei pavimenti, la modifica
delle aperture esterne. Non sono stati realizzati incrementi
di volume e superficie utile, né è aumentato il numero di
unità immobiliari.
Con l’atto impugnato, il Comune di Cambiano ha determinato
il contributo di costruzione, ai sensi dell’art. 16 del
d.P.R. n. 380 del 2001, in euro 9.749,35.
I ricorrenti rivendicano la gratuità dell’intervento e
deducono, in tal senso, la violazione degli artt. 11, 16, 17
e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché l’eccesso di potere
sotto molteplici profili.
...
Il ricorso è fondato.
Con la d.i.a. n. 2033 del 2010, i ricorrenti hanno
effettuato una ristrutturazione edilizia “leggera”
senza demolire e ricostruire l’edificio, senza aumentare la
superficie, il volume ed il numero di unità immobiliari,
senza mutare la destinazione d’uso.
E’ stato realizzato un nuovo bagno al piano primo.
Siccome costruito prima del 1975, l’edificio era già
abitabile su entrambi i piani, sebbene i locali fossero,
prima della ristrutturazione, di altezza interna pari a 2,55
mt. (e perciò inferiore all’altezza minima di 2,70 mt.
prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975).
L’intervento di ristrutturazione ha consentito di ottenere,
per tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la
demolizione e ricostruzione delle solette interne.
Ma ciò non ha determinato un incremento del carico
urbanistico, come erroneamente ritenuto dal Comune.
Come è noto, il contributo di costruzione costituisce un
corrispettivo di diritto pubblico previsto a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione,
ovvero un contributo speciale che ha la propria causa
giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione
pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione
dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei
detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui
l’intervento abbia determinato un aumento del carico
urbanistico (cfr., tra molte, TAR Piemonte, sez. I,
13.12.2013 n. 1346).
Nella specie, la d.i.a. presentata dai ricorrenti non era
alternativa al permesso di costruire.
Per il combinato disposto dell’art. 22, terzo comma – lett.
a) e quinto comma, e dell’art. 10, primo comma – lett. c),
del d.P.R. n. 380 del 2001, l’intervento non è soggetto a
contributo di costruzione.
Peraltro, come correttamente affermato dai ricorrenti, la
gratuità dell’intervento discende (anche) dalla previsione
dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del d.P.R. n. 380 del
2001, relativo alle ristrutturazioni di edifici
unifamiliari.
In conclusione, ed assorbite le ulteriori censure riferite
al regolamento comunale sugli oneri di urbanizzazione ed
alla delibera regionale n. 179/CR-4170 del 1977, il ricorso
è fondato a va accolto (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questo
comune, in occasione delle prossime elezioni europee del mese di giugno,
deve procedere alla costituzione dell'ufficio elettorale con relativa
autorizzazione all'espletamento di lavoro straordinario.
È possibile includere nell'ufficio anche lavoratori somministrati con
mansioni di operaio?
Al fine di rispondere al quesito proposto, evidenziamo come l'ultimo CCNL
16.11.2022 del comparto funzioni Locali 2019/2021 nulla dispone in merito ad
eventuali indennità aggiuntive del personale in servizio presso l'Ente come
"interinale" - "lavoratore somministrato" tramite le apposite
agenzie e pertanto occorre ricorrere alla previgente disposizione
contrattuale attualmente vigente.
Infatti, l'art. 52, comma 5, CCNL funzioni locali 2016/2018 del 21.05.2018
testualmente recita che: "I lavoratori somministrati, qualora
contribuiscano al raggiungimento di obiettivi di performance o svolgano
attività per le quali sono previste specifiche indennità, hanno titolo a
partecipare all'erogazione dei connessi trattamenti accessori, secondo i
criteri definiti in contrattazione integrativa. I relativi oneri sono a
carico dello stanziamento di spesa per il progetto di attivazione dei
contratti di somministrazione a tempo determinato, nel rispetto dei vincoli
finanziari previsti dalle vigenti disposizioni di legge in materia.".
Tale disposizione sostanzialmente consente, previa autorizzazione dell'Ente
ed eventuale impegno integrativo di spesa in favore della società fornitrice
del servizio di somministrazione, di utilizzare personale somministrato (e
nel caso di specie con mansioni esecutive) in occasione della tornata
elettorale, ad esempio per l'allestimento dei seggi, per il montaggio e
smontaggio dei tabelloni per la propaganda elettorale, ecc.
Ricordiamo che, ai sensi dell'art. 15, D.L. 18.01.1993, n. 8,
l'autorizzazione al lavoro straordinario dei dipendenti deve essere adottata
preventivamente rispetto all'effettivo svolgimento delle prestazioni,
indicando i nominativi del personale previsto, il numero di ore di lavoro
straordinario da effettuare e le funzioni da assolvere: la mancata
deliberazione preventiva inibisce il pagamento dei compensi.
Si evidenzia altresì che la norma, riferita al personale stabilmente addetto
agli uffici interessati, nonché a quello assegnato a supporto provvisorio,
fissa, anche in deroga alle disposizioni vigenti, un limite medio di spesa
per lo svolgimento del lavoro straordinario dei dipendenti comunali
(applicabile ai soli comuni con più di cinque dipendenti) di 40 ore mensili
pro capite sino ad un massimo individuale di 60 ore mensili.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 18.01.1993, n. 8, art.
15
Acc. 21.05.2018, art. 52 (27.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
UTILITA' |
ATTI AMMINISTRATIVI:
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA
DI ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO - AGGIORNATA AL 29.02.2024
(Ministero
Dell’Interno, Ufficio del Responsabile della Prevenzione
della Corruzione e della Trasparenza - tratto da
www.interno.gov.it).
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Sommario
1. L’ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO:
RATIO E FINALITÀ DELL’ISTITUTO
CONS. STATO, SEZ. V, 03.02.2023 n. 1195
Secondo quanto previsto dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33
del 2013, l'accesso civico generalizzato è il diritto alla
conoscenza di chiunque e ha lo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
CONS. STATO, SEZ. V, 05.12.2022 n. 10628
L'istituto dell'accesso civico generalizzato, di cui
all'art. 5, d.lgs. n. 33 del 2013, è azionabile da chiunque,
senza previa dimostrazione di un interesse, concreto e
attuale in relazione con la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal
senso. Attraverso l'istituto, il legislatore ha riconosciuto
la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle
Pubbliche Amministrazioni quale diritto fondamentale,
promuovendo un dibattito pubblico informato e un controllo
diffuso sull'azione amministrativa.
CONS. STATO, SEZ. V, 03.08.2021 n. 5714
L’accesso civico
generalizzato, azionabile da chiunque senza previa
dimostrazione di un interesse personale, concreto e attuale
in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti e senza oneri di motivazione in tal senso della
richiesta, ha il solo scopo di consentire una pubblicità
diffusa ed integrale in rapporto alle finalità esplicitate
dall’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013: è funzionale ad
un controllo diffuso dei cittadini, al fine di assicurare la
trasparenza dell’azione amministrativa e di favorire un
preventivo contrasto alla corruzione e concretamente si
traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati,
documenti ed informazioni, fermi in ogni caso i limiti di
legge a salvaguardia di determinati interessi pubblici e
privati che in tali condizioni potrebbero essere messi in
pericolo
TAR
LOMBARDIA-MILANO, SEZ. III, 07.03.2023 n. 589
L'accesso civico
generalizzato, ampliando di molto la possibilità di
conoscenza da parte del pubblico delle informazioni detenute
dalla p.a. e, quindi, di partecipazione dei cittadini alla
funzione amministrativa ne garantisce la democraticità e ne
favorisce il buon andamento;
l'accesso civico e l'accesso
civico generalizzato costituiscono attuazione dei principi
di partecipazione democratica all'attività pubblica, di
trasparenza, di buon andamento e di sussidiarietà sanciti
negli artt. 1, 2, 97 e 118 Cost. e, per questa ragione, le
determinazioni negative assunte sulle relative istanze
necessitino di approfondita motivazione.
TAR VENETO, SEZ. I, 06.02.2023 n. 166
L'accesso civico
generalizzato, ex art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del
2013, persegue l'obiettivo di favorire forme di controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e l'utilizzo
delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico, e non può pertanto essere utilizzato per
finalità di carattere egoistico-individuale come surrogato
dell'accesso documentale.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III QUATER, 01.02.2022 n. 1141
Il diritto di
accesso civico generalizzato ai documenti amministrativi,
oltre ad essere funzionale alla tutela giurisdizionale,
consente ai cittadini di orientare i propri comportamenti
sul piano sostanziale per curare o difendere i loro
interessi giuridici, con la conseguenza che esso può essere
esercitato in connessione a un interesse giuridicamente
rilevante, anche quando non è ancora stato attivato un
giudizio nel corso del quale potranno essere utilizzati gli
atti così acquisiti, ovvero proprio al fine di valutare
l'opportunità di una sua instaurazione.
2. I SOGGETTI LEGITTIMATI
CONS.
STATO, SEZ. IV, 18.01.2023 n. 621
L'accesso civico
generalizzato è stato introdotto nell'ordinamento al fine di
superare, se del caso, le restrizioni imposte dalla
legittimazione all'accesso procedimentale e la cui
fondatezza non viene meno per il fatto che il richiedente
sia al contempo portatore di un interesse individuale alla
conoscenza.
Nell'accesso civico l'interesse del richiedente non
necessariamente deve essere altruistico o sociale, né deve
sottostare ad un giudizio di meritevolezza, purché non
risulti pretestuoso o contrario a buona fede. Nell'accesso
civico generalizzato la finalità è quella di garantire il
controllo democratico sull'attività amministrativa, nel
quale il c.d. right to know, il diritto fondamentale alla
conoscenza, è protetto in sé, purché non vi siano contrarie
ragioni di interesse pubblico o privato, queste ultime
espresse dalle cosiddette eccezioni relative di cui al
citato art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 33/2013.
Risulta, pertanto, che, anche nell'accesso civico
generalizzato, l'interesse individuale alla conoscenza è
protetto al pari di quello collettivo, con la conseguenza
che, fuori dai casi marginali (istanze massive, vessatorie o
emulative), non si può respingere un'istanza ostensiva
civica generalizzata per il fatto che il richiedente ha
anche un interesse personale alla conoscenza.
D'altra parte, l'istanza di accesso documentale ben può
concorrere con quella di accesso civico generalizzato e la
pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal
privato con riferimento tanto all'una che all'altra forma di
accesso.
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. IV, 26.01.2023 n. 592
Il nuovo accesso
civico, introdotto nell'ordinamento ad opera dell'art. 6,
d.lgs. 25.05.2016, n. 97, che ha novellato l'art. 5 del
decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013), è stato introdotto
nell'ordinamento al fine di superare, se del caso, le
restrizioni imposte dalla legittimazione all'accesso
procedimentale e la cui fondatezza non viene meno per il
fatto che il richiedente sia al contempo portatore di un
interesse individuale alla conoscenza, posto che,
nell'accesso civico, l'interesse del richiedente non
necessariamente deve essere altruistico o sociale, né deve
sottostare ad un giudizio di meritevolezza, purché non
risulti pretestuoso o contrario a buona fede.
TAR CAMPANIA-SALERNO, SEZ. III, 03.07.2023 n. 1618
Non vi è motivo di
diniego dell'ostensione se vi è coerenza dell'esigenza
conoscitiva dei ricorrenti rispetto alle finalità alle quali
è preordinata la previsione dello strumento dell'accesso
civico generalizzato, segnatamente la sua strumentalità a
favorire forme di controllo sull'utilizzo delle risorse
pubbliche erogate.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 01.02.2022 n. 1141
L'accesso civico
generalizzato, che può essere azionato da chiunque senza
previa dimostrazione di un interesse personale, concreto e
attuale, ha il mero scopo di consentire una pubblicità
diffusa ed integrale, in rapporto alle finalità esplicitate
dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013, essendo funzionale
ad un controllo diffuso dei cittadini, al fine di assicurare
la trasparenza dell'azione amministrativa e di favorire un
preventivo contrasto alla corruzione.
TAR PUGLIA–BARI, SEZ. I, 15.03.2022 n. 382
L'accesso civico
generalizzato è stato introdotto nell'ordinamento al fine di
superare, se del caso, le restrizioni imposte dalla
legittimazione all'accesso procedimentale e la cui
fondatezza non viene meno per il fatto che il richiedente
sia al contempo portatore di un interesse individuale alla
conoscenza; nell'accesso civico l'interesse del richiedente
non necessariamente deve essere altruistico o sociale, né
deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, purché non
risulti pretestuoso o contrario a buona fede.
TAR LOMBARDIA–BRESCIA, SEZ. II, 14.02.2022 n. 136
Quando l'istanza di
accesso civico generalizzato sia oggettivamente finalizzata
alla tutela di un interesse generale, essa sarà ammissibile
e tale resterà ancorché dal suo accoglimento possa derivare
un'utilità anche per il richiedente, giacché il vantaggio
personale di chi ha richiesto l'accesso non costituisce né
un limite espresso all'accesso civico (art. 5-bis, d.lgs. n.
33/2013), né confligge con la sua ratio che prevede che
l'accesso sia finalizzato a consentire il controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche, senza vietare in alcun modo che,
accanto a tale interesse generale, possa coesistere anche un
interesse personale del richiedente, come avviene in talune
situazioni.
Un settore ove tali interessi generali e individuali spesso
coesistono è quello dell'accesso agli atti delle pratiche
paesaggistiche ed edilizie dove, oltre all'interesse
collettivo alla conoscenza degli atti di tutela del
paesaggio e di governo del territorio, può sussistere
contemporaneamente anche l'interesse del richiedente a
conoscere le pratiche urbanistiche rilasciate nel suo
territorio o nelle sue vicinanze.
Entrambi i citati interessi coesistenti sono espressione del
fondamentale diritto alla conoscenza (art. 21 Cost. e art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013), funzionale al
soddisfacimento di altri diritti della persona come quelli
di formarsi un'opinione informata sulla qualità dell'operato
della P.A., di esprimere le proprie valutazioni e di
effettuare le proprie scelte consapevoli (art. 21 Cost.).
TAR PIEMONTE, SEZ. II, 01.03.2021 n. 216
L'accesso civico
generalizzato si configura come diritto di «chiunque», non
sottoposto ad alcun limite quanto alla legittimazione
soggettiva del richiedente e senza alcun onere di
motivazione circa l'interesse alla conoscenza;
la formulazione della legge esprime la volontà del
legislatore di superare quello che era e resta il limite
connaturato all'accesso documentale che non può essere
preordinato ad un controllo generalizzato sull'attività
delle pubbliche amministrazioni;
si passa quindi da un accesso strumentale alla protezione di
un interesse individuale, nel quale è l'interesse pubblico
alla trasparenza ad essere occasionalmente protetto a un
accesso dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo
democratico sull'attività amministrativa;
si realizza così una sorta di «rivoluzione copernicana»
fondata sul principio di trasparenza, che si esprime anche
nella conoscibilità dei documenti amministrativi e
rappresenta il fondamento della democrazia amministrativa in
uno Stato di diritto, garantendo anche il buon funzionamento
della pubblica amministrazione, ai sensi dell'art. 97 Cost.
3. IL RAPPORTO TRA LE DIFFERENTI DISCIPLINE
IN MATERIA DI ACCESSO
3.1. ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO E ACCESSO DOCUMENTALE
CONS.
STATO, ADUNANZA PLENARIA, 02.04.2020 n. 10
L'istanza di accesso
documentale ben può concorrere con quella di accesso civico
generalizzato e la pretesa ostensiva può essere
contestualmente formulata dal privato con riferimento tanto
all'una che all'altra forma di accesso.
L’art. 5, comma 11, del d.lgs. n. 33 del 2013 ammette
chiaramente il concorso tra le diverse forme di accesso,
allorquando specifica che restano ferme, accanto all'accesso
civico c.d. semplice (comma 1) e quello c.d. generalizzato
(comma 2), anche le diverse forme di accesso degli
interessati previste dal capo V della legge 07.08.1990, n.
241.
CONS. STATO, SEZ. IV, 02.02.2024 n. 1117
L’accesso civico
generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa
dimostrazione di un interesse concreto e attuale in
relazione con la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso.
Il rapporto tra la disciplina dell’accesso documentale e
quella dell’accesso civico generalizzato deve essere
interpretato non già secondo un criterio di esclusione
reciproca, quanto piuttosto di inclusione e completamento,
finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che
sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli
regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che
rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle
singole discipline.
CONS. STATO, SEZ. V, 03.02.2023 n. 1195
L'accesso civico
generalizzato non è sottoposto a limiti quanto alla
legittimazione soggettiva né a oneri di motivazione.
In particolare, non richiede la titolarità in capo
all'istante di un interesse specifico, ciò che fa concludere
che si tratta di una tipologia di accesso che non incontra
il limite connaturale all'accesso documentale di cui alla L.
n. 241 del 1990: questo, come noto, non può essere
preordinato a un controllo generalizzato sull'attività delle
pubbliche amministrazioni, restando strumentale alla
protezione di un interesse individuale, laddove l'accesso
civico generalizzato è finalizzato a garantire il controllo
democratico sull'attività amministrativa.
CONS. STATO, SEZ. III, 03.11.2022 n. 9567
Sussiste una
differenza tra l'accesso ordinario e quello civico, ove si
consideri che l'art. 22 della legge n. 241 del 1990 consente
l'accesso ai documenti a chiunque vi abbia un interesse
finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti, mentre l'accesso civico generalizzato è
riconosciuto e tutelato al fine di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico può essere esercitato
da chiunque (quanto alla legittimazione soggettiva) e senza
alcun onere di motivazione circa l'interesse alla
conoscenza.
L'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013 ha inteso
superare il limite del divieto del controllo generalizzato
sull'attività delle pubbliche amministrazioni (e dei
soggetti ad essa equiparati) previsto dallo strumento
dell'accesso documentale come disciplinato dalla legge n.
241 del 1990.
Nell'accesso civico generalizzato, nel quale la trasparenza
si declina come "accessibilità totale", si ha un accesso
dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo
democratico sull'attività amministrativa. (Riforma TAR
Puglia-Bari, Sez. I, n. 36/2022.)
CONS. STATO, SEZ. V, 02.03.2021 n. 1780
Il rapporto tra le
discipline generali dell'accesso documentale e dell'accesso
civico generalizzato non può essere unicamente ed
astrattamente secondo un criterio di specialità e di
esclusione reciproca, bensì deve avvenire attraverso un
canone ermeneutico di completamento-inclusione finalizzato
all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia
assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli
regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che
rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle
singole discipline (così anche Cons. Stato, sez. IV,
20.04.2020, n. 2496).
TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. III, 07.03.2023 n. 589
Le forme di accesso
previste dagli artt. 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33/2013 non
hanno comportato il superamento delle forme di accesso agli
atti amministrativi previste dalla L. n. 241 del 1990 ma ne
hanno comportato un ampliamento: mentre l'accesso
disciplinato da quest'ultima legge è assicurato per
consentire al richiedente di soddisfare o tutelare una
situazione giuridicamente tutelata e correlata al documento
che si intende conoscere (need to know), e consente perciò
un accesso più penetrante ma meno esteso, l'accesso civico e
l'accesso civico generalizzato hanno la funzione di favorire
la partecipazione dei privati alla funzione amministrativa
indipendentemente dalla sussistenza di un loro particolare
interesse correlato ad una situazione giuridicamente
tutelata (right to know), e consente perciò un accesso più
esteso ma meno penetrante assicurato solo ove non si
superino i limiti indicati dal citato art. 5-bis del d.lgs.
n. 33/2013.
Essendo le due forme di tutela complementari, la medesima
istanza può essere proposta per farle valere entrambe.
TAR ABRUZZO-PESCARA, SEZ. I, 05.01.2023 n. 17
In materia di
accesso civico generalizzato, diversamente da quanto
previsto dall'art. 25, comma 4, della L. n. 241 del 1990,
una volta decorsi infruttuosamente trenta giorni dalla
richiesta del privato -prescritti dall'art. 5, comma 6, del
d.lgs. n. 33 del 2013- il silenzio serbato dalla P.A. sulla
richiesta di accesso generalizzato non integra la formazione
di un provvedimento tacito di diniego.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 01.02.2022 n. 1141
L’accesso civico
generalizzato, introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 6
del D.Lgs. n. 97/2016, si pone su un piano diverso rispetto
all'accesso documentale di cui alla L. n. 241/1990,
caratterizzato da un rapporto qualificato del richiedente
con i documenti che si intendono conoscere, che deriva dalla
titolarità, in capo al richiedente, di una posizione
giuridica che l'ordinamento qualifica come tutelata.
TRGA TRENTINO ALTO ADIGE–TRENTO, SEZ. I, 06.07.2021 n. 115
L’accesso civico generalizzato ex art. 5-bis, d.lgs. n.
33/2013 soddisfa un’esigenza di cittadinanza attiva,
incentrata sui doveri inderogabili di solidarietà
democratica, di controllo sul funzionamento dei pubblici
poteri e di fedeltà alla Repubblica e non su libertà
singolari, onde tale accesso non può mai essere egoistico.
Come tale, l’accesso civico non è utilizzabile come
surrogato dell’accesso documentale ex art. 22, legge n.
241/1990, qualora si perdano o non vi siano i presupposti di
quest’ultimo, perché serve ad un fine distinto, talvolta
cumulabile, ma sempre inconfondibile, che, alla luce delle
ragioni esplicitate nelle istanze di accesso e nel ricorso,
non è riscontrabile nella fattispecie.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. II, 11.03.2021 n. 2987
Deve escludersi che,
in forza della disciplina in materia di c.d. accesso civico
generalizzato, possa essere consentita l’ostensione ad atti
e dati non accessibili neppure sulla base della disciplina
ordinaria, essendo ampiamente nota la minore profondità che
connota l'accesso civico generalizzato, stante l'assenza di
una specifica legittimazione, oltre alla diversità delle
tecniche di bilanciamento degli interessi applicabili.
Del resto, la previsione dell'art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n.
33/2013, introdotto dal d.lgs. n. 97 del 2016, esclude il
diritto di cui all'art. 5, comma 2, del medesimo testo
normativo non solo nei casi di segreto di Stato, ma anche in
tutti gli altri casi di divieti di accesso o divulgazione
previsti dalla legge, nei quali è da ricomprendere il
segreto di cui all'art. 7 del T.U.B.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I, 07.12.2020 n. 13081
Vi è una coesistenza
ordinamentale di tre modelli di accesso ai documenti in
possesso delle pubbliche amministrazioni (ed equiparati),
ciascuno caratterizzato da propri presupposti, limiti ed
eccezioni: l'accesso documentale ordinario degli artt. 22 e
seg. della legge. 07.08.1990, n. 241; l'accesso civico ai
documenti oggetto di pubblicazione, già regolato dal d.lgs.
14.03.2013, n. 33; l'accesso civico generalizzato,
introdotto dalle modifiche apportate a quest'ultimo impianto
normativo dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97 (cfr., per le
differenze tra i vari tipi di accesso, tra le altre Cons.
Stato, Sez. IV, 12.08.2016, n. 3631 e, più di recente, id.,
Sez. V, 20.03.2019, n. 1817).
Tali istituti sono pari ordinati e, nei rapporti reciproci,
ciascuno opera nel proprio ambito, senza assorbimenti
dell'una fattispecie in un'altra e senza abrogazioni tacite
o implicite da parte della disposizione successiva nel
tempo.
L'accesso civico cd. "generalizzato", azionabile da
"chiunque", senza previa dimostrazione della sussistenza di
un interesse personale, concreto e attuale in connessione
con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza
oneri di motivazione in tal senso della richiesta, ha il
solo scopo di consentire una pubblicità diffusa ed integrale
in rapporto alle finalità esplicitate dall'art.5, comma 2,
d.lgs. n. 33 del 2013.
In questo caso la trasparenza è considerata un mezzo per
favorire un controllo diffuso del rispetto della legalità
dell'azione amministrativa. Pertanto, la disciplina
dell'accesso generalizzato non reca prescrizioni puntuali
quanto alla sottrazione all'accesso, ma individua categorie
di interessi, pubblici (art. 5-bis, comma 1, d.lgs. n. 33
del 2013) e privati (art. 5-bis, comma 2, id.) in presenza
dei quali il diritto di accesso può a priori essere negato
(fermi comunque i casi di divieto assoluto, ex art. 5-bis,
comma 3) e rinvia a un atto amministrativo non vincolante
(le linee guida ANAC) per ulteriormente precisare l'ambito
operativo dei limiti e delle esclusioni dell'accesso civico
generalizzato (Cons. Stato, Sez. V, 06.04.2020, n. 2309).
L'interesse alla riservatezza di una Società i cui atti
siano stati oggetto di una richiesta di accesso
generalizzato non rientra in nessuno dei casi di esclusione
e limiti all'accesso civico, contenuta nell'art. 5-bis, del
d.lgs. n. 33/2013, il quale fa riferimento, invece, alle
sole esigenze di tutela di «interessi economici e
commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi
la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti
commerciali».
3.2. LA RIQUALIFICAZIONE DELL’ISTANZA ED IL
DIALOGO COOPERATIVO
CONS.
STATO, SEZ. III, 15.07.2022 n. 6031
Qualora la richiesta
di accesso sia formulata in modo alternativo, la pubblica
amministrazione, accertata l'inesistenza di un interesse
qualificato ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è
tenuta a verificare le condizioni dell'accesso civico
generalizzato di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013.
CONS. STATO, SEZ. V, 10.03.2021 n. 2050
L'Amministrazione
Pubblica ha il potere-dovere di esaminare l'istanza di
accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo
generico o cumulativo, senza riferimenti ad una specifica
disciplina, anche alla stregua della normativa dell'accesso
civico generalizzato, ad eccezione del caso in cui
l'interessato non abbia inteso fare esclusivo,
inequivocabile, riferimento alla disciplina dell'accesso
documentale.
TAR TOSCANA, SEZ. III, 06.12.2021 n. 1620
All’accesso
cosiddetto documentale disciplinato dalla legge n. 241/1990
si affianca oggi l’accesso “civico”, semplice o
generalizzato, introdotto nell'ordinamento dalla legge n.
190/2012 e dal d.lgs. n. 33/2013, che, all'art. 5 co. 11,
prevede la coesistenza e la concorrenza delle differenti
forme di accesso;
Pertanto, a fronte di un'istanza ostensiva la quale non
faccia riferimento in modo specifico e circostanziato alla
disciplina dell'accesso procedimentale o a quella
dell'accesso civico, ma sia formulata in modo indistinto,
ovvero non consenta di ritenere che il richiedente abbia
inteso limitare il proprio interesse all'uno o all’altro,
l’amministrazione ha il dovere di rispondere, in modo
motivato, sulla sussistenza o meno dei presupposti per
consentire l'accesso ai sensi di entrambe le discipline.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I, 01.02.2021 n. 1304
Se è vero che
l'accesso documentale e quello civico generalizzato
differiscono per finalità, requisiti e aspetti
procedimentali, la P.A., nel rispetto del contraddittorio
con eventuali controinteressati, deve esaminare l'istanza
nel suo complesso, nel suo "anelito ostensivo", evitando
inutili formalismi e aspetti procedimentali tali da condurre
ad una defatigante duplicazione del suo esame, atteso che
-con riferimento al dato procedimentale- in materia di
accesso opera il principio di stretta necessità, che si
traduce nel principio del minor aggravio possibile
nell'esercizio del diritto, con il divieto di vincolare
l'accesso a rigide regole formali che ne ostacolino la
soddisfazione.
4. LIMITI PROCEDURALI - ISTANZE GENERICHE,
MASSIVE O ECCESSIVAMENTE ONEROSE E DIVIETO DI ELABORAZIONE
DEI DATI
CONS.
STATO, SEZ. II, 21.09.2023 n. 8447
Non sono ammissibili
istanze di accesso generiche, vaghe, tali cioè da non
consentire l'identificazione del documento accessibile, e
tanto meno istanze generalizzate ad una pluralità di
documenti tale da costituire un accesso "generalizzato" e
dunque una forma di non consentito controllo sull'attività
amministrativa, allo stesso modo l'amministrazione non può
opporre, ai fini del diniego, generiche difficoltà di
identificazione e reperimento del documento richiesto,
laddove l'istante abbia fornito elementi di identificazione
del medesimo ovvero di sua piana identificabilità.
CONS. STATO, SEZ. V, 05.12.2022 n. 10628
In tema di accesso
alle informazioni in possesso dalle Pubbliche
Amministrazioni, sebbene il legislatore non chieda di
motivare formalmente la richiesta di accesso generalizzato,
rimane sempre necessario determinare l'oggetto della
richiesta di accesso, essendo onere dell'interessato
indicare in modo puntuale la documentazione di cui chiede
l'ostensione, pena la genericità della richiesta e, di
conseguenza, la sua inammissibilità.
CONS. STATO, SEZ. III, 16.02.2021 n. 1426
Può essere respinta
la richiesta di accesso civico generalizzato, nel caso in
cui sia manifestamente onerosa o sproporzionata e comporti,
quindi, un carico irragionevole di lavoro, tale da
interferire con il buon andamento dell'Amministrazione (così
anche Cons. Stato, n. 6220/2021).
In materia di accesso civico generalizzato le richieste
massive uniche contenenti un numero cospicuo di dati o di
documenti, o richieste massive plurime, che pervengono in un
arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente
o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad
uno stesso centro di interessi possono essere rifiutate
dall'amministrazione pubblica cui sono rivolte.
CONS. STATO, SEZ. VI, 22.06.2020 n. 3981
L'accesso agli atti
amministrativi deve avere ad oggetto documentazione
specifica in possesso dell'amministrazione pubblica non
potendo lo stesso riguardare dati ed informazioni che per
essere forniti richiedono un'attività di indagine e di
elaborazione da parte della stessa con la conseguenza che
l'oggetto dell'accesso va circoscritto mediante la puntuale
indicazione di atti determinati non potendo la relativa
istanza avere un contenuto esplorativo, diretta cioè a
conoscere qualsiasi provvedimento formato o detenuto
dall'amministrazione, ove eventualmente esistente, e
riferito ad un determinato procedimento.
Lo strumento dell’accesso non può essere “strumentalizzato”
per la ricerca di informazioni o per ottenere la spiegazione
della valutazione effettuata, ovvero, in sostanza, per
ottenere la “motivazione” di un dato risultato o di una
specifica scelta. Questi ultimi aspetti attengono invero al
processo valutativo della decisione e la loro mancata
esternazione è suscettibile di rilevare, in ipotesi, sul
piano del controllo di legittimità del provvedimento finale,
ma non può essere ontologicamente oggetto di accesso, che
presuppone, anche nella sua moderna accezione, un elemento
acquisito, o formato dalla stessa amministrazione.
Non è pertanto configurabile un accesso ad atti che ancora
non sono neppure tali, in quanto non ancora formati, poiché
si tratterebbe di imporre all’amministrazione un
(inammissibile) sforzo di elaborazione, che altrimenti,
nell’ambito della propria attività, non sarebbe tenuta ad
effettuare.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. V, 05.04.2023 n. 5801
Il diritto di
accesso civico generalizzato è finalizzato a garantire, con
il diritto all'informazione, il buon andamento
dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e non può finire per
intralciare proprio il funzionamento della stessa, sicché il
suo esercizio deve rispettare il canone della buona fede e
il divieto di abuso del diritto, in nome, anzitutto, di un
fondamentale principio solidaristico (art. 2 Cost.).
E' possibile e doveroso evitare e respingere: richieste
manifestamente onerose o sproporzionate e, cioè, tali da
comportare un carico irragionevole di lavoro idoneo a
interferire con il buon andamento della pubblica
amministrazione; richieste massive uniche contenenti un
numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste massive
plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da
parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti
ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi;
richieste vessatorie o pretestuose, dettate dal solo intento
emulativo, da valutarsi ovviamente in base a parametri
oggettivi (conforme TAR Veneto Sez. III, 17/07/2023, n.
1056).
TAR PIEMONTE, SEZ. II, 30.01.2023 n. 116
In tema di accesso
civico generalizzato le richieste massive uniche contenenti
un numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste
massive plurime, che pervengono in un arco temporale
limitato e da parte dello stesso richiedente o da parte di
più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso
centro di interessi possono essere rifiutate
dall'amministrazione pubblica cui sono rivolte.
In presenza di istanze di tale tipologia, comunque, prima di
rigettare l'istanza l'ente pubblico deve prima instaurare un
dialogo cooperativo con l'istante, finalizzato a ridefinire
l'oggetto della domanda entro limiti compatibili con i
principi di buon andamento e di proporzionalità.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 26.09.2022 n. 12210
Il diritto di
accesso civico generalizzato, se ha un'impronta
essenzialmente personalistica, quale esercizio di un diritto
fondamentale, conserva una connotazione solidaristica, nel
senso che l'apertura della pubblica amministrazione alla
conoscenza collettiva è funzionale alla disponibilità di
dati di affidabile provenienza pubblica per informare
correttamente i cittadini, con la conseguenza che il
suddetto accesso, in quanto finalizzato a garantire, con il
diritto all'informazione, il buon andamento
dell'amministrazione, non può finire per intralciare proprio
il funzionamento della stessa, sicché il suo esercizio deve
rispettare il canone della buona fede e il divieto di abuso
del diritto.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III-QUATER, 06.07.2022 n. 9258
L'istanza di accesso
deve attenere a documentazione già formata dalla pubblica
amministrazione destinataria dell'istanza: questa, invero,
pone in capo all'Amministrazione un mero dovere di dare
(ossia di rendere conoscibile un quid già precostituito),
non anche un preliminare dovere di facere (ossia di
confezionare una documentazione prima inesistente) (cfr.
Cons. Stato n. 8333/2021).
L’istanza deve essere, inoltre, rigettata quando risulta
massiva ossia volta ad acquisire documentazione e dati che
interessano un lungo arco temporale.
Nel caso di specie, l’accoglimento dell’istanza avrebbe
richiesto un’attività di elaborazione dati molto complessa
atteso che la p.a. avrebbe dapprima dovuto individuare i
documenti contenenti i dati richiesti, poi elaborare la mole
di informazioni richieste (vaccinati e non vaccinati,
ingressi al Pronto Soccorso, diverse patologie riscontrate
per eventuali effetti avversi, ecc.), quindi suddividere le
stesse per categorie (fasce di età, tipologie di vaccini
inoculati, suddivisione per patologie, ecc.), individuare
eventuali "controinteressati" (che potrebbero risultare nei
documenti contenenti i dati richiesti ed avviare con essi
un'interlocuzione procedimentale al fine di acquisirne la
posizione in merito all'ostensione degli atti richiesti,
come previsto dall'art. 5, comma 5, d.lgs. n. 33 del 2013),
infine oscurare i dati personali che avrebbero potuto
ricondurre -direttamente o indirettamente- alla persona a
cui si riferiscono, in ossequio a quanto disposto dall'art.
9 del Regolamento 2016/679/UE e dall'art. 2-septies del
d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui i dati relativi alla
salute devono essere trattati in conformità alle misure di
garanzia disposte dal Garante della Privacy (cifratura,
pseudonomizzazione, ecc.).
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 04.01.2022 n. 25
Dal momento che la
richiesta di accesso civico generalizzato riguarda i dati e
i documenti detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni, resta
escluso che -per rispondere a tale richiesta-
l'Amministrazione sia tenuta a formare o raccogliere o
altrimenti procurarsi informazioni che non siano già in suo
possesso.
Pertanto, l'Amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare
i dati ai fini dell'accesso generalizzato, ma solo di
consentire l'accesso ai documenti nei quali siano contenute
le informazioni già detenute e gestite dall'Amministrazione
stessa.
TAR LOMBARDIA–BRESCIA, SEZ. II, 03.12.2021 n. 1015
L'Amministrazione
non è tenuta, nel caso di istanze di accesso manifestamente
onerose, a effettuare un'attività di elaborazione dei dati o
documenti richiesti, non essendo previsto un obbligo in tal
senso nella normativa vigente.
La ricerca e l'individuazione di tutti gli atti che hanno
comportato un impegno di spesa anche solo parzialmente
sostenuto con i fondi per interventi di sostegno di
carattere economico e sociale connessi con l'emergenza
sanitaria da Covid 19, oggetto dell'istanza di accesso
civico generalizzato, comporterebbe un'attività di
rielaborazione dell'attività svolta integrante un onere
aggiuntivo cui l'Amministrazione non è tenuta per soddisfare
l'accesso generalizzato.
TAR UMBRIA, SEZ. I, 06.04.2021 n. 221
Una istanza di
accesso agli atti nella quale non siano stati indicati con
precisione i documenti o gli atti in ordine ai quali chieda
l'accesso, ma che comunque fornisca all'amministrazione gli
elementi per l'individuazione sufficientemente precisa del
procedimento amministrativo in cui rintracciare gli atti
oggetto dell'istanza, è idonea a far sorgere
nell'amministrazione intimata il dovere di provvedere
esplicitamente sull'istanza di accesso.
In altre parole non è richiesto che l'oggetto dell'istanza
ostensiva sia puntualmente determinato ma è sufficiente che
esso sia determinabile, incombendo sull'Amministrazione un
dovere di collaborazione con il soggetto istante, nel quadro
di un ordinamento sempre più caratterizzato da esigenze di
trasparenza dell'attività autoritativa per finalità di
prevenzione della corruzione, tanto dall'aver persino
indotto il legislatore mediante il d.lgs. n. 33 del 2013 e
s.m.i. ad introdurre forme di accesso a legittimazione
diffusa (c.d. diritto di accesso civico) e persino
preordinate ad un controllo "generalizzato".
TAR PUGLIA–BARI, SEZ. III, 19.02.2018 n. 234
È illegittimo il
diniego alla istanza massiva di accesso civico generalizzato
ogni volta in cui l'Ente ritenga irragionevole la richiesta
senza aver prima instaurato un dialogo cooperativo con
l'istante, finalizzato a ridefinire l'oggetto della domanda
entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e
di proporzionalità.
5. ESCLUSIONI E LIMITI ALL’ACCESSO CIVICO:
LE ECCEZIONI ASSOLUTE E RELATIVE
CONS.
STATO, SEZ. IV, 23.11.2023 n. 1117
La regola della
generale accessibilità di cui all’accesso civico
generalizzato è temperata dalla previsione di eccezioni
poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono
subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di
talune informazioni. Tali eccezioni, previste dall'art.
5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono state classificate in
“assolute” e in “relative” e al loro ricorrere le
Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel
secondo) rifiutare l'accesso.
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida ANAC,
adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016 (recanti
le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti
all'accesso civico generalizzato), è stato chiarito che il
legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni
assolute, una generale e preventiva individuazione di
esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una
attività valutativa che deve essere effettuata dalle
Amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per
caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata
e la tutela di altrettanti validi interessi presi in
considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta
accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione
degli atti possa comunque determinare un pericolo di
concreto pregiudizio agli interessi indicati dal Legislatore
(cfr. anche Cons. Stato, Sez. III, 10/02/2022, n. 990).
CONS. STATO, SEZ. IV, 16.11.2023 n. 9849
L’accesso civico
generalizzato si traduce nel diritto della persona a
ricercare informazioni nonché a conoscere i dati e le
decisioni delle amministrazioni, al fine di rendere
possibile quel controllo democratico che l’istituto
intendere perseguire.
Non occorre verificare la legittimazione dell’accedente né è
necessario che la richiesta di accesso sia supportata da
idonea motivazione, dal momento che chiunque può visionare
ed estrarre copia cartacea o informatica di atti ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
L’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango
di un diritto fondamentale, non altrimenti limitabile se non
in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza
espressamente individuate dalla legge.
L’amministrazione può negare la divulgazione dei documenti
richiesti ove tale misura limitativa risulti necessaria per
evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi
pubblici e privati legalmente contemplati.
L’amministrazione vieta, invece, l’accesso civico
generalizzato, nei casi di segreto di Stato e negli altri
casi di divieti di divulgazione previsti dalla legge, ivi
compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni,
modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24,
comma 1, della legge n. 241 del 1990.
L’accesso civico generalizzato, pur consentendo l’ostensione
dei documenti richiesti a prescindere dalla dimostrazione di
un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite
non superabile nelle cause ostative enucleate dall’articolo
5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono
la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma
sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo
difensivo nel conflitto con le contrastanti esigenze di
riservatezza.
CONS. STATO, SEZ. V, 05.12.2022 n. 10628
La regola
dell'accessibilità alle informazioni possedute dalle P.A., è
temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di
interessi pubblici e privati, che possono subire un
pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune
informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33
del 2013, sono classificate in assolute -individuate
all'art. 5-bis, comma 3 (segreto di stato e altri casi di
divieti di accesso o divulgazioni previsti dalla legge, ivi
compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni,
modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma
1, L. n. 241 del 1990), e relative- previste ai commi 1 e 2
del medesimo articolo (la sicurezza pubblica e l'ordine
pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le questioni
militari; le relazioni internazionali; la politica e la
stabilità finanziaria ed economica dello Stato; la
conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il
regolare svolgimento di attività ispettive; la protezione
dei dati personali, in conformità con la disciplina
legislativa in materia; la libertà e la segretezza della
corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di
persona fisica o giuridica ivi compresi la proprietà
intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. VI, 06.07.2023 n. 4061
La regola generale è
quella dell'accesso agli atti, "principio generale
dell'attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la
trasparenza" (art. 22, comma 2, l. 241/1990; cfr., art. 5,
comma 2, d.lgs. 33/2013), afferente a livelli essenziali
delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali "di
cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione" (art. 29, comma 2-bis, l. 241/1990).
Tale regola generale non trova applicazione in alcune
ipotesi espressamente contemplate dalla legge: "Tutti i
documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di
quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6" (art.
22, comma 3, l. 241/1990).
L'art. 24 l. 241/1990, rubricato "esclusione dal diritto
d'accesso" espressamente individua talune ipotesi
eccettuative all'applicazione della generale disciplina in
tema di accesso (es.: segreto di Stato ovvero altre ipotesi
di segreto previste ex lege, documenti prodromici ad atti
normativi, di pianificazione o di regolazione, o afferenti a
procedimenti tributari) ovvero demanda alla normazione
secondaria la individuazione di categorie di documenti in
cui l'interesse alla conoscenza viene sacrificato
sull'altare di interessi reputati di rango superiore ovvero
di carattere preminente (difesa nazionale, politica
monetaria, sovranità nazionale, prevenzione repressione
della criminalità, riservatezza).
TAR MARCHE, SEZ. I, 24.10.2022 n. 614
In tema di diniego
all'accesso civico, la p.a. non può limitarsi a prefigurare
il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma
deve indicare chiaramente quale, tra gli interessi elencati
all'art. 5-bis, co. 1 e 2, del d.lgs. n. 33/2013 viene
pregiudicato, valutare se il pregiudizio concreto
prefigurato dipende direttamente dalla disclosure
dell'informazione richiesta e, infine, valutare se il
pregiudizio conseguente alla disclosure è un evento
altamente probabile, e non soltanto possibile.
La valutazione del pregiudizio degli interessi ostativi
all'accesso deve altresì avvenire in concreto.
5.1. L’INDEROGABILITÀ DELLE ECCEZIONI
ASSOLUTE
TAR
LAZIO-ROMA, SEZ. I, 22.02.2021 n. 2147
È legittimo il
provvedimento con cui la Banca d’Italia ha respinto una
richiesta di accesso agli atti degli accertamenti, delle
ispezioni, delle istruttorie e delle relative risultanze
eseguite ai sensi degli artt. 51, 53, 53-bis, 54 e ss.,
67-ter, 68, d.lgs. n. 385/1993 (TUB).
Trovano applicazione le eccezioni assolute di cui al comma
3, art. 5-bis, del d.lgs. n. 33/2013 e, in particolare, il
segreto speciale sancito dall’art. 7 del TUB, secondo cui
“tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso
della Banca d'Italia in ragione della sua attività di
vigilanza sono coperti da segreto d'ufficio anche nei
confronti delle pubbliche amministrazioni, a eccezione del
Ministro dell'economia e delle finanze, Presidente del CICR”.
Tali limiti assoluti, come stabilito nelle Linee Guida ANAC
n. 1309/2016 nonché dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato n. 10/2020, risultano non derogabili
dall’amministrazione, che ha il dovere di rigettare la
richiesta senza la possibilità di valutare
discrezionalmente, come accade invece per le eccezioni
relative, se l’accesso sia idoneo a cagionare un pregiudizio
a determinati interessi indicati dal legislatore.
5.2 LE ECCEZIONI RELATIVE EX ART. 5-BIS,
COMMA 1, DEL D.LGS. N. 33/2013
CONS.
STATO, SEZ. III, 18.10.2022 n. 8844 - ACCORDI INTERNAZIONALI
DI COOPERAZIONE
L’appellante ha
presentato istanza di accesso civico, ai sensi dell’art. 5,
comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai testi
dell'accordo internazionale di cooperazione concluso tra
Italia e Gambia il 29.07.2010 e del Memorandum of
understanding sottoscritto a Roma il 06.06.2015, così come
modificato il 26.10.2017, ritenendoli, in quanto accordi
internazionali, soggetti all’obbligo di pubblicazione
previsto dall'art. 4 della legge 11.12.1984, n. 839.
La Corte sul punto ha statuito, sulla base dei riportati
elementi di contenuto ed in applicazione dei principi
enunciati con la sentenza parziale n. 4735/2022, tali
documenti, a prescindere dal loro nomen juris, siano
qualificabili come 'intese tecniche' non vincolanti sul
piano internazionale e non produttive di obblighi,
sottoscritte non dagli Stati e per loro da soggetti
investiti dei relativi poteri rappresentativi, ma da
articolazioni interne delle rispettive amministrazioni.
In ragione della loro natura, esse rientrano nell'ipotesi
dell'accesso generalizzato, previsto per gli atti che non
obbligatoriamente devono essere oggetto di pubblicazione.
Per esse vale, quindi, il limite di ostensione previsto
dall'art. 5-bis, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 33 del
2013, per il quale rileva in senso ostativo l'esigenza di
evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli
interessi pubblici inerenti -tra l'altro- alla sicurezza
pubblica e all'ordine pubblico.
Questa conclusione è anche in linea con l'art. 2, comma 1,
lettera d), del D.M. 16.03.2022, con il quale il Ministro
dell'Interno ha elencato le categorie di documenti sottratti
all'accesso per motivi attinenti alla sicurezza, che si è
riferito a "i documenti relativi agli accordi
intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche
stipulati per la realizzazione di programmi militari di
sviluppo ... o di programmi per la collaborazione
internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese
tecniche-operative per la cooperazione internazionale di
polizia inclusa la gestione delle frontiere e
dell'immigrazione".
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I-BIS, 01.02.2023 n. 1779
L'art. 5, comma 2,
del d.lgs. 33/2013 consente, quindi, ai cittadini di
accedere a dati e documenti (detenuti dalle Amministrazioni)
"ulteriori" rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, ma
pur sempre nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di
interessi pubblici e privati individuati all'art. 5-bis del
decreto, limiti che nella specie sono stati individuati, in
modo chiaro, nel provvedimento impugnato, mediante il
testuale riferimento al Decreto del Ministero dell'Interno
datato 16/03/2022 il quale, nell'elencare le categorie di
documenti sottratti all'accesso per i motivi di sicurezza,
difesa e relazioni internazionali, annovera all'art. 2,
comma 1, lett. d), "i documenti relativi agli accordi
intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche
stipulati per la realizzazione di programmi militari di
sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di
programmi per la collaborazione internazionale di polizia,
nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la
cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione
delle frontiere e dell'immigrazione".
I limiti che l'ordinamento prevede all'esercizio del diritto
di accesso civico generalizzato sono di due categorie: i)
eccezioni relative (art. 5-bis, comma 1 e comma 2, D.lgs. n.
33 del 2013); ii) eccezioni assolute (art. 5-bis, comma 3,
d.lgs. n. 33 del 2013).
In presenza di una ipotesi di eccezione relativa è quindi
rimesso all'Amministrazione effettuare un adeguato e
proporzionato bilanciamento degli interessi coinvolti,
bilanciamento da svolgersi in concreto tra l'interesse
pubblico alla conoscibilità e il danno all'interesse-limite,
pubblico o privato, alla segretezza e/o alla riservatezza,
secondo i criteri del cd. harm test (o test del danno: dove
si preserva l'interesse antagonista senza sacrificare del
tutto l'esigenza di conoscibilità, anche parziale,
nell'interesse pubblico) o del c.d. "public interest test" o
"public interest override", dove occorre valutare se
sussista un interesse pubblico al rilascio delle
informazioni richieste rispetto al pregiudizio per
l'interesse-limite contrapposto.
Viceversa nelle ipotesi delle eccezioni assolute (in cui
rientrano ad esempio i "casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge" e i casi di cui all'art.
24, comma 1, L. n. 241 del 1990) il legislatore ha operato,
a monte, una valutazione assiologica di determinati
interessi ritenuti degni di protezione massima e pertanto li
ha ritenuti superiori rispetto alla conoscibilità diffusa
dei dati, delle informazioni e dei documenti amministrativi.
CONS. STATO, SEZ. III, 10.06.2022 n. 4735 - SENTENZA NON DEFINITIVA
SULLA NATURA DEGLI ACCORDI DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE -
G.C. c. Ministero dell'Interno
La Corte ha
formulato una serie di propedeutiche enunciazioni di
principio intese a chiarire che, in materia di accesso
civico semplice, ciò che rileva ai fini dell'obbligo di
pubblicazione degli accordi internazionali, compresi quelli
in forma semplificata, non è la loro natura amministrativa o
politica, quanto piuttosto l'assunzione, da parte dello
Stato italiano, di impegni nei confronti di uno Stato
estero.
Ne consegue che, poiché gli accordi aventi ad oggetto la
politica migratoria, il controllo delle frontiere e la lotta
alla criminalità organizzata normalmente vengono adottati
dagli organi del potere esecutivo comunemente riconosciuti
come autorizzati ad impegnare lo Stato italiano nelle
relazioni con i paesi esteri, ovvero da soggetti
"plenipotenziari", a tanto autorizzati dai primi o dal
Governo e dal momento che il Memorandum of understanding
sottoscritto tra Italia e Ghana a Roma il 06.06.2015, così
come modificato il 26.10.2017, prevede specifici obblighi a
carico dei Paesi contraenti, ricorre la legittimazione
soggettiva alla proposizione dell'istanza di accesso civico
in capo all'avvocato che difende cittadini gambiani
trattenuti presso i centri di rimpatrio e che, in forza
dell'accordo di cui chiede l'accesso, sarebbero trattenuti
con priorità rispetto ad altri, alla luce del disposto di
cui all'art. 14, comma 1, del d.lgs.n. 286 del 1998.
Ove, dunque, il Presidente del Consiglio dei ministri ed il
Ministro degli affari esteri e della cooperazione
internazionale chiariscano che i suddetti accordi sono stati
sottoscritti da essi o da soggetti a tanto autorizzati dai
primi o dal Governo e contengono impegni dello Stato
italiano, il diritto all'accesso civico dovrà essere
riconosciuto.
Ove si ravvisi l'obbligo di pubblicazione ai sensi degli
artt. 1 e 4 della legge n. 839 del 1984, il suo
inadempimento comporta che gli accordi internazionali (nel
caso di specie, gli accordi internazionali di cooperazione
conclusi tra Italia e Gambia) possano essere oggetto di
accesso civico semplice, poiché l'art. 5, co. 1, del d.lgs.
n. 33 del 2013, attribuisce a chiunque il diritto di
accedere ai documenti, alle informazioni o ai dati oggetto
di pubblicazione obbligatoria "ai sensi della normativa
vigente" e non solo, quindi, in forza degli obblighi
specificamente posti dal d.lgs. n. 33 del 2013.
L'attrazione degli accordi in questione all'ambito di
operatività dell'accesso civico semplice comporta, altresì,
che non possono rilevare le cause di esclusione indicate
dall'art. 5-bis del medesimo decreto legislativo, perché
esso, ai co. 1, 2 e 3, espressamente delimita la sua
operatività in relazione al solo accesso civico
generalizzato di cui all'art. 5, co. 2, avente ad oggetto
gli atti diversi da quelli per cui il legislatore ha dettato
la regola della necessaria pubblicità.
CONS. STATO, SEZ. III, 12.04.2022 n. 2722 – ATTI DI PIANIFICAZIONE
E UTILIZZO STRATEGICO DELLE FORZE DELL’ORDINE - Parti:
Ministero dell’Interno c. D.M
L’appellata, in
qualità di giornalista dell'Agenzia di Stampa AGI, in data
29.09.2020 ha chiesto all’amministrazione dell’Interno di
poter accedere agli atti inerenti all’impiego ed il ritiro
dei militari avvenuto, nel periodo 5-08.03.2020, nell’area
territoriale dei Comuni di Nembro e di Alzano Lombardo come
misura attuativa del piano governativo di contenimento della
propagazione del virus Covid-19.
Il Tar Lazio, alla cui cognizione è stata portata
l’impugnativa dell’atto di diniego -una volta inquadrata la
materia nell’ambito dell’accesso civico generalizzato e dopo
aver ritenuto doversi valutare la sola sussistenza delle
esclusioni previste dall’art. 5 bis del d.lgs. n. 33 del
2013, attraverso un bilanciamento svolto in concreto,
finalizzato cioè a verificare la reale sussistenza di un
pregiudizio agli interessi indicati dallo stesso
legislatore- ha concluso che una valutazione degli interessi
a rischio di pregiudizio nel caso specifico non fosse stata
adeguatamente resa da parte dell’amministrazione, essendosi
questa limitata ad un mero e astratto richiamo ai possibili
fattori ostativi, privo di spiegazioni puntuali e calate nel
caso concreto.
In sede di appello, invece, il Consiglio di Stato ha
riformato la sentenza ritenendo rilevanti ed apprezzabili le
esigenze di riservatezza meglio esplicitate
dall’amministrazione in relazione alla portata degli atti di
pianificazione che verrebbero ostesi e della correlazione
strategica che essi sottendono tra le attività di controllo
del territorio e quelle di "contrasto al crimine e di tutela
della sicurezza pubblica" ed, infine, dalla particolare
delicatezza di alcune di queste specifiche funzioni, in
particolare di quelle di "contrasto del Terrorismo".
In materia di accesso agli atti amministrativi, infatti,
l'accesso civico generalizzato di cui all'art. 5, comma 2,
del d.lgs. n. 33 del 2013 deve essere rifiutato se il
diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto
alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a)
la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; b) la sicurezza
nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) la
conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento.
CONS. STATO, SEZ. III, 18.03.2022 n. 1989 – FONDI FIDUCIARI DELL’UE
PER L’AFRICA - Parti: S.C. c. Ministero dell’Interno e altri
L’appellante,
giornalista freelance interessata ai fenomeni connessi alle
migrazioni forzate, aveva presentato una istanza volta ad
ottenere documenti ed informazioni inerenti l’attuazione del
programma IBM, finanziato dal Fondo Fiduciario dell’UE per
l’Africa e volto ad “intensificare le attività a sostegno
delle guardie di frontiera e costiera libiche per
migliorarne la capacità di gestire efficacemente le
frontiere del paese”.
Il Consiglio di Stato adito ha respinto l’appello ritenendo
condivisibili le argomentazioni addotte dalle
amministrazioni resistenti e dal RPCT in sede di riesame
secondo cui la documentazione inerente i fondi fiduciari
dell’Unione Europea stanziati per il continente Africano,
costituiscono atti finalizzati alle relazioni
internazionali, la cui ostensione può essere causa di
tangibili pregiudizi alle relazioni che l’Italia intrattiene
con Paesi Terzi.
La non ostensibilità di tali documenti si desume dalle
previsioni di cui all’art. 5-bis, comma 1, lett. a) e d),
d.lgs. n. 33/2013, in combinato disposto con l’art. 24,
comma 1, legge n. 241/1990 e con gli artt. 2, comma 1, lett.
a), b) e 3, comma 1, lett. a) e d), D.M. n. 415/1994.
Da un lato, il contenuto del progetto –le cui
attività mirano alla fornitura di mezzi di trasporto,
comunicazione ed equipaggiamento– e il coinvolgimento di uno
Stato estero rendono applicabili i limiti di cui all’art.
5-bis, comma 1, venendo in evidenza possibili pregiudizi
concreti alla sicurezza ed all’ordine pubblico nonché alle
relazioni internazionali.
Dall’altro, vengono in rilevo le preclusioni di cui
al D.M. n. 415/1994, il quale sottrae all’accesso la
“documentazione relativa agli accordi intergovernativi
stipulati per la realizzazione di programmi militari di
sviluppo, approvvigionamento e/o supporto comune o di
programmi per la collaborazione internazionale di polizia”,
le “dichiarazioni di riservatezza e relativi atti istruttori
dei documenti archivistici concernenti la politica estera o
interna”, le “relazioni di servizio ed altri atti o
documenti presupposto per l’adozione degli atti o
provvedimenti dell'autorità nazionale e delle altre autorità
di pubblica sicurezza, nonché degli ufficiali o agenti di
pubblica sicurezza, ovvero inerenti all'attività di tutela
dell’ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e
repressione della criminalità”, nonché gli “atti e documenti
concernenti l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi
di polizia, ivi compresi quelli relativi all’addestramento,
all’impiego e dalla mobilità del personale delle Forze di
polizia”.
L'appellante chiedeva, inoltre, se vi fossero altri
documenti in possesso dei Ministeri resistenti ed in
particolare del Ministero dell'Interno, a cui sia stato
illegittimamente negato l'accesso. Anche tale censura è
stata ritenuta infondata, in quanto è "noto che i documenti
sono ostensibili solo se esistenti, non potendosi predicare
l'esibizione di atti che non risultano formati" (Cons. St.,
sez. III, 10.02.2022, n. 990).
L'appellante non ha dimostrato che vi siano documenti
ulteriori, al di là di quelli che espone essere stati
pubblicati o comunque non resi conoscibili, e pertanto la
censura non può trovare accoglimento se e nella misura in
cui essa si fonda su una mera asserzione congetturale, a
fondamento della quale non può essere accolta,
evidentemente, una istanza di accesso del tutto generica,
avente ad oggetto documenti della cui esistenza, prima
ancora che determinatezza, la stessa parte interessata non
appare certa, esprimendosi su di essa in una forma del tutto
eventuale e dubitativa, a fronte, peraltro, della
dichiarazione, da parte dell'autorità amministrativa, che
non vi sarebbero ulteriori documenti.
Né il giudice può ordinare un accesso meramente esplorativo,
al fine di verificare se detti documenti esistano o meno, in
quanto la funzione dell'accesso civico generalizzato, come
ha chiarito l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella
sentenza n. 10 del 02.04.2020, è rispondere ad un
fondamentale desiderio di conoscenza circa documenti o dati,
da parte del cittadino, nella prospettiva di assicurare la
trasparenza dell'azione amministrativa allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico e non quella, surrettizia, di svolgere una
investigazione, di stampo inquisitorio o ispettivo, sulla
base di mere ipotesi o congetture accertabili in sede di
giurisdizione contabile o penale.
CONS. STATO, SEZ. III, 02.09.2019 n. 6028 – MEMORANDUM DI INTESA
ITALIA/LIBIA - Parti: S.F. c. Ministero dell’Interno
E' legittimo il
diniego inerente alla richiesta di accesso civico agli atti
concernenti lo stato di attuazione del Memorandum d'Intesa
Italia - Libia sottoscritto in data 02.02.2017 in quanto che
la diffusione e pubblicazione degli atti di cooperazione
espletata in esecuzione di impegni internazionali,
pertinenti ad attività dell'amministrazione della pubblica
sicurezza, sarebbe suscettibile di ingenerare concretamente
situazioni pregiudizievoli in grado di vanificare le misure
preventive poste in essere a tutela dell'insieme delle
azioni portate avanti. (Conferma TAR Lazio Sez. I, n.
8892/2018).
Sul punto, rileva inoltre il D.M. n. 415 del 1994 che
sottrae all'accesso, tra l'altro, la "documentazione
relativa agli accordi intergovernativi stipulati per la
realizzazione di programmi militari di sviluppo,
approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la
collaborazione internazionale di polizia" (art. 2, comma 1,
lettera a), le "relazioni di servizio ed altri atti o
documenti presupposto per l'adozione degli atti o
provvedimenti dell'autorità nazionale e delle altre autorità
di pubblica sicurezza, nonché degli ufficiali o agenti di
pubblica sicurezza, ovvero inerenti all'attività di tutela
dell'ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e
repressione della criminalità, salvo che si tratti di
documentazione che, per disposizione di legge o di
regolamento, debba essere unita a provvedimenti o atti
soggetti a pubblicità" (art. 3, comma 1, lettera a), e gli
"atti e documenti concernenti l'organizzazione ed il
funzionamento dei servizi di polizia, ivi compresi quelli
relativi all'addestramento, all'impiego ed alla mobilità del
personale delle Forze di polizia, nonché i documenti sulla
condotta dell'impiegato rilevanti ai fini di tutela
dell'ordine e della sicurezza pubblica e quelli relativi ai
contingenti delle Forze armate poste a disposizione
dell'autorità di pubblica sicurezza" (art. 3, comma 1,
lettera d).
CONS. STATO, SEZ. III, 03.03.2022 n. 1522 – ATTIVITÀ ISPETTIVE
Openpolis,
fondazione indipendente e senza scopo di lucro, presentava
un’istanza di accesso civico semplice e generalizzato al
Ministero dell’Interno per ottenere dati relativi al
monitoraggio e controllo dei centri accoglienza per
richiedenti asilo.
In primo grado il diniego, motivato dall’amministrazione con
il richiamo al decreto del Ministero dell’Interno n.
415/1994, veniva ritenuto legittimo.
Il Consiglio di Stato, diversamente, ha accolto l’appello
della Fondazione riformando così la sentenza di accoglimento
di primo grado. Applicando la normativa primaria e le Linee
Guida n. 1309/2016, ad avviso del giudice di secondo grado
deve essere accolta l’istanza della Fondazione di ostensione
dei documenti, con esclusione di quelli relativi ad attività
ispettive ancora in atto se, a giudizio
dell’amministrazione, il rilascio possa vanificare gli esiti
dell’ispezione, nonché quelli relativi ad ispezioni sfociate
in indagini penali.
La conclusione cui giunge il Consiglio di Stato muove
dall’assunto che, nell’attuale contesto ordinamentale,
l’accessibilità è la regola e i limiti alla stessa le
eccezioni.
Tra queste ultime quella delle attività ispettive, peraltro,
è relativa (non assoluta) e, come tale, presuppone
un’attività valutativa da effettuare con la tecnica del
bilanciamento, caso per caso, tra l’interesse alla
disclosure e altri validi interessi indicati dal legislatore
e con il ricorso, ove possibile, al differimento
dell’accesso.
CONS. STATO, SEZ. V, 15.06.2021 n. 4644 – ATTI ACQUISITI
NELL’AMBITO DI PROCEDIMENTI PENALI E ATTIVITÀ ISPETTIVA
L’ostensione dei
documenti non può riguardare gli atti acquisiti nell’ambito
dei procedimenti penali o di procedimenti amministrativi di
tipo ispettivo.
L’accesso è stato correttamente consentito solo con
riferimento alla documentazione tecnica non più rilevante
nei procedimenti penali o amministrativi, con le precauzioni
di oscuramento volte a tutelare eventuali segreti
industriali e commerciali.
Tali precauzioni sono necessarie in relazione alla qualifica
di infrastruttura strategica, per la quale la tutela anche
rispetto al rischio terroristico legittima più stringenti
limiti all’accesso generalizzato.
Entro tali limiti, indicati nel provvedimento di riesame,
l’accesso è consentito, in conseguenza di un corretto e
proporzionato bilanciamento tra gli interessi in conflitto.
CONS. STATO, SEZ. IV, 20.04.2020 n. 2496 - ATTI E INFORMAZIONI
ATTINENTI ALL’ORGANIZZAZIONE DEL PERSONALE E DELLE RISORSE
UMANE
Escludere
dall'accesso generalizzato, oltre che da quello cd.
semplice, la documentazione suscettibile di rivelare gli
aspetti organizzativi -nell'ambito dei quali è essenziale la
componente delle risorse umane- costituenti i punti di forza
o di debolezza dell'organizzazione delle funzioni pubbliche
tutelate, è coerente con l'obiettivo di evitare che la
conoscenza di tali informazioni venga utilizzata per mettere
in pericolo le funzioni primarie dello Stato.
E tale obiettivo è conseguito, in una equilibrata
applicazione del limite previsto dall'art. 5-bis, comma 1,
lett. a), b) e c), del d.lgs. n. 33 del 2013, secondo un
canone di proporzionalità, proprio del test del danno,
rispetto alle eccezioni assolute richiamate dal comma 3
dello stesso articolo, attraverso il rinvio ad interessi che
già erano oggetto di protezione rispetto all'accesso cd.
semplice.
La pronuncia conferma, pertanto, la legittimità del diniego
dell’istanza di accesso civico generalizzato volta ad
acquisire dal Comando generale della Guardia di Finanza i
dati del “Sistema informativo sugli impieghi delle risorse
umane” (contenenti il numero delle ore/persone
effettivamente impiegate da tutto il personale del Corpo,
distinto per missioni/funzioni), atteso che la diffusione di
tali dati arrecherebbe un concreto pregiudizio alla
sicurezza pubblica ed all’ordine pubblico, alla sicurezza
nazionale, alla difesa e questioni militari ex art. 5-bis ,
comma 1, d.lgs. n. 33/2013, tenuto conto che la Guardia di
Finanza costituisce un corpo di polizia ad ordinamento
militare e che la conoscenza delle modalità di impiego del
personale può costituire un concreto pericolo per la tutela
dei predetti interessi pubblici. I dati richiesti sono
riferiti, infatti, all’intera filiera organizzativa a
livello territoriale.
La loro diffusione –unita ai dati già pubblici e
all’utilizzo delle tecnologie– potrebbe comporterebbe un
pregiudizio concreto alla tutela degli interessi protetti
dall’art. 5-bis, co. 1, d.lgs. n. 33/2013, in particolare la
difesa nazionale, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico.
Il diniego, inoltre, trova fondamento nell’art. 5-bis, co.
3, d.lgs. n. 33/2013, nella parte in cui richiama i casi di
divieto di cui all’art. 24, co. 1, legge n. 241/1990. La
lett. c) di tale comma prevede l’esclusione dall’accesso
“nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione
diretta all’emanazione di atti amministrativi generali di
pianificazione e di programmazione”.
In proposito, il D.M. 29.10.1996, n. 603, annovera tra le
categorie di atti sottratti dall’accesso la documentazione
suscettibile di rivelare gli aspetti organizzativi e il
funzionamento, nonché i mezzi e le dotazioni dei servizi di
polizia, a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e
per la repressione della criminalità.
TAR EMILIA ROMAGNA-PARMA, SEZ. I, 10.05.2021 n. 114 – ATTIVITÀ
ISPETTIVE
È infondato il
ricorso avverso il rigetto di una istanza di accesso civico
generalizzato tesa a ottenere atti formati a seguito di
un’attività di controllo.
Osta all’accoglimento dell’istanza la disposizione di cui
all’art. 5-bis, d.lgs. n. 33/2013, che, al comma 1, lett.
g), stabilisce che la richiesta è rifiutata se il rigetto è
necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela
del regolare svolgimento di attività ispettive.
Risulta chiaro che, nel caso di specie, oggetto della
richiesta è la relazione redatta al termine dell’attività
ispettiva e la stessa attività potrebbe essere pregiudicata
dal disvelamento dei dati relativi alle ispezioni svolte, al
fine di verificare il rispetto della normativa
anticorruzione all’esito di un conclamato fatto di cronaca
giudiziaria che ha interessato un dipendente dell’ufficio.
Le esigenze di riservatezza della documentazione richiesta
appaiono, dunque, correttamente valutate e ritenute
prevalenti dall’amministrazione, atteso che una divulgazione
degli esiti dell’ispezione sarebbe idonea a disvelare le
modalità utilizzate in tale attività e, in definitiva, a
pregiudicare il regolare svolgimento della medesima in
future occasioni.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. II-TER, 19.01.2021 n. 748 – TUTELA DELLE
RELAZIONI INTERNAZIONALI
Non può essere
accolta una istanza di accesso civico generalizzato volta a
ottenere atti di provenienza governativa relativi a processi
civili per i risarcimenti ai sopravvissuti di stragi e
deportazioni a carico dello Stato tedesco. L’ostensione dei
documenti richiesti determinerebbe un pregiudizio concreto e
attuale alle relazioni internazionali ex art. 5, comma 1,
lett. d), in quanto la documentazione attinente
all’intervento dello Stato italiano nei processi civili in
cui è parte lo Stato tedesco contengono e riflettono
posizioni, oltre che interessi, di politica estera del
Governo nazionale.
Come chiarito dalle Linee guida ANAC n. 1309/2016, per
relazioni internazionali non si intende solo la politica
estera di uno Stato, ma il sistema internazionale, nel quale
operano vari attori a diversi livelli, riportando, a titolo
semplificativo, alcuni atti meritevoli di attenzione, tra i
quali è possibile far rientrare quelli della presente
fattispecie.
Trattasi, infatti, di documenti attinenti a scelte e ad
azioni di carattere politico, al cospetto dei quali il
diritto di conoscere si arresta di fronte a un’attività che
non solo non può catalogarsi quale avente natura
amministrativa ma che, nell’ottica del bilanciamento fra
interessi, fa sorgere la necessità, opportunamente valutata,
di evitare un pregiudizio concreto e attuale all’interesse
pubblico relativo a relazioni internazionali in atto che,
chiaramente, proprio perché necessitanti di protezione, non
possono essere disvelate più di quanto abbia fatto la
resistente amministrazione nel corpo motivazionale del
diniego.
5.3. LE ECCEZIONI RELATIVE EX ART. 5-BIS,
COMMA 2, DEL D.LGS. N. 33/2013
CONS.
STATO, SEZ. VI, 25.06.2018 n. 3907 - TUTELA DEI DATI
PERSONALI – INFORMAZIONI NON INERENTI ALL’ATTIVITÀ
ISTITUZIONALE
L'accesso pubblico
generalizzato di cui all'art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013 ha
l’esclusiva finalità di "favorire forme diffuse di controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico", non già di rendere
pubblici colloqui privati -qual è quello svoltosi tra le
parti ed inavvertitamente fatti oggetto di registrazione-
che esulano dall'esercizio di funzioni istituzionali.
Inoltre l'accesso dell'accesso va bilanciato con il diritto
alla protezione dei dati personali di cui è parola all'art.
5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33 del 2013.
In coerente continuità normativa, l'art. 5, comma 5, d.lgs.
cit., prescrive infatti che "fatti salvi i casi di
pubblicazione obbligatoria, l'amministrazione cui è
indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti
controinteressati, ai sensi dell’articolo 5-bis, comma 2,
d.lgs. cit. è tenuta a dare comunicazione agli stessi,
mediante invio di copia con raccomandata con avviso di
ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano
consentito tale forma di comunicazione" ai fini della
eventuale opposizione.
Nel caso in esame non è dato individuare a monte l’interesse
pubblico costituente il presupposto ai sensi dell'art. 11
del d.lgs. n. 196 del 2003 per il trattamento dei dati
sensibili riguardanti manifestazioni di pensiero fra persone
che (in quel particolare momento) non rivestono né
esercitano funzioni pubbliche.
Gli obblighi di tutela dei dati personali sono oggi ancor
più pregnanti dopo l’entrata in vigore degli artt. 5, 6 e
ss. Regolamento UE 2016/679, laddove ribadiscono
l'inderogabilità -neppure in nome della trasparenza e del
diritto di accesso- di essi per effetto di disposizioni
normative interne di eventuale segno opposto.
TAR LOMBARDIA-BRESCIA, SEZ. I, 12.03.2018 n. 303 – TUTELA DATI
PERSONALI ED ACCESSO PARZIALE
È illegittimo il
diniego opposto alla richiesta di accesso agli atti di
valutazione e selezione di uno specifico candidato
nell’ambito di un concorso pubblico, motivato in base alla
mera presenza di dati personali in tali documenti.
Nel dare riscontro a un’istanza, l’amministrazione deve
verificare la presenza di un pregiudizio concreto alla
protezione dei dati personali e valutare la possibilità di
un rilascio con modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell’interessato, privilegiando l’ostensione di documenti
con l’omissione dei dati personali laddove l’esigenza
informativa possa essere raggiunta senza implicare il loro
trattamento.
Peraltro, in una selezione pubblica, le ragionevoli
aspettative di confidenzialità degli interessati riguardo a
talune informazioni recedono o sono comunque depotenziate.
Alla luce di ciò, data la genericità della motivazione
fornita, i documenti richiesti sono suscettibili di
ostensione, salva la facoltà di oscurare i dati strettamente
ed effettivamente personali –soprattutto di natura
sensibile– per i quali la divulgazione può ritenersi
eccessiva e non pertinente rispetto all’obiettivo di massima
trasparenza dell’azione amministrativa.
TAR TOSCANA, SEZ. III, 12.06.2021 n. 896 - PROTEZIONE DEI DATI
PERSONALI
L’art. 5-bis, comma
2, d.lgs. n. 33/2013 individua gli interessi privati
ostativi all’accesso, fra cui la protezione dei dati
personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza,
e gli interessi economici e commerciali. Le allegazioni
difensive dell’amministrazione non si riferiscono ad alcuno
di tali interessi.
Avuto riguardo alla natura degli atti oggetto dell’istanza
di ostensione, può ragionevolmente presumersi che sia stata
in considerazione la sola tutela della riservatezza dei dati
personali della contro interessata.
Tale riservatezza deve in ogni caso reputarsi recessiva
rispetto all’interesse di ogni cittadino a verificare che
l’ente eserciti correttamente i propri poteri di vigilanza
urbanistico-edilizia sul territorio di competenza e,
conseguentemente, ad accedere alle singole pratiche inerenti
la realizzazione di interventi abusivi, oltretutto già
sanzionati, come nella specie.
D’altro canto, non vi è motivo di presumere che, in
concreto, la pratica edilizia in questione contenga dati
personali che non siano già conosciuti, a partire
dall’identità della contro interessata o dal luogo del
commesso abuso, ovvero, quanto alle caratteristiche delle
opere abusive, che quei dati personali meritino di essere
tutelati al punto da prevalere nel bilanciamento con
l’interesse generale sopradescritto.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I-QUATER, 28.03.2019 n. 4122 – DIVIETO DI
ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO AL FINE DI CONTROLLARE L'ATTIVITÀ
DEI PRIVATI O I RAPPORTI TRA ESSI INTERCORRENTI – TUTELA
DELLA RISERVATEZZA
L'art. 5 del d.lgs.
n. 33/2013 riconosce il diritto di accesso generalizzato
allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche, nonché di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico.
Il diritto di accesso riconosciuto dalla norma, per la
natura pubblicistica che è propria di esso, è un diritto
funzionale a un interesse pubblico, ravvisabile, appunto,
nel controllo generalizzato e diffuso sull'attività delle
pubbliche amministrazioni. In ciò si distingue dal diritto
di accesso documentale riconosciuto dalla legge sul
procedimento amministrativo, posto a tutela di interessi
privati e che presuppone una posizione soggettiva
differenziata.
Trattandosi di un interesse diffuso, il diritto di accesso
civico generalizzato è stato riconosciuto senza limiti di
legittimazione attiva, per cui, nel caso di specie, la
posizione del giornalista non si distingue, in tale ambito,
da quella del comune cittadino. Affinché il diritto sia
esercitabile, in ogni caso, è necessario che sia funzionale
allo scopo stabilito dalla legge, ravvisabile nel controllo
generalizzato sul buon andamento della p.a. e sul corretto
utilizzo delle risorse pubbliche.
Il diritto di accesso civico generalizzato non è invece
riconosciuto dall'ordinamento per controllare l'attività dei
privati o i rapporti tra essi intercorrenti come nel caso in
cui l'istanza risultava finalizzata a conoscere i rapporti
professionali tra l’Autorità Garante per la protezione dei
dati personali e il proprio legale.
TAR ROMA–LAZIO, SEZ. I, 11.05.2021 n. 5463 - CORRISPONDENZA INTERNA
ALLA P.A.
Il ricorrente ha
impugnato i provvedimenti con i quali è stato negato dalle
intimate amministrazioni l’accesso ad alcuni dei documenti
richiesti con l'istanza di accesso civico generalizzato
presentata dal ricorrente nonché -in sede di riesame-
confermato il diniego dai Responsabili della Prevenzione
della Corruzione e della Trasparenza dei rispettivi
Ministeri.
In particolare al ricorrente è stato negato l’accesso, tra
gli altri, alla corrispondenza intercorsa, definita come
e-mail inviate e/o ricevute destinate o provenienti dai
membri della Commissione istituita per gli approfondimenti
necessari per l'individuazione delle possibili soluzioni,
con particolare riferimento agli aspetti tecnici e di
sicurezza informatica, pregiudiziali alla adozione di linee
guida per la sperimentazione del voto elettronico e/o la
corrispondenza dei collaboratori delegati con ruolo di
segretariato e/o assistenza di direzione, utilizzando
caselle di posta elettronica in uso, in funzione dello
svolgimento degli incarichi svolti nella pubblica
amministrazione.
Il Collegio ha evidenziato, nello specifico, che la finalità
dell’accesso civico generalizzato, introdotto dall’articolo
5 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, è quella di
“favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico [...] nel rispetto dei limiti relativi alla tutela
di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto
previsto dall'articolo 5-bis".
La previsione di tali limiti va certamente a giustificare il
diniego all’accesso relativo alla corrispondenza intercorsa
fra i membri della Commissione (e/o propri collaboratori
delegati con ruolo di segretariato e/o assistenza di
direzione) ex art. 5-bis, comma 2, lettera b), del d.lgs. n.
33/2013.
La corrispondenza presente sulla casella di posta
elettronica personale, i cui contenuti si vorrebbero
disvelati per la pubblica diffusione, costituiscono anche,
per la genericità della richiesta, surrogati di
comunicazioni per vie brevi (telefonate o scambi verbali in
presenza) che non sono di regola soggette a registrazione/verbalizzazione,
né, tanto meno, a pubblicazione.
Esse peraltro, il più delle volte, esauriscono la loro
funzione una volta giunte al destinatario e la loro
efficacia viene assorbita dalla attività istituzionale del
gruppo di lavoro i cui esiti soltanto, in quanto ricavabili
da atti o da documentazione amministrativa propriamente
intesi, sono rilevanti per le finalità di cui alla legge
33/2013.
Anche ove si trattasse di bozze di proposte, le stesse,
fintanto che non vengano formalizzate in un atto, frutto,
verosimilmente, della riflessione congiunta, non sono
attribuibili al gruppo di lavoro, unico soggetto la cui
produzione documentale è soggetta all’obbligo di
trasparenza.
Ne consegue che, al di là del carattere confidenziale della
corrispondenza, la stessa è per lo più priva di un evidente
interesse per la collettività interessata al “perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico”.
Si tratta inoltre di documenti che l’Amministrazione non
detiene stabilmente, ma che rimangono nella piena ed
esclusiva disponibilità e gestione autonoma di ciascun
titolare della casella di posta elettronica in dotazione e
sono assistiti da garanzie costituzionali di segretezza.
Il fatto che si tratti di caselle di posta elettronica messe
a disposizione dall’ufficio non significa che i contenuti
della corrispondenza rientrino tra quelli che
l’Amministrazione detiene istituzionalmente o che il singolo
è obbligato a consegnare, in assenza di appositi
provvedimenti dell’Autorità giudiziaria.
PRONUNCE DEL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI
DATI PERSONALI
GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, 10.06.2021 n. 237 –
ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO IN MATERIA DI CONCORSI PUBBLICI
Il caso sottoposto
all’attenzione del Garante riguarda l’ostensione, tramite
l’istituto dell’accesso civico, di dati e informazioni
personali –di diversa natura e specie– riferiti ai candidati
ammessi alla prova preselettiva per il concorso pubblico,
quali: nome, cognome, indirizzo e posta elettronica.
La normativa statale in materia di trasparenza prevede che,
fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le
pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare
–oltre ai bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi
titolo, di personale presso l’amministrazione, ai criteri di
valutazione della Commissione e alle tracce delle prove– «le
graduatorie finali, aggiornate con l'eventuale scorrimento
degli idonei non vincitori» (art. 19, comma 1, del d.lgs. n.
33/2013).
Tale regime di conoscibilità, come già rilevato in passato
dal Garante, assolve alla funzione di rendere pubbliche le
decisioni adottate dalla commissione esaminatrice e/o
dall’ente pubblico procedente, anche al fine di consentire
agli interessati l’attivazione delle forme di tutela dei
propri diritti e di controllo della legittimità delle
procedure concorsuali o selettive. Anche a questo riguardo
devono essere diffusi i soli dati pertinenti e non eccedenti
riferiti agli interessati.
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati
concernenti i recapiti degli interessati ([quali fra
l’altro] l’indirizzo di residenza o di posta elettronica
[…]» (cfr. parte seconda, part. 3.b. delle «Linee guida in
materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in
atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di
pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati», provv. n. 243 del 15/05/2014, in G.U.
n. 134 del 12/6/2014 e in www.gpdp.it, doc. web n. 3134436;
punto 6.1 delle «Linee guida in materia di trattamento di
dati personali di lavoratori per finalità di gestione del
rapporto di lavoro in ambito pubblico», provv. n. 23 del
14/06/2007, in G.U. n. 161 del 13/07/2007 e in www.gpdp.it,
doc. web n. 1417809).
In tale quadro, si rileva cha –a differenza dei soggetti
risultanti vincitori– la normativa in materia di trasparenza
non prevede obblighi di pubblicità dei dati personali
riferiti ai singoli partecipanti al concorso pubblico.
Pertanto, fermo restando la pubblicità delle graduatorie
finali dei vincitori, un eventuale riconoscimento di un
accesso civico agli ulteriori dati personali dei
partecipanti al concorso richiesti –quali nome, cognome,
indirizzo, posta elettronica– unito alla generale conoscenza
e al particolare regime di pubblicità dei dati oggetto di
accesso civico, può effettivamente arrecare ai soggetti
interessati, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui i
dati e le informazioni fornite possono essere utilizzate da
terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali previsto dall’art. 5-bis,
comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013.
GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, 07.11.2019 n. 200 -
ACCESSO CIVICO IN MATERIA DI CONCORSI PUBBLICI – PROVE
SCRITTE E CURRICULA DEI PARTECIPANTI
Il Garante per la
protezione dei dati personali si è espresso circa la
legittimità della richiesta di accesso civico, esaminando in
primo luogo l’incidenza degli elaborati scritti di un
concorso pubblico e dei curricula sui dati personali dei
candidati.
A tal proposito, il Garante ha rilevato come detti elaborati
scritti contengono al loro interno numerosi elementi che
sono idonei a individuare le caratteristiche individuali del
candidato.
In particolare, l’autorità di controllo ha evidenziato come
dagli stessi siano ricavabili alcuni aspetti del carattere
del candidato, quali per esempio la sua preparazione
professionale, la sua cultura, la sua capacità di
espressione o in generale il suo carattere: ciò, in quanto
essi sono elementi che vengono valutati durante la
selezione. In alcuni casi, inoltre, da tali elaborati è
possibile anche evincere dati qualificabili come “categorie
particolari”, in quanto attinenti alle opinioni politiche,
filosofiche o di altro genere del candidato.
Per quanto riguarda il curriculum, il garante ha evidenziato
come al suo interno sono contenuti numerosi dati di
carattere personale del candidato come, per esempio, il nome
cognome, la data e luogo di nascita, la residenza, il numero
di telefono, la e-mail, la nazionalità, le esperienze
professionali, l’istruzione, le competenze personali, le
pubblicazioni, i riconoscimenti e i premi nonché la
appartenenza a gruppi o associazioni.
Premesso tutto quanto sopra, il garante ha posto
l’attenzione sul fatto che l’accesso civico fa sì che i
documenti cui è concesso l’accesso diventino di pubblico
dominio e possono essere conosciuti nonché utilizzati e
riutilizzati da chiunque. In considerazione di ciò,
l’accesso ai curricula e agli elaborati scritti di un
concorso pubblico può determinare un pregiudizio concreto
alla tutela dei dati personali dei candidati.
In considerazione di tutto quanto sopra nonché della
normativa in materia di protezione dei dati personali, il
garante ha quindi ritenuto di confermare i propri precedenti
orientamenti espressi nei casi di accesso civico agli
elaborati scritti dei candidati di un concorso pubblico e ai
relativi curricula, ritenendo corretto il rifiuto di
permettere all’istante di accedere ai documenti richiesti.
Infine, pur avendo escluso il diritto di accedere ai
documenti in questione attraverso la forma dell’accesso
civico, il Garante ha comunque ricordato all’istante che
tale rifiuto non preclude allo stesso la possibilità di
accedere ai curricula e agli elaborati scritti qualora egli
abbia un interesse diretto, concreto ed attuale a prendere
visione degli stessi in quanto egli ha una situazione
giuridicamente tutelata da far valere attraverso la visione
del documento.
GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, 15.10.2020 n. 180 –
RISCHIO DI IDENTIFICAZIONE INDIRETTA
Chiunque ha diritto
di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, nel rispetto dei limiti relativi alla
tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto
previsto dall'articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013.
L'accesso può essere negato qualora si riveli necessario per
evitare un pregiudizio concreto alla tutela della protezione
dei dati personali.
Anche la possibilità di un accesso parziale è da escludere,
oscurando i nominativi degli interessati, poiché tale
accorgimento non elimina del tutto la possibilità che questi
ultimi possano essere re-identificati, anche all'interno
dello stesso luogo di lavoro, tramite gli ulteriori dati di
dettaglio e di contesto contenuti nella documentazione
richiesta o mediante altre informazioni in possesso di
terzi.
A tale riguardo, si considera infatti "identificabile" la
persona fisica che può essere identificata, direttamente o
indirettamente, con particolare riferimento a un
identificativo come il nome, un numero di identificazione,
dati relativi all'ubicazione, un identificativo on-line o a
uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica,
fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o
sociale (art. 4, par. 1, n. 1, del RGPD).
5.4. IL PREGIUDIZIO CONCRETO ED IL
BILANCIAMENTO DEGLI INTERESSI COINVOLTI
TAR
CALABRIA–CATANZARO, SEZ. II, 05.04.2022 n. 596
Relativamente
all'istanza di accesso c.d. civico generalizzato, di cui
all'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, il semplice
rifiuto opposto dalla controinteressata, alla quale era
stata comunicata l'istanza di accesso, non è sufficiente per
fondare il rigetto dell'ostensione, dovendo, invece, la
Pubblica Amministrazione motivare analiticamente in merito
alla sussistenza di uno dei limiti di cui all'art. 5-bis,
comma 2 del d.lgs. n. 33 del 2013
TAR CAMPANIA–NAPOLI, SEZ. VI, 10.12.2019 n. 5837
In tema di accesso
civico, il test del pregiudizio concreto, da applicare per
delimitare la conoscenza generalizzata di cui all'art. 5-bis
comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, impone che il pregiudizio
non deve essere solo affermato, ma anche dimostrato;
inoltre, il test del pregiudizio concreto impone che il
nesso di causalità che lega questo alla divulgazione deve
superare la soglia del "meramente ipotetico" per emergere
quale "probabile", sebbene futuro; pertanto,
l'Amministrazione, nel rigettare una richiesta di
ostensione, deve dimostrare che la stessa pregiudicherebbe
l'interesse da tutelare ovvero che ciò sarebbe "molto
probabile".
6. LA PARTECIPAZIONE DEI CONTROINTERESSATI
CONS.
STATO, SEZ. V, 15.06.2021 n. 4644
Non sussiste
l’obbligo da parte dell’amministrazione di coinvolgere il
controinteressato nella fase di riesame, atteso che la
partecipazione è stata assicurata nel procedimento di prima
istanza.
La richiesta di riesame non dà vita ad un nuovo procedimento
ma costituisce un’appendice eventuale dell’unico
procedimento avviato con l’istanza di accesso, cosicché il
riesame si configura come una verifica della correttezza
della decisione, senza che trovino ingresso nuove questioni
e prospettazioni.
In tal senso è indicativa la Circolare n. 1/2019 del
Ministro per la pubblica amministrazione (par. 6), secondo
cui la partecipazione dei controinteressati alla fase di
riesame deve essere assicurata soltanto nel caso in cui il
RPCT constati che essa non sia avvenuta in prima istanza per
una erronea valutazione circa la sussistenza del pregiudizio
agli interessi di cui all’art. 5-bis, comma 2, d.lgs. n.
33/2013.
Una diversa interpretazione finirebbe per dar vita a un
inammissibile aggravio del procedimento, privo di qualsiasi
utilità pratica, non potendo essere modificati l’oggetto e
le ragioni dell’istanza di accesso, né le osservazioni e le
controdeduzioni già svolte.
7. PROFILI PROCESSUALI
CONS.
STATO, SEZ. III, 02.03.2022 n. 1482
Il silenzio
sull’istanza di accesso civico generalizzato non può essere
qualificato come silenzio provvedimentale, in assenza di una
espressa previsione di legge che attribuisca tale valore a
quel contegno, come fa l’art. 25, comma 4, l. n. 241 del
1990 per l’istanza di accesso documentale.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 15.06.2021 n. 7144
Non sussiste alcun
silenzio-inadempimento del Ministero della Salute
sull’istanza di accesso civico generalizzato avente ad
oggetto la documentazione relativa ai dati statistici
riferita all’andamento della situazione epidemiologica
Covid-19 con indicazione diversificata del numero dei
decessi e degenti in terapia intensiva su base anagrafica
e/o pregresse patologie, ove l’Amministrazione abbia
dichiarato che i dati e le informazioni richieste non si
troverebbero nella disponibilità della DGPROGS del Ministero
stesso ma in possesso dell’Istituto Superiore di Sanità, a
cui sarebbe stata inoltrata l’istanza del ricorrente.
TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 11.11.2021 n. 11656
Nell'ipotesi di
accesso civico generalizzato, l'interessato ha la
possibilità di proporre ricorso giurisdizionale, secondo il
rito dell'accesso, unicamente avverso la decisione negativa
espressa dell'amministrazione competente o, in caso di
richiesta di riesame, avverso la decisione del responsabile
della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
CONS. STATO, SEZ. V, 12.02.2020 n. 1121
Uno solo è il
presupposto imprescindibile di ammissibilità dell'istanza di
accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità
alla tutela di un interesse generale. La relativa istanza,
dunque, andrà in ogni caso disattesa ove tale interesse
generale della collettività non emerga in modo evidente,
oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia
stata proposta per finalità di carattere privato ed
individuale.
Lo strumento in esame può pertanto essere utilizzato solo
per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi
propri della collettività generale dei cittadini, non anche
a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a
singoli individui od enti associativi particolari: al
riguardo, il giudice amministrativo è tenuto a verificare in
concreto l'effettività di ciò, a nulla rilevando -tanto meno
in termini presuntivi- la circostanza che tali soggetti
eventualmente auto-dichiarino di agire quali enti
esponenziali di (più o meno precisati) interessi generali.
Pertanto, sebbene il legislatore non chieda all'interessato
di formalmente motivare la richiesta di accesso
generalizzato, la stessa vada disattesa, ove non risulti in
modo chiaro ed inequivoco l'esclusiva rispondenza di detta
richiesta al soddisfacimento di un interesse che presenti
una valenza pubblica, essendo del tutto estraneo al
perimetro normativo della fattispecie la strumentalità
(anche solo concorrente) ad un bisogno conoscitivo privato.
In tal caso, invero, non si tratterebbe di imporre per via
ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di
verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a
proporre la relativa istanza.
Inoltre, il legislatore individua, quale ostacolo
all'esercizio dell'accesso generalizzato, una serie di
interessi - di rilievo costituzionale - la cui tutela è
imprescindibile per la funzionalità dell'apparato dello
Stato, in quanto attenenti all'essenza stessa della sua
sovranità (interna ed internazionale).
Ne consegue che il diniego eventualmente opposto
all'istanza, presupponendo una valutazione eminentemente
discrezionale che non di rado può involgere -ratione
materiae- profili di insindacabile merito politico, non
potrebbe in alcun modo essere superato da una parallela
valutazione del giudice amministrativo, il cui sindacato in
materia va strettamente circoscritto alle ipotesi di
manifesta e macroscopica contraddittorietà o
irragionevolezza.
Il g.a. può quindi sindacare le valutazioni
dell'amministrazione in ordine al diniego opposto solamente
sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed
adeguatezza dell'istruttoria, ma non procedere ad
un'autonoma verifica della necessità del diniego opposto o
della sua eventuale superabilità, sia pure parziale.
Una siffatta valutazione, infatti, verrebbe ad integrare
un'inammissibile invasione della sfera propria della p.a.:
tale sindacato rimane dunque limitato ai casi di
macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione
gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da
errori di fatto.
Pertanto, alla luce dei rilievi che precedono, sono
legittimi i dinieghi di accesso civico generalizzato,
opposti dal responsabile della trasparenza presso il
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti alla
richiesta ad ottenere informazioni sulle operazioni di
ricerca e salvataggio in mare (c.d. operazioni SAR: Search
and Rescue) - concernenti imbarcazioni di migranti, nei
giorni specificati in ciascun ricorso.
CONS. STATO, SEZ. III, 26.10.2021 n. 7173
Un R.T.I., secondo
classificato, impugnava dinnanzi al Consiglio di Stato la
sentenza del Tar Lombardia che aveva respinto il ricorso
contro una fondazione ai fini dell’annullamento di una
deliberazione mediante la quale veniva disposta
l’aggiudicazione di un appalto in favore della
controinteressata.
Per quel che qui rileva, con riguardo alla questione
relativa ai segreti tecnici commerciali non divulgabili, ai
sensi dell’art. 53, comma 5 lett. a) del Codice dei
contratti pubblici, giusta motivata e comprovata
dichiarazione dell’offerente, il Consiglio di Stato ha in
primo luogo richiamato l’orientamento della Corte di
Giustizia che riconosceva all’organismo competente a
conoscere dei ricorsi la libertà nel disporre di tutte le
informazioni necessarie in modo tale da essere completamente
in grado di decidere con “piena cognizione di causa ivi
comprese le informazioni riservate e i segreti tecnici
commerciali” (Corte di Giustizia C-450/06).
In ragione di ciò, il Collegio ha ordinato il deposito in
giudizio dell’offerta tecnica affinché venisse posta a
disposizione del giudice anche nella parte relativa ad
informazioni qualificate dall’offerente come “segreti
tecnici commerciali” purché in alcuni punti debitamente
oscurata.
Dall’analisi della presente ordinanza è emerso che il potere
del giudice è orientato a garantire la completezza
istruttoria del giudizio di merito con particolare riguardo
all’acquisizione di tutto il compendio probatorio
necessario.
Invero, il Collegio ha ritenuto che l’amministrazione sia
obbligata a depositare gli atti richiesti e il giudice, come
riconosciuto da un orientamento della Corte di Giustizia, ha
il potere di acquisire d’ufficio tutti gli atti ritenuti
indispensabili al fine di decidere.
In altri termini, il sindacato del giudice amministrativo,
nel caso di specie, ha riguardato tutti gli elementi utili
al suo giudizio intrinseci ed estrinseci alle informazioni
riservate.
8. ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO IN MATERIA
DI APPALTI
CONS.
STATO, ADUNANZA PLENARIA, 02.04.2020 n. 10
La disciplina
dell'accesso civico generalizzato, fermi i divieti
temporanei e/o assoluti di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 50
del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di
gara e, in particolare, all'esecuzione dei contratti
pubblici, non ostandovi in senso assoluto l'eccezione del
comma 3 dell'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013 in
combinato disposto con l'art. 53 e con le previsioni della
legge n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia
dall'accesso civico generalizzato, ma resta ferma la
verifica della compatibilità dell'accesso con le eccezioni
relative di cui all'art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli
interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale
disposizione, nel bilanciamento tra il valore della
trasparenza e quello della riservatezza.
CONS. STATO, SEZ. III, 03.11.2022 n. 9567
La disciplina
dell'accesso civico generalizzato, fermi i divieti
temporanei o assoluti di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 50
del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di
gara, ed in particolare all'esecuzione dei contratti
pubblici (nel cui contesto si colloca la fase del collaudo,
alla quale pertiene la documentazione di cui l'appellante ha
chiesto l'ostensione), ma deve essere verificata la
compatibilità di tale forma di accesso con le eccezioni
enucleate dall'art. 5-bis, commi 1 e 2, dello stesso d.lgs.
n. 33 del 2013, a tutela degli interessi-limite, pubblici e
privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento
tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza
(cfr. anche Cons. Stato sez. V, 11/04/2022, n. 2670 e Cons.
Stato, Sez. V, 03/08/2021, n. 5714)
CONS. STATO, SEZ. III, 25.01.2022 n. 495
La disciplina
dell'accesso civico generalizzato, fermi i divieti
temporanei e/o assoluti di cui all'art. 53, d.lgs. n. 50 del
2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara
e, in particolare, all'esecuzione dei contratti pubblici,
non ostandovi in senso assoluto l'eccezione del comma 3
dell'art. 5-bis, d.lgs. n. 33 del 2013, che non esenta in
toto la materia dall'accesso civico generalizzato;
resta ferma la verifica della compatibilità dell'accesso con
le eccezioni relative di cui all'art. 5-bis, comma 1 e 2, a
tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti
da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della
trasparenza e quello della riservatezza;
se esiste, in altri termini, l'interesse ad una conoscenza
diffusa dei cittadini nell'esecuzione dei contratti
pubblici, volta a sollecitare penetranti controlli da parte
delle autorità preposte a prevenire e a sanzionare
l'inefficienza, la corruzione o fenomeni di cattiva
amministrazione e l'adempimento delle prestazioni
dell'appaltatore deve rispecchiare l'esito di un corretto
confronto in sede di gara, a maggior ragione gli operatori
economici, che abbiano partecipato alla gara, sono
interessati a conoscere illegittimità o inadempimenti
manifestatisi dalla fase di approvazione del contratto sino
alla sua completa esecuzione, non solo per far valere vizi
originari dell'offerta nel giudizio promosso contro
l'aggiudicazione, ma anche con riferimento alla sua
esecuzione, per potere, una volta risolto il rapporto con
l'aggiudicatario, subentrare nel contratto od ottenere la
riedizione della gara con chance di aggiudicarsela;
ma tale interesse alla trasparenza, di tipo conoscitivo, che
non esige una motivazione specifica, deve in ogni caso
palesarsi non in modo assolutamente generico e destituito di
un benché minimo elemento di concretezza, anche sotto forma
di indizio, come accade nel caso in esame in cui viene solo
ipoteticamente prospettata l'esistenza di una difformità tra
il contratto e l'esecuzione del servizio, pena rappresentare
un inutile intralcio all'esercizio delle funzioni
amministrative e un appesantimento immotivato delle
procedure di espletamento dei servizi.
TAR PIEMONTE, SEZ. II, 13.01.2023 n. 42
In materia di
accesso agli atti della Pubblica Amministrazione, con
riferimento all'accesso agli atti di una pubblica gara, la
Pubblica Amministrazione ha il potere-dovere di esaminare
l'istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici,
formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente
senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla
stregua della disciplina dell'accesso civico generalizzato,
a meno che l'interessato non abbia inteso fare esclusivo,
inequivocabile, riferimento alla disciplina dell'accesso
documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l'istanza
solo con specifico riferimento ai profili della L. n. 241
del 1990.
TAR VENETO, SEZ. III, 09.03.2022 n. 414
È legittimo il
diniego di accesso civico generalizzato quando non è
possibile rinvenire una finalità riconducibile ad un
controllo diffuso dei cittadini delle funzioni istituzionali
e dell’utilizzo delle risorse pubbliche, volto a soddisfare
esigenze di trasparenza dell'azione amministrativa,
considerato che con l'accesso azionato è stata chiesta
unicamente l'acquisizione di alcuni documenti relativi ad
una procedura di gara aggiudicata da molti anni e
interamente eseguita, né si è inteso operare alcuna verifica
sulla corretta conduzione della medesima da parte della P.A.
L'accesso civico generalizzato soddisfa, infatti,
un'esigenza di cittadinanza attiva, incentrata sui doveri
inderogabili di solidarietà democratica, di controllo sul
funzionamento dei pubblici poteri e di fedeltà alla
Repubblica e non su libertà singolari (ragione per cui non
può mai essere egoistico).
Ne consegue che l'accesso civico generalizzato non è
utilizzabile come surrogato dell'accesso documentale, ex
art. 22 della legge n. 241/1990, quando si perdono o non vi
sono i presupposti di quest'ultimo, perché serve ad un fine
distinto, talvolta cumulabile, ma sempre inconfondibile. |
GIURISPRUDENZA |
COMPETENZE GESTIONALI:
E' illegittima l'istituzione di "area pedonale" a
mezzo di ordinanza dirigenziale anziché provvedimento della
Giunta Comunale.
- l’art. 7 del d.l.vo n.
285/1992 stabilisce che la delimitazione delle aree pedonali
e delle zone a traffico limitato può essere disposta dai
comuni, con deliberazione della giunta, tenendo conto degli
effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione,
sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio
ambientale e culturale e sul territorio. Solo “in caso di
urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza
del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della
deliberazione della giunta”;
- nel caso di specie, la determinazione dirigenziale impugnata non
è supportata da ragioni di urgenza e incide in modo
sostanziale sull’area pedonale individuata dalla Giunta
Comunale con la delibera n. 104/2004;
- invero, il provvedimento gravato istituisce l’area pedonale “in
tutta la via Rimembranze “lato chiesa” ivi compresa l’area
in precedenza adibita alla sosta dei Veicoli”, sicché, da
un lato, estende l’area pedonale, dall’altro,
configura un uso esclusivamente pedonale di tutta l’area,
compresa quella in precedenza adibita alla sosta veicolare;
- il provvedimento dirigenziale, per il suo oggettivo contenuto,
non integra un atto meramente esecutivo della deliberazione
della Giunta n. 104/2004, perché modifica sia l’estensione
dell’area pedonale, sia le prescrizioni stabilite dalla
Giunta, così esprimendo una valutazione discrezionale
autonoma;
- la circostanza che il provvedimento incida sulla configurazione e
sulle modalità di utilizzo dell’area pedonale esclude che
possa essere ricondotto alle competenze dirigenziali,
trattandosi di un atto riservato alla Giunta comunale, con
conseguente fondatezza della censura in esame.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione,
- della Ordinanza Dirigenziale n. 7/2024 del 16.01.2024, a firma
del Dirigente/Responsabile P.O. dell'Area Polizia Locale del
Comune di Trezzano sul Naviglio, con cui “a far data del
01/02/2024 dalle ore 00:00 è istituita area pedonale in
tutta la via Rimembranze “lato chiesa” ivi compresa l'area
in precedenza adibita alla sosta dei veicoli” per cui “è
completamente interdetta al traffico veicolare l'area in
precedenza adibita alla sosta dei veicoli”;
...
E’ fondata e presenta carattere assorbente la censura
diretta a contestare il vizio di incompetenza, in quanto il
provvedimento impugnato è stato adottato dal dirigente di
settore e non dalla Giunta Comunale.
In particolare, il Tribunale osserva che:
- l’art. 7 del d.l.vo n. 285/1992 stabilisce che la delimitazione
delle aree pedonali e delle zone a traffico limitato può
essere disposta dai comuni, con deliberazione della giunta,
tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza
della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul
patrimonio ambientale e culturale e sul territorio. Solo “in
caso di urgenza il provvedimento potrà essere adottato con
ordinanza del sindaco, ancorché di modifica o integrazione
della deliberazione della giunta”;
- nel caso di specie, la determinazione dirigenziale impugnata non
è supportata da ragioni di urgenza e incide in modo
sostanziale sull’area pedonale individuata dalla Giunta
Comunale con la delibera n. 104/2004;
- invero, il provvedimento gravato istituisce l’area pedonale “in
tutta la via Rimembranze “lato chiesa” ivi compresa l’area
in precedenza adibita alla sosta dei Veicoli”, sicché,
da un lato, estende l’area pedonale, dall’altro,
configura un uso esclusivamente pedonale di tutta l’area,
compresa quella in precedenza adibita alla sosta veicolare;
- il provvedimento dirigenziale, per il suo oggettivo contenuto,
non integra un atto meramente esecutivo della deliberazione
della Giunta n. 104/2004, perché modifica sia l’estensione
dell’area pedonale, sia le prescrizioni stabilite dalla
Giunta, così esprimendo una valutazione discrezionale
autonoma;
- la circostanza che il provvedimento incida sulla configurazione e
sulle modalità di utilizzo dell’area pedonale esclude che
possa essere ricondotto alle competenze dirigenziali,
trattandosi di un atto riservato alla Giunta comunale, con
conseguente fondatezza della censura in esame;
- restano assorbite le ulteriori doglianze proposte, in quanto nel
giudizio amministrativo, se sono dedotti vizi di
incompetenza del provvedimento, tali vizi hanno carattere
assorbente rispetto alle residue censure, atteso che in
tutte le situazioni di incompetenza si versa nella
fattispecie in cui il potere amministrativo non è stato
ancora esercitato, sicché il giudice, anche ai sensi
dell'art. 34, comma 2, cod. proc. amm., non può fare altro
che rilevare il relativo vizio (cfr. Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria 27.04.2015, n. 5, TAR Piemonte, sez. III,
22/01/2024, n. 50).
In definitiva il ricorso è fondato nei limiti dianzi esposti
e deve essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.03.2024 n. 947 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sottoposizione di un manufatto abusivo a
sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad
ottemperare all’ordine di demolizione, dal momento che
l’interessato, che intenda ottemperare all’ingiunzione
amministrativa, ha la facoltà di attivarsi, nei tempi
strettamente necessari, per ottenere il dissequestro.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione:
1) del provvedimento prot. 494/2024 dell'11.01.2024
-successivamente notificato- con il quale il Responsabile
dell'Area Tecnica Edilizia Privata del Comune di -OMISSIS-,
presupposta una asserita riapertura dei termini per “effettuare
la spontanea demolizione” (nota prot. 9306 del
29.07.2020) ha accertato la inottemperanza alla ingiunzione
alla demolizione n. 16 dell'11.05.2017 prot. 5519 nei
termini previsti dal DPR 380/2001 così come concessi con la
nota sopra richiamata e, conseguentemente, ha irrogato ad
entrambi i ricorrenti in solido, la sanzione di €. 20.000,00
euro;
...
I ricorrenti impugnano il provvedimento n. 494
dell’11.01.2024, con cui il Comune di -OMISSIS- ha accertato
l’inottemperanza all’ingiunzione alla demolizione n. 16
dell’11.05.2017, prot. 551, irrogando la sanzione solidale
di €. 20.000,00 euro.
Si sostiene l’illegittimità dell’atto, essendo il bene
sottoposto a sequestro penale.
Il ricorso è manifestamente infondato e può essere deciso in
forma semplificata.
Occorre premettere che la sottoposizione di un manufatto
abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento
assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione, dal
momento che l’interessato, che intenda ottemperare
all’ingiunzione amministrativa, ha la facoltà di attivarsi,
nei tempi strettamente necessari, per ottenere il
dissequestro (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2016, n. 335;
Cass. pen., Sez. III, 17.10.2013, n. 42637; TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 27.04.2023, n. 4456).
A tal riguardo, i ricorrenti lamentano che “le opere
oggetto dell’ordinanza n. 16/2017 erano all’epoca e sono a
tutt’oggi sottoposte a sequestro penale”, avendo il
Tribunale di Salerno, con decreto in data 02.09.2020,
respinto l’istanza del dante causa dei medesimi, volta al
dissequestro delle opere abusive per la demolizione ed il
ripristino dei luoghi.
Tuttavia, è risolutivo rilevare come il diniego di
dissequestro sia motivato sul fatto che l’istanza “non
contiene un cronoprogramma dei lavori da eseguire, né le
modalità di smaltimento dei materiali di risulta”, di
modo che sarebbe stato onere di diligenza dell’interessato
e, deceduto questi, dei suoi eredi, produrre la
documentazione richiesta in sede penale (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.03.2024 n. 753 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Sugli estremi per la sussumibilità di un manufatto nella
categoria della pergotenda.
Secondo la condivisibile giurisprudenza
«(i)n materia
edilizia, gli estremi per la sussumibilità di un manufatto
nella categoria della pergotenda, caratterizzata dal regime
di c.d. edilizia libera, si individuano nel fatto che
l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé,
ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o
dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la
struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della
tenda».
In particolare la giurisprudenza, consolidatasi sul punto,
ha ritenuto che la "pergotenda":
1) dal punto di vista fattuale, sia una struttura destinata
a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità
abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine,
quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque,
non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione,
piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione
dello spazio esterno, stabile e duraturo;
2) sotto il profilo giuridico, l’installazione di una
pergotenda -tenuto conto della sua consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della suindicata funzione
caratterizzante- non è un'opera edilizia soggetta al previo
rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del
combinato disposto degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n.
380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di
costruire gli «interventi di nuova costruzione», che
determinano una «trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio»; ne consegue che una struttura leggera destinata
ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, secondo
la configurazione standard propria delle pergotende, non
integra tali caratteristiche;
3) per poter configurare una struttura come “pergotenda”,
occorre che la res principale sia costituita, da una tenda,
quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti
atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che
la struttura di supporto -per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di
titolo abilitativo- deve qualificarsi in termini di mero
elemento accessorio, necessario, per l’appunto, al sostegno
e all'estensione della tenda; in altri termini, il sostegno
della tenda deve consistere in elementi leggeri di sezione
esigua, eventualmente imbullonati al suolo (purché
facilmente disancorabili);
4) la tenda poi, per essere considerato elemento di una "pergotenda"
(e non considerarsi una "nuova costruzione"), deve essere
realizzata in un materiale retrattile, onde non presentare
caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Infatti, la copertura e la chiusura perimetrale che essa
realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e
permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda,
«(o)nde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso
stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo
edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o
superficie»;
5) inoltre, l'elemento di copertura e di
chiusura deve essere costituito da una tenda di un
materiale, privo di quelle caratteristiche di consistenza e
di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti
edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione;
6) infine, il Consiglio di Stato ha chiarito che «L'elemento differenziale della
cosiddetta "pergotenda", rispetto a una mera tenda
retrattile, è individuabile non nell'esistenza di una
struttura di supporto, laterale o frontale, rigida e leggera
(solitamente in alluminio) a sostegno del telo, sé
necessaria a mantenere in tensione ogni tenda esposta al
vento, bensì nell'esistenza di una serie di profili rigidi
(nella prassi c.d. "frangitratta"), distanziati loro di
circa 50-100 centimetri, aventi la specifica funzione di
dare alla copertura maggior resistenza strutturale alla
formazione di sacche d'acqua o al carico nevoso accidentale
(altresì consentendone la chiusura "a pacchetto", anziché a
rullo), tanto da consentirne l'utilizzo a copertura di
superfici notevolmente più ampie».
In pratica «(l)a pergotenda consiste tipicamente in una
struttura leggera, diretta precipuamente a soddisfare
esigenze che, seppure non precarie, risultano funzionali
(solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di
un'unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini, poiché
essenzialmente finalizzate ad attuare una protezione dal
sole e dagli agenti atmosferici».
---------------
L'installazione di una tenda retrattile montata su una
struttura fissa in alluminio anodizzato (pergotenda) non
costituisce intervento di nuova costruzione, né di
ristrutturazione edilizia, e, conseguentemente, non richiede
il permesso di costruire.
---------------
1. Con la sentenza appellata il TAR ha rigettato il ricorso
n. 997/2017 R.G. proposto dalla Ma. S.r.l. per
l’annullamento dell'ordinanza di ingiunzione a demolire n.
37/2017 P/47-2017PR dell'08.02.2017, prot. 105765 oltre
che di ogni altro atto propedeutico, connesso e
conseguenziale.
2. L’appellante ha impugnato la sentenza n. 1614/2021
ritenendola erronea in quanto in essa il Tar non ha
tenuto conto della circostanza che l’opera abusiva per la
quale è stata ingiunta la demolizione rientri tra gli
interventi per i quali non è richiesto alcun titolo
abilitativo, non costituendo né nuova costruzione né
attività di ristrutturazione urbanistica, trattandosi,
piuttosto di una pergotenda che ha il fine di proteggere dal
sole e dagli agenti atmosferici, per una migliore fruizione
dello spazio esterno dell'unità adibita a attività di
ristorazione.
3. L’appello è fondato sui seguenti motivi:
I) violazione e falsa applicazione dell'art. 6 del d.p.r. n.
380/2001 come recepito dalla l.r. n. 16/2016;
II) violazione e falsa applicazione della deliberazione n.
173 del 02.09.2016 della giunta comunale di Palermo;
III) eccesso di potere per erroneità nei presupposti e per
travisamento;
IV) eccesso di potere per difetto di istruttoria;
V) violazione sotto altro profilo degli artt. 3 e 10 d.p.r.
n. 380/2010 come recepito dalla l.r. n. 16/2016 ulteriore
eccesso di potere per erroneità nei presupposti, per
travisamento e per sviamento.
4. In data 27.10.2021 si è costituito, mediante il
deposito di controricorso, il Comune di Palermo chiedendo il
rigetto dell’appello ritenendo corrette e legittime le
valutazioni svolte dal giudice di prime cure.
5. Con ordinanza n. 641 del 12.11.2021, il Collegio ha
respinto l’istanza cautelare ritenendo che «la struttura
esterna al locale non sembra avere le caratteristiche della
“pergotenda”, essendo in grado di modificare, in assenza di
titolo, la destinazione d’uso e, quindi, la destinazione
urbanistica degli spazi esterni, da marciapiede ad uso
pubblico a sala privata di ristorazione» condannando
l’appellante al pagamento delle spese della fase cautelare,
liquidate in € 1.000,00 (mille/00).
6. Con decreto n. 55 dell’08.04.2022 il Presidente ha
dichiarato l’interruzione del processo poiché il Comune di
Palermo, con nota depositata il 07.03.2022 aveva
comunicato il pensionamento del suo difensore, Avv. Gi.Na., a far data dall’01.04.2022, ipotesi questa che
secondo consolidata giurisprudenza, poiché comporta la
cancellazione volontaria dall’albo degli avvocati, è causa
di interruzione del processo.
7. L’appello è stato ritualmente riassunto con ricorso
depositato il 18.05.2022 e il Comune con memoria,
depositata il 17.05.2022, si è costituito con nuovo
difensore.
8. Per la decisione del presente procedimento di appello è
preliminare inquadrare correttamente il manufatto in
questione, definito dall’appellante "pergotenda", da
includere, quindi, tra le opere rientranti nella categoria
dell'attività di edilizia libera, mentre -secondo la tesi
del Comune– rientrerebbe tra le opere che richiedono il
previo rilascio del permesso di costruire.
Il manufatto, meglio raffigurato nelle foto agli atti,
secondo quanto riportato nell’ordinanza impugnata –che si
riconduce alla segnalazione n. 259 del 27.12.2016
trasmessa dal Comando di Polizia municipale di Palermo-
consiste nelle seguenti opere: «ampliamento ad un immobile
preesistente adibito ad attività di ristorazione denominata
“AN.BI.” con realizzazione di un manufatto di mq.
40,00 circa con struttura mista di scatolato metallico con
telai metallici, con tenda di copertura retraibile e chiuso
da pareti laterali in PVC trasparenti e retraibili a mezzo
motori…completo di impianti elettrici e di illuminazione, di
impianto di telecamere e di condizionamento in forma fissa;
si è accertato che la struttura è ancorata all’edificio,
anche se non sono visibili i punti di ancoraggio. Tale
ampliamento all'atto del sopralluogo è adibito a sala di
ristorazione con arredi, tavoli e sedie. In quanto alla
struttura portante del gazebo, essa è rappresentata da
pilastri in ferro quindi non conforme a quanto previsto dal
regolamento per l'occupazione di spazi di ristoro
all'aperto…L'opera descritta in quanto ampliamento del
locale preesistente, necessitava di Concessione Edilizia;
peraltro non rilasciabile in quanto l'ampliamento è
realizzato su suolo privato adiacente all'esercizio, che non
ha indice di edificabilità».
Il Comune ritiene che il manufatto non si possa definire
“gazebo” in quanto è ancorato al muro di prospetto e
utilizzato come ambiente adibito alla ristorazione, aperto
al pubblico con carattere permanente venendo così a mancare
il requisito di precarietà e costituendo, pertanto, un
ampliamento dell'unità immobiliare che richiede il relativo
titolo autorizzatorio.
La società appellante, già ricorrente, richiamata copiosa
giurisprudenza ritiene, invece, che il manufatto abbia tutte
le caratteristiche della pergotenda, essendo costituita da
una tenda retrattile montata su una struttura fissa in
alluminio anodizzato e che non costituisca intervento di
nuova costruzione, né di ristrutturazione edilizia e,
conseguentemente, non richiede alcun permesso di costruire.
Il Tar nella sentenza appellata ha ritenuto che «il
manufatto realizzato dalla società ricorrente non riveste le
caratteristiche della “pergotenda”, trattandosi di una sala
di ristorazione di metratura non indifferente, pari a circa
mq 40, per giunta allestita su suolo pubblico, in assenza
non solo del titolo edilizio ma anche di relativa
autorizzazione per l’occupazione.
L’opera consiste in una
struttura esterna al locale di ristorazione, ancorata
all’edificio principale ed infissa al suolo, in modo da
assicurare il suo uso stabile e duraturo.
La stessa,
peraltro, è provvista al suo interno di arredo ed è
corredata di impianti tecnologici -elettrico,
d’illuminazione e di climatizzazione– nonché di
pavimentazione, differente da quella preesistente del
marciapiede.
Deve quindi registrarsi una evidente e
significativa modifica della destinazione d’uso degli spazi
esterni, da marciapiede, aperto al transito pubblico, a sala
privata ad uso ristorazione».
Il Tar ha, inoltre, specificato che il carattere precario
di un manufatto vada valutato facendo riferimento non al
tipo di materiali utilizzati per la sua realizzazione, ma
all'uso cui lo stesso è destinato, più specificatamente, per
il Tar, se le opere sono dirette al soddisfacimento di
esigenze stabili e permanenti, va esclusa la natura precaria
dell'opera, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla
tecnica costruttiva applicata. In pratica la precarietà
dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire, postula, infatti, un uso specifico ma
temporalmente limitato del bene scaturente dalla sua
obiettiva ed intrinseca destinazione.
In pratica il Tar ritiene che l’opera in esame abbia tutti
gli elementi per qualificare il manufatto quale opera
stabile, sia per la struttura in sé (che include la
realizzazione di pilastri e travi in ferro, per ancorarla ad
un basamento di calcestruzzo) sia perché idonea ad essere
destinata quale spazio fruibile in via permanente dalla
clientela.
Deve riscontrarsi un’altra discrasia tra quanto ritenuto
dalle parti anche in merito alla natura pubblica o privata
dell’area su cui insiste il manufatto; in quanto
nell’ordinanza impugnata si legge che l’ampliamento è
realizzato su suolo privato adiacente all’esercizio, mentre
nella sentenza impugnata si ritiene che sia stata realizzata
sul marciapiede prospiciente l’attività della società
ricorrente, lamentando addirittura una evidente e
significativa modifica della destinazione d’uso degli spazi
esterni, da marciapiede, appunto, aperto al transito
pubblico, a sala privata ad uso ristorazione.
La difesa del Comune nel proprio controricorso evidenzia che
nel caso di specie la struttura modifica in modo
significativo la destinazione d’uso degli spazi esterni: da
marciapiede aperto al pubblico a sala privata di
ricevimento.
8.1. Con i motivi di appello che possono essere trattati
congiuntamente l’appellante ritiene l’erroneità della
sentenza per non aver dichiarato l’ordinanza impugnata
illegittima per violazione dell’art. 6 del d.P.R. n.
380/2001, si come recepito dalla l.r. n. 16/2016, che
all’art. 3 elenca gli interventi che vanno eseguiti senza
alcun titolo abilitativo, specificando alla lett. r)
«l’installazione di pergolati e pergotende a copertura di
superfici esterne a servizio di immobili regolarmente
assentiti o regolarizzati sulla base del titolo abilitativo
in sanatoria» e come anche condiviso dal Comune con la
delibera di giunta municipale n. 173 del 02.09.2016
che ha fatto proprio il contenuto del suddetto articolo 3.
Inoltre la società lamenta anche eccesso di potere per
carenza d’istruttoria e travisamento dei fatti.
8.2. Il Collegio ritiene che nessuna occupazione del suolo
pubblico con conseguente modifica della destinazione d’uso
(da marciapiede a uso esclusivo dell’attività di
ristorazione) la società appellante abbia concretizzato
mediante la realizzazione del manufatto in oggetto.
Ciò può essere serenamente affermato, non solo, a seguito di
un’attenta lettura dell’ordinanza impugnata in primo grado
che specifica che l’ampliamento è realizzato su suolo
privato adiacente all’esercizio, ma anche, da quanto risulta
dalla relazione tecnica, redatta dall’Arch. M.Pa. su
incarico della società ricorrente, che ben spiega che i
locali in cui la società svolge la propria attività
risultano arretrati rispetto al marciapiede comunale per
mezzo di uno spazio, di proprietà esclusiva dell’immobile di
piano terra, profondo 6,20 metri e largo quanto il fronte
del locale, spazio diversamente pavimentato rispetto al
marciapiede.
8.3. Secondo la condivisibile giurisprudenza «(i)n materia
edilizia, gli estremi per la sussumibilità di un manufatto
nella categoria della pergotenda, caratterizzata dal regime
di c.d. edilizia libera, si individuano nel fatto che
l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé,
ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o
dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la
struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della
tenda» (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.02.2021, n. 1207 e Sez. VI,
05.10.2018, n. 5737).
In particolare la giurisprudenza, consolidatasi sul punto,
ha ritenuto che la "pergotenda":
1) dal punto di vista fattuale, sia una struttura destinata
a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità
abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine,
quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque,
non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione,
piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione
dello spazio esterno, stabile e duraturo;
2) sotto il profilo giuridico, l’installazione di una
pergotenda -tenuto conto della sua consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della suindicata funzione
caratterizzante- non è un'opera edilizia soggetta al previo
rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del
combinato disposto degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n.
380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di
costruire gli «interventi di nuova costruzione», che
determinano una «trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio»; ne consegue che una struttura leggera destinata
ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, secondo
la configurazione standard propria delle pergotende, non
integra tali caratteristiche;
3) per poter configurare una struttura come “pergotenda”,
occorre che la res principale sia costituita, da una tenda,
quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti
atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che
la struttura di supporto -per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di
titolo abilitativo- deve qualificarsi in termini di mero
elemento accessorio, necessario, per l’appunto, al sostegno
e all'estensione della tenda; in altri termini, il sostegno
della tenda deve consistere in elementi leggeri di sezione
esigua, eventualmente imbullonati al suolo (purché
facilmente disancorabili);
4) la tenda poi, per essere considerato elemento di una "pergotenda"
(e non considerarsi una "nuova costruzione"), deve essere
realizzata in un materiale retrattile, onde non presentare
caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Infatti, la copertura e la chiusura perimetrale che essa
realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e
permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda,
«(o)nde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso
stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo
edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o
superficie»;
5) inoltre, l'elemento di copertura e di chiusura deve
essere costituito da una tenda di un materiale, privo di
quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che
possano connotarlo in termini di componenti edilizie di
copertura o di tamponatura di una costruzione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 01.07.2019, n. 4472;
Consiglio di Stato, sez. II, 28.01.2021, n. 840; Tar
per il Lazio, sede di Roma, sez. II-quater, 22.12.2017, n. 12632);
6) infine, il Consiglio di Stato, Sez. II, 04.05.2022, n.
3488 ha chiarito che «L'elemento differenziale della
cosiddetta "pergotenda", rispetto a una mera tenda
retrattile, è individuabile non nell'esistenza di una
struttura di supporto, laterale o frontale, rigida e leggera
(solitamente in alluminio) a sostegno del telo, sé
necessaria a mantenere in tensione ogni tenda esposta al
vento, bensì nell'esistenza di una serie di profili rigidi
(nella prassi c.d. "frangitratta"), distanziati loro di
circa 50-100 centimetri, aventi la specifica funzione di
dare alla copertura maggior resistenza strutturale alla
formazione di sacche d'acqua o al carico nevoso accidentale
(altresì consentendone la chiusura "a pacchetto", anziché a
rullo), tanto da consentirne l'utilizzo a copertura di
superfici notevolmente più ampie».
In pratica «(l)a pergotenda consiste tipicamente in una
struttura leggera, diretta precipuamente a soddisfare
esigenze che, seppure non precarie, risultano funzionali
(solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di
un'unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini, poiché
essenzialmente finalizzate ad attuare una protezione dal
sole e dagli agenti atmosferici» (cfr., ex multis, Consiglio
di Stato, sez. VI, 25.01.2017 n. 306; Tar per il
Lazio, sede di Roma, sez. II-bis, 03.02.2020, n. 1439).
Passando, ora, ad analizzare la fattispecie oggetto di
gravame alla luce della sopra richiamata giurisprudenza,
deve ritenersi che dalla documentazione prodotta dalle
parti, ivi compresa quella fotografica, emerge che la
struttura realizzata presenta le riferite caratteristiche
individuate in giurisprudenza come parametro per la
riconducibilità di un’opera al novero degli interventi di
edilizia tout court libera (ossia senza oneri di previa
comunicazione dell'installazione all'autorità comunale).
Il manufatto realizzato dalla società appellante, infatti,
risulta utilizzato per le finalità proprie della pergotenda,
e cioè come elemento di protezione dal sole, dagli agenti
atmosferici, funzionale a una migliore fruizione dello
spazio esterno di un immobile, gli elementi verticali sono
in alluminio anodizzato scatolare che alla base sono
tassellati alla pavimentazione, mediante una piastra
bullonata alla pavimentazione esistente (e non ancorata ad
un basamento di calcestruzzo come erroneamente ritenuto in
sentenza) mentre la tenda è tassellata al prospetto.
La struttura siffatta ben può essere considerata puro
elemento accessorio e necessario al sostegno della tenda di
copertura, gli elementi verticali in alluminio presenti non
snaturano la natura della pergotenda, atteso che
«L'installazione di una tenda retrattile montata su una
struttura fissa in alluminio anodizzato (pergotenda) non
costituisce intervento di nuova costruzione, né di
ristrutturazione edilizia, e, conseguentemente, non richiede
il permesso di costruire» (Cons. Stato Sez. VI, 25/01/2017,
n. 306; Cons. Stato Sez. VI, 27/04/2016, n. 1619).
8.4. Tra l’altro la struttura in discorso può essere
annoverata tra le opere “precarie” che consentono di
chiudere terrazze e verande, disciplinate in Sicilia
dall’art. 20 della l.r. n. 4/2003, secondo cui «(i)n deroga
ad ogni altra disposizione di legge, non sono soggette a
concessioni e/o autorizzazioni né sono considerate aumento
di superficie utile o di volume né modifica della sagoma
della costruzione la chiusura di terrazze di collegamento
oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la
copertura di spazi interni con strutture precarie, ferma
restando l'acquisizione preventiva del nulla osta da parte
della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali nel
caso di immobili soggetti a vincolo».
La struttura
realizzata dall’appellante ha una superficie di 39 metri
quadrati circa ed è precaria (nel senso indicato dai pareri
n. 771 del 03.09.2015, n. 105 dell’01.04.2020 e n. 256
del 25.05.2022, espressi dalle Sezioni riunite di questo CGA), essendo ancorata al suolo e non fissata con opere
cementizie non rimovibili se non mediante azioni demolitorie
(e, quindi, è “smontabile”).
9. Infine, la sentenza appellata ha ritenuto che il
carattere precario di un manufatto deve essere valutato non
con riferimento al tipo di materiali utilizzati per la sua
realizzazione, ma con riguardo all'uso cui lo stesso è
destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al
soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve
escludersi la natura precaria dell'opera, a prescindere dai
materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata.
Sul punto la società appellante ha eccepito altra erroneità
della decisione appellata, in quanto la pergotenda proprio
perché caratterizzata da una struttura leggera e rimovibile,
è diretta a soddisfare esigenze funzionali ad una migliore
vivibilità degli spazi esterni di unità preesistenti anche
se non precarie; in ogni caso l’assunto della destinazione
stabile del manufatto ad attività di ricezione della
clientela non risulta provato né in corso di istruttoria
amministrativa condotta dal Comune né in corso del giudizio
di primo grado.
L’appellante rileva che dall'esame del fascicolo della
amministrazione, visionato a seguito di istanza di accesso
agli atti, risulta che l’unico elemento su cui si fonda tale
assunto del carattere non precario dell’utilizzo del bene
sia dato da alcune foto scattate durante il sopralluogo del
28.10.2016 dalle quali non risulta in alcun modo che vi
fossero clienti e che la pergotenda fosse, quindi,
utilizzata e da altre foto scattate il 10.12.2016 alle
ore 3.00 di notte anche in questo caso non risulta la
presenza di clienti che cenassero all'interno della pergotenda.
Questo Collegio ritiene che "quand’anche dovesse escludersi
la c.d. temporaneità o precarietà, l’opera può essere
ritenuta ugualmente legittima, in quanto la struttura in
esame, ha sempre e comunque carattere pertinenziale e
meramente accessorio rispetto all’immobile cui afferisce, in
quanto non muta il preesistente utilizzo esterno dei luoghi
limitandosi a valorizzarne la fruizione dello spazio privato
adiacente all’immobile, ponendo un riparo temporaneo dal
sole, dalla pioggia, dal vento senza avere la pretesa di
creare un ambiente assimilabile a quello interno, proprio
perché carente di adeguata coibentazione termica e dai
connessi fenomeni di condensazione” (Cons. Stato, Sez. II,
28.01.2021, n. 840; Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2021,
n. 3393).
10. Si ritiene, pertanto, che l’appello possa essere accolto (CGARS,
sentenza 28.03.2024 n. 232 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha spiegato che
- “Non può
riconoscersi natura pertinenziale ad una tettoia di
rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e
che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res
principalis, e che dunque, indipendentemente dall'eventuale
vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa, non
può considerarsi, dal punto di vista urbanistico, sua
pertinenza”; ed ancora
- “Gli interventi consistenti nell'installazione di tettoie o di
altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture accessorie di
protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi
entro coperture volumetriche previste in un progetto
assentito, possono ritenersi sottratti al regime del
permesso di costruire solo ove la loro conformazione e le
loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la
loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da
agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture necessitano del
permesso di costruire quando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
dell'edificio e alle parti dello stesso su cui vengono
inserite o, comunque, una durevole trasformazione del
territorio con correlato aumento del carico urbanistico.
Alle condizioni descritte, infatti, la tettoia costituisce
una nuova costruzione assoggettata al regime del permesso di
costruire”.
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Va condivisa la
giurisprudenza secondo la quale la pergotenda si
caratterizza per essere un’opera precaria dal punto di vista
sia costruttivo, sia funzionale, avente dimensioni contenute
e non comportante l’aumento di unità immobiliari, la
modifica del volume, della sagoma, dei prospetti e/o delle
superfici, ovvero mutamenti della destinazione d'uso.
Deve essere quindi finalizzata alla protezione dal sole e
dagli agenti atmosferici, alla migliore fruizione dello
spazio esterno dell’unità abitativa quale mero elemento
accessorio e di arredo.
Strutturalmente deve essere costituita da struttura leggera
e amovibile, caratterizzata da elementi in metallo o in
legno di esigua sezione, coperta da telo anche retrattile,
stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola
trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di
qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati
tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo
smontaggio e non per demolizione.
---------------
A. Con atto notificato il 06.07.2023 e depositato il 2
agosto seguente, -OMISSIS- in proprio e nella qualità di
socia e amministratrice della società che gestisce il
ristorante-pizzeria denominato -OMISSIS-, all’interno del
cortile del fabbricato sito in via -OMISSIS- ha impugnato al
fine dell’annullamento previa sospensione cautelare,
l’ordinanza -OMISSIS-, notificata in data 08.05.2023, con
la quale il Comune di Niscemi le ha ingiunto la demolizione
e il ripristino dello stato dei luoghi con riguardo alle
opere realizzate in assenza di permesso di costruire in zona
A2 Centro storico, consistenti in una “struttura in metallo
bullonata a suolo e alle pareti laterali, la quale risulta
ancorata e chiusa dai due lati con pareti dell'edificio
circostante mentre gli altri due lati risultano chiusi con
tende scorrevoli PVC, l’ingresso a tale struttura è
consentito attraverso due porte in metallo e vetro, la
copertura è realizzata in metallo e telo PVC, motorizzata
per chiusura e apertura; la restante parte del cortile
risulta chiuso da una copertura leggera in policarbonato e
metallo ancorato al muro esterno prospiciente lungo la
-OMISSIS-.
Le dimensioni di detta struttura risultano mt. 7.00
x 15.80 mt, con tetto a falda per un’altezza max di 3.90 mt
ed altezza min di circa 2.60 mt. L’area all’interno della
struttura risulta attrezzata con tavoli e sedie per un
numero di circa 80 coperti, con impianti di climatizzazione
e un bancone adibito a bar.”
...
B. Il ricorso è infondato.
Nel caso di specie, non è in discussione che l’istallazione
di una pergotenda sia astrattamente inquadrabile tra
l’attività di edilizia libera di cui all’art. 3 della L.R.
Sicilia n. 16/2016 che, alla lett. r), indica tra gli
interventi non necessitanti di titolo edilizio: “r)
l'installazione di pergolati, pergotende ovvero gazebi
costituiti da elementi assemblati tra loro di facile
rimozione a servizio di immobili regolarmente assentiti o
regolarizzati sulla base di titolo abilitativo in
sanatoria”, bensì se la struttura de qua sia in concreto
qualificabile come pergotenda e dunque assoggettabile al
relativo regime edilizio.
La descrizione dell’opera contenuta nel provvedimento
impugnato appare conforme alla documentazione fotografica
probatoria esibita dal Comune di Niscemi che non lascia
adito a dubbi in ordine alla natura degli elementi
costruttivi, dei materiali utilizzati e delle dimensioni
della struttura in metallo pari a 7 metri per 15,80 metri,
con tetto a falda per un’altezza massima di 3,90 metri e
altezza minima di circa 2.60 metri che appare stabilmente
ancorata al suolo e addossata su due lati alle pareti
dell’edificio circostante, mentre l’elemento della tenda in
PVC è presente soltanto sui restanti due lati perimetrali,
sui quali sono presenti porte realizzate in metallo e vetro
ossia materiali non leggeri e non facilmente amovibili.
Tenuto conto della sua consistenza e articolazione
strutturale, nonché della sua destinazione funzionale, essa
appare non precaria e idonea a creare un nuovo volume;
inoltre, appare visibile dalla via pubblica alterando il
prospetto e la sagoma del fabbricato; sempre sotto il
profilo funzionale, lo spazio chiuso ricavato dalla
struttura è l’area in cui è gestita stabilmente l’attività
di erogazione dei pasti per n. 80 coperti e non già uno
spazio pertinenziale ove, occasionalmente, viene
intrattenuta la clientela.
Ne consegue che l’unico elemento riconducibile alla
tipologia della pergotenda è la copertura retraibile e
motorizzata che, tuttavia, in ragione delle dimensioni,
delle caratteristiche e delle finalità della struttura nel
suo complesso non può essere considerato sufficiente per
condividere la definizione giuridica prospettata da parte
ricorrente.
La giurisprudenza ha infatti spiegato che “Non può
riconoscersi natura pertinenziale ad una tettoia di
rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e
che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res
principalis, e che dunque, indipendentemente dall'eventuale
vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa, non
può considerarsi, dal punto di vista urbanistico, sua
pertinenza” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 03/11/2022, n.
9656); ed ancora: “Gli interventi consistenti
nell'installazione di tettoie o di altre strutture analoghe
che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici
come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime del permesso di costruire solo ove la
loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono
evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di
riparo e protezione (anche da agenti atmosferici)
dell'immobile cui accedono; tali strutture necessitano del
permesso di costruire quando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
dell'edificio e alle parti dello stesso su cui vengono
inserite o, comunque, una durevole trasformazione del
territorio con correlato aumento del carico urbanistico.
Alle condizioni descritte, infatti, la tettoia costituisce
una nuova costruzione assoggettata al regime del permesso di
costruire” (v. TAR Campania, Salerno, II, 15/03/2021, n.
658; conforme, TAR Campania, Napoli, IV, 14.05.2020,
n. 1802).
Va perciò condivisa, riguardo al caso di specie, la
giurisprudenza citata secondo la quale la pergotenda si
caratterizza per essere un’opera precaria dal punto di vista
sia costruttivo, sia funzionale, avente dimensioni contenute
e non comportante l’aumento di unità immobiliari, la
modifica del volume, della sagoma, dei prospetti e/o delle
superfici, ovvero mutamenti della destinazione d'uso; deve
essere quindi finalizzata alla protezione dal sole e dagli
agenti atmosferici, alla migliore fruizione dello spazio
esterno dell’unità abitativa quale mero elemento accessorio
e di arredo; strutturalmente deve essere costituita da
struttura leggera e amovibile, caratterizzata da elementi in
metallo o in legno di esigua sezione, coperta da telo anche
retrattile, stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola
trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di
qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati
tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo
smontaggio e non per demolizione (TAR Sicilia-Palermo, Sez.
IV,
sentenza 26.03.2024 n. 1087 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Campi
da padel come nuove costruzioni.
La realizzazione di un campo di padel, così come la conversione di un campo
da tennis in un campo da padel, costituisce una «nuova costruzione», per la
cui realizzazione è necessario il permesso di costruire.
Lo ha affermato la III Sez. penale della Corte di Cassazione che con la
sentenza 22.03.2024 n. 11999 dichiarando
inammissibile un ricorso ha condannato il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
Il caso trae origine da un'ordinanza del tribunale del riesame di Palermo
che rigettava la richiesta di riesame avanzata dalla difesa dell'imputato
avverso il decreto di sequestro preventivo di due campi da «padel»
realizzati in Cefalù in zona vincolata paesaggisticamente e sismicamente e
con destinazione d'uso «verde agricolo», in relazione all'imputazione
di cui all'articolo 44 dpr 380/2001.
La Suprema corte non ha condiviso i diversi profili di doglianza articolati
dal ricorrente coi due motivi di ricorso. Il collegio ha evidenziato come il
regime autorizzativo relativo alla realizzazione di campi di padel non è
quello invocato dal ricorrente.
Osserva la Corte, infatti, che la realizzazione di un campo di padel
costituisce intervento che, per le sue caratteristiche complessive,
connotate per l'installazione su apposita superficie, funzionale alla
peculiare attività sportiva, di carpenteria e lastre di vetro perimetrali,
incide sul territorio in termini di modifica del medesimo, e come tale
rientra nel novero degli «interventi di nuova costruzione» di cui
all'art. 3, lett. e), dpr 06.06.2001, n. 380.
Si tratta di rilievi secondo i quali il dpr n. 380 del 2001, art. 3, comma
1, lett. e), assoggetta a permesso di costruire non soltanto le attività di
edificazione, ma anche altre attività che, pur non integrando interventi
edilizi in senso stretto, comportano comunque una modificazione permanente
dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un
impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione
naturale ed alla sua qualificazione giuridica.
Inoltre, secondo la Corte la circostanza secondo cui, come nel caso di
specie, i campi di padel vadano a sostituire dei preesistenti campi da
tennis, è ininfluente.
Invero, il collegio ha condiviso quella giurisprudenza amministrativa (Tar
Sicilia, sez. 2, sent. n. 265/2021), secondo cui la realizzazione dei campi
di padel, essendo una trasformazione edilizia del terreno (stante la
realizzazione di un'opera di scavo e di un basamento in calcestruzzo in
grado di incidere in modo definitivo sulla permeabilità del suolo), non può
essere compatibile con la destinazione a zona agricola del terreno ospitante
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cassazione: per realizzare un campo da padel serve il permesso di
costruire.
Il principio vale anche se si tratta di trasformare un preesistente impianto
dedicato al tennis.
Serve il permesso di costruire per realizzare un campo da padel. Dopo la
giustizia amministrativa a ribadire il principio arriva anche la Corte di
Cassazione.
Con la
sentenza 22.03.2024 n. 11999 i giudici della
Suprema hanno respinto il ricorso presentato dal proprietario contro il
sequestro di due impianti realizzati sulla base di una semplice Scia in una
zona a vincolo paesaggistico e destinata a verde agricolo (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.03.2024).
---------------
SENTENZA
3. Limitato, pertanto, lo scrutinio alla sola violazione di legge,
il primo motivo di ricorso è
manifestamente infondato.
3.1. Preliminarmente, occorre evidenziare ai sensi dell'art. 3, comma 1,
lettera d), del testo
unico dell'edilizia, si configurano come interventi di ristrutturazione
edilizia quelli volti a
trasformare gli organismi edilizi per mezzo di un insieme di opere che
possono portare ad un
organismo diverso (tutto o in parte) da quello precedente.
Questi interventi comprendono:
- il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio;
- l'eliminazione/la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
- la demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma,
prospetti, sedime e
caratteristiche planivolumetriche e tipologiche;
- il ripristino di edifici (o parti di essi) crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione,
purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Tutti gli interventi che ricadono nella definizione di ristrutturazione
appena esplicitata, ma
che non rientrano negli interventi subordinati a permesso di costruire (art.
10, comma 1, lett.
c), configurano la c.d. «ristrutturazione edilizia leggera».
L'articolo 10, comma 1, lettera c), del testo unico, a sua volta, prevede
che siano sottoposti
a permesso di costruire c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che
portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui
comportino anche modifiche
della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle
zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli
interventi che
comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli
edifici o dei prospetti
di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del
paesaggio di cui al
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e, inoltre, gli interventi di
ristrutturazione edilizia che
comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree
tutelate ai sensi degli articoli
136, comma 1, lettere c) e d), e 142, del medesimo codice di cui al decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle
medesime aree, in entrambi
i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del
sedime o delle
caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente
oppure siano previsti
incrementi di volumetria.
Per gli interventi di ristrutturazione edilizia «leggera» è necessaria la
presentazione della
SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) ai sensi dell'art. 22
D.P.R. 380/2001, la cui
assenza è sottoposta a sanzione amministrativa (ex art. 37 d.P.R. 380/2001).
Viceversa, per gli interventi di ristrutturazione edilizia «pesante» (art.
10, c. 1, lettera d), e 10,
c. 1, lettera c), e gli interventi di «nuova costruzione» (art. 3, c. 1, lettera
e), e 10, c. 1, lettera a), è
richiesto il permesso di costruire.
3.2. Ciò premesso, il Collegio evidenzia come il regime autorizzativo
relativo alla
realizzazione di campi di Padel non sia quello invocato dal ricorrente.
Si è infatti chiarito (Sez. 3, n. 41182 del 20/10/2021, Morello, n.nn.,
richiamata anche
dall'ordinanza impugnata) che la realizzazione di un campo di padel
costituisce intervento che,
per le sue caratteristiche complessive, connotate per l'installazione su
apposita superficie,
funzionale alla peculiare attività sportiva, di carpenteria e lastre di
vetro perimetrali, incide sul
territorio in termini di modifica del medesimo, e come tale rientra nel
novero degli «interventi di
nuova costruzione» di cui all'art. 3, lett. e), D.P.R. 06.06.2001, n.
380.
Si tratta di rilievi conformi al consolidato insegnamento di legittimità
secondo il quale il d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e), assoggetta attualmente a
permesso di costruire non
soltanto le attività di edificazione, ma anche altre attività che, pur non
integrando interventi
edilizi in senso stretto, comportano comunque una modificazione permanente
dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego
diverso da quello che gli
è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua
qualificazione giuridica (cfr. Sez.
3, n. 28457 del 30/04/2009 Rv. 244569 - 01; Sez. 3, n. 14044 del 22/03/2005
Rv. 231522 -
01.).
3.3. Tale impostazione è conforme a quella della giurisprudenza
amministrativa, che, sia
pure non nella sua massima composizione, ha avuto recentemente modo di
confrontarsi con la
tematica, divenuta pressante in ragione della crescente popolarità dello
sport in questione.
TAR Piemonte, sez. 2, n. 223 del 08/03/2023 (dep. 13/03/2023), ad esempio,
ha chiarito
che le opere in questione hanno caratteristiche tali da comportare una
«trasformazione
significativa e permanente del territorio», risultando quindi soggette al
preventivo rilascio di
apposito titolo edilizio, nonché all'acquisizione dell'apposita
autorizzazione paesaggistica e
sismica.
Del pari, TAR Lazio, n. 607 del 24/07/2023, ha affermato che
la
realizzazione di un impianto
sportivo in zona agricola configura violazione dell'art. 44, lett. b), DPR 06.06.2001, n. 3804, in
considerazione del fatto che la realizzazione di strutture sportive è
consentita su aree destinate
ad attività sportiva, con la presentazione di SUA, ma senza creazione di
volumetria e comunque
mai nelle zone aventi destinazione agricola.
3.4. Va doverosamente aggiunto che la circostanza secondo cui, come nel
caso di specie, i
campi di padel vadano a sostituire dei preesistenti campi da tennis, è
ininfluente.
Ed infatti, il Collegio condivide e ribadisce quella giurisprudenza
amministrativa (TAR Sicilia,
sez. 2, sent. n. 265 del 08/10/2021, dep. 22/11/2021), secondo cui
la
realizzazione dei campi
di padel, essendo una trasformazione edilizia del terreno (stante la
realizzazione di un'opera di scavo e di un basamento in calcestruzzo in
grado di incidere in modo definitivo sulla permeabilità
del suolo), non può essere compatibile con la destinazione a zona agricola
del terreno ospitante.
Nella circostanza, i giudici amministrativi hanno evidenziato che
i campi di padel si
differenziano dai campi da tennis e da calcio in quanto, mentre in questi
ultimi occorre un mero
movimento terra, senza mutare le caratteristiche originarie di permeabilità
del suolo, per la
realizzazione dei campi di padel è necessaria la realizzazione di un
massetto di cemento (di circa
10/12 cm) ove allocare il tappeto in fibra sintetica e la posa in opera
delle barriere in vetro
temperato (alte oltre 3 mt.).
Va pertanto espresso i l principio secondo cui la realizzazione di un campo
di padel, così come
la conversione di un campo da tennis in un campo da padel, costituisce una
«nuova costruzione»,
per la cui realizzazione è necessario il permesso di costruire.
3.5. La motivazione addotta dal Tribunale del riesame -secondo cui
l'intervento edilizio
necessitava di permesso di costruire poiché, «per le sue caratteristiche
complessive, connotate
per l'installazione su apposita superficie, funzionale alla peculiare
attività sportiva, di carpenteria
e lastre di vetro perimetrali, incide sul territorio in termini di modifica
del medesimo, e come tale
rientra nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art.
3, lett. e), D.P.R. 06.06.2001, n. 380»- è pertanto conforme alla giurisprudenza della Corte, e non
può quindi dirsi né apparente, né adottata in violazione di legge (Corte di
Cassazione,
III Sez. penale,
sentenza 22.03.2024 n. 11999). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati paesaggistici, l'accertamento in fatto della riconducibilità degli
interventi eseguiti in area sottoposta a vincolo paesaggistico nel novero di
quelli non soggetti ad
autorizzazione, di cui all'allegato A al d.P.R. 13.02.2017, n. 31, o
di quelli di lieve entità
sottoposti a procedimento autorizzatorio semplificato, di cui all'allegato B
del citato d.P.R., deve
essere condotto attenendosi ad un'interpretazione logico-sistematica di
carattere finalistico delle
disposizioni regolamentari, valevole a determinare l'applicazione delle
disposizioni derogatorie
previste dal decreto in oggetto ai soli interventi di lieve entità, tali
essendo quelli che, per
tipologia, caratteristiche e contesto in cui si inseriscono, non sono idonei
a pregiudicare i valori paesaggistici tutelati dal vincolo.
La regola generale di cui all'art. 146 d.lgs. 42/2004 (codice dei beni
culturali e del
paesaggio), che prescrive che ogni intervento che comporti modificazioni o
rechi pregiudizio
all'aspetto esteriore delle aree vincolate e soggetto al previo
dell'autorizzazione paesaggistica,
consacrata in una fonte di rango primario, non può certamente essere
derogata da una fonte di
rango secondario, quale è il suddetto regolamento n. 31 del 2017, che è di
attuazione e non di
delegificazione, e dunque non può liberalizzare interventi che per la norma
di rango primario
sono assoggettati ad autorizzazione.
Ne consegue che l'accertamento, in
punto di fatto, della riconducibilità degli interventi eseguiti in area
sottoposta a vincolo nel novero di quelli non
soggetti ad autorizzazione (cioè quelli di cui all'elenco allegato sub A
al citato d.P.R. 31/2017)
o di quelli di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio
semplificato (di cui all'elenco
allegato sub B del medesimo regolamento), deve essere condotto attenendosi a
una
interpretazione logico sistematica di carattere finalistico delle
disposizioni del regolamento.
---------------
Secondo il costante orientamento di questa Corte, il
rilascio postumo
dell'autorizzazione paesaggistica al di fuori dei limiti in cui essa è
consentita ai sensi dell'art.
167, commi 4 e 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente la sanatoria
urbanistica ex art.
36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e non produce alcun effetto estintivo dei
reati edilizi né preclude
l'emissione dell'ordine di rimessione in pristino dell'immobile abusivo
edificato in zona vincolata.
Poiché l'autorizzazione paesaggistica, secondo l'art. 146, comma 4, del
d.lgs. 42 del 2004,
costituisce un atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire
o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, lo stesso permesso di
costruire resta subordinato al
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica la quale, però, sempre secondo la
norma richiamata,
non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione,
anche parziale, degli
interventi, tranne nei casi dei c.d. «abusi minori», tassativamente
individuati dall'art. 167,
commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004.
Parimenti, si è altresì affermato che il rispetto del requisito della
conformità delle opere sia
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
realizzazione che a quella vigente
al momento della presentazione della domanda di regolarizzazione (cd.
«doppia conformità»),
richiesto ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex
artt. 36 e 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è da ritenersi escluso nel caso di edificazioni eseguite in
assenza del preventivo ottenimento dell'autorizzazione sismica.
Inoltre, il permesso di costruire, eventualmente rilasciato (nei limiti di
cui si è detto) a
seguito di accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n.
380), estinguerebbe i
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non
estingue, invece, i reati
disciplinati dalla normativa antisismica e sulle opere in conglomerato
cementizio.
---------------
3.6. Del resto, il rilevante impatto dell'intervento edilizio in parola va
riferito non solo al
profilo urbanistico, ma anche a quello paesaggistico.
3.6.1. Premesso che è incontestata l'esistenza del vincolo paesaggistico (e
la Corte ignora a
che titolo sarebbe stato ottenuto il "nulla-osta" paesaggistico invocato dal
ricorrente), va ribadito
il principio per cui, in tema di reati paesaggistici, l'accertamento in
fatto della riconducibilità degli
interventi eseguiti in area sottoposta a vincolo paesaggistico nel novero di
quelli non soggetti ad
autorizzazione, di cui all'allegato A al d.P.R. 13.02.2017, n. 31, o
di quelli di lieve entità
sottoposti a procedimento autorizzatorio semplificato, di cui all'allegato B
del citato d.P.R., deve
essere condotto attenendosi ad un'interpretazione logico-sistematica di
carattere finalistico delle
disposizioni regolamentari, valevole a determinare l'applicazione delle
disposizioni derogatorie
previste dal decreto in oggetto ai soli interventi di lieve entità, tali
essendo quelli che, per
tipologia, caratteristiche e contesto in cui si inseriscono, non sono idonei
a pregiudicare i valori
paesaggistici tutelati dal vincolo (Sez. 3, n. 36545 del 14/09/2022,
Montinaro, Rv. 284312 - 01).
La regola generale di cui all'art. 146 d.lgs. 42/2004 (codice dei beni
culturali e del
paesaggio), che prescrive che ogni intervento che comporti modificazioni o
rechi pregiudizio
all'aspetto esteriore delle aree vincolate e soggetto al previo
dell'autorizzazione paesaggistica,
consacrata in una fonte di rango primario, non può certamente essere
derogata da una fonte di
rango secondario, quale è il suddetto regolamento n. 31 del 2017, che è di
attuazione e non di
delegificazione, e dunque non può liberalizzare interventi che per la norma
di rango primario
sono assoggettati ad autorizzazione.
Ne consegue che l'accertamento, in
punto di fatto, della riconducibilità degli interventi eseguiti in area
sottoposta a vincolo nel novero di quelli non
soggetti ad autorizzazione (cioè quelli di cui all'elenco allegato sub A
al citato d.P.R. 31/2017)
o di quelli di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio
semplificato (di cui all'elenco
allegato sub B del medesimo regolamento), deve essere condotto attenendosi a
una
interpretazione logico sistematica di carattere finalistico delle
disposizioni del regolamento (Sez.
3, n. 7538 del 11/01/2024, Gervasi, n.m.).
Nel caso in esame, non può che sottolinearsi l'assenza, negli elenchi di cui
ai d.P.R. 31/2017
(relativo alla c.d. autorizzazione paesaggistica «semplificata»), degli
interventi relativi alle
attrezzature sportive, per le richieste relative ai campi di padel, e, più
in generale, per gli impianti
sportivi, evidenzia da cui non può che trarsi la conclusione che ad essi non
si possono applicare
le semplificazioni introdotte dal citato decreto, anche considerando che,
con ogni evidenza, la
realizzazione di tali campi non possa essere considerata di impatto
paesaggistico lieve (All. B) o
lievissimo (All. A) ai sensi del citato decreto, in tal modo confermando la
rilevanza dell'intervento
edilizio.
Peraltro, per quello che può valere, l'interpretazione sostenuta dal
Collegio è anche
corroborata dal Ministero della Cultura - Direzione Generale Archeologia,
Belle arti e Paesaggio
(parere n. 62/2021, allegato al ricorso).
3.6.2. Va poi ricordato che secondo il costante orientamento di questa Corte
(cfr. Sez. 3, n.
3258 del 10/01/2023, Nava, n.m.; Sez. 3, n. 544 del 01/12/2022, dep. 2023,
Morello, n.m.;
Sez. 3, n. 190 del 12/11/2020, dep. 2021, Susana, Rv. 281131 - 01) il
rilascio postumo
dell'autorizzazione paesaggistica al di fuori dei limiti in cui essa è
consentita ai sensi dell'art.
167, commi 4 e 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente la sanatoria
urbanistica ex art.
36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e non produce alcun effetto estintivo dei
reati edilizi né preclude
l'emissione dell'ordine di rimessione in pristino dell'immobile abusivo
edificato in zona vincolata.
Poiché l'autorizzazione paesaggistica, secondo l'art. 146, comma 4, del
d.lgs. 42 del 2004,
costituisce un atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire
o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, lo stesso permesso di
costruire resta subordinato al
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica la quale, però, sempre secondo la
norma richiamata,
non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione,
anche parziale, degli
interventi, tranne nei casi dei c.d. «abusi minori», tassativamente
individuati dall'art. 167,
commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004.
Parimenti, si è altresì affermato che il rispetto del requisito della
conformità delle opere sia
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
realizzazione che a quella vigente
al momento della presentazione della domanda di regolarizzazione (cd.
«doppia conformità»),
richiesto ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex
artt. 36 e 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è da ritenersi escluso nel caso di edificazioni eseguite in
assenza del preventivo
ottenimento dell'autorizzazione sismica (Sez. 3, n. 2357 del 14/12/2022
(dep. 2023), Casà, Rv.
284058. Conf. Sez. 3, n. 41872 del 09/06/2023, Tummolo Rv. 285222, non
massimata sul punto; Sez. 3, n. 18267 del 13/04/2023, Pepe, Rv. 284612, non
massimata sul punto; Sez. 3,
n. 29179 del 16/02/2023, Carceo, n.m.).
Inoltre, il permesso di costruire, eventualmente rilasciato (nei limiti di
cui si è detto) a
seguito di accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n.
380), estinguerebbe i
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non
estingue, invece, i reati
disciplinati dalla normativa antisismica e sulle opere in conglomerato
cementizio (Sez. 3, n.
38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792; Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018,
Cardella, Rv.
274212 - 01), applicabile nel caso di specie stante quanto dianzi
evidenziato.
3.7. Il motivo è, conclusivamente, manifestamente infondato (Corte di
Cassazione,
III Sez. penale,
sentenza 22.03.2024 n. 11999). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le c.d. «circolari
interpretative» hanno natura di atti interni alla pubblica amministrazione,
che non esplicano
alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli
stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con
l'evidenza del dato normativo.
---------------
L'art. 71 d.lgs. 117/2017
(secondo cui «le sedi degli
enti del Terzo settore
e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non
di tipo produttivo, sono
compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto
del Ministero dei lavori
pubblici 02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla
destinazione urbanistica»)
stabilisce il principio della c.d. «indifferenza urbanistica», ossia della
possibilità data agli enti del
terzo settore di usufruire di qualsiasi locale a prescindere dalla sua
destinazione d'uso, per ivi
stabilire la propria sede legale, centro di svolgimento dell'attività
istituzionale.
Per valutarne la portata, occorre partire dal richiamo alle finalità
perseguite dalla legge
delega per la riforma del terzo settore, la n. 106/2016, ed esplicitate
all'art. 1 della medesima.
In particolare, il legislatore, con la riforma del terzo settore, ha voluto,
in attuazione del
principio di "sussidiarietà orizzontale" (art. 118 u.c. Costituzione),
promuovere e favorire le
associazioni private che realizzano attività di interesse generale mediante
forme di azione
volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e
servizi.
È alla luce di tale ratio legis che deve essere interpretata la disposizione
in parola: essa
stabilisce una specifica tutela degli spazi utilizzati dagli enti del terzo
settore per lo svolgimento
delle attività di interesse generale, contro possibili scelte urbanistiche
degli enti locali che
potrebbero incidere negativamente su tali attività.
In altri termini, come già affermato dalla giurisprudenza amministrativa, in
considerazione
della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di
promozione sociale, lo Stato
consente che le relative sedi e i locali adibiti all'attività sociale siano
localizzabili in tutte le parti
del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla
destinazione d'uso edilizio ad
esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo.
Dalle considerazioni svolte, si evince che l'art. 71, comma 1, d.lgs.
117/2017 non è una
disposizione urbanistica «stricto sensu», non avendo a oggetto il governo o
la regolazione del
territorio in sé; si limita piuttosto a prevedere un trattamento speciale in
favore di certe categorie soggetti, non già a disciplinare l'uso del
territorio in quanto tale.
Pertanto, il comma in parola si qualifica come
una norma di natura
derogatoria alla disciplina urbanistica e non come una norma con natura
urbanistica vera e
propria.
Da ciò consegue che la norma in parola facoltizza l'«utilizzo» di beni,
anche se realizzati in
modo difforme alla destinazione urbanistica, consentendo un «temporaneo»
cambio di
destinazione d'uso dei locali in cui si svolgono le attività istituzionali
degli enti del Terzo Settore,
che cesserebbe con il venire meno di uno dei requisiti, ma certamente non
può intendersi nel senso di consentire in via generalizzata «nuove
costruzioni» in assenza del rilascio dell'apposito
titolo edilizio.
La stessa giurisprudenza amministrativa, del resto, riconosce pur sempre
all'amministrazione il potere di vagliare profili inerenti l'aggravio del
carico urbanistico, ovvero
elementi significativi quali la dotazione del titolo edilizio per gli
interventi di trasformazione, o i
requisiti igienico-sanitari.
Inoltre, l'attuale tenore della norma sostituisce alla precedente
definizione (che
genericamente parlava di «attività» senza specificare se vi fosse
distinzione tra quelle di
promozione sociale e quelle «svolte in maniera ausiliaria e sussidiaria» di
cui all'articolo 4, comma
1, lett. f), quella, alquanto più ristretta, di «attività istituzionali
purché non di tipo produttivo»,
escludendone quindi, oltre a queste ultime se a carattere produttivo, anche
le attività «non
istituzionali», che pertanto non potranno beneficiarne anche qualora siano
strumentali alle
prime.
Per le c.d. «imprese sociali», poi, giacché esse esercitano in via stabile e
principale un'attività
di impresa, sia pure di interesse generale, va escluso che si possa definire
l'attività svolta
dall'impresa sociale come «non produttiva» e, per l'effetto, la possibilità
stessa di usufruire
dell'effetto derogatorio stabilito dall'articolo 71 d.lgs. 117/2017.
---------------
4. Il profilo di censura relativo alla presunta appartenenza della società
destinataria
dell'opera al c.d. "terzo settore", è inammissibile.
4.1. In primo luogo, si contesta una motivazione esistente, e quindi il
motivo è inammissibile
ex art. 325 cod. proc. pen..
4.2. In secondo luogo, il motivo è manifestamente infondato per le ragioni
di seguito
indicate.
4.2.1. Il Tribunale del riesame correttamente evidenzia che l'articolo 71 d.lgs. 117/2017
«non può essere inteso come una deroga generalizzata alle disposizioni in
materia di titoli
abilitativi edilizi o come una autorizzazione preventiva a qualsiasi
attività costruttiva eseguita
per iniziativa degli enti del terzo settore, nel quale peraltro la società
che risulta avere l'uso dei
campi neppure rientra, avendo solo inoltrato domanda per l'iscrizione nel
relativo registro».
Come appare evidente, il Tribunale palermitano fonda la sua motivazione su
due ordini di
ragioni: l'impossibilità di intendere la disposizione in parola come deroga
generalizzata all'obbligo
di acquisire il titolo edilizio, e l'assenza (attuale) della qualifica di
ETS (ente del terzo settore) in
capo alla «Eg.Sp. s.r.l.».
4.2.2. Il secondo profilo, che avrebbe già efficacia assorbente, non può in
alcun modo essere
censurato di illogicità, essendo conforme al principio di logica comune
secondo cui, se una attività
è condizionata alla sussistenza di un requisito di tipo oggettivo, non è
sufficiente l'avvio di una
pratica istruttoria per il relativo conseguimento al fine di beneficiare del
regime agevolato, ma è
necessario il possesso attuale del requisito (nel caso di specie, la
qualifica di ETS).
Tale soluzione ermeneutica è anche confortata (pur evidenziandosi che le
c.d. «circolari
interpretative» hanno natura di atti interni alla pubblica amministrazione,
che non esplicano
alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli
stessi destinatari, poiché
non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo; v.
Sez. 3, n. 6619 del 07/02/2012, Zannpano, Rv. 252541; Sez. 3, n. 19330 del 27/04/2011, Santoriello,
non massimata,
con riferimento alla circolare ministeriale n. 2699 del 07.12.2005 in
materia di condono
edilizio; Sez. U, n. 10424 del 18/01/2018, Del Fabro, non massimata sul
punto, in tema di
contributi previdenziali) da quanto stabilito dal Ministero del lavoro e
delle politiche sociali che, nella nota esplicativa nr. 34/17314 del 17.11.2022, afferma che il regime di favor «è
applicabile solo agli enti qualificati nei termini sopra descritti, dal
momento in cui la qualifica è
acquisita e fintanto che essa sussiste».
4.2.3. Quanto al primo profilo, poi, l'articolo in parola («le sedi degli
enti del Terzo settore
e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non
di tipo produttivo, sono
compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto
del Ministero dei lavori
pubblici 02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla
destinazione urbanistica»)
stabilisce il principio della c.d. «indifferenza urbanistica», ossia della
possibilità data agli enti del
terzo settore di usufruire di qualsiasi locale a prescindere dalla sua
destinazione d'uso, per ivi
stabilire la propria sede legale, centro di svolgimento dell'attività
istituzionale.
Per valutarne la portata, occorre partire dal richiamo alle finalità
perseguite dalla legge
delega per la riforma del terzo settore, la n. 106/2016, ed esplicitate
all'art. 1 della medesima.
In particolare, il legislatore, con la riforma del terzo settore, ha voluto,
in attuazione del
principio di "sussidiarietà orizzontale" (art. 118 u.c. Costituzione),
promuovere e favorire le
associazioni private che realizzano attività di interesse generale mediante
forme di azione
volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e
servizi.
È alla luce di tale ratio legis che deve essere interpretata la disposizione
in parola: essa
stabilisce una specifica tutela degli spazi utilizzati dagli enti del terzo
settore per lo svolgimento
delle attività di interesse generale, contro possibili scelte urbanistiche
degli enti locali che
potrebbero incidere negativamente su tali attività.
In altri termini, come già affermato dalla giurisprudenza amministrativa, in
considerazione
della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di
promozione sociale, lo Stato
consente che le relative sedi e i locali adibiti all'attività sociale siano
localizzabili in tutte le parti
del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla
destinazione d'uso edilizio ad
esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo (Cons.
Stato, Sez. 6, n. 3803
del 25/06/2020; TAR Lombardia, Sez. Milano, n. 1269 del 01/07/2020; TAR
Abruzzo, n. 519 del
25/10/2019).
Dalle considerazioni svolte, si evince che l'art. 71, comma 1, d.lgs.
117/2017 non è una
disposizione urbanistica «stricto sensu», non avendo a oggetto il governo o
la regolazione del
territorio in sé; si limita piuttosto a prevedere un trattamento speciale in
favore di certe categorie
soggetti, non già a disciplinare l'uso del territorio in quanto tale (così
Consiglio di Stato, sez. V,
n. 1737 del 10.03.2021).
Pertanto, il comma in parola si qualifica come
una norma di natura
derogatoria alla disciplina urbanistica e non come una norma con natura
urbanistica vera e
propria.
Da ciò consegue che la norma in parola facoltizza l'«utilizzo» di beni,
anche se realizzati in
modo difforme alla destinazione urbanistica, consentendo un «temporaneo»
cambio di
destinazione d'uso dei locali in cui si svolgono le attività istituzionali
degli enti del Terzo Settore,
che cesserebbe con il venire meno di uno dei requisiti, ma certamente non
può intendersi nel senso di consentire in via generalizzata «nuove
costruzioni» in assenza del rilascio dell'apposito
titolo edilizio.
La stessa giurisprudenza amministrativa, del resto, riconosce pur sempre
all'amministrazione il potere di vagliare profili inerenti l'aggravio del
carico urbanistico, ovvero
elementi significativi quali la dotazione del titolo edilizio per gli
interventi di trasformazione, o i
requisiti igienico-sanitari (Consiglio di Stato, sez. 5, n. 1737 del
01/03/2021; Cons. Stato, Sez.
6, n. 7350 del 28/10/2019).
4.2.4. Inoltre, l'attuale tenore della norma sostituisce alla precedente
definizione (che
genericamente parlava di «attività» senza specificare se vi fosse
distinzione tra quelle di
promozione sociale e quelle «svolte in maniera ausiliaria e sussidiaria» di
cui all'articolo 4, comma
1, lett. f), quella, alquanto più ristretta, di «attività istituzionali
purché non di tipo produttivo»,
escludendone quindi, oltre a queste ultime se a carattere produttivo, anche
le attività «non
istituzionali», che pertanto non potranno beneficiarne anche qualora siano
strumentali alle
prime.
Per le c.d. «imprese sociali», poi, giacché esse esercitano in via stabile e
principale un'attività
di impresa, sia pure di interesse generale, va escluso che si possa definire
l'attività svolta
dall'impresa sociale come «non produttiva» e, per l'effetto, la possibilità
stessa di usufruire
dell'effetto derogatorio stabilito dall'articolo 71 d.lgs. 117/2017.
Tale è proprio il caso sussistente nel caso in parola, essendo la «Eg.Sp.» costituita
sotto forma di s.r.l..
Anche in questo caso, la soluzione adottata dal Collegio è corroborata dal
Ministero del lavoro
e delle politiche sociali, che, con nota esplicativa n. 3959 del 22.03.2021 (se pur non rilevante
alla luce della precitata giurisprudenza), giunge alle medesime conclusioni.
Per tutte le ragioni dianzi esposte il motivo è da ritenersi inammissibile
(Corte di Cassazione,
III Sez. penale,
sentenza 22.03.2024 n. 11999). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' ammissibile il sequestro preventivo
di opere costruite
abusivamente anche nell'ipotesi in cui l'edificazione sia ultimata, fermo
restando l'obbligo di
motivazione del giudice circa le conseguenze ulteriori sul regolare assetto
del territorio rispetto
alla consumazione del reato, derivanti dalla libera disponibilità del bene».
Ancora, si è ritenuto che «è
legittimo il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato anche nel
caso di utilizzo
dell'opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto
presenti una
consistenza volumetrica tale da determinare comunque un'incidenza negativa
concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo
dell'aumentata esigenza di infrastrutture e di
opere collettive correlate».
Su tale secondo elemento, invero, «in tema di reati
edilizi, è legittimo il sequestro preventivo di manufatti abusivi realizzati
in area a destinazione
agricola pur se destinati ad attività commerciali, determinando gli stessi
un aggravio, anche se
non rilevante, del carico urbanistico».
---------------
5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
5.1. Questa Corte (Sez. 3, n. 52051 del 20/10/2016, Giudici, Rv. 268812 -
01) ha
reiteratamente espresso l'avviso che «è ammissibile il sequestro preventivo
di opere costruite
abusivamente anche nell'ipotesi in cui l'edificazione sia ultimata, fermo
restando l'obbligo di
motivazione del giudice circa le conseguenze ulteriori sul regolare assetto
del territorio rispetto
alla consumazione del reato, derivanti dalla libera disponibilità del bene»
(nel caso di specie, la
Corte aveva annullato il provvedimento di sequestro di un impianto per la
produzione di energia
eolica sul rilievo che non era stato valutato in concreto se dall'uso
dell'impianto derivasse un
aumento del cosiddetto carico urbanistico).
Ancora, si è ritenuto (Sez. 3, n. 42717 del 10/09/2015, Buono, Rv. 265195 -
01) che «è
legittimo il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato anche nel
caso di utilizzo
dell'opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto
presenti una
consistenza volumetrica tale da determinare comunque un'incidenza negativa
concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo
dell'aumentata esigenza di infrastrutture e di
opere collettive correlate».
5.2. Su tale secondo elemento si è debitamente soffermato il Tribunale del
riesame di
Palermo, laddove ha evidenziato che la realizzazione di un impianto sportivo
su area a
destinazione agricola aumenta proprio il carico urbanistico della zona,
motivazione che si pone
in linea di stretta continuità con la giurisprudenza di questa Corte,
secondo cui «in tema di reati
edilizi, è legittimo il sequestro preventivo di manufatti abusivi realizzati
in area a destinazione
agricola pur se destinati ad attività commerciali, determinando gli stessi
un aggravio, anche se
non rilevante, del carico urbanistico» (Sez. 3, n. 24167 del 05/05/2011,
Longo, Rv. 250965 -
01) (Corte di Cassazione,
III Sez. penale,
sentenza 22.03.2024 n. 11999). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ancora sulla legittimazione ad agire.
--------------
Giustizia amministrativa – Azione di annullamento –
Impugnazioni in genere – Interesse ad agire – Legittimazione
ad agire – Ricorso di un centro sportivo avverso il
provvedimento ampliativo di un comune a favore di un’altra
associazione sportiva – Vicinitas – Esclusione –
Inammissibilità.
È inammissibile il ricorso promosso
da un centro sportivo avverso il provvedimento di un comune
che consente ad un’associazione sportiva la realizzazione di
ulteriori attrezzature rispetto ad altri impianti sportivi
esistenti qualora non si possa ritenere dimostrata la
condizione della vicinitas secondo l’accezione chiarita
dall’Adunanza plenaria n. 22 del 2021 (1).
Il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per ricordare che
esulano dal sindacato amministrativo le scelte politiche del
comune quanto all’implementazione delle attività sportive
nel territorio.
---------------
(1) Precedenti conformi: sulla vicinitas, con riferimento specifico
alla vicinitas urbanistico-edilizia, ma con valore del tutto
generale, fondamentale è: Cons. Stato, Ad. plen.,
09.12.2021, n. 22. Sulla vicinitas commerciale, di recente,
Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2023, n. 11367. Sulla
legittimazione ad agire, C.g.a., 07.11.2022, n. 1150.
Precedenti difformi: non si
segnalano specifici precedenti difformi (CGARS,
sentenza 18.03.2024 n. 218 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
... per la riforma
- della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la
Sicilia Sezione staccata di Catania (Sezione Quarta) n.
-OMISSIS-, resa tra le parti, pubblicata il 11.01.2022, non
notificata, con la quale era accolto il ricorso proposto dal
Centro Sportivo odierno appellato, per l’annullamento: - del
permesso di costruire in sanatoria concesso dal Comune di
Modica con provvedimento n. -OMISSIS- del 03.07.2020;
- e della delibera del C.C. del Comune di Modica n. 61 del
12.11.2020;
...
II – L’appello è fondato.
III – Assume valenza assolutamente preliminare all’esame
dell’appello, l’eccezione formulata già in primo grado dal
Comune. Essa –diversamente da quanto ritenuto dal primo
giudice– è fondata.
Su una questione rimessa da questo Consiglio, con ord.
27.07.2021, n. 759, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, 09.12.2021, n. 22 ha stabilito i seguenti principi,
per quanto d’interesse: “Nei casi di
impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio,
riaffermata la distinzione e l'autonomia tra la
legittimazione e l'interesse al ricorso quali
condizioni dell'azione, è necessario che il giudice accerti,
anche d'ufficio, la sussistenza di entrambi e non può
affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento
di individuazione della legittimazione, valga da solo
ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell'interesse
al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio
derivante dall'atto impugnato.
L'interesse al ricorso correlato al pregiudizio
derivante dall'intervento previsto dal titolo autorizzatorio
edilizio che si assume illegittimo specifico può comunque
ricavarsi dall'insieme delle allegazioni racchiuse nel
ricorso; l'interesse al ricorso è suscettibile di
essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del
processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle
controparti o la questione rilevata d'ufficio dal
giudicante, nel rispetto dell'art. 73, comma 3, cpa”.
Quanto alla vicinitas questo C.G.A. ha chiarito, poi, che:
“Come ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza del
giudice amministrativo "il criterio della
vicinitas che abilita l'imprenditore commerciale concorrente
all'impugnazione di titoli edilizi e autorizzativi con
riferimento alla nozione di unicità o identità del bacino
d'utenza postula la rigorosa dimostrazione di ... un reale
pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione
dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla
situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale
misura il provvedimento impugnato incida la posizione
sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione
concreta, immediata e di carattere attuale e ciò anche in
considerazione dei principi di liberalizzazione che
presidiano il settore
(nello stesso senso dell'esigenza della prova di un
effettivo, concreto e attuale pregiudizio vedi Sez. IV,
25.01.2013, n. 489, nonché Sez. V, 30.11.2012, n. 6113, e
più in generale Sez. IV, 07.05.2015, n. 2324)" (cfr., C.d.S.,
Sez. IV, 24.04.2018, n. 2458).”
Ed ancora: “La questione controversa
afferisce alla tutela del terzo di fronte ad atti ampliativi
della sfera giuridica di altri soggetti, per cui la
legittimazione ad agire postula la titolarità di un
interesse legittimo oppositivo ad impedire
l'attribuzione del bene della vita richiesto da un altro
soggetto.
La legittimazione ad agire nel giudizio
amministrativo, infatti, spetta al titolare della situazione
giuridica sostanziale che si ritiene essere stata
ingiustamente lesa dall'azione amministrativa. per cui
legittimato ad agire è il titolare di una posizione
qualificata e differenzia rispetto alla generalità dei
consociati, non ammettendo l'ordinamento processuale
amministrativo -caratterizzato da una giurisdizione
soggettiva, a tutela di interessi individuali- l'esercizio
di azioni popolari, ad eccezione del rito elettorale.
Pertanto, mentre nell'omologo istituto
processual-civilistico la legittimazione ad agire si
risolve nella mera affermazione dell'attore, nel processo
amministrativo, in giurisdizione generale di legittimità,
occorre la dimostrazione effettiva della titolarità di una
posizione di interesse legittimo.
La differenza risiede nella diversa tipologie di azioni
proponibili, atteso che, nell'azione di accertamento, la
quale costituisce l'archetipo delle azioni proponibili a
tutela del diritto soggettivo, la prospettiva della mera
affermazione è imposta dalla piena sovrapposizione e
coincidenza tra questione sostanziale di merito e questione
processuale, per cui, ove si richiedesse di dimostrare la
titolarità della posizione di diritto soggettivo, non vi
sarebbe spazio per la reiezione del ricorso, in quanto
l'azione potrebbe essere alternativamente fondata o
inammissibile; diversamente, nell'azione di annullamento,
che costituisce l'archetipo delle azioni a tutela di un
interesse legittimo, atteso che non si tratta di
accertare la sussistenza di una posizione giuridica
soggettiva, ma di accertare la legittimità dell'azione
amministrativa con riferimento alle censure proposte, la
verifica dell'esistenza di una legitimatio ad causam assume
un significato giuridico autonomo rispetto al merito della
controversia, non coincidendo l'accertamento della
legittimazione ad agire con la fondatezza nel merito
dell'azione giurisdizionale esercitata.
Di talché, mentre nel processo civile, ai fini della
legittimazione ad agire, è sufficiente affermare che la
posizione giuridica soggettiva abbia subito una lesione, nel
processo amministrativo è necessario verificare che il
ricorrente sia titolare di una posizione giuridica
soggettiva che possa aver subito una lesione illegittima,
mentre l'accertamento della effettiva sussistenza della
illegittimità della lesione attiene al merito della lite
(sul punto, cfr. anche C.d.S., Ad. plen., 09.12.2021, n. 22)”.
(Sentenza 07.11.2022, n. 1150).
Nel caso che occupa, correttamente il primo giudice ha
evidenziato che il ricorso era diretto a “opporsi alla
creazione –per mezzo di provvedimenti ritenuti illegittimi–
di strutture concorrenti, che operano nel medesimo
territorio ed a beneficio della medesima tipologia di utenza”.
Emerge, infatti, che l’originario ricorrente era l’unico
centro sportivo nel territorio sud ovest di Modica. Questi,
in vero, tende attraverso la propria azione a garantire una
posizione di sostanziale predominio, peraltro in un ambito
in cui non può che prevalere il generale principio di
concorrenza.
Il primo giudice ha desunto il presupposto della
vicinitas dalla modesta estensione della città di
Modica, ritenendo che “la “vicinitas” va intesa non come
effettiva prossimità territoriale, ma come vicinanza
potenzialmente idonea ad incidere negativamente
sull’attrazione della clientela”.
Tale assunto appare smentito dalle stesse dichiarazioni
della parte attuale appellata, laddove precisa che la
controinteressata è “l’unica altra struttura sportiva
esistente nella zona sud ovest di Modica, tra questa e
Scicli”. Con ciò ammette che proprio il susseguirsi di
più cittadine nel contesto di cui si verte, in realtà,
amplia la potenziale clientela al di là della stessa
cittadinanza del territorio di Modica.
L’affermazione del primo giudice risulta, dunque, non solo
non contestualizzata con la reale consistenza del territorio
ma anche non corroborata da un’eventuale istruttoria sulla
consistenza del territorio, mentre la distanza di 2 km
esclude, evidentemente, la prossimità (CGARS,
sentenza 18.03.2024 n. 218 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 prevede che:
i) “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi
dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato per
silenzio assenso ai sensi dell’articolo 20, “e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei
con-trointeressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge” (comma 1);
ii) “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di
false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false
o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere
annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del
termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva
l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni
previ-ste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”
(comma 2-bis).
Secondo un maggioritario e preferibile (in quanto più in
linea con il dato letterale della disposizione) orientamento
interpretativo, l’art. 21-nonies deve essere interpretato
nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto
mesi (applicabile ratione temporis; il termine è stato
successivamente ridotto a 12 mesi con le modifiche apportate
dalla l. 108/2021) è consentito:
a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i
presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo,
abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione
penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano
state rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà
necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei suddetti
presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a
titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed
imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile
alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala
fede oggettiva) della parte: nel qual caso –non essendo
parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole
Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica
nella gestione della iniziativa di rimozione– si dovrà
esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per
apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli
opposti interessi in gioco.
---------------
5. Con un secondo motivo, l’appellante ha dedotto
l’erroneità della sentenza impugnata per illogicità della
motivazione, violazione di legge, violazione e falsa
applicazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990,
eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e di
diritto.
In particolare, viene dedotta la violazione dell’art.
21-nonies, L. n. 241/1990, che precluderebbe, ad avviso
dell’appellante, l’annullamento del titolo una volta decorso
il termine di 12 mesi dall’adozione dello stesso.
A sostegno dell’assunto si evidenzia che il muro
rappresentato sarebbe comunque ininfluente ai fini del
rilascio del titolo, atteso che la legittimità
dell’edificazione di un muro di recinzione tra proprietà
divise e la legittimità dell’edificazione del fabbricato
sulla linea di confine scaturirebbero, rispettivamente,
dagli art. 874 del c.c. e ss. e 40 del R.E.C. (la prima) e
dallo studio particolareggiato della zona (la seconda).
5.1. Il motivo non è fondato.
L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 prevede che:
i) “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi
dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato per
silenzio assenso ai sensi dell’articolo 20, “e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei
con-trointeressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge” (comma 1);
ii) “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di
false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false
o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere
annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del
termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva
l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni
previ-ste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”
(comma 2-bis).
Secondo un maggioritario e preferibile (in quanto più in
linea con il dato letterale della disposizione) orientamento
interpretativo, l’art. 21-nonies deve essere interpretato
nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto
mesi (applicabile ratione temporis; il termine è stato
successivamente ridotto a 12 mesi con le modifiche apportate
dalla l. 108/2021) è consentito:
a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i
presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo,
abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione
penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano
state rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà
necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei suddetti
presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a
titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed
imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile
alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala
fede oggettiva) della parte: nel qual caso –non essendo
parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole
Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica
nella gestione della iniziativa di rimozione– si dovrà
esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per
apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli
opposti interessi in gioco (ex pluribus, Cons. Stato, Sez.
II, 05.02.2024, n. 1188; Consiglio di Stato, Sez. II,
29.03.2023, n. 3224; Sez. VI, 21.11.2023 n. 9962; Sez. IV, 18.03.2021, n. 2329; sez. V, 27.06.2018, n.
3940).
Ne discende pertanto l’infondatezza del motivo che fa leva
sul superamento del termine annuale per l’esercizio del
potere di autotutela (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.03.2024 n. 2043 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241,
vigente ratione temporis, stabilisce che
- “Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'art.
21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo art.
21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal
momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui
il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e
tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le
responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo” (comma 1);
- “I
provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di
dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione
delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal
capo VI del testo unico di cui al dPR 28.12.2000, n. 445” (comma 2-bis).
Per costante giurisprudenza, la
costruzione sintattica e l'interpretazione logico-sistematica implicano una chiara distinzione tra
- il caso in
cui il provvedimento sia conseguito in funzione di una mera
“falsa rappresentazione dei fatti” e
- l'ipotesi in cui il
rilascio del provvedimento sia fondato (anche) su
“dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di
notorietà false o mendaci”.
A tale conclusione deve
pervenirsi non tanto e non solo per l'uso della disgiuntiva
“o”, che separa e differenzia le due fattispecie, bensì e
soprattutto perché soltanto alle dichiarazioni e all'atto di
notorietà è riferita la proposizione “false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato”, e solo a queste
ultime, appunto in quanto effetto di condotte costituenti
reato, è ricollegabile il successivo inciso “accertate con
sentenza passata in giudicato”.
Pertanto, qualora, in spregio alla peculiare efficacia
probatoria che è riconosciuta dall'ordinamento alle
dichiarazioni e all’atto di notorietà, esse siano false o
mendaci, al fine di superarne tale efficacia è
imprescindibile l'accertamento in sede penale; diversamente
la mera falsa rappresentazione, che può limitarsi anche al
solo silenzio su circostanze rilevanti o al riferimento solo
parziale delle medesime, si impone nella sua oggettività e
non richiede alcun accertamento processuale penale.
Ne consegue che avendo il Comune contestato la “falsa
rappresentazione dei fatti” (“falsa rappresentazione […]
mediante tecniche di fotoritocco digitale”, e ciò al fine di
indurre il funzionario a considerare l’immobile ad uso
residenziale, condizione essenziale per l’accesso al c.d.
-OMISSIS-: cfr. pag. 4 del provvedimento impugnato), non si
rendeva necessario alcun accertamento penale e, soprattutto,
la contestata “falsa rappresentazione dei fatti” comporta
l’inapplicabilità del rigido termine di dodici mesi per
disporre l’annullamento d’ufficio.
---------------
6. Con il secondo motivo di gravame l’esponente ha
dedotto i vizi di Violazione e falsa applicazione dell’art.
21-nonies della legge n. 241/1990. Violazione dell’art. 1,
comma 2 bis. della legge n. 241/1990 – Violazione del
principio del legittimo affidamento – eccesso di potere per
travisamento dei presupposti.
Per la parte ricorrente, in sintesi, l’art. 21-nonies della
legge n. 241/1990, al fine dell’annullamento in autotutela
di un provvedimento, non ritiene sufficiente l’illegittimità
del provvedimento stesso occorrendo il necessario concorso
di una serie di diversi ed ulteriori requisiti: la
sussistenza di concrete ragioni di interesse pubblico alla
rimozione dell’atto pretesamene illegittimo; il fatto che
l’azione di secondo grado si svolga “entro un termine
ragionevole”; la ponderazione dell’interesse pubblico
all’annullamento con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, anche alla luce del principio di
legittimo affidamento e dell’esistenza di posizioni
consolidate in capo ai privati.
Secondo la deducente, innanzitutto, non sussiste nel caso in
esame il termine ragionevole fissato dall’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990.
Per l’esponente, invero, sebbene il comma 2-bis della
menzionata disposizione preveda un’unica eccezione
all’esercizio del potere di autotutela entro il termine di
dodici mesi nel caso di “false rappresentazioni dei fatti” o
di “dichiarazioni sostitutive mendaci”, ai fini
dell’applicazione della deroga è necessario che le stesse
siano state accertare con sentenza passata in giudicato.
Il Comune resistente, lamenta l’esponente, illegittimamente
e al fine di aggirare il limite temporale normativamente
fissato, è pervenuto alla determinazione dell’annullamento
del permesso di costruire ritenendo in modo arbitrario e
sulla base di mere dichiarazioni rese dal vicino di casa,
che gli originari istanti (sig.ri -OMISSIS-) avrebbero
prodotto una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi
originario, attraverso il deposito di fotografie artefatte
che avrebbero indotto il funzionario dell’epoca a
considerare l’immobile ad uso residenziale e quindi a
consentire l’accesso al c.d. “-OMISSIS-”; tuttavia, osserva
la deducente, ad oggi non sussiste alcuna falsa attestazione
in quanto non risulta provato in maniera inoppugnabile che
la foto in questione non riguardi l’immobile oggetto
dell’intervento di ristrutturazione per il quale è stato
rilasciato il permesso di costruire e, in particolare, non
essendoci alcun accertamento penale in ordine all’asserita
falsificazione, la deroga di cui al comma 2-bis dell’art.
21-nonies della legge n. 241/1990 non è applicabile.
Inoltre, non ricorrerebbe neppure la seconda delle ipotesi
enucleate dalla giurisprudenza per rendere operativa la
deroga e che richiede che l’acclarata erroneità dei
presupposti risulti non imputabile (neanche a titolo di
colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile,
esclusivamente al dolo dell’istante: in particolare, lo
stato di consistenza dell’immobile originario e la sua
destinazione come “residenza agricola” era perfettamente
nota all’UTC del Comune di -OMISSIS- e lo stesso Comune ha
rilasciato ben due varianti con la conseguenza che non si
potrebbe in alcun modo escludere un concorso di colpa da
parte del Comune.
L’amministrazione comunale quindi ben conosceva le vicende
legate all’immobile (i sigg.ri -OMISSIS-
avevano già presentato una richiesta di concessione edilizia
già nel 1984 e successivamente la società -OMISSIS- S.r.l.
aveva presentato un progetto sul medesimo immobile per la
realizzazione di una struttura turistico alberghiera) ed era
nelle condizioni di effettuare approfonditamente e con largo
anticipo le sue valutazioni sull’immobile già prima del
rilascio del permesso di costruire.
Inoltre, per la deducente, è assente nel caso in esame in
esame il canone della ragionevolezza, tenuto conto in primo
luogo del fatto che il provvedimento impugnato non riporta
alcuna motivazione in ordine al bilanciamento tra gli
opposti interessi in gioco e che il Comune ha fondato il
proprio convincimento sulla valutazione unilaterale della
perizia di parte presentata dalla vicina di casa in sede di
avvio del procedimento e conosciuta dalla ricorrente solo
successivamente alla conclusione del procedimento, e dunque
in palese violazione anche del principio del
contraddittorio, senza procedere ad una valutazione e
accertamento autonomo anche sulla base degli allegati
presentati dalla ricorrente e delle perizie giurate
attestanti invece l’uso dell’immobile come residenza
agricola.
Ne consegue, per la parte ricorrente, l’inapplicabilità del
comma 2-bis dell'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 e la
conseguente illegittimità del provvedimento impugnato per
decorso del termine ragionevole fissato dalla norma per
l’esercizio del potere di autotutela.
La parte ricorrente ha altresì dedotto il vizio di Eccesso
di potere per difetto ed incompletezza dell’istruttoria e
della motivazione in relazione all’interesse pubblico e alla
comparazione tra gli interessi in gioco.
Per l’esponente, in sintesi, nel provvedimento impugnato non
viene evidenziata alcuna concreta ragione di interesse
pubblico che possa giustificare l’adozione del provvedimento
di annullamento impugnato, né tanto meno v’è traccia di una
comparazione tra gli interessi contrapposti.
Il potere di autotutela infatti è per sua natura
“discrezionale” e, quindi, frutto di una scelta di
opportunità che deve essere congruamente giustificata in
ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico su quello
antagonista del privato.
Per l’esponente, dunque, alla luce della copiosa
giurisprudenza non v’è chi non veda come il provvedimento
impugnato si appalesi illegittimo in quanto non riporta a
sostegno dell’adozione del medesimo alcuna giustificazione
in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto
e attuale e alla prevalenza dello stesso sull’interesse
contrapposto del privato tenuto conto anche della fase
avanzata in cui si trovano i lavori; ed invero, nessun
interesse pubblico neppure con riferimento all’ordinato
assetto del territorio e alla vivibilità del contesto in
correlazione con gli standard di riferimento può ritenersi
esistente nella specie (e in ogni caso non esplicitato)
considerato che l’immobile oggetto della concessione ricade
peraltro in area urbanizzata e dunque in un contesto
urbanistico al quale l’immobile si adatta perfettamente.
Pertanto, oltre a difettare del tutto l’esternazione delle
ragioni di interesse pubblico e la valutazione motivata
della posizione dei soggetti finali, mancano le ragioni
sostanziali per potere giustificare l’annullamento d’ufficio
del titolo edilizio.
Ed ancora, la parte ricorrente ha dedotto i vizi di Eccesso
di potere per difetto ed incompletezza dell’istruttoria e
della motivazione in relazione comparazione tra gli
interessi in gioco e al legittimo
affidamento.
Per l’esponente, il provvedimento avversato risulta altresì
illegittimo per omesso bilanciamento dei contrapposti
interessi (per il cit. art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 il provvedimento di secondo grado deve tenere
conto “degli interessi dei destinatari e dei controinteressati”).
Nel caso di specie la motivazione del provvedimento
impugnato non contiene alcuna ponderazione dei contrapposti
interessi in gioco e manca del tutto il requisito
rappresentato dalla valutazione motivata della posizione dei
soggetti destinatari del provvedimento.
Per l’esponente, inoltre, il Comune ha escluso
aprioristicamente l’esistenza di un legittimo affidamento
della stessa ricorrente, non considerando in alcun modo che
essa è terzo acquirente di buona fede e che l’eventuale
(inesistente) errata rappresentazione dei presupposti è
imputabile al precedente proprietario al quale è stato
rilasciato il titolo edilizio.
Sempre per la deducente, è stata la stessa condotta del
Comune resistente ad avvalorare in capo alla ricorrente una
posizione di legittimo affidamento, avendo l’Ente locale
rilasciato alla ricorrente ben due varianti rispetto
all’originario permesso di costruire (la prima, datata 22.09.2021 per lo spostamento interno di muri divisori,
la seconda, datata 02.02.2022 per modifiche alla
collocazione del terrazzo antistante il fabbricato): il sol
fatto di aver rilasciato le predette varianti ha ingenerato
nell’esponente la convinzione che il permesso di costruire,
acquisito dai sig.ri -OMISSIS-, fosse perfettamente valido
ed efficace, consolidando di conseguenza il suo interesse
legittimo a godere di un provvedimento ampliativo della sua
sfera giuridica.
Per altro verso, conclude la deducente, non può dirsi
esclusa la responsabilità della P.A. per lesione del
legittimo affidamento in quanto non sussisteva mala fede da
parte della stessa ricorrente né i presunti vizi di
legittimità del provvedimento potevano essere riconoscibili
con l’ordinaria diligenza, a fortiori da una cittadina
americana.
6.1. Il motivo è infondato.
6.1.1. L’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241,
vigente ratione temporis, stabilisce che
- “Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo
21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo
21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal
momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui
il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e
tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le
responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo” (comma 1);
- “I
provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di
dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione
delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal
capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (comma 2-bis).
Per costante giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la
costruzione sintattica e l'interpretazione logico-sistematica implicano una chiara distinzione tra il caso in
cui il provvedimento sia conseguito in funzione di una mera
“falsa rappresentazione dei fatti” e l'ipotesi in cui il
rilascio del provvedimento sia fondato (anche) su
“dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di
notorietà false o mendaci”; a tale conclusione deve
pervenirsi non tanto e non solo per l'uso della disgiuntiva
“o”, che separa e differenzia le due fattispecie, bensì e
soprattutto perché soltanto alle dichiarazioni e all'atto di
notorietà è riferita la proposizione “false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato”, e solo a queste
ultime, appunto in quanto effetto di condotte costituenti
reato, è ricollegabile il successivo inciso “accertate con
sentenza passata in giudicato”.
Pertanto, qualora, in spregio alla peculiare efficacia
probatoria che è riconosciuta dall'ordinamento alle
dichiarazioni e all’atto di notorietà, esse siano false o
mendaci, al fine di superarne tale efficacia è
imprescindibile l'accertamento in sede penale; diversamente
la mera falsa rappresentazione, che può limitarsi anche al
solo silenzio su circostanze rilevanti o al riferimento solo
parziale delle medesime, si impone nella sua oggettività e
non richiede alcun accertamento processuale penale (cfr., ex plurimis,
TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.08.2023,
n. 4826; TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, 23.12.2022,
n. 17518; TAR Campania, Salerno, sez. II, 21.07.2021,
n. 1802; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 02.11.2021, n.
1583).
Ne consegue che avendo il Comune contestato la “falsa
rappresentazione dei fatti” (“falsa rappresentazione […]
mediante tecniche di fotoritocco digitale”, e ciò al fine di
indurre il funzionario a considerare l’immobile ad uso
residenziale, condizione essenziale per l’accesso al c.d.
-OMISSIS-: cfr. pag. 4 del provvedimento impugnato), non si
rendeva necessario alcun accertamento penale e, soprattutto,
la contestata “falsa rappresentazione dei fatti”
comporta l’inapplicabilità del rigido termine di dodici mesi
per disporre l’annullamento d’ufficio (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ stato osservato che l'interesse pubblico
all'eliminazione, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241, di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta
rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà risultata
rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo.
In conclusione, laddove il titolo abilitativo sia stato
ottenuto in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà è consentito
all'amministrazione di esercitare il proprio potere di
autotutela, ritirando l'atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Ed ancora, è stato rilevato che in materia di annullamento
d'ufficio dei titoli edilizi, nei casi in cui l'operato
dell'Amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va
individuato nell'interesse della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica.
Inoltre, è stato condivisibilmente chiarito che
“l’obbligo dell’amministrazione di comparare l’interesse
pubblico alla rimozione dell’atto viziato con quello privato
alla conservazione di esso si affievolisce grandemente per
le ipotesi in cui il vizio è stato cagionato dal
destinatario del provvedimento di primo grado, posto che
tale circostanza elide il rilievo dell’affidamento: in tali
casi è, dunque, l’assoluta forza dell’interesse pubblico
perseguito dall’amministrazione a giustificare il ricorso
all’autotutela decisoria.
Per tale peculiare ipotesi, un
simile affievolimento concerne anche la posizione di
eventuali terzi che abbiano confidato sulla legittimità
dell’atto, poiché, in caso contrario, si permetterebbe a chi
abbia agito con dolo o mala fede oggettiva di consolidare
gli effetti della propria condotta colpevole, infiacchendo
l’interesse pubblico in tal modo compromesso, solo per
effetto del trasferimento a terzi di diritti sulla cosa
oggetto del provvedimento di autorizzazione di primo grado.
La logica dell’autotutela, in altri termini, non può che
adattarsi alla peculiarità della falsa rappresentazione da
cui è stata indotta la patologia provvedimentale, con la
conseguenza che, per tali eccezionali ipotesi, la tutela del
terzo potrà esperirsi sul piano civilistico nei confronti
del dante causa, ma, in linea di principio, apparirà per
definizione recessiva a confronto con l’interesse pubblico”.
Sul punto, va ulteriormente evidenziato che nel caso in cui
la domanda di rilascio del permesso di costruire sia stata
presentata da parte di precedente proprietario dell'area,
l’affidamento legittimo dell'acquirente deve ritenersi
escluso tutte le volte in cui il medesimo abbia comunque
avuto contezza dell’errore o comunque quando, utilizzando la
ordinaria diligenza allo stesso richiesta in quanto soggetto
che intendeva ottenere il titolo edilizio, avrebbe potuto
accorgersi del suddetto errore.
---------------
6.1.2. Alcuna colpa concorrente è poi riscontrabile nel
contegno dell’Amministrazione comunale resistente.
Si deve poi evidenziare che, contrariamente a quanto
osservato dalla parte ricorrente, l’Amministrazione
resistente non si è affatto uniformata in modo automatico e
passivo alla valutazione unilaterale espressa nella perizia
di parte (dei controinteressati), avendo svolto una
esaustiva ed articolata istruttoria (cfr. supra), e ha
garantito il rispetto dei principi del contraddittorio e
della partecipazione in seno al procedimento di autotutela (cfr.
la comunicazione di avvio del procedimento, nota prot.
n. -OMISSIS-, ove risultano riportate a pag. 4 anche le
fotografie utilizzate per il raffronto, in ordine alla
contestata falsa rappresentazione dei fatti).
6.1.3. E’ stato, altresì, osservato che l'interesse pubblico
all'eliminazione, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, di un titolo abilitativo illegittimo è
in re ipsa a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta
rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà risultata
rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo
(arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.09.2023, n. 4975;
TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 18.05.2023, n. 315;
TAR Liguria, sez. II, 09.12.2022, n. 1059; TAR Veneto, sez. II,
08.04.2022, n.
544).
In conclusione, laddove il titolo abilitativo sia stato
ottenuto in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà è consentito
all'amministrazione di esercitare il proprio potere di
autotutela, ritirando l'atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Ed ancora, è stato rilevato che in materia di annullamento
d'ufficio dei titoli edilizi, nei casi in cui l'operato
dell'Amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va
individuato nell'interesse della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica (cfr. TAR Veneto, sez. II, 02.11.2022, n. 1692;
TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 16.01.2020, n. 132).
6.1.4. Inoltre, è stato condivisibilmente chiarito che
“l’obbligo dell’amministrazione di comparare l’interesse
pubblico alla rimozione dell’atto viziato con quello privato
alla conservazione di esso si affievolisce grandemente per
le ipotesi in cui il vizio è stato cagionato dal
destinatario del provvedimento di primo grado, posto che
tale circostanza elide il rilievo dell’affidamento: in tali
casi è, dunque, l’assoluta forza dell’interesse pubblico
perseguito dall’amministrazione a giustificare il ricorso
all’autotutela decisoria.
Per tale peculiare ipotesi, un
simile affievolimento concerne anche la posizione di
eventuali terzi che abbiano confidato sulla legittimità
dell’atto, poiché, in caso contrario, si permetterebbe a chi
abbia agito con dolo o mala fede oggettiva di consolidare
gli effetti della propria condotta colpevole, infiacchendo
l’interesse pubblico in tal modo compromesso, solo per
effetto del trasferimento a terzi di diritti sulla cosa
oggetto del provvedimento di autorizzazione di primo grado.
La logica dell’autotutela, in altri termini, non può che
adattarsi alla peculiarità della falsa rappresentazione da
cui è stata indotta la patologia provvedimentale, con la
conseguenza che, per tali eccezionali ipotesi, la tutela del
terzo potrà esperirsi sul piano civilistico nei confronti
del dante causa, ma, in linea di principio, apparirà per
definizione recessiva a confronto con l’interesse pubblico”
(cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 19.07.2022, nn.
10301 e 10294).
6.1.5. Sul punto, va ulteriormente evidenziato che nel caso
in cui la domanda di rilascio del permesso di costruire sia
stata presentata da parte di precedente proprietario
dell'area, l’affidamento legittimo dell'acquirente deve
ritenersi escluso tutte le volte in cui il medesimo abbia
comunque avuto contezza dell’errore o comunque quando,
utilizzando la ordinaria diligenza allo stesso richiesta in
quanto soggetto che intendeva ottenere il titolo edilizio,
avrebbe potuto accorgersi del suddetto errore (cfr. Cons.
Stato, sez. II, 21.10.2019, n. 7094).
Orbene, il Collegio rileva che l’affidamento legittimo
dell'odierna ricorrente non può ritenersi sussistente nel
caso in esame.
Ed invero, in primo luogo la parte ricorrente ha ottenuto -in data 13.05.2021- la volturazione del titolo edilizio
n. -OMISSIS- del 13.11.2020 (al fine di ricomporre la
corrispondenza, venuta meno a causa dell'alienazione
dell'oggetto sul quale deve esplicarsi l'attività edilizia,
tra il titolare del titolo edilizio e quello della
situazione giuridica che lo legittima al rilascio del
medesimo), ciò che avrebbe dovuto indurre la parte
ricorrente ad accertare, in modo approfondito, la piena
corrispondenza della documentazione relativa al titolo
edilizio rispetto alla reale natura dei luoghi e dei
manufatti.
Va inoltre evidenziato che la comunicazione di inizio lavori
è stata indirizzata dall’odierna ricorrente al Comune
di -OMISSIS- resistente in data 22.07.2021 (si ribadisce,
a fronte di un titolo edilizio del novembre 2020); ne
consegue che l’immutazione dello stato dei luoghi è stata
avviata dalla stessa deducente (e non dai danti causa, che
avevano in precedenza conseguito il titolo), la quale
pertanto era nelle condizioni -utilizzando la ordinaria
diligenza- di poter accertare la reale natura e la
destinazione del manufatto in questione (principiando dalla
effettiva presenza del forno nel detto locale).
In conclusione, sul punto la parte ricorrente ha acquistato
l’immobile e ha ottenuto la volturazione del titolo edilizio
rilasciato ai danti causa, ma non avendo questi ultimi
“manomesso” l’immobile (avviando i lavori assentiti) la
stessa esponente si trovava nelle condizioni di poter
accertare il vizio del titolo.
All’uopo le due SCIA in variante presentate dalla parte
ricorrente non hanno potuto affatto consolidare il legittimo
affidamento della deducente, innestandosi le stesse su una
situazione di falsa rappresentazione dello stato dei luoghi,
che nella sua realtà era (quantomeno) conoscibile con
l’ordinaria diligenza da parte della deducente.
Va inoltre osservato che non è utilmente invocabile nel caso
in esame il principio di diritto enunciato nel parere Cons.
Giust. Amm. Reg. Sic., Ad. Sez. Riun., 07.12.2023, n.
472 –invocato in sede di udienza dalla parte ricorrente (cfr.
il verbale)– secondo cui nel bilanciamento tra l’interesse
pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo e la tutela
dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la
stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento
“la ricerca del giusto equilibrio induce a dare maggiore
rilevanza all’interesse del privato alla stabilità del bene
della vita con esso acquisito, tutte le volte in cui v’è
stato un comportamento gravemente colposo
dell’amministrazione”, proprio perché nessun
comportamento gravemente colposo del Comune resistente è
ravvisabile nel caso che occupa (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante
orientamento giurisprudenziale, la notificazione di un atto
amministrativo al suo destinatario non incide sull'esistenza
o validità dello stesso, con la conseguenza che un atto non
è nullo o illegittimo per il solo fatto della mancata
comunicazione o notificazione al soggetto interessato, fermo
restando che, in caso di atti recettizi o comunque
limitativi della sfera giuridica dei destinatari, la mancata
comunicazione o notificazione incide sull'efficacia del
provvedimento e, quindi, sul decorso dei termini per
l'impugnativa giurisdizionale.
Nello specifico caso del provvedimento di
demolizione, è stato osservato dalla giurisprudenza che la
mancata notificazione dello stesso al proprietario del fondo
non influisce sulla legittimità del provvedimento medesimo e
sull’obbligo gravante sull’autore dell’abuso di demolire: la
notificazione dell'atto al proprietario, invero, attiene non
già alla fase di perfezionamento dello stesso ma alla fase
di integrazione dell'efficacia, con la conseguenza
-in caso di mancata notifica dell'ordinanza di demolizione
al proprietario- dell'impossibilità di pretendere
l'esecuzione da parte di quest'ultimo e di procedere in suo
danno all'acquisizione gratuita.
Inoltre è stato evidenziato, sempre in relazione
all’ordinanza di demolizione, che l’eventuale mancanza o il
vizio della notificazione dell’atto amministrativo sono
rilevanti ai fini del decorso del termine per l’impugnativa
dello stesso, ma non si riverberano sul profilo della
validità dello stesso.
---------------
10. Con il primo motivo di ricorso l’esponente ha dedotto il vizio di
Violazione dell’art. 141 c.p.c. – mancanza di elezione di
domicilio regolarmente eletto.
Per l’esponente, in sintesi, il provvedimento di demolizione
n. -OMISSIS- è illegittimo per omessa notifica al diretto
interessato, essendo stato irritualmente comunicato al
legale presso il quale la ricorrente non ha eletto domicilio
(nonostante il provvedimento stesso rechi la seguente
dicitura: “Dispone di procedere alla notifica della presente
Disposizione alla signora -OMISSIS- sopra meglio
generalizzata e domiciliata in -OMISSIS-”).
Argomenta la deducente come nessuna generalizzata elezione
di domicilio per gli atti derivanti dal procedimento
amministrativo riguardante l’immobile di proprietà sito nel
Comune di -OMISSIS- è mai stata effettuata presso lo studio
difensore (sebbene, invero, una delega per l’accesso agli
atti e alla partecipazione in fase stragiudiziale); la
stessa deducente rappresenta, infatti, di aver rilasciato
procura solo per la proposizione del ricorso.
Il Comune resistente, argomenta l’esponente, ha quindi
errato nel dedurre ed individuare nel difensore il soggetto
presso il quale la ricorrente ha eletto domicilio per
qualsiasi atto amministrativo derivante, inerente o comunque
riferibile all’immobile di sua proprietà sito nel Comune
di -OMISSIS-.
All’uopo l’esponente ha richiamato le disposizioni dell’art.
141 cod. proc. civ. e dell'art. 47 cod. civ., osservando di
non aver mai eletto domicilio permanente presso il
professionista con la conseguenza che tutti gli atti
successivi alla notifica del provvedimento di annullamento
del permesso di costruire dovevano comunque essere
notificati alla destinataria personalmente.
In conclusione, per la deducente, la mancanza di una
regolare notifica del provvedimento di demolizione,
riduzione in pristino e sanzione pecuniaria è da ritenersi
illegittimo e/o comunque inefficace
La deducente argomenta ulteriormente che una volta
rilasciata la procura per impugnare, come poi ha fatto, il
provvedimento di annullamento del permesso di costruire n.
-OMISSIS- (ricorso iscritto al n. r.g. 1644/2022), ben
avrebbe potuto, se avesse ricevuto la notifica dell’ordine
di demolizione affidarsi ad altro legale o, per ipotesi,
prestare acquiescenza al provvedimento stesso; la ricorrente
rappresenta, invece, di aver preso atto che era stato emesso
un provvedimento di demolizione dell’immobile in questione
solo con la comunicazione via PEC del provvedimento di
sospensione dell’ordine di demolizione a seguito
dell’ordinanza 07.12.2022, da parte del legale, e
l’errore del Comune intimato si è di fatto riverberato, in
sede cautelare, sulle determinazioni dell’adito Tribunale:
secondo la deducente, infatti, in caso di conoscenza del
provvedimento di demolizione n. -OMISSIS- sarebbe stato
proposto ricorso per motivi aggiunti e, possibilmente, le
decisioni del Tribunale adito sarebbero state diverse (in
presenza dell’ordine di demolizione il Tribunale adito
avrebbe certamente sospeso il provvedimento impugnato
unitamente all’ordine di demolizione in coerenza con il
paventato periculum in mora che ha ravvisato anche solo
nell’annullamento del permesso di costruire n. -OMISSIS-).
In conclusione, per la deducente l’omessa notifica del
provvedimento di demolizione ha arrecato un danno grave ai
diritti di difesa della odierna ricorrente.
10.1. Il motivo è infondato.
10.1.1. Per costante orientamento giurisprudenziale,
condiviso dal Collegio, la notificazione di un atto
amministrativo al suo destinatario non incide sull'esistenza
o validità dello stesso, con la conseguenza che un atto non
è nullo o illegittimo per il solo fatto della mancata
comunicazione o notificazione al soggetto interessato, fermo
restando che, in caso di atti recettizi o comunque
limitativi della sfera giuridica dei destinatari, la mancata
comunicazione o notificazione incide sull'efficacia del
provvedimento e, quindi, sul decorso dei termini per
l'impugnativa giurisdizionale (cfr. TAR Campania,
Salerno, sez. I, 04.06.2019, n. 930).
10.1.2. Nello specifico caso del provvedimento di
demolizione, è stato osservato dalla giurisprudenza che la
mancata notificazione dello stesso al proprietario del fondo
non influisce sulla legittimità del provvedimento medesimo e
sull’obbligo gravante sull’autore dell’abuso di demolire: la
notificazione dell'atto al proprietario, invero, attiene non
già alla fase di perfezionamento dello stesso ma alla fase
di integrazione dell'efficacia (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 09.03.2021, n. 1574; TAR Calabria,
Reggio Calabria, 14.06.2018, n. 357), con la conseguenza
-in caso di mancata notifica dell'ordinanza di demolizione
al proprietario- dell'impossibilità di pretendere
l'esecuzione da parte di quest'ultimo e di procedere in suo
danno all'acquisizione gratuita (cfr. TAR Sicilia,
Catania, sez. IV, 24.11.2023, n. 3565); inoltre è
stato evidenziato, sempre in relazione all’ordinanza di
demolizione, che l’eventuale mancanza o il vizio della
notificazione dell’atto amministrativo sono rilevanti ai
fini del decorso del termine per l’impugnativa dello stesso,
ma non si riverberano sul profilo della validità dello
stesso (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 04.07.2023, n. 2227).
Nel caso di specie, la deducente è peraltro venuta a
conoscenza dell’ordinanza di demolizione, che ha impugnato
con il ricorso in epigrafe; il lamentato vizio di
notificazione –che, si ribadisce, non è in grado di
infirmare la validità del provvedimento avversato- è stato
in concreto superato dalla avvenuta conoscenza del
provvedimento medesimo.
10.1.3. Il Collegio rileva che l’affermato danno grave ai
diritti di difesa della parte ricorrente derivante
dall’omessa notifica del provvedimento di demolizione -che,
peraltro, non potrebbe avere ricadute in termini patologici
quanto al provvedimento di demolizione avversato- non
risulta provato.
Ed invero, in primo luogo, nell’ordinanza 12.12.2022,
n. 643 non è stato svolto alcun approfondimento relativo al
fumus boni iuris (“Ravvisata la necessità di riservare
all’approfondimento della più acconcia sede di merito
l’esame delle plurime e complesse questioni sottese alla
vicenda contenziosa”).
In secondo luogo, ed in via tranchant, gli effetti
dell’impugnata ordinanza di demolizione (disposizione n.
-OMISSIS- avente per oggetto “demolizione, riduzione in
pristino e sanzione pecuniaria – DITTA: -OMISSIS-”) sono
stati sospesi dalla stessa Amministrazione comunale
(“Determina […] la sospensione dell’efficacia della
Disposizione n. 07/22 avente per oggetto la “demolizione,
riduzione in pristino e sanzione pecuniaria – DITTA:
-OMISSIS-” sino alla definizione del giudizio pendente
dinnanzi al TAR Sicilia-Catania”: determinazione n.
settoriale 95 datata -OMISSIS- del Comune resistente), senza
alcuna necessità per la deducente di rivolgersi (nuovamente
in sede cautelare) al Tribunale già adito (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per costante orientamento giurisprudenziale, le questioni relative all’acquisizione dell’area
ed ai relativi presupposti, attenendo ad un successivo
momento procedimentale, non possono essere introdotte nel
giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione
(dovendo essere articolate avverso l’eventuale provvedimento
di acquisizione, laddove venga effettivamente emesso).
In particolare, per quanto concerne la mancata indicazione
dell’area passibile di acquisizione, deve darsi continuità
al consolidato orientamento secondo il quale “l’omessa o
imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero,
l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini
dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria”.
---------------
12. Infine,
con l’ultimo motivo di gravame la parte ricorrente ha
dedotto i vizi di Violazione dell’art. 31 T.U. edilizia.
Per l’esponente, in sintesi, il provvedimento impugnato è
illegittimo poiché non indica l’area che in caso di
inottemperanza all’ordine di demolizione verrà acquisita al
patrimonio del Comune.
Per la ricorrente tale mancanza non è meramente formale e
sanabile, proprio perché non mette nelle condizioni la
stessa di valutare costi-benefici dell’eventuale ed
ipotetica ottemperanza all’ingiunzione; inoltre, l’esatta
indicazione appare necessaria, posto che l’effetto ablatorio
si verifica immediatamente ed ope legis alla scadenza del
termine legale o di quello prorogato dall’autorità
competente per ottemperare all’ingiunzione a demolire, con
acquisto a titolo originario della proprietà libera da
eventuali pesi e vincoli preesistenti.
L’atto di accertamento dell’inottemperanza e la trascrizione
hanno allora -argomenta la deducente- solo natura
dichiarativa: il primo, per opporre il trasferimento al
proprietario responsabile dell’abuso ed immettersi nel
possesso, il secondo, per opporre il trasferimento ai terzi;
in questo senso, una ordinanza priva di una completa e
precisa individuazione del bene, dell’area di sedime e delle
eventuali c.d. pertinenze urbanistiche -vale a dire delle
aree necessarie alla realizzazione di opere analoghe a
quelle abusive- deve considerarsi atipica ed illegittima
sia perché differente dal modello legale previsto sia perché
inidonea a determinare il corretto svolgersi del
procedimento
Per altra parte della giurisprudenza, argomenta la
ricorrente, la mancata individuazione dell’area ulteriore
non incide sulla legittimità dell’ingiunzione di
demolizione, ma impedisce semmai che l’effetto acquisitivo
si propaghi oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel
caso controverso, non risultino elementi adeguati per
determinare l’esatta estensione dell’area ulteriore soggetta
ad acquisizione in caso d’inottemperanza all’ordine di
demolizione; in altri termini, all’omissione
dell’indicazione de qua non può sopperirsi con il successivo
atto di accertamento dell’inottemperanza, che quindi,
qualora avesse invece ad oggetto, oltre al bene abusivo ed
alla sua area di sedime, anche le c.d. pertinenze
urbanistiche (l’area necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive), sarebbe da annullare in parte
qua.
12.1. Il motivo è infondato.
Per costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal
Collegio, le questioni relative all’acquisizione dell’area
ed ai relativi presupposti, attenendo ad un successivo
momento procedimentale, non possono essere introdotte nel
giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione
(dovendo essere articolate avverso l’eventuale provvedimento
di acquisizione, laddove venga effettivamente emesso).
In particolare, per quanto concerne la mancata indicazione
dell’area passibile di acquisizione, deve darsi continuità
al consolidato orientamento secondo il quale “l’omessa o
imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero,
l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini
dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2023,
n. 10133; Cons. Stato, sez. VI, 24.11.2023, n. 10101; Cons. Stato, sez. VI, 30.10.2023, n. 9348; Cons. Stato,
sez. VI, 21.07.2023, n. 7191) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Competenza comunale e regolamento su sostanze fitosanitarie
ed erbicidi.
---------------
Agricoltura – Consiglio comunale – Potestà regolamentare
– Limitazione utilizzo sostanze fitosanitarie e erbicidi –
Mancanza di competenza- Tutela della salute.
Il comune non può ad adottare un
regolamento, contenente limitazioni indifferenziate,
vincolanti e a tempo indeterminato su sostanze fitosanitarie
ed erbicidi, all’interno del proprio territorio comunale.
Mancando un qualsiasi riscontro nel diritto positivo, il
ragionamento sulla cedevolezza della legge statale,
regionale o provinciale verso i regolamenti locali, nelle
materie di loro riservata o delegata competenza, non
persuade.
Soltanto in alcuni ristretti aspetti residuali,
tassativamente elencati dalla cornice normativa eurounionale,
statale e provinciale, si riscontrano margini funzionali di
intervento comunale, che esulano, però, dalla possibilità di
dettare una disciplina generale di deroghe di utilizzo e
distanziometriche.
Non può fondarsi una tale competenza sul principio di
precauzione di derivazione europea o statale, in ragione
dell’ostacolo del diritto dell'Unione europea che disciplina
l'autorizzazione, l'immissione in commercio e l'uso di
sostanze attive e prodotti fitosanitari. (1)
---------------
(1) Non sussistono precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.01.2024 n. 915 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
17. Entrando nel merito della controversia, non può essere
condivisa la tesi del Comune sulla sua competenza ad
adottare una tale regolamento in materia di fitosanitari ed
erbicidi, mancando un qualsiasi riscontro nel diritto
positivo il ragionamento sulla cedevolezza della legge
statale, regionale o provinciale verso i regolamenti locali
nelle materie di loro riservata o delegata competenza.
18. Preliminarmente risulta opportuna una disamina delle
fonti che il Comune appellante invoca.
Il legislatore regionale, al quale compete di legiferare in
materia di ordinamento comunale anche per l’Alto Adige/Suedtirol,
ha disciplinato agli articoli 2 (funzioni) e 5 (potestà
regolamentare) del TUOC (ratione temporis vigente,
D.P.Reg. 01.02.2005, n. 3/L, BUR 01.03.2005, n. 9, suppl. 1)
quanto segue.
18.1.1: Art. 2: “1. In armonia con il principio
costituzionale della promozione delle autonomie locali e in
attuazione dei principi di sussidiarietà, responsabilità e
unità che presiedono all'esercizio dell'azione
amministrativa, nonché di omogeneità ed adeguatezza, sono
attribuite ai comuni tutte le funzioni amministrative di
interesse locale inerenti allo sviluppo culturale, sociale
ed economico della popolazione e sono assicurate ai comuni
le risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento delle
funzioni stesse.
2. La regione e le province autonome individuano le funzioni che
sono trasferite, delegate o subdelegate, ai comuni singoli o
associati, avuto riguardo ai rispettivi ambiti territoriali
e popolazioni interessate, al fine di assicurare efficacia,
speditezza ed economicità all'azione amministrativa, nonché
la partecipazione dei cittadini al migliore perseguimento
del pubblico interesse.
3. I comuni singoli o associati, nell'esercizio delle rispettive
funzioni, attuano tra loro forme di cooperazione e di
sussidiarietà, anche con privati, per assicurare l'economia
di gestione delle attività e dei servizi o qualora
l'interesse riguardi vaste zone intercomunali.
4. Spettano inoltre ai comuni, ove la legge provinciale lo preveda,
le funzioni che le leggi dello stato attribuiscono alle
comunità montane.”
18.1.2 Art. 5: “1. Nel rispetto della legge e dello
statuto, il comune adotta regolamenti per l'organizzazione
ed il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di
partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli
uffici e l'esercizio delle funzioni, nonché regolamenti per
l'organizzazione ed il funzionamento delle aziende e degli
enti da esso dipendenti.
2. Lo statuto deve prevedere adeguate forme di pubblicità per i
regolamenti.
3. I regolamenti entrano in vigore a decorrere dalla data di
esecutività della delibera di approvazione.
4. La violazione dei regolamenti e delle ordinanze comunali
comporta, nei casi non disciplinati dalla legge,
l'applicazione delle sanzioni amministrative determinate dal
comune con proprie disposizioni regolamentari entro i limiti
previsti dall'articolo 10 della legge 24.11.1981 n. 689 e
successive modificazioni.”
18.2 La norma statale invece (T.U.E.L., d.lgs. 18.08.2000,
n. 267) agli articoli 7 (regolamenti), 13 (funzioni) e 42
(attribuzioni dei consigli) recita:
18.2.1: Art. 7: “1. Nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dello statuto, il comune e la provincia
adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed
in particolare per l'organizzazione e il funzionamento delle
istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il
funzionamento degli organi e degli uffici e per l'esercizio
delle funzioni.”
18.2.2: Art. 13: “1. Spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei
servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed
utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze.
2. Il comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti
territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia
di cooperazione con altri comuni e con la provincia.”
18.2.3: “1. Il consiglio è l'organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo.
2. Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti
fondamentali:
a) statuti dell'ente e delle aziende speciali,
regolamenti salva l'ipotesi di cui all'articolo 48, comma 3,
criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e
dei servizi;
b) programmi, relazioni previsionali e
programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e
elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie;
c) convenzioni tra i comuni e quelle tra i comuni
e provincia, costituzione e modificazione di forme
associative;
d) istituzione, compiti e norme sul funzionamento
degli organismi di decentramento e di partecipazione;
e) organizzazione dei pubblici servizi,
costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione
dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a
società di capitali, affidamento di attività o servizi
mediante convenzione;
f) istituzione e ordinamento dei tributi, con
esclusione della determinazione delle relative aliquote;
disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni
e dei servizi;
g) indirizzi da osservare da parte delle aziende
pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o
sottoposti a vigilanza;
h) contrazione di mutui e aperture di credito non
previste espressamente in atti fondamentali del consiglio ed
emissioni di prestiti obbligazionari;
i) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi
successivi, escluse quelle relative alle locazioni di
immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e
servizi a carattere continuativo;
l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative
permute, appalti e concessioni che non siano previsti
espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non
ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non
rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e
servizi di competenza della giunta, del segretario o di
altri funzionari;
m) definizione degli indirizzi per la nomina e la
designazione dei rappresentanti del comune presso enti,
aziende ed istituzioni, nonché nomina dei rappresentanti del
consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso
espressamente riservata dalla legge.”
19. Dall’analisi e dal confronto di tali norme statali e
regionali risulta chiarissimo al Collegio il quadro delle
fonti gerarchicamente superiori rispetto a regolamenti
locali, che l’appellante inserisce –in maniera non corretta–
in un contesto che non rispecchia la realtà normativa.
Nell’appello sono invece richiamati –genericamente e non con
espresso ancoraggio a disposizioni normative sulla
competenza– principi che vengono meramente evocati, senza la
precisa indicazione di una disciplina dalla quale dedurre
che la materia dei limiti all’uso dei prodotti fitosanitari
sia materia di riservata o delegata competenza comunale.
Il Collegio ritiene corretta la ricostruzione del primo
giudice sulla competenza normativa dell’Unione Europea,
dell’ordinamento statale e della Provincia Autonoma di
Bolzano. Solamente in alcuni ristretti aspetti residuali
–tassativamente elencati dalla cornice normativa
eurounionale, statale e provinciale– sono da riscontrare
margini funzionali per interventi comunali, ma essi esulano
dalla possibilità di dettare una disciplina generale di
deroghe di utilizzo e distanziometriche come ha fatto il
Comune di Malles.
20. Non convince la tesi che il TRGA abbia interpretato
erroneamente il quadro legislativo per quanto riguarda la
competenza regolamentare nel caso de quo e che invece
secondo l’appellante sarebbe da cercare nel Testo Unico
delle Leggi sugli Enti Locali di emanazione statale che
avrebbe limiti “più elastici ed ampi” invece del TUOC.
In disparte il fatto che su questo punto specifico il
legislatore regionale ha esercitato la sua competenza
legislativa, e quindi l’applicazione di questa parte della
legge statale, giusto l’art. 105 del D.P.R. 670/1972 è
esclusa (vedasi, sul punto, Corte Cost. n. 346/2010), non si
condivide la tesi che il TUEL si applichi in quanto Regione
o Provincia Autonoma non hanno la competenza legislative in
materia di tutela dell’ambiente: qui si discute in primis
della competenza regolamentare disciplinata dall’ordinamento
comunale sull’uso dei prodotti fitosanitari e la competenza
sulla tutela dell’ambiente finisce per portare lontano dal
preciso thema decidendum non essendo la predicata
mancata attribuzione alla Regione o alla Provincia della
materia ambientale un argomento sufficiente per configurare
una competenza regolamentare generale del comune in materia
di ambiente, sganciata da una base giuridica primaria.
In ogni modo e ad abundatiam, ad avviso del Collegio
il confronto delle due norme sulla potestà regolamentare non
porta ad un risultato diverso, trovando in entrambi gli
ordinamenti come barriera invalicabile l’espresso
trasferimento di un eventuale funzione dalla rispettiva
norma di legge, inesistente nel caso de quo.
21. Sono chiaramente insufficienti i richiami di alcune
massime espresse dalla legge n. 3/2003 e n. 131/2003, oltre
che dal Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei
prodotti fitosanitari (PAN) in attuazione della direttiva
2009/128/CE che invece istituisce un quadro per l’azione
comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile, e del d.lgs.
del 14.08.2012, n. 150 (Attuazione della Direttiva
2009/128/CE).
22. Entrando nel particolare, il Collegio non vede nel punto
A.5.6 del PAN una fonte di competenza per una tale
restrizione di utilizzo di prodotti fitosanitari, in quanto
da tale disciplina: la competenza del Comune di emanare
norme secondarie che possano vietare generalmente sul
proprio territorio comunale prodotti fitosanitari
chimico-sintetici non è ricompresa in tale norma, né è
possibile leggerla nell’art. 191 TFUE che invece riserva
–per mancanza di un qualsiasi tenore letterale– l’intervento
normativo nell’ambito delle politiche dell’Unione stessa e
pertanto gli Stati membri (e, qualora l’ordinamento
prevedesse ulteriori competenze discendenti) sono obbligati
a rispettare questi in sede di attuazione del diritto
eurounionale.
23. Inconferente risulta al Collegio il richiamo alla
possibilità degli Stati membri di adottare misure di tutela
più incisiva, rilevato che lo stesso TFUE non descrive
organi interni a ciò deputati.
24. Anche l’iter con il quale l’appellante giunge alla “soppressione”
del principio della gerarchia delle fonti per effetto
dell’art. 114, comma 2, della Costituzione (che a sua volta
richiama gli statuti comunali) o dell’art. 117, comma 6
(sull’evidenza che la potestà regolamentare dei comuni è
circoscritta alla disciplina dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite) non è corretto.
Risulta invece incontestato che l’art. 4, comma 4, della
legge n. 131/2003 e gli artt. 2 e 5 del TUOC della Regione
Trentino-Alto Adige (D.P.Reg n. 3/L del 2005, ratione
temporis vigente) possono solo essere letti come
principio della riserva di legge, e la potestà regolamentare
dei comuni presuppone sempre una norma di legge attributiva
di tale competenza.
Per quanto riguarda invece le specifiche norme settoriali,
il TRGA ha puntualmente e correttamente accertato –con piena
condivisione di questo Collegio– perché le norme richiamate
dal Comune resistente in primo grado non possono essere
interpretati per radicare una specifica competenza in
materia.
25. Risulta più che evidente che il d.lgs. n. 150/2012
(attuazione della direttiva 2009/128/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio) ha radicato l’attuazione delle
misure previste dal decreto e di quelle previste dal Piano
d’azione (articolo 6) all’Amministrazione statale, alle
Regioni e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano,
ovviamente ciascuno nell'ambito delle proprie competenze.
Manca qualsiasi riferimento invece ad una competenza
attribuita ai comuni:
i) secondo l’art. 15, co. 1, il Piano d’azione definisce le misure
appropriate per la tutela delle aree vulnerabili;
ii) secondo l’art. 15, co. 6, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano attuano tali misure e possono
individuare ulteriori aree specifiche rispetto a quelle
indicate nel comma 2, in cui applicare divieti o riduzioni
d'uso dei prodotti fitosanitari.
Nulla è da trovare in merito ad una competenza comunale.
26. Il citato Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile
dei prodotti fitosanitari non conosce una specifica funzione
regolatoria comunale. Non si condivide la tesi del Comune
appellante che il punto A.5.6. possa essere letto come fonte
di un potere comunale, semplicemente in quanto gli enti
locali non risultano quali autorità competenti nell’art. 15
del d.lgs. 150/2012.
Al contrario, con tale disciplina veniva disposto che nelle
aree agricole adiacenti a determinate aree sensibili ivi
specificate è vietato l’utilizzo, a distanze inferiori di 30
metri dalle predette aree, di prodotti fitosanitari
classificati tossici, molto tossici e/o recanti in etichetta
le frasi di rischio R40, R42, R43, R60, R61, R62, R63 e R68,
ai sensi del decreto legislativo n. 65/2003 s.m.i., o le
indicazioni di pericolo corrispondenti, di cui al
regolamento (CE) n. 1272/2008.
Quando vengono adottate misure di contenimento, tenuto conto
delle prescrizioni indicate in etichetta e fatte salve
determinazioni più restrittive delle Autorità locali
competenti, tale distanza può essere ridotta fino ad una
distanza minima di 10 metri. Dalla piana lettura di questa
disciplina si evince che essa preclude alle autorità locali
competenti di stabilire distanze maggiori o di individuare
aree protette diverse da quelle specificamente indicati.
27. Infine, scrutinando il terzo motivo dell’appello,
il Collegio non può nemmeno intravedere una violazione di
principi costituzionali o dell’Unione Europea per quanto
riguarda il principio di precauzione.
28. Ai fini dell’esercizio della potestà regolamentare
rivendicata dal Comune non sono sufficienti i richiami di
principi relativi a esigenze di tutela (solo genericamente
enunciati come necessari al livello periferico), anche se si
tratta di valori costituzionali (salute ed ambiente) di
indubbia importanza, va considerato che tale potestà incide
proprio su valori fondamentali e diritti di libertà dei
cittadini costituzionalmente garantiti e pertanto non può
non trovare un preciso fondamento in una norma legislativa,
in questo caso non esistente.
Non è sufficiente che il Comune richiami testi ed opinioni
scientifiche sugli asseriti effetti della contaminazione
dell’aria e del terreno dai pesticidi per poter accertare
una competenza comunale in base al principio di precauzione,
e non migliora tali tesi se si ci si riferisce alle funzioni
amministrative previste dal TUOC (sia di emanazione statale
che regionale) tali funzioni infatti non prevedono alcuna
generale attribuzione di competenza al Comune.
29. Non è neanche una questione di proporzionalità o
efficace applicazione di principi generali di difesa
integrata, essendo tali canoni rilevanti solamente in
presenza di una precisa competenza.
Risulta invece pertinente il richiamo degli odierni
appellati alla giurisprudenza costituzionale che (Corte
Cost. n. 160/2022) in una fattispecie parzialmente analoga
ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al
regolamento (UE) n. 2012/528, la legge regionale della
Sicilia n. 21/2021 sul divieto di utilizzo di biocidi
diversi da quelli consentiti in agricoltura biologica in una
serie di ambiti territoriali individuati dalla stessa
disposizione, nonché lungo i bordi di tutte le strade
pubbliche e lungo i percorsi ferroviari e in qualsiasi altro
luogo pubblico non destinato ad attività agricola.
La Corte Costituzionale ha accertato che “La costante
giurisprudenza di questa Corte ritiene costituzionalmente
illegittime, per violazione dell’art. 34 TFUE, leggi che
impongano limiti alla libera circolazione delle merci al di
fuori di quanto consentito dal diritto dell’Unione europea
(sentenze n. 23 del 2021, n. 66 del 2013 e n. 191 del 2012).
L’importazione di merci destinate al consumo umano o animale
da Paesi terzi, destinate poi a circolare liberamente
all’interno del mercato unico, è disciplinata in modo
uniforme dal regolamento (UE) n. 2017/625, e in particolare
dal suo Capo V, ove si prevedono controlli documentali e
fisici a campione sulle merci importate, ma non una
certificazione obbligatoria su ogni singolo prodotto come
quella prevista dalla disposizione impugnata.
Tale certificazione –che peraltro si sovrappone
indebitamente ai controlli che l’art. 1 del d.lgs. n. 24 del
2021, attuativo del menzionato regolamento (UE) n. 2017/625
a livello nazionale, affida a posti di controllo frontaliero
del Ministero della salute– si configura quale condizione
ulteriore rispetto a quanto previsto dal diritto dell’Unione
per la commercializzazione, lavorazione, trasformazione o
vendita delle merci importate, e si risolve, pertanto, in
una «misura di effetto equivalente» a una restrizione
quantitativa all’importazione, vietata dall’art. 34 TFUE.”
(punto 3.4 della sentenza).
Ed è anche da escludere che il principio di precauzione come
definito dall’art. 191 del TFUE sia una norma direttamente
applicabile, essendo una norma che contempla obiettivi,
principi e diversi criteri, e sicuramente necessita di una
adozione di concretizzazione a livello secondario (cfr. CGUE,
C-284/95, ECLI:EU:C:1998:352): non può creare diritti di
singoli, che il singolo potrà far valere avanti ad autorità.
Inoltre osserva il Collegio che anche l’asserita “ulteriore”
tutela che prevede il regolamento comunale non è legittima,
in quanto il regolamento (CE) 1107/2009 non lascia spazi
vuoti a disposizione di ulteriori enti, essendo il principio
di precauzione attuato in modo esaustivo ed in dettaglio
nella procedura europea (art. 1 co. 3) e delineato anche
dalla Comunicazione della Commissione Europea del 02.02.2000
COM (2000) 1 def.
30. Per quanto riguarda le norme del PAN è sufficiente
rilevare che il punto 5.6 ammette che le autorità locali
(senza però includere expressis verbis i Comuni)
possono opporsi alla riduzione della distanza a 10 m da
determinate aree nell’uso di fitofarmaci, ma non consente
che un Comune possa proclamare divieti generalizzati come
quello nel caso oggetto del giudizio.
31. Ma l’appellante non può neanche essere seguita laddove
invoca l’incostituzionalità e la contrarietà al diritto
dell’Unione Europea in quanto verrebbe impedito al Comune di
adottare misure più appropriate, anche se più restrittive,
rispetto a ciò che viene previsto per altri territori: non
solo tale critica è troppo generica e non indica
specificamente quale parametro costituzionale è realmente
violato, ma l’impossibilità di un divieto regolamentare del
Comune non viola l’art. 35 della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE.
Secondo tale disposizione eurounionale “Ogni persona ha
il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di
ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle
legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e
nell'attuazione di tutte le politiche ed attività
dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione
della salute umana.”
L’appellante infatti non indica nel suo ricorso quale lacuna
della disciplina adottata dall’Unione Europea (ricordata al
punto 3 d) non possa garantire tale livello di protezione
della salute. Né al Collegio sembra pertinente il richiamo
della giurisprudenza della CGUE del 2019 (causa C-197/18)
non essendo tale decisione sovrapponibile al caso oggetto di
questo giudizio.
Con tale questione pregiudiziale il giudice a quo chiedeva
se nelle acque sotterranee il contenuto massimo di nitrati
di 50 mg/l debba essere rispettato in ogni singolo punto di
prelievo e si trattava di articoli della direttiva che
–contrariamente al principio di precauzione oggetto di
questa causa– sono chiari, precisi ed incondizionati, ragion
per cui possono essere invocati dai singoli nei confronti
dello Stato.
La disciplina eurounionale non stabilisce il livello di
governo al quale affidare la competenza in materia
ambientale ed il principio di precauzione non implica la sua
necessaria allocazione in capo al Comune per assicurare un
elevato livello della salute umana che può essere garantito
da un sistema di allocazione delle competenze che –come nel
Trentino Alto Adige– preveda un ruolo centrale della
Provincia.
32. Inconferenti sono anche i richiami alla giurisprudenza
di questo Consiglio.
La pronuncia della Quinta Sezione, n. 2495/2015 riguardava
una diversa questione relativa ad una valutazione di impatto
ambientale di un progetto specifico, nel quale la Sezione
accertava che “Ebbene, posto che le conclusioni cui sono
pervenuti i professionisti incaricati dalla Forest in merito
al rilievo dei fattori di pericolo e alla possibilità di
farvi fronte in modo efficace sono espresse in chiave
puramente probabilistica, deve concludersi che non risulta
acquisita una prova, dotata di un grado adeguato di
attendibilità, della sicurezza della diga e
dell’insussistenza del rischio della produzione di
conseguenze diverse da quelle stimate dalla proponente. Se
si considera poi l’irreversibilità dei fenomeni indotti
dalla subsidenza in un’area caratterizzata da conclamati da
profili di fragilità, deve considerarsi ragionevole il
ricorso del Comitato VIA al principio di precauzione nei
termini sopra richiamati.
In definitiva, a fronte del rischio di cedimento della diga
e in considerazione delle più ampie esigenze di tutela
ambientale e di incolumità pubblica, del tutto legittima
appare, nell’esercizio di un potere latamente discrezionale
non sindacabile nel merito in assenza di profili di
sviamento e travisamento, la conclusione di matrice
cautelativa cui è pervenuto il Comitato VIA. Osserva poi il
Collegio che l’onere motivazionale che incombe
sull’Amministrazione è stato adeguatamente assolto dal
Comitato procedente già in occasione del primo giudizio VIA
negativo n. 1929 del 2012, nel quale si dà conto dei timori
connessi al fenomeno della subsidenza legata all’estrazione
del gas, specie in considerazione dell’ubicazione del
giacimento al di sotto del lago e della diga interna e delle
conseguenze disastrose che potrebbero derivare da un
eventuale crollo della diga. Timori, questi, che hanno reso
doverosa la predisposizione di una tutela anticipata e
legittima l’applicazione del principio di precauzione.”
Da ciò emerge chiaramente che l’interpretazione del
principio di precauzione su un singolo progetto non può
essere la stessa in un astratto regolamento comunale. E non
giova neanche richiamare la sentenza della Quarta Sezione,
n. 1392/2017, sempre su un singolo progetto infrastrutturale
in Puglia (Trans Adriatic Pipeline).
In entrambi i casi il principio di precauzione è stato
correttamente interpretato da questo Consiglio di Stato
nell’ambito delle specifiche funzioni (provvedimentali)
dell’ente pubblico nel rispettivo procedimento
amministrativo, ma tali casi non sono idonei a radicare una
(nuova) funzione regolatoria del Comune.
33. Ad avviso del Collegio in base al diritto dell'Unione
Europea il principio di precauzione è soddisfatto se le
sostanze attive e i prodotti fitosanitari siano sottoposti a
una procedura di autorizzazione alla quale il legislatore
dell'Unione e l'ordinamento giuridico nazionale impongono
requisiti rigorosi per la tutela della salute umana e
dell'ambiente.
La corretta applicazione del principio di precauzione
richiede la determinazione degli effetti potenzialmente
negativi di una sostanza sulla salute ed una valutazione
esaustiva del rischio per la salute sulla base dei dati
scientifici più affidabili disponibili e dei risultati più
recenti della ricerca internazionale.
Se non è possibile stabilire con certezza l'esistenza o
l'entità del rischio presunto perché i risultati degli studi
effettuati sono inadeguati, inconcludenti o imprecisi, è
necessario valutare la probabilità di un danno effettivo
alla salute umana. La probabilità di un danno effettivo alla
salute pubblica persiste se il rischio si concretizza, il
principio di precauzione giustifica l'adozione di misure
restrittive se sono oggettive e non discriminatorie.
In tali circostanze, il legislatore dell'Unione deve poter
adottare misure di protezione in conformità al principio di
precauzione senza dover attendere che l'esistenza e l'entità
di tali rischi siano chiaramente stabilite (cfr. CGUE,
C-333/08, ECLI:EU:C:2010:44, n. 92 ss.).
34. Da ultimo, anche nel caso che si potesse concludere che
il Comune abbia una competenza regolamentare in questa
materia –cosa che il Collegio esclude– è da rilevare che il
regolamento qui in esame incontrerebbe comunque l’ostacolo
del diritto dell'Unione Europea che disciplina
l'autorizzazione, l'immissione in commercio e l'uso di
sostanze attive e prodotti fitosanitari che in questo modo
risulta standardizzato in tutto il territorio dell'Unione e
con l'effetto diretto in tutti gli Stati membri.
Va ricordato che i prodotti fitosanitari possono essere
immessi in commercio ed utilizzati solo se sono stati
autorizzati dal Ministero della Salute, conformemente alle
disposizioni previste dal Regolamento (CE) N. 1107 del
21.10.2009, dal D.P.R. 28.02.2012, n. 55 e dal D.P.R.
23.04.2001. n. 290.
Questo significa che il divieto sistematico (esplicito e
implicito) di alcuni prodotti fitosanitari creerebbe una
norma nazionale in contraddizione con il diritto
eurounionale che già sconta entro di sé la necessità del
rispetto di un elevato livello di tutela della salute umana
per il principio che vuole che la tutela ambientale e
sanitaria sia integrata alla fonte e non considerata ex
post.
Pertanto, entrano in gioco le norme sul conflitto delle
norme, che la Corte di giustizia europea ha sviluppato nella
giurisprudenza e che si basano sul principio del primato del
diritto dell'Unione (si ricordi la celebre giurisprudenza
CGUE, C-26/62, Van Gend e Loos, ECLI:EU:C:1963:1 e C-6/64,
Flaminio Costa c. ENEL, ECLI:EU:C:1964:66).
Il primato riguarda tutte le fonti del diritto dell'Unione,
compreso il diritto derivato dell'Unione ed ha effetto su
tutte le fonti del diritto nazionale. In conformità al
principio del primato del diritto dell'Unione le
disposizioni del Trattato e gli atti direttamente
applicabili delle istituzioni comunitarie, nel loro rapporto
con il diritto interno degli Stati membri non solo hanno
come conseguenza che qualsiasi disposizione contrastante del
diritto nazionale in vigore diventi inapplicabile senza
ulteriori interventi, ma anche che l'effettiva adozione di
nuovi atti legislativi nazionali nella misura in cui essi
siano incompatibili con le norme comunitarie (C-106/77,
Simmenthal II, ECLI:EU:C:1978:49, par. 17/18).
L'articolo 288, paragrafo 2, del TFUE sarebbe irrilevante se
gli Stati membri potessero privarlo unilateralmente della
sua efficacia mediante atti legislativi. Da ciò discende che
gli Stati membri non possono quindi modificare
unilateralmente o mettere altrimenti in discussione
l'entrata in vigore, il contenuto o l'applicabilità di un
regolamento europeo (C-34/73, Fratelli Variola c.
Amministrazione delle Finanze, ECLI:EU:C:1973:101, par. 15).
Agli organismi di normazione degli Stati membri è pertanto
vietato adottare o mantenere in vigore disposizioni
legislative o amministrative o persino una prassi
amministrativa in conflitto con il diritto dell'Unione
prevalente. Da ciò consegue che tutte le autorità chiamate
ad applicare il diritto, in particolare l'amministrazione e
i tribunali (CGUE, C-312/93, Peterbroek, ECLI:EU:C:1995:437,
par. 20) sono quindi obbligati a non tenere conto del
diritto nazionale o di qualsiasi prassi amministrativa
contrastante.
Il diritto dei produttori di utilizzare le sostanze attive
autorizzate per la fabbricazione di prodotti fitosanitari e
di immetterli sul mercato è conferito da disposizioni
incondizionate, chiare e precise del diritto dell'Unione,
che non lasciano agli Stati membri alcun margine di manovra,
cosicché il diritto di utilizzare le sostanze attive ha
un'applicazione diretta e un effetto diretto in tutti gli
Stati membri (comprese tutte le aree interne come il
territorio comunale di Malles) senza l'intervento di misure
nazionali di recepimento o attuazione.
Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di
Giustizia ricordata supra ad un Comune non è quindi
ammesso privare unilateralmente dell'efficacia
dell'autorizzazione delle sostanze attive ai sensi dei
regolamenti UE pertinenti mediante atti regolamentari (o
anche solo una prassi amministrativa) contrari al diritto
dell'Unione prevalente.
35. Ne consegue il rigetto dell’appello (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.01.2024 n. 915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la giurisprudenza di questa stessa
Sezione, se è vero che il soggetto che richiede il rilascio
del titolo edilizio può obbligarsi, a scomputo totale o
parziale della quota dovuta a titolo di contributo di
costruzione, a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, sia primarie che secondarie, con le modalità
e le garanzie stabilite dal Comune, è altrettanto pacifico
che tale iniziativa è subordinata ad una valutazione
dell’amministrazione.
Ne discende che l’ammissione allo scomputo costituisce
oggetto di una valutazione discrezionale da parte
dell’amministrazione e che non sorge alcun diritto in capo
al privato proponente se, a fronte della realizzazione da
parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell’impegno a
realizzarle, non vi sia stato un espresso atto di
accettazione consensuale da parte dell’amministrazione.
---------------
1. La sig.ra Ol.Ca. ha chiesto la riforma della sentenza
n. 631, depositata l’01.10.2018, con la quale il giudice
di primo grado ha respinto la domanda volta all’annullamento
della clausola della concessione edilizia n. 67/96 del 16.09.1996 che ha imposto il pagamento di 34.550.290 di
vecchie lire, a titolo di oneri di urbanizzazione, e di
13.600.000 milioni di vecchie lire, a titolo di contributo
di concessione, e alla conseguente declaratoria del diritto
alla restituzione delle somme versate, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi.
1.2. L’appellante ha esposto che:
a) ha ottenuto dal Comune di Ancona la concessione edilizia
n. 67/96 per la demolizione e ricostruzione di un edificio
unifamiliare per civile abitazione e cambio d'uso con opere
di annesso agricolo, ubicato in via ... n. 32, concessione seguita da due varianti;
b) con nota del 17.11.1998 ha fatto riserva avverso la
clausola di onerosità, essendo la concessione stata
sottoposta al pagamento di 34.550.290 di vecchie lire, a
titolo di oneri di urbanizzazione, e di 13.600.000 milioni
di vecchie lire, a titolo di contributo di concessione;
c) con lettera del 15.07.1999 prot. n. 49817 il Comune
di Ancona ha richiesto il versamento di 13.600.000 di
vecchie lire, corrispondente al costo di costruzione;
d) con nota del 28.07.1999 la sig.ra Ca. ha dedotto
che il termine di pagamento di tale importo non era ancora
scaduto, attesa la proroga correlata alle varianti
intervenute e con successiva nota dell’11.08.1999 ha
osservato che la concessione è stata illegittimamente
sottoposta ad onerosità, dovendo esserne esente, ai sensi
dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, rientrando la
demolizione e ricostruzione nella nozione di
ristrutturazione, e ai sensi dell'art. 11 della medesima
legge, atteso che l'istante ha dovuto eseguire a proprie
spese le opere di urbanizzazione;
e) con nota dell’11.10.1999 il Comune ha reiterato
quanto affermato il 15.07.1999 e il 30.12.1999 la
sig.ra Ca. ha versato la somma richiesta, riservandosi
di agire per la restituzione di tutto quanto pagato.
1.3. L’appellante deduce l’erroneità della sentenza di primo
grado laddove, pur dando atto dell’esistenza di un
orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui
l'esenzione dal costo di costruzione, di cui alla lettera d)
dell'art. 9 della legge n. 10/1977, fosse applicabile anche
agli interventi di demolizione e ricostruzione, afferma “la
deroga all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9
della legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito
dall’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha
un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di
edificio unifamiliare non deve avere una accezione
strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola
proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di
ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento
differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar
Campania Salerno, 22.06.2015, n. 1416; Tar Lombardia
Milano, 10.10.1996, n. 1480; Tar Toscana, 26.04.2017, n. 616; Tar Marche,
09.01.2018, n. 9).”.
In particolare l’appellante lamenta che l'interpretazione
restrittiva seguita dal giudice di primo grado, frutto di un
più recente orientamento della giurisprudenza, si porrebbe
in contrasto con l'art. 111 Cost. essendo mancata un'attenta
ponderazione degli effetti del mutamento
dell'interpretazione normativa a significativa distanza
dall'introduzione del giudizio e dal rilascio del titolo
edilizio, nonché deduce l’erroneità della sentenza laddove
afferma che parte istante non avrebbe assolto all’onere
probatorio relativo al carattere unifamiliare del fabbricato
non avendo il Comune contestato che si trattasse di una ex
tipica casa colonica delle campagne marchigiane, che
l’intervento fosse qualificabile come ristrutturazione e che
l'ampliamento fosse contenuto nel 20%.
La sentenza sarebbe erronea anche per la parte in cui ha
negato l’applicabilità dell’art. 11 della legge n. 10/1977 in
quanto, secondo la giurisprudenza anche in assenza di un
atto d'obbligo l'amministrazione potrebbe tenere conto della
domanda di scomputo delle opere già realizzate senza il
previo dettato comunale ove sussista la relativa previsione,
anche se solo in forma generica, nella concessione edilizia
ovvero la discrezionale determinazione di accettazione ex
post delle opere da parte del Comune che secondo parte
istanze dovrebbe desumersi nel caso di specie dal parere
favorevole della C.E. del 22.07.1997.
2. Il Comune di Ancona si è costituito in giudizio ed ha
eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità della
produzione in giudizio da parte dell’appellante chiedendo lo
stralcio e la cancellazione dei seguenti documenti nuovi
depositati: "2. relazione arch. Ro.Pa. 05.07.1999; 3.
concessione in variante; 4. relazione arch. Ro.Pa.
17.11.1998.", nonché l’inammissibilità dell’appello per
genericità ed assenza di specificità delle censure che
integrano una mera richiesta di riesame dei motivi di
impugnazione formulati in primo grado.
2.1. Nel merito il Comune ha concluso per il rigetto
dell’appello e per la conferma della sentenza di primo grado
che correttamente avrebbe escluso l’applicabilità alla
fattispecie in esame dell’esenzione dall’onerosità, ai sensi
dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, così come
l’applicabilità dell’art. 11 della medesima legge n.
10/1977.
...
8. E’, infine, infondata anche la censura relativa
all’erroneità della decisione per la parte in cui ha negato
l’applicabilità dell’art. 11 della legge n. 10/1977 per il
riconoscimento delle opere di urbanizzazione realizzate dai
concessionari.
8.1. Secondo la giurisprudenza di questa stessa Sezione se è
vero che il soggetto che richiede il rilascio del titolo
edilizio può obbligarsi, a scomputo totale o parziale della
quota dovuta a titolo di contributo di costruzione, a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, sia
primarie che secondarie, con le modalità e le garanzie
stabilite dal Comune, è altrettanto pacifico che tale
iniziativa è subordinata ad una valutazione
dell’amministrazione.
Ne discende che l’ammissione allo scomputo costituisce
oggetto di una valutazione discrezionale da parte
dell’amministrazione e che, a differenza di quanto sostenuto
dall’appellante, non sorge alcun diritto in capo al privato
proponente se, a fronte della realizzazione da parte sua di
opere di urbanizzazione ovvero dell’impegno a realizzarle,
non vi sia stato un espresso atto di accettazione
consensuale da parte dell’amministrazione (Consiglio di
stato, sez. VII, 18.12.2023, n. 10947).
8.2. Nel caso
di specie è pacifico e non contestato che non vi fosse stato
un previo atto d'obbligo da parte dell’amministrazione, né,
a differenza di quanto affermato da parte appellante,
l’accettazione dell’amministrazione sarebbe desumibile dagli
atti citati nell’appello e segnatamente dal parere
favorevole della C.E. del 22.07.1997 che ha finalità del
tutto distinte.
9. Per tali ragioni l’appello deve essere respinto (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 09.01.2024 n. 302 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
I Comuni devono esercitare i poteri di controllo
dell’inquinamento acustico anche se i danni riguardano un solo condomino.
Il Comune chiamato in causa dal condomino che subisce danno dall’esercizio
commerciale rumoroso è tenuto ad attivarsi anche se lo stesso si trovi in
una strada molto trafficata e con elevata rumorosità di fondo e anche la
richiesta arriva da un solo danneggiato.
Lo chiarisce la
sentenza 08.01.2024 n. 193 del
TAR Campania-Napoli, Sez. V (articolo NT+Condominio del
15.01.2024).
---------------
SENTENZA
... per l'accertamento della illegittimità del silenzio-inadempimento
serbato in ordine all'istanza presentata in data 10.07.2023 per l'esercizio
dei poteri di vigilanza, controllo e repressione per superamento limite
acustico in relazione all'immobile sito in Torre del Greco, corso ... n.
36-36/A, catastalmente individuato al Foglio 10, p.lla 1664, sub 6, laddove
ha sede l'esercizio commerciale denominato “Il Sa. de. Do.”.
...
Viene in decisione il ricorso con cui la nominata in epigrafe, proprietaria
di un immobile sito in Torre del Greco ubicato al primo piano di un
fabbricato in cui ha sede, al piano terra, l’esercizio commerciale
controinteressato attivo nella ristorazione con somministrazione di cibi e
bevande e con diffusione di musica e concerti, lamenta l’inerzia delle
amministrazioni intimate (Comune di Torre del Greco ed Arpac, per quanto di
competenza), ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., nell’attivazione dei
poteri di controllo delle immissioni acustiche ai sensi dell’art. 14 della
L. n. 447/1995 (Legge quadro sull'inquinamento acustico), a suo dire
intollerabili, generate dal predetto operatore commerciale, come documentate
nella perizia di parte versata agli atti di causa.
Si duole, in particolare, del mancato riscontro alla diffida ad adempiere ai
sensi dell’art. 2 della L. n. 241/1990 del 10.07.2023 e conclude con le
richieste di accoglimento del ricorso, di conseguente accertamento
dell’obbligo del Comune –se, del caso, avvalendosi dell’Arpac– di concludere
il procedimento con adozione di un provvedimento espresso e con nomina, in
caso di perdurante inerzia, di un commissario ad acta che provveda in
via sostitutiva.
Si sono costituite le controparti opponendosi all’accoglimento del gravame.
L’ente locale rappresenta di non aver riscontrato la diffida in quanto
impegnato, nel medesimo periodo, nella organizzazione delle attività di
soccorso alla popolazione in seguito al crollo di un edificio verificatosi
il 16.07.2023, espone che l’accertamento invocato dalla ricorrente è reso
arduo dalla particolare conformazione della strada ove è ubicato
l’appartamento della ricorrente, in quanto molto trafficata e con elevata
rumorosità di fondo e, in ogni caso, ritiene che le doglianze formulate
vadano derubricate a controversia tra privati tutelabile innanzi al giudice
civile con esercizio dell’azione inibitoria ex art. 844 c.c. ovvero ai sensi
dell’art. 700 c.p.c., prospettando, infine, il difetto di giurisdizione in
quanto la controversia avrebbe ad oggetto la tutela di diritti soggettivi
devoluti alla cognizione del giudice ordinario.
La società controinteressata si associa alla eccezione in rito evidenziando,
inoltre, che alcuna querela è stata sporta per il reato di cui all’art. 659
c.p. a fronte di una attività commerciale svolta sin dal 2019. Eccepisce
inoltre l’inammissibilità del gravame per omessa impugnazione della
autorizzazione rilasciata per installazione del “dehors” in cui è svolta
l’attività commerciale e chiede il rigetto del gravame.
...
Non ha pregio, preliminarmente, l’eccezione in rito riferita al difetto di
giurisdizione dell’adito Plesso.
Giova evidenziare che parte ricorrente, con la diffida sopra emarginata, ha
compulsato il Comune, rimasto inerte, in ordine all'esercizio delle funzioni
di controllo e di vigilanza previste dalla L. n. 447/1995.
La suddetta normativa disciplina il potere dei Comuni (art. 14), anche
avvalendosi delle Agenzie Regionali dell’Ambiente, in ordine al controllo
sull’osservanza delle prescrizioni attinenti al contenimento
dell'inquinamento acustico e prevede, essenzialmente a tutela dell'ordine
pubblico, la facoltà di accedere agli impianti ed alle sedi di attività che
costituiscono fonte di rumore, di richiedere i dati, le informazioni e i
documenti necessari per l'espletamento delle proprie funzioni (art. 14,
comma 3) e di adottare, in presenza di eccezionali ed urgenti necessità di
tutela della salute pubblica o dell'ambiente, con provvedimento motivato, il
ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate
attività (art. 9).
La natura del potere pubblico compulsato non esclude che detto intervento
possa essere sollecitato nell'interesse di un solo soggetto, leso dai
rumori, e, pertanto, non impedisce l'emersione di una posizione di interesse
legittimo differenziato in capo a chi l'esercizio di tale potere solleciti,
con conseguente obbligo della P.A. di riscontrare l'istanza, in ossequio al
canone di cui all'art. 2 della L. n. 241/1990, con conseguente radicamento
della generale giurisdizione amministrativa nei riguardi dell'atto adottato
ovvero del mancato esercizio dello stesso (Consiglio di Stato, Sez. IV, n.
7316/2020).
Non coglie nel segno, di seguito, neppure l’eccezione di inammissibilità
sollevata dalla controinteressata.
Ed invero, l’azione proposta, come sopra spiegato, non è affatto diretta
all’annullamento di un atto autorizzativo alla installazione della struttura
“dehors” realizzata dalla società controinteressata, sicché l’omessa
impugnazione di tale provvedimento non preclude all’istante il potere di
sollecitare la verifica dell’ente in ordine al rispetto dei limiti di
emissione acustica e alla eventuale adozione dei poteri provvedimentali
previsti dalla L. n. 447/1995.
Nel merito, il ricorso va accolto non avendo il Comune fornito riscontro
alla diffida in epigrafe entro il termine previsto dall’art. 2 della L. n.
241/1990 per la definizione del procedimento con un atto espresso e
motivato.
Per l’effetto, previo accertamento del persistente inadempimento
dell’amministrazione intimata, il Comune va condannato a provvedere
definitivamente sull'istanza de qua –avvalendosi delle Agenzie
Regionali dell’Ambiente ai sensi dell’art. 14 della L. n. 447/1995- entro il
termine perentorio di giorni 30 (trenta) decorrenti dalla comunicazione
della presente sentenza o, se anteriore, dalla sua notifica.
Il Tribunale si riserva di provvedere alla nomina di un commissario ad
acta in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione comunale oltre
il citato termine, previa apposita istanza di parte ricorrente da notificare
alle controparti intimate. |
URBANISTICA:
Come noto, le scelte di pianificazione operate
dall'ente territoriale sono connotate da amplissima
discrezionalità e non richiedono una puntuale motivazione
eccedente le indicazioni di carattere generale offerte
dall'Amministrazione, fatti salvi i casi in cui sussiste una
posizione di affidamento particolarmente qualificato in capo
al privato. Invero:
- “le scelte di pianificazione urbanistica
sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale,
insindacabile nel merito; esse non sono condizionate dalla
pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di
destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli,
essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un
previgente piano regolatore generale";
- "Le scelte di
pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia
discrezionalità e costituiscono apprezzamento nel merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, con la
conseguenza che non devono essere congruamente motivate".
---------------
Giusta il consolidato orientamento, “in assenza di omogeneità
delle zone poste in comparazione e data la natura
necessariamente parcellizzata delle previsioni edificatorie,
non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una
parità di trattamento, tanto meno in relazione all'assetto
urbanistico del territorio, sul quale l'Amministrazione
dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando
affatto l'ampiezza dei lotti interessati dalle differenti
previsioni.
Le scelte di pianificazione territoriale, in
quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono
sindacabili dal G.A. entro limiti alquanto ristretti; a tale
riguardo, le scelte urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale costituiscono
scelte di merito, che non possono essere sindacate dal G.A.,
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il
vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento
basato sulla comparazione con la destinazione impressa agli
immobili adiacenti".
Altresì, non può obliterarsi che
“la pianificazione territoriale "prescinde", infatti, "dalla
titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla
loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo
piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale
si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di
sviluppo che l'amministrazione intende perseguire. Può
dunque legittimamente accadere che un'area appartenente a un
unico proprietario o costituente un unico mappale catastale
sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte
un altro"”.
---------------
1. Con atto notificato il 28.02.2020 e depositato il
successivo 11 maggio, la sig.ra Di Ma.Ro., nella
dedotta qualità di proprietaria di un lotto di terreno sito
in Lusciano, ha impugnato, chiedendone l’annullamento, la
D.C.C. del Comune di Lusciano n. 54 del 26.11.2019 con la
quale è stato approvato il Piano Urbanistico Comunale e la
Valutazione Ambientale Strategica, per la parte in cui viene
prevista per il fondo di sua proprietà la destinazione in
parte in area “B1” e in parte in area “D1”.
2. A sostegno del gravame la ricorrente ha articolato, con
unico motivo, censure di violazione di legge e di eccesso di
potere (art. 32 l. R.C. 22.12.2004, n. 16; regolamento
regionale 04.08.2011, n. 5; art. 3 l. 07.08.1990 n. 241;
contraddittorietà; irrazionalità; illogicità manifesta;
violazione del giusto procedimento; difetto assoluto di
motivazione; difetto di istruttoria; mancanza assoluta dei
presupposti; errore di valutazione).
3. Con ordinanza n. 5176 del 22.09.2023 sono stati
disposti incombenti istruttori al fine di acquisire
dall’intimato Comune “copia delle deliberazioni comunali
gravate (n. 54 del 26.11.2019; n. 73 del 03.07.2018; n. 31 del 19.02.2018) nonché della nota prot. n.
10605 del 02.07.2018, pure menzionata in ricorso”
unitamente ad una dettagliata relazione amministrativa sui
fatti di causa.
4. In data 29.11.2023 il Comune di Lusciano si è
costituito in giudizio, eccependo l’inammissibilità del
ricorso per genericità e deducendone in ogni caso
l’infondatezza. L’Ente locale ha altresì provveduto a
depositare la documentazione richiesta con l’ordinanza n.
5176/23.
5. All’udienza di smaltimento del 30.11.2023 la causa
è stata introitata in decisione.
6. La ricorrente contesta che la nuova pianificazione
urbanistica comunale, approvata con le delibere qui gravate,
avrebbe omesso di classificare l'area della quale
l'interessata è titolare come "zona B3”, attribuendo al
fondo di sua proprietà la destinazione in parte in area
“B1”, in parte in area “D1”.
Deduce che tale scelta sarebbe irrazionale e incoerente con
la situazione di fatto (avuto riguardo sia all’unitaria
conformazione del lotto, sia alla sua naturale ed evidente
vocazione in rapporto alla sua collocazione, in quanto
totalmente inglobato in una più vasta area interamente
urbanizzata e consolidata, tutta rispondente alla
classificazione B) e sarebbe stata adottata senza
un’adeguata ponderazione delle osservazioni presentate
dall'interessata.
6.1. Il motivo, nelle sue diverse articolazioni, è
infondato.
6.2. Giova rimarcare in premessa che, come noto, le scelte
di pianificazione operate dall'ente territoriale sono
connotate da amplissima discrezionalità e non richiedono una
puntuale motivazione eccedente le indicazioni di carattere
generale offerte dall'Amministrazione, fatti salvi i casi
(tra i quali non rientra quello in esame) in cui sussiste
una posizione di affidamento particolarmente qualificato in
capo al privato: “le scelte di pianificazione urbanistica
sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale,
insindacabile nel merito; esse non sono condizionate dalla
pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di
destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli,
essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un
previgente piano regolatore generale" (cfr. Consiglio di
Stato sez. IV, 02/02/2023, n. 1171); "Le scelte di
pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia
discrezionalità e costituiscono apprezzamento nel merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, con la
conseguenza che non devono essere congruamente motivate"
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.12.2022, n. 7928).
6.3. Nel caso di specie, esaminata la documentazione in atti
e alla luce delle doglianze svolte, non è dato apprezzare
alcun profilo di abnormità/palese irragionevolezza delle
scelte operate, tenuto peraltro conto del fatto che
l'Amministrazione procedente ha puntualmente esaminato le
osservazioni fatte pervenire dalla ricorrente (volte ad
ottenere l’inclusione dell’intero lotto in zona B3, o in
subordine, ferma la classificazione per una parte in Area
“B1”, qualificare in “B3” solo la parte già individuata come
“D2”), rilevando che le stesse non apparivano meritevoli di
accoglimento in quanto la proprietà “è caratterizzata da una
palazzina residenziale (B1) e una restante parte con
immobili già destinati ad attività artigianale (D1)”.
6.4. Tali circostanze di fatto non sono state smentite dalla
ricorrente, che si è limitata a genericamente invocare il
diverso trattamento riservato alle aree contigue, senza,
tuttavia, dimostrare che ricorrano situazioni di fatto
concretamente e integralmente sovrapponibili; sul punto,
deve pertanto trovare applicazione il consolidato
orientamento secondo il quale “in assenza di omogeneità
delle zone poste in comparazione e data la natura
necessariamente parcellizzata delle previsioni edificatorie,
non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una
parità di trattamento, tanto meno in relazione all'assetto
urbanistico del territorio, sul quale l'Amministrazione
dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando
affatto l'ampiezza dei lotti interessati dalle differenti
previsioni. Le scelte di pianificazione territoriale, in
quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono
sindacabili dal G.A. entro limiti alquanto ristretti; a tale
riguardo, le scelte urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale costituiscono
scelte di merito, che non possono essere sindacate dal G.A.,
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il
vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento
basato sulla comparazione con la destinazione impressa agli
immobili adiacenti" (TAR Lombardia, Milano, sez. II,
09.12.2021, n. 2763).
6.5. Inoltre la ricorrente non può fondatamente dolersi
della circostanza che la frazione di lotto controversa sia
stata estrapolata dalla restante consistenza immobiliare in
sua titolarità, ricadente in zona B1, per essere
classificata quale zona D1; non può infatti obliterarsi che
“la pianificazione territoriale "prescinde", infatti, "dalla
titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla
loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo
piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale
si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di
sviluppo che l'amministrazione intende perseguire. Può
dunque legittimamente accadere che un'area appartenente a un
unico proprietario o costituente un unico mappale catastale
sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte
un altro" (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.10.2021,
n. 2354; cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 10.03.2021, n. 235)” (TAR Campania, Salerno, sez. II, 28.06.2023, n. 1580).
7. Conclusivamente, il ricorso è infondato e deve essere
respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.01.2024 n. 149 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 27.03.2024 |
Sulla fiscalizzazione
dell'abuso edilizio ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del
2001. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulle modalità di determinazione dell’entità della sanzione
pecuniaria alternativa alla demolizione per un intervento
abusivo di ristrutturazione edilizia.
Sul piano letterale, l’unico criterio menzionato
dall’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 per la determinazione
dell’importo della sanzione è quello del costo di
produzione: la disposizione non menziona criteri diversi,
come il costo storico o il valore di mercato, né contempla
differenti metodologie di calcolo del valore dell’immobile ante e post abuso.
Il criterio di commisurazione della sanzione
amministrativa pecuniaria, in quanto elemento costitutivo
del quantum della medesima, non sfugge al principio di
legalità degli illeciti amministrativi sancito dall’art. 1
l. 689/1981, circostanza già di per sé sola ostativa
all’introduzione, in via interpretativa, di criteri diversi
e ulteriori rispetto a quello previsto dalla legge.
Il legislatore contempla un solo criterio, quello del
costo di produzione, sia per gli interventi di
ristrutturazione eseguiti in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire (art. 33) sia per quelli eseguiti
in parziale difformità da esso (art. 34) e differenzia le
due fattispecie unicamente in relazione alla base di
calcolo, costituita nel primo caso dall’aumento del valore
dell’immobile e nel secondo caso dalla parte realizzata in
difformità. Il costo di produzione assurge, nell’ambito
della disciplina eccezionale e derogatoria della c.d.
fiscalizzazione dell’abuso, a criterio esclusivo di
commisurazione della sanzione pecuniaria alternativa alla
demolizione.
Per tali ragioni, merita condivisione quanto osservato
dal giudice di primo grado secondo cui, in assenza di
diverse indicazioni normative, la differenza non può che
calcolarsi sulla base di grandezze omogenee dovendo i
riferiti dati sul valore dell’immobile essere posti a
confronto tra loro ai fini di calcolare (per differenza tra
gli importi) la somma relativa alla sanzione pecuniaria da
irrogare.
---------------
Il rinvio
alla legge n. 392/1978, contenuto nell’art.
33, comma 2, d.p.r. 380/2001, è limitato ai criteri di
determinazione del costo di produzione ai fini
dell’applicazione della sanzione pecuniaria e non può
estendersi anche ai criteri di calcolo del costo base ai
fini della determinazione dell’equo canone contemplati
dall’art. 22 della legge citata e richiamati nel terzo,
quarto e quinto motivo del ricorso introduttivo.
La tesi del rinvio integrale all’abrogata legge del
1978 è smentita sia dal tenore letterale dell’art. 33, comma
2, che limita il rinvio ai soli criteri di determinazione del
costo base di produzione sia dalla ratio di equità sociale
sottesa alle norme invocate, incompatibile con la natura afflittiva-ripristinatoria della sanzione.
Al riguardo è sufficiente osservare che:
i) il comma 6 dell’art. 33 sancisce che il contributo di
costruzione è comunque dovuto, circostanza che, già di per
sé, esclude che esso debba essere inglobato nella sanzione.
Ciò in disparte l’illogicità della tesi proposta che,
trasformando il contributo di costruzione in una voce di
costo di produzione e quindi della sanzione, ne esclude (o
riduce) il pagamento per le opere abusive soggette a
fiscalizzazione, laddove esso è, invece, integralmente
dovuto per le opere legittimamente realizzate;
ii) la previsione della riduzione del costo base in ragione
dell’imposizione fiscale, sancita dal comma 3 dell’art. 22 l. 392/1978,
è accomunata all’equo canone dalla medesima finalità di
equità sociale e di giustizia redistributiva che ispira
l’istituto ed è incompatibile con l’afflittività della
sanzione alla quale non è applicabile poiché si tradurrebbe
in un vantaggio ingiusto per l’autore dell’abuso, traslando
sulla collettività gli oneri fiscali afferenti all’immobile
abusivamente realizzato (identiche conclusioni si devono
ripetere per la pretesa socializzazione della spesa per le
assicurazioni obbligatorie);
iii) la mancata applicazione dei coefficienti relativi alla
categoria catastale previsti dall’art. 16 riguarda, per
espressa previsione di legge, solo la determinazione del
canone di locazione (comma 4, art. 22), mentre nel caso della
sanzione pecuniaria trova applicazione anche l’art. 16 a cui
l’art. 33 fa rinvio.
---------------
... per la riforma della sentenza del Tribunale
Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Bologna,
sezione seconda n. 224 del 17.04.2023, resa tra le
parti;
...
1. Gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in
epigrafe indicata che ha respinto il ricorso introduttivo e
i motivi aggiunti proposti per l’annullamento dell’ordinanza
del comune di Imola n. 684 del 22.05.2020 e delle cartelle
esattoriali con cui è stato ad essi ingiunto il pagamento
della sanzione pecuniaria di euro 499.925,12 relativa ad un
intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in
mancanza di idoneo titolo edilizio.
1.1 Con il ricorso di primo grado gli interessati
lamentavano l’illegittimità della sanzione per i seguenti
motivi:
i) il comune ha calcolato la sanzione pecuniaria ritenendo che il
rinvio contenuto nell’art. 33 ai criteri della l. 392 del
1978 dovesse intendersi riferito non solo all’edificio
ristrutturato, ma anche a quello preesistente; la norma,
tuttavia, non prevede tale rinvio poiché il richiamo al
“costo di produzione” ex l. 392 del 1978 riguarda solo
l’opera costruita e non il valore iniziale dell’immobile;
ii) il comune ha erroneamente attualizzato il costo di produzione
dell’edificio al mese di febbraio 2004 (data di deposito
della SCIA in sanatoria da parte dei ricorrenti), sebbene la
“data di ultimazione dei lavori” a cui fa riferimento l’art.
33, comma 2, ai fini dell’attualizzazione del costo di
produzione fosse di gran lunga antecedente alla
presentazione della SCIA;
iii) il comune ha violato l’art. 22 l. 392/1978 per avere compreso
due volte l’importo del contributo di costruzione nel
calcolo della sanzione pecuniaria, avendo computato il
coefficiente di cui all’art. 16 della citata legge
(categoria catastale) senza tenere in alcun conto le
“variabili” del costo di produzione costituite da “imposta
di registro”, “ogni imposizione fiscale” e “assicurazioni
obbligatorie”, come, invece, previsto dalla citata
disposizione.
1.2 Il Tar adito respingeva il ricorso ritenendo che l’art.
33 d.p.r. 380/2001 prevedesse, quale unico criterio per la
determinazione della sanzione, quello del costo di
produzione e che il rinvio alla l. 392/1978 non comprendesse
le richiamate previsioni dell’art. 22 l. 392/1978.
2. Con l’appello in trattazione i ricorrenti chiedono la
riforma della sentenza per i seguenti motivi:
I. Violazione dell’art. 33 co. 2° T.U. Edilizia e dei principi
fondamentali in materia di sanzioni edilizie fondate
sull’“aumento di valore” ritratto dall’abuso.
II. Violazione dell’art. 33 co. 2° T.U Edilizia in relazione al
principio di intangibilità della c.d. “parte legittima”
desumibile dal T.U. Edilizia.
III. Violazione dell’art. 33, 2° c. T.U.Ed. ed errata percezione e
valutazione degli atti di causa.
IV. Violazione dell’art. 33, 2° c. T.U.Ed. in relazione all’art. 22
l. 392/1978.
V. Sul ruolo e sulle cartelle esattoriali.
3. Si è costituito in giudizio il Comune di Imola che ha
insistito per la reiezione del gravame.
4. Con ordinanza n. 5008 del 13.12.2023 questa Sezione ha
accolto l’istanza cautelare, rilevando che “trattandosi
di questione esclusivamente pecuniaria nella comparazione
degli interessi in gioco non si ravvisano, né sono stati
prospettati dalla difesa civica, elementi di periculum nel
mero differimento dell’introito delle somme ingiunte da
parte del Comune di Imola”.
...
7. L’appello è infondato.
8. Con i primi due motivi di appello, che possono essere
esaminati congiuntamente in quanto tra loro connessi, i
ricorrenti lamentano l’erroneità del capo della sentenza che
ha respinto le censure relative all’illegittima applicazione
del criterio del costo di produzione per il calcolo del
valore dell’immobile antecedente alla realizzazione
dell’abuso. La sentenza sarebbe censurabile in entrambi i
suoi corni argomentativi poiché:
i) quanto alla lettera della norma, essa appare chiara nel senso di
riferire l’applicazione del criterio convenzionale del
“costo di produzione” unicamente all’immobile come è
“emerso” dall’abuso;
ii) non è corretto predicare un’omogeneità dei criteri estimativi,
senza distinguere tra preesistenze legittime e innovazioni
abusive poiché il “valore” ritratto dall’abuso corrisponde
unicamente all’“oggetto edilizio” realizzato in modo
illecito, mentre la porzione legittima –non rileva se ancora
esistente o “perita” a causa dell’abuso– è un “a priori” il
cui valore non può mai essere incluso nell’operazione
estimativa, pena la realizzazione di un esproprio “di
valore” di un cespite legittimo.
La “preesistenza legittima” rappresenterebbe, in altre
parole, un limite oggettivo e invalicabile del potere sanzionatorio urbanistico-edilizio.
9. I motivi sono infondati.
10. Sul piano letterale, l’unico criterio menzionato
dall’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 per la determinazione
dell’importo della sanzione è quello del costo di
produzione: la disposizione non menziona criteri diversi,
come il costo storico o il valore di mercato, né contempla
differenti metodologie di calcolo del valore dell’immobile
ante e post abuso.
10.1 Il criterio di commisurazione della sanzione
amministrativa pecuniaria, in quanto elemento costitutivo
del quantum della medesima, non sfugge al principio di
legalità degli illeciti amministrativi sancito dall’art. 1
l. 689/1981, circostanza già di per sé sola ostativa
all’introduzione, in via interpretativa, di criteri diversi
e ulteriori rispetto a quello previsto dalla legge.
10.2 Il legislatore contempla un solo criterio, quello del
costo di produzione, sia per gli interventi di
ristrutturazione eseguiti in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire (art. 33) sia per quelli eseguiti
in parziale difformità da esso (art. 34) e differenzia le
due fattispecie unicamente in relazione alla base di
calcolo, costituita nel primo caso dall’aumento del valore
dell’immobile e nel secondo caso dalla parte realizzata in
difformità. Il costo di produzione assurge, nell’ambito
della disciplina eccezionale e derogatoria della c.d.
fiscalizzazione dell’abuso, a criterio esclusivo di
commisurazione della sanzione pecuniaria alternativa alla
demolizione.
10.3 Per tali ragioni, merita condivisione quanto osservato
dal giudice di primo grado secondo cui, in assenza di
diverse indicazioni normative, la differenza non può che
calcolarsi sulla base di grandezze omogenee dovendo i
riferiti dati sul valore dell’immobile essere posti a
confronto tra loro ai fini di calcolare (per differenza tra
gli importi) la somma relativa alla sanzione pecuniaria da
irrogare.
10.4 Sul piano logico, non è ravvisabile alcuna sottostima
della preesistenza legittima o ablazione del relativo valore
poiché il metodo del valore differenziale ante e post abuso,
contemplato dalla disposizione in esame, è volto proprio ad
evitare tale paventato effetto distorsivo, sicché, anche da
tale punto di vista, non vi è spazio per criteri extralegali
di dubbia legittimità e incerta applicazione.
10.5 Non giova alla tesi dei ricorrenti il richiamo al
precedente di questa sezione n. 8862 del 27.12.2019 che
riguarda il caso in cui l’abuso (ritenuto dagli appellanti
di minima incidenza sul valore complessivo dell’immobile)
aveva interessato alcuni vani coinvolti nella
ristrutturazione, in relazione ai quali era stato calcolato
il valore pre e post intervento sempre sulla
base dell’unico criterio costituito dal costo di produzione.
In quella sede, la sezione ha ritenuto legittimo l’operato
del Comune che “ha esplicitato tutti i calcoli effettuati
partendo dal valore dei vani coinvolti nella
ristrutturazione dovuta allo spostamento della scala, quindi
dei metri quadri dei vani interessati dalla scala e dando
atto di tali modalità di calcolo, infine raddoppiando la
somma come espressamente previsto dall’art. 33” e ha
evidenziato che “rispetto alla ristrutturazione non
assentita e al conseguente abuso edilizio, non rileva
l’aumento di superficie complessiva dell’immobile, ma lo
spostamento in sé della scala e le modifiche dei muri
(peraltro neppure consentiti dalla disciplina urbanistica
comunale), rispetto a cui il Comune ha, dunque, valutato la
superficie interessata dall’abuso”.
10.6 Nel caso di specie, invece, l’abuso riguarda l’intero
fabbricato, oggetto di demolizione e successiva
ricostruzione, come ricordato nelle premesse dell’ordinanza
n. 684/2020 di irrogazione della sanzione pecuniaria, con la
conseguenza che non è individuabile nemmeno fisicamente una
porzione legittima che, secondo gli appellanti, non potrebbe
essere ricompresa nella fiscalizzazione.
10.7 Sul piano teleologico, poi, non è predicabile alcuna
espropriazione larvata poiché l’unico bene oggetto del
diritto dominicale è il fabbricato abusivo che viene
eccezionalmente sottratto alla regola della demolizione e
assoggettato alla sanzione pecuniaria alternativa (sulla
natura eccezionale della sanzione in questione e sull’inconfigurabilità
della violazione dell’art. 1 prot. add. CEDU in caso di
immobili abusivi, cfr. Ad.Plen. 16/2023).
10.8 Sempre sul piano teleologico, i criteri del costo
storico e del valore di mercato, in ragione dell’estrema
variabilità dei valori concreti di riferimento, non solo non
consentono la certa predeterminazione della sanzione, in
violazione del già richiamato principio di legalità, ma
rischiano di privarla del tutto della sua afflittività nei
casi in cui non sia ravvisabile un costo storico di acquisto
(perché l’immobile è pervenuto all’attuale proprietario per
donazione o successione) o nel caso di disallineamento tra
il valore di mercato e quello reale.
10.9 L’applicazione dei criteri in esame, in ultima analisi,
può determinare in concreto differenziali negativi o
irrisori, privando la sanzione della sua ragion d’essere e
assicurando un ulteriore vantaggio ingiusto a chi ha
commesso l’abuso edilizio, con frustrazione dell’esigenza di
effettività della pretesa punitiva e della garanzia del
giusto risarcimento alla comunità danneggiata dall’abuso.
10.10 Come osservato dalla recente sentenza dell’Adunanza
Plenaria n. 3 del 08.03.2024, richiamata anche dal
difensore degli appellanti in sede di discussione orale, “la
sanzione pecuniaria costituisce, nei tassativi casi
consentiti, una misura alternativa alla materiale
demolizione del manufatto e deve costituire una ‘risposta sanzionatoria’ omogenea ed effettiva, ciò che non vi sarebbe
se si dovesse tenere conto del suo valore inferiore,
commisurato al tempo della realizzazione dell’abuso” o, come
nel caso di specie, se venisse decurtata una parte della
sanzione in ragione dell’asserita afferenza ad una
(inesistente) parte legittima.
10.11 Alla luce delle sopra esposte considerazioni, i primi
due motivi di appello devono essere respinti.
...
12. Con il quarto e ultimo motivo di appello i ricorrenti
ripropongono il terzo, il quarto e il quinto motivo del
ricorso introduttivo con cui era stato contestato che il
meccanismo di calcolo della sanzione operato dal Comune non
rispetta i criteri di determinazione del “costo di
produzione” stabiliti dalla
l. 392/1978 e, in particolare,
quelli dell’art. 22.
Contrariamente a quanto sostenuto dal
TAR, il rinvio ai criteri della l. 392/1978 operato
dall’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 è integrale e, quindi,
interessa anche l’art. 22.
12.1 La censura deve essere disattesa.
12.2 Il rinvio alla legge n. 392/1978, contenuto nell’art.
33, comma 2, d.p.r. 380/2001, è limitato ai criteri di
determinazione del costo di produzione ai fini
dell’applicazione della sanzione pecuniaria e non può
estendersi anche ai criteri di calcolo del costo base ai
fini della determinazione dell’equo canone contemplati
dall’art. 22 della legge citata e richiamati nel terzo,
quarto e quinto motivo del ricorso introduttivo.
12.3 La tesi del rinvio integrale all’abrogata legge del
1978 è smentita sia dal tenore letterale dell’art. 33, comma
2, che limita il rinvio ai soli criteri di determinazione del
costo base di produzione sia dalla ratio di equità sociale
sottesa alle norme invocate, incompatibile con la natura afflittiva-ripristinatoria della sanzione.
12.4 Al riguardo è sufficiente osservare che:
i) il comma 6 dell’art. 33 sancisce che il contributo di
costruzione è comunque dovuto, circostanza che, già di per
sé, esclude che esso debba essere inglobato nella sanzione.
Ciò in disparte l’illogicità della tesi proposta che,
trasformando il contributo di costruzione in una voce di
costo di produzione e quindi della sanzione, ne esclude (o
riduce) il pagamento per le opere abusive soggette a
fiscalizzazione, laddove esso è, invece, integralmente
dovuto per le opere legittimamente realizzate;
ii) la previsione della riduzione del costo base in ragione
dell’imposizione fiscale, sancita dal comma 3 dell’art. 22 l. 392/1978,
è accomunata all’equo canone dalla medesima finalità di
equità sociale e di giustizia redistributiva che ispira
l’istituto ed è incompatibile con l’afflittività della
sanzione alla quale non è applicabile poiché si tradurrebbe
in un vantaggio ingiusto per l’autore dell’abuso, traslando
sulla collettività gli oneri fiscali afferenti all’immobile
abusivamente realizzato (identiche conclusioni si devono
ripetere per la pretesa socializzazione della spesa per le
assicurazioni obbligatorie);
iii) la mancata applicazione dei coefficienti relativi alla
categoria catastale previsti dall’art. 16 riguarda, per
espressa previsione di legge, solo la determinazione del
canone di locazione (comma 4, art. 22), mentre nel caso della
sanzione pecuniaria trova applicazione anche l’art. 16 a cui
l’art. 33 fa rinvio.
12.5 Anche il quarto motivo di appello deve, quindi, essere
respinto (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 15.03.2024 n. 2507 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fiscalizzazione dell’abuso, da Palazzo Spada arriva
«l’interpretazione autentica». La lettura dell’articolo 33 del Dpr 380 da
parte della Plenaria: la «data dell’abuso» è quella della sua realizzazione.
Ecco come si calcola la sanzione.
Ai fini della determinazione della sanzione per la fiscalizzazione
dell'abuso edilizio per le ristrutturazioni edilizie (articolo 33 del Testo
Unico edilizia) la «data di esecuzione dell'abuso, deve intendersi il
momento di realizzazione delle opere abusive». Per quanto poi riguarda il
calcolo della sanzione, le istruzioni del comma 2 vanno applicate procedendo
«alla individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell'art. 13
della l. n. 392 del 1978 ed alla determinazione del costo unitario di
produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione
dell'abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione
della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va
attualizzato secondo l'indice ISTAT del costo di costruzione».
Così la plenaria del Consiglio di Stato nelle sentenze gemelle
08.03.2024 n. 1,
08.03.2024 n. 2 e
08.03.2024 n. 3 dopo la rimessione della II Sezione, relativamente ai
casi sollevati dai residenti in un comune lombardo.
L'autore dell'abuso ha contestato il metodo di calcolo adottato dal comune
per determinare la sanzione per l'abuso di cui è stata concessa la
fiscalizzazione, impugnando al Tar Lombardia il conto di 73.500 euro
(sentenza n. 3/2004). Il Tar ha respinto il ricorso.
La seconda Sezione di Palazzo Spada, interpellata in appello, ha ritenuto
che il dettato del domma 2 dell'articolo 33 del Dpr 380 presenti alcune
ambiguità che portano a differenti metodi di calcolo e, dunque, di sanzioni
di entità diverse.
Tanto per cominciare si chiede «se, con l'espressione data di esecuzione
dell'abuso debba intendersi il momento di completamento dell'abuso ovvero
quello in cui l'abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici
ovvero sia stato denunciato dall'interessato a mezzo della richiesta di un
condono o ancora quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o
demolitoria, intendendosi cioè l'espressione come momento di cessazione
dell'abuso».
La plenaria, concorda che «al riguardo, sono possibili quattro diverse
interpretazioni, di cui una sola, però -la prima- risulta maggiormente
aderente al suo dato testuale: a) il momento in cui sono ultimati i lavori
edilizi abusivi; b) il momento in cui l'abuso è accertato da parte
dell'amministrazione; c) il momento in cui l'abuso è autodichiarato da parte
dell'interessato; d) il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria».
Con un secondo quesito si chiede «se, in mancanza dei decreti
ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione
degli immobili ex art. 22 della l. n. 392 del 1978, ai fini della
determinazione della sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001 possa procedersi all'attualizzazione, secondo gli indici ISTAT,
al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti
dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se ancora
l'attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della
scoperta dell'abuso o della sua denunzia (o della proposizione della istanza
di condono)».
La Plenaria premette che, in la determinazione della sanzione prevede due
fasi: l'individuazione del costo di produzione «determinato con il
decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso» e
poi all'attualizzazione della sanzione in base all'indice Istat. «Ne
consegue -spiegano i giudici- che va indicizzato non l'importo indicato nel
decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di esecuzione
dell'abuso».
«L'aumento di valore dell'immobile -aggiungono i giudici- va individuato
sulla base dei criteri contenuti nella legge n. 392/1978, calcolando la
superficie convenzionale e considerando il costo unitario di produzione
secondo il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione
dell'abuso: la moltiplicazione tra i due termini indica il costo di
produzione complessivo, ossia l'aestimatio, che va
aggiornato (taxatio) sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione».
Quanto alla ratio della norma analizzata i giudici della Plenaria hanno
anche sottolineato che «nel contemperare gli interessi in conflitto, il
legislatore ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga
conto dell'effettivo valore delle opere abusive, l'unico significativo per
la definizione del caso concreto, e non di quello inferiore e risalente al
passato, non più ancorato all'effettivo valore del bene» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
12.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’isomorfismo funzionale delle diverse fattispecie di
fiscalizzazione degli abusi edilizi: le considerazioni
dell’Adunanza plenaria.
Con tre sentenze gemelle l’Adunanza plenaria chiarisce i
criteri di calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 33,
comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per la
ristrutturazione edilizia e ripercorre la funzione storica
di tale istituto.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione
– Ristrutturazione edilizia – Quantificazione – Criteri.
Ai sensi dell’art. 99 del codice del
processo amministrativo, l’Adunanza plenaria ha affermato i
seguenti
principi:
a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve
intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;
b) ai fini della quantificazione della sanzione pecuniaria da
determinare ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,
deve procedersi alla individuazione della superficie
convenzionale ai sensi dell’art. 13 della l. n. 392 del 1978
ed alla determinazione del costo unitario di produzione,
sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione
dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla
moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo
unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice
ISTAT del costo di costruzione. (1)
---------------
(1) I. – Con la pronuncia in esame, che segue le coeve
sentenze
08.03.2024 n. 2 e
08.03.2024 n. 1, l’Adunanza plenaria risponde alle
questioni deferite rispettivamente, con le coeve ordinanze
Cons. Stato, sez. II,
13.07.2023 n. 6863,
n. 6865 (in Riv. giur. edilizia, 2023, 1050, in Foro
amm., 2023, 1000, nonché oggetto della
News UM n. 111 del 19.09.2023 e a cui si rinvia per
l’indicazione dei quesiti e per l’approfondimento della
vicenda processuale e delle questioni diritto) e n. 6864
vertenti sui criteri di quantificazione della sanzione
amministrativa pecuniaria prevista per la “fiscalizzazione
dell’illecito edilizio” ai sensi dell’art. 33, comma 2,
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 nella parte in cui esso
prevede, nei casi ivi previsti, l’irrogazione di “una
sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore
dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere,
determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei
lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978,
n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data
di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del
costo di costruzione”.
L’Adunanza plenaria ricostruisce la ratio della
disciplina (invero non particolarmente chiara) ripercorrendo
l’evoluzione storica della disposizione di legge così
contribuendo a delineare –a fronte del dato normativo
frammentario– uno statuto unico e omogeneo della c.d. “fiscalizzazione
dell’abuso”.
II – Dopo aver ricostruito i fatti di causa, l’Adunanza plenaria:
a) ha evidenziato come, dal tenore dell’art. 33,
comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, la determinazione della
sanzione amministrativa pecuniaria sia ancorata ad un
duplice riferimento temporale:
a1) alla data di ultimazione
dei lavori, in base ai criteri della legge 27.07.1978, n.
392;
a2) all’ultimo costo di
produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato
alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice
ISTAT del costo di costruzione;
b) ha circoscritto il dubbio interpretativo
deferito dalla Seconda Sezione al termine di cui alla
predetta lett. a2) sia con riferimento:
b1) alle modalità di
individuazione “dell’ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data
di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del
costo di produzione”, stante l’abrogazione dell’art. 22
della legge 27.07.1978, n. 392, disposta dall’art. 14 della
legge 09.12.1998, n. 431, con la conseguente interruzione
dell’emanazione dei decreti ministeriali (l’ultimo emanato
il 18.12.1998) che ogni anno determinavano il costo base di
produzione per la realizzazione degli immobili adibiti ad
uso di abitazione;
b2) al significato da
attribuire all’espressione “alla data di esecuzione
dell’abuso”, potenzialmente declinabile:
- alla luce
del dato letterale, alla data di ultimazione dei lavori
abusivi;
- alla luce
della natura permanente dell’abuso:
i) al momento della scoperta dell’abuso o dell’accertamento
dell’illecito;
ii) al momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte
dell’interessato;
iii) al momento dell’irrogazione della sanzione;
c) rispondendo al primo quesito, ha così
argomentato:
c1) l’art. 33, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001 dispone che vadano effettuate due
distinte operazioni:
i) individuare il costo di produzione, determinato con il
decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione
dell’abuso;
ii) attualizzare l’importo della sanzione, individuato sulla
base del costo di costruzione, applicando l'indice ISTAT;
c2) deve pertanto indicizzarsi
non l’importo indicato nel decreto ministeriale, ma quello
aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, giacché tale
soluzione appare funzionale:
i) a specificare quale debba essere il decreto ministeriale
da utilizzare:
ii) a spiegare la presenza della virgola dopo il termine “abuso”;
d) nel risolvere il secondo quesito
sull’interpretazione della locuzione “data di esecuzione
dell’abuso”, ha valorizzato il dato testuale evidenziando:
d1) come l’aumento di valore
dell’immobile va individuato sulla base dei criteri
contenuti nella legge n. 392 del 1978, calcolando la
superficie convenzionale e considerando il costo unitario di
produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla
data di esecuzione dell’abuso: la moltiplicazione tra i due
termini indica il costo di produzione complessivo, ossia l’aestimatio,
che va aggiornato (taxatio) sulla base dell’indice
ISTAT del costo di costruzione;
d2) come il legislatore ha
ribadito che va esercitato il potere sanzionatorio anche
quando vi siano obiettive difficoltà tecniche per eseguire
la demolizione, derogando alla regola generale per cui gli
abusi edilizi vanno materialmente rimossi;
d3) che il relativo potere può
essere esercitato su richiesta del responsabile dell’abuso,
qualora risulti l’oggettiva impossibilità di procedere alla
riduzione in pristino delle parti difformi senza incidere
sulla stabilità dell'intero edificio;
d4) che, nel contemperare gli
interessi in conflitto, il legislatore ha disposto che la
sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga conto
dell’effettivo valore delle opere abusive, l’unico
significativo per la definizione del caso concreto, e non di
quello inferiore e risalente al passato, non più ancorato
all’effettivo valore del bene;
d5) come l’abrogato art. 9,
comma 2, della l. 28.02.1985, n. 47 –secondo il quale: “Qualora,
sulla base di motivato accertamento dell'Ufficio tecnico
comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia
possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente
alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento
alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri
previsti della legge 27.07.1978, n. 392”)– prevedesse
non meccanismo di adeguamento periodico con effetti
automatici per la commisurazione della sanzione ancorato
all’emanazione annuale dei decreti ministeriali, in ragione
ma del mero rinvio operato alla legge n. 392 del 1978, il
cui art. 22, comma 1 (ora abrogato nei sensi di cui all’art.
14, della legge n. 431 del 1998 ossia limitatamente alle
locazioni abitative) ove si stabiliva che: “Per gli
immobili adibiti ad uso di abitazione che sono stati
ultimati dopo il 31.12.1975, il costo base di produzione a
metro quadrato è fissato con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, di
concerto con quello di grazia e giustizia, sentito il
Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 31 marzo di ogni
anno e da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica”;
d6) come per le ipotesi meno
gravi di cui all’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del
2001 –secondo cui: “Quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parteeseguita in
conformità, il dirigente o ilresponsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione,
stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del
valore venale, determinato a cura della Agenzia del
territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello
residenziale”– è stato previsto un meccanismo di
adeguamento analogo a quello previsto dall’art. 33, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001 che –sia per gli immobili ad uso
abitativo sia ad uso diverso– che tiene però espressamente
conto del valore del bene al tempo della determinazione
sanzione, sicché l’interpretazione dell’art. 33, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo la quale rileverebbe il
valore del bene al momento di realizzazione delle opere:
i) integrerebbe un’irragionevole disparità poiché
ingiustificatamente meno afflittiva rispetto alle ipotesi di
cui all’art. 34 comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001;
ii) incrinerebbe l’omogeneità e l’effettività della risposta
sanzionatoria prevista dal t.u. edilizia in alternativa alla
materiale demolizione.
III – Per completezza, si segnala quanto segue:
e) con riferimento alle ipotesi in cui la
fiscalizzazione dell’abuso ex art. 33, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001 non è ammessa o è sottoposta a particolari
condizioni v., da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 25.01.2024,
n. 806 che ricorda la distinzione tra:
e1) le opere di
ristrutturazione abusiva eseguite su immobili vincolati ai
sensi del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, per le
quali, l’art. 33, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 –nel
prevedere che “l’amministrazione competente a vigilare
sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti, ordina la
restituzione in pristino a cura e spese del responsabile
dell’abuso, indicando criteri e modalità diretti a
ricostituire l’originario organismo edilizio, ed irroga una
sanzione pecuniaria da 516 euro a 5164 euro.”– esclude
la fiscalizzazione dell’abuso;
e2) le opere di
ristrutturazione abusiva eseguite su immobili non vincolati,
ma ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, per le quali l’art. 33,
comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede un’ulteriore "variabile"
procedimentale, ovvero la necessità del previo "parere
vincolante circa la restituzione in pristino o la
irrogazione della sanzione pecuniaria" a cura
dell'“amministrazione competente alla tutela dei beni
culturali ed ambientali”;
f) con riferimento alle ipotesi in cui la
fiscalizzazione dell’abuso ex art. 34, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001 concerna immobili sopposti a vincolo
paesaggistico, in giurisprudenza se ne sottolinea
l’inapplicabilità poiché tutti gli interventi realizzati in
tale zona eseguiti in difformità dal titolo abilitativo si
considerano in variazione essenziale e, quindi, in
difformità totale rispetto all’intervento autorizzato non
potendo essere, pertanto, mai ritenuti «in parziale
difformità», giusta previsione dell’art. 32, comma 3,
del d.P.R. n. 380 del 2001 (Tar per la Liguria, sez. II,
05.09.2023 n. 785, Tar per la Campania, sez. st.
Salerno, sez. II,
12.01.2022 n. 43, Tar per il Lazio, sez. st. Latina,
sez. I,
12.07.2021 n. 457);
g) con riferimento al rapporto tra le diverse
fattispecie di fiscalizzazione presente nel t.u. edilizia:
v. Cons. Stato, sez. II, 25.10.2023, n. 9243 che sottolinea
quanto segue:
g1) l’art. 38 del d.P.R. n. 380
del 2001 possa essere applicato:
i) nel solo caso di impossibilità di rimozione dei vizi
formali o procedurali inerenti al rilascio del permesso di
costruire,
ii) ma anche nel caso di impossibilità di riduzione in
pristino del bene, laddove il titolo edilizio sia stato
annullato non per vizi formali o procedurali, bensì
sostanziali;
g2) si tratta, infatti, di due
condizioni eterogenee poiché:
i) la prima attiene alla sfera dell'amministrazione e
presuppone l’oggettiva impossibilità giuridica di attivare
la convalida del provvedimento amministrativo (sub specie
del permesso di costruire), ex art. 21-nonies, comma 2,
della l. 07.08.1990, n. 241: unica ed esclusiva fattispecie
di cui si occupata la sentenza
Cons. Stato, Ad. plen., 07.09.2020 n. 17 (in Foro it.,
2021, III, 33, con nota di E. TRAVI, in Giur. it., 2021, 4,
con nota di A. GIUSTI, La fiscalizzazione dell'abuso
edilizio fra esigenze punitive e di ripristino
dell'equilibrio urbanistico; in Urbanistica e appalti, 2021,
72, con nota di A. LICCI MARINI, L’Adunanza plenaria fissa i
limiti operativi dell’art. 38 T.U.E. nonché oggetto della
News US n. 107 del 28.09.2020);
ii) la seconda attiene alla sfera del privato e inerisce
alla concreta possibilità di procedere alla restituzione in
pristino dello stato dei luoghi (Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 08.03.2024 n. 3 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla fiscalizzazione dell’abuso edilizio.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione
– Sanzione – Determinazione.
Ai sensi dell’art. 99 del codice del
processo amministrativo, l’Adunanza plenaria ha affermato i
seguenti principi:
a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve
intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;
b) ai fini della quantificazione della sanzione pecuniaria da
determinare ex
art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,
deve procedersi alla individuazione della superficie
convenzionale ai sensi dell’art. 13 della l. n. 392 del 1978
ed alla determinazione del costo unitario di produzione,
sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione
dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla
moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo
unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice
ISTAT del costo di costruzione (1).
---------------
(1) Principi analoghi sono stati fissati dall’Adunanza plenaria
nelle sentenze nn. 1 e 2 del 2024 (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 08.03.2024 n. 3 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
1. L’odierno giudizio trae origine dal ricorso dinanzi al
TAR per la Lombardia (Sede di Milano), con il quale
l’appellante ha chiesto l’annullamento del provvedimento
emesso dal Responsabile dello Sportello unico per l'edilizia
in data 17.03.2021, n. 3628, nella parte in cui ha
determinato la sanzione pecuniaria di cui all’art. 33, comma
2, del d.P.R. n. 380/2001, in accoglimento della sua
richiesta di ‘fiscalizzazione dell’illecito edilizio’
posto in essere sul fabbricato sito nel territorio del
Comune di Bormio.
2. L’amministrazione comunale ha quantificato la sanzione
secondo il seguente procedimento:
I) individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art.
13 della legge n. 392/1978 in misura pari a 39,08 metri
quadri;
II) determinazione del costo unitario di produzione in 550,97 euro
al metro quadrato;
III) moltiplicazione della superficie convenzionale per il costo
unitario di produzione, con il risultato di 21.531,91 euro;
IV) rivalutazione della somma così quantificata, in base ai
parametri ISTAT dal 1993 al 2020, con il risultato di
36.746,35 euro a titolo di aumento di valore dell’immobile;
V) raddoppio di tale importo, con la quantificazione della sanzione
pecuniaria in misura pari a 73.492,70 euro.
3. Col ricorso di primo grado, l’interessata ha contestato
unicamente il meccanismo utilizzato dall’amministrazione per
attualizzare il costo di produzione, lamentando la
violazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001,
per il quale “Qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile,
conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con
riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai
criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, e con
riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con
decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione
dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di
costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti
all'applicazione della legge medesima, del parametro
relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria
A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della
medesima legge”.
Ella ha dedotto che tale comma fisserebbe il valore del
costo di produzione al momento dell’abuso, nella fattispecie
al 1993.
Con la sentenza impugnata, il TAR ha respinto il ricorso,
sulla base di ragioni letterali, sistematiche e storiche.
Quanto al dato letterale, il TAR ha rilevato che la
locuzione “data di esecuzione” non può coincidere con
quella di “ultimazione dei lavori”, poiché altrimenti
non avrebbe alcun senso il riferimento all’indice ISTAT.
Pertanto, per non incorrere in un’interpretatio abrogans
di questa parte della disposizione, la locuzione “data di
esecuzione dell’abuso” va intesa come momento in cui
l’abuso viene ‘fiscalizzato’, poiché l’abuso edilizio
ha natura di illecito permanente e sussiste sino a quando è
determinata la sanzione pecuniaria sostitutiva della
demolizione.
Quanto al dato sistematico, tale interpretazione testuale
del comma 2 dell’art. 33 risulta coerente con quanto
disposto:
a) dall’art. 34 del medesimo testo unico sull’edilizia, secondo
l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza
amministrativa, in relazione alla ‘fiscalizzazione’
delle opere eseguite in parziale difformità dal permesso di
costruire, che riguarda illeciti meno gravi;
b) dal secondo periodo dell’art. 33, comma 2, che concerne l’abuso
commesso su immobili ad uso diverso da quello abitativo;
c) dall’art. 4, comma 6, della legge regionale della Lombardia n.
31/2004, che, in attuazione delle disposizioni sul condono
edilizio di cui al d.l. 269/2003, dispone un’attualizzazione
del computo degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione al tempo del rilascio del titolo in sanatoria.
Quanto, infine, al terzo dato di carattere storico, l’art.
33, comma 2, ricalca la disposizione dell’abrogato art. 9
della legge n. 47/1985, che non conteneva alcun riferimento
all’aggiornamento all’indice ISTAT, atteso che vigeva
all’epoca l’art. 22 della legge n. 392/1978, che prevedeva
l’adozione annuale di decreti ministeriali recanti il costo
base di produzione al metro quadrato.
4. Avverso la sentenza di primo grado, ha proposto appello
l’originaria ricorrente, che ha contestato la conclusione
raggiunta dal giudice di prime cure, insistendo:
a) sul dato testuale dell’art. 33, comma 2;
b) sulla tesi per la quale la natura permanente dell’abuso edilizio
rileverebbe solo in relazione all’imprescrittibilità del suo
accertamento e della correlata sanzione, ma non in relazione
alla determinazione della sanzione.
Inoltre, l’appellante ha dedotto che il medesimo comma 2
prevedrebbe regole diverse rispetto a quelle contenute negli
artt. 33 e 34 d.P.R. n. 380/2001.
5. Costituitosi in giudizio, il Comune di Bormio ha
argomentato in ordine all’infondatezza dell’avverso gravame.
6. La Seconda Sezione del Consiglio di Stato ha rilevato la
mancanza di specifici precedenti giurisprudenziali al
riguardo ed ha ritenuto di dover rimettere l’affare alla
Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del
c.p.a., trattandosi di una questione interpretativa che può
dar luogo a contrasti giurisprudenziali ed è di particolare
rilevanza, considerato l’alto numero dei casi pendenti in
tema di condono edilizio.
L’ordinanza di rimessione ha individuato la ratio delle
disposizioni sulla cd. fiscalizzazione dell’abuso edilizio
nella volontà del legislatore di evitare, nei casi previsti
dal comma 2, la sanzione primaria della rimozione e della
demolizione dell’abuso, quando vi siano obiettive difficoltà
tecniche di esecuzione.
Pertanto, ad avviso della Seconda Sezione, la ‘fiscalizzazione’
rappresenta un istituto attraverso il quale il legislatore
ha inteso contemperare la situazione di difficoltà esistente
al momento di esecuzione del ripristino con la necessità di
esercitare comunque il potere sanzionatorio.
In definitiva, in caso di impossibilità di eseguire la
sanzione reale in forma specifica, si accede ad una misura
reale in forma pecuniaria con la stessa identica funzione
risarcitoria della collettività, offesa dall’abuso edilizio.
6.1. Tanto premesso, la Sezione remittente ha ricostruito
l’ambito di applicazione del comma 2 dell’art. 33 del d.P.R.
n. 380/2001, individuando due riferimenti temporali:
I) la data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri della
legge 27.07.1978, n. 392;
II) l’ultimo costo di produzione determinato con decreto
ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso,
sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione.
6.2. La Sezione rinviene dei dubbi soprattutto con
riferimento al secondo termine temporale, sia quanto alle
modalità di individuazione “dell’ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data
di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del
costo di produzione”, sia con riferimento al significato da
attribuire all’espressione “alla data di esecuzione
dell’abuso”.
6.2.1. Quanto al primo profilo, la Seconda Sezione rileva
che, con l’abrogazione dell’art. 22 della legge 27.07.1978,
n. 392, disposta dall’art. 14 della legge 09.12.1998, n.
431, non sono più stati emanati i decreti ministeriali che
ogni anno determinavano il costo base di produzione per la
realizzazione degli immobili adibiti ad uso di abitazione.
Infatti, l’ultimo decreto è stato emanato il 18.12.1998.
Conseguentemente, rileverebbe nel caso di specie l’anno di
ultimazione dell’abuso (1993) per stabilire il valore
dell’immobile o tutt’al più la data di emanazione del
decreto del 18.12.1998.
Ciò però determinerebbe un vulnus alla ratio e alle finalità
perseguite ed un vantaggio economico per colui che benefici
dell’abuso edilizio.
6.2.2. Quanto al secondo profilo, l’espressione “esecuzione
dell’abuso” non sarebbe così inequivoca come sostenuto
dall’appellante, dovendosi avere riguardo, per la natura
permanente dell’abuso, al momento della scoperta dell’abuso
o dell’accertamento dell’illecito, ovvero al momento
dell’irrogazione della sanzione.
6.3. Tanto premesso, la Seconda Sezione ha sottoposto
all’esame dell’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
- se, con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di
cui all’art. 33, comma 2, debba intendersi il momento di
completamento dell’abuso ovvero quello in cui l’abuso è
stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia
stato denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di
un condono o ancora quello di irrogazione della sanzione
pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l’espressione
come momento di cessazione dell’abuso;
- se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del
costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex
art. 22 della l. n. 392 del 1978, ai fini della
determinazione della sanzione pecuniaria ex art. 33, comma
2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all’attualizzazione,
secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della
sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi
decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero
se ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno
limitata al momento della scoperta dell’abuso o della sua
denunzia (o della proposizione della istanza di condono).
7. Nelle memorie prodotte in vista dell’udienza di
discussione, le parti hanno insistito nelle loro
conclusioni.
8. I quesiti sottoposti all’attenzione dell’Adunanza
Plenaria hanno ad oggetto l’interpretazione dell’art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui esso
prevede –nei casi ivi previsti– l’irrogazione di “una
sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore
dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere,
determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei
lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978,
n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data
di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del
costo di costruzione”.
In particolare, occorre chiarire come vada determinato il ‘costo
di produzione’.
9. Come ha prospettato l’ordinanza di rimessione, il sopra
riportato comma 2 potrebbe essere interpretato in due modi.
Premesso che la sanzione deve essere pari al doppio
dell’aumento del valore dell’immobile a seguito della
realizzazione delle opere abusive e che rilevano i criteri
previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, l’ultimo costo di
produzione:
-
per una prima interpretazione, va determinato secondo quanto
stabilito dal decreto ministeriale e poi il relativo importo
va aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso sulla base
dell'indice ISTAT del costo di costruzione;
-
per una alternativa interpretazione, va determinato con
riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con
decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione
dell'abuso, e l’importo così ottenuto va incrementato sulla
base dell’indice ISTAT del costo di costruzione.
Questa seconda lettura –che valorizza la virgola che segue
la parola “abuso”– rileva che il termine ‘aggiornato’
fa riferimento all'ultimo costo di produzione determinato
con il decreto ministeriale, aggiornato alla data di
esecuzione dell’abuso, ossia al decreto ministeriale emesso
in prossimità all’esecuzione dell’abuso.
9.1. La scelta tra le due interpretazioni letterali sopra
illustrate lascia aperto un ulteriore interrogativo, ossia
cosa si intenda per “data di esecuzione dell’abuso”.
Al riguardo, sono possibili quattro diverse interpretazioni,
di cui una sola, però, la prima, risulta maggiormente
aderente al suo dato testuale:
a) il momento in cui sono ultimati i lavori edilizi abusivi;
b) il momento in cui l’abuso è accertato da parte
dell’amministrazione;
c) il momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte
dell’interessato;
d) il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria.
9.2. L’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 dispone che
vadano effettuate due distinte operazioni:
a) individuare il costo di produzione, determinato con il decreto
ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso;
b) attualizzare l’importo della sanzione, individuato sulla base
del costo di costruzione, applicando l'indice ISTAT.
Ne consegue che va indicizzato non l’importo indicato nel
decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di
esecuzione dell’abuso. Questa soluzione, da un lato,
consente di specificare quale deve essere il decreto
ministeriale da utilizzare dall’altro, spiega perché nella
frase vi sia una virgola dopo il termine “abuso”.
9.3. Quanto poi alla locuzione “data di esecuzione
dell’abuso”, rileva il suo dato testuale.
L’aumento di valore dell’immobile va individuato sulla base
dei criteri contenuti nella legge n. 392/1978, calcolando la
superficie convenzionale e considerando il costo unitario di
produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla
data di esecuzione dell’abuso: la moltiplicazione tra i due
termini indica il costo di produzione complessivo, ossia l’aestimatio,
che va aggiornato (taxatio) sulla base dell’indice
ISTAT del costo di costruzione.
10. Il legislatore ha ribadito che va esercitato il potere
sanzionatorio anche quando vi siano obiettive difficoltà
tecniche per eseguire la demolizione, derogando alla regola
generale per cui gli abusi edilizi vanno materialmente
rimossi.
Il relativo potere può essere esercitato su richiesta del
responsabile dell’abuso, qualora risulti l’oggettiva
impossibilità di procedere alla riduzione in pristino delle
parti difformi senza incidere sulla stabilità dell'intero
edificio.
Nel contemperare gli interessi in conflitto, il legislatore
ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata
tenga conto dell’effettivo valore delle opere abusive,
l’unico significativo per la definizione del caso concreto,
e non di quello inferiore e risalente al passato, non più
ancorato all’effettivo valore del bene.
11. E’ significativo che l’art. 33, comma 2, ricalca
l’abrogato comma 2 dell’art. 9 della legge n. 47/1985,
secondo il quale: “Qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'Ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga
una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di
valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle
opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione
dei lavori, in base ai criteri previsti della legge
27.07.1978, n. 392”.
Quest’ultima disposizione non conteneva alcun meccanismo di
adeguamento, ma il mero rinvio alla legge n. 392/1978, il
cui art. 22, comma 1, ora abrogato nei sensi di cui all’art.
14, della legge n. 431/1998 ossia limitatamente alle
locazioni abitative, stabiliva che: “Per gli immobili
adibiti ad uso di abitazione che sono stati ultimati dopo il
31.12.1975, il costo base di produzione a metro quadrato è
fissato con decreto del Presidente della Repubblica, su
proposta del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con
quello di grazia e giustizia, sentito il Consiglio dei
Ministri, da emanare entro il 31 marzo di ogni anno e da
pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.
L’emanazione annuale dei decreti ministeriali, pertanto, già
comportava un adeguamento periodico con effetti automatici
per la commisurazione della sanzione.
Inoltre, un meccanismo di adeguamento, analogo a quello
previsto dall’art. 33, comma 2, è contenuto nell’art. 34,
comma, secondo il quale: “Quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione,
stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del
valore venale, determinato a cura della agenzia del
territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello
residenziale”.
Quest’ultima disposizione riguarda condotte meno gravi di
quelle disciplinate dall’art. 33, comma 2, e va intesa –con
riferimento ai casi in cui si tratti di immobili sia ad uso
abitativo che ad uso diverso da quello abitativo- nel senso
che la ‘fiscalizzazione’ debba tenere conto del
valore del bene al tempo della sua determinazione.
12. Sarebbe invece irragionevole l’interpretazione dell’art.
33, comma 2, secondo la quale rileverebbe il valore del bene
al momento di realizzazione delle opere.
La sanzione pecuniaria costituisce, nei tassativi casi
consentiti, una misura alternativa alla materiale
demolizione del manufatto e deve costituire una ‘risposta
sanzionatoria’ omogenea ed effettiva, ciò che non vi
sarebbe se si dovesse tenere conto del suo valore inferiore,
commisurato al tempo della realizzazione dell’abuso.
13. Può pertanto, darsi risposta ai quesiti sottoposti
all’esame del Collegio nel senso che:
a) con l’espressione “data
di esecuzione dell’abuso”, deve intendersi il momento di
realizzazione delle opere abusive;
b) ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria da
determinare ex
art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,
deve procedersi alla determinazione della superficie
convenzionale ai sensi dell’art. 13 della legge n. 392/1978
ed alla determinazione del costo unitario di produzione,
sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione
dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla
moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo
unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice
ISTAT del costo di costruzione (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 08.03.2024 n. 3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fiscalizzazione dell’abuso: i criteri di liquidazione
all’esame della Plenaria.
La II Sezione del Consiglio di Stato deferisce
all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., il dubbio interpretativo sulla quantificazione della
sanzione pecuniaria applicata ai sensi dell’art. 33, comma
2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione –
Quantificazione – Criteri – Deferimento all’Adunanza
plenaria.
Vanno sottoposti all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato i seguenti quesiti:
- se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui
all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 debba
intendersi il momento di completamento dell’abuso ovvero in
cui l’abuso è stato
accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato
denunciato dall’interessato a mezzo della
richiesta di un condono o ancora quello di irrogazione della
sanzione pecuniaria o demolitoria,
intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione
dell’abuso;
- se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del
costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex
art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392, ai fini della
determinazione
della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi
all’attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di
irrogazione della sanzione pecuniaria
dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se
ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata
al momento della scoperta dell’abuso o
della sua denunzia (istanza di condono). (1)
---------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la seconda Sezione del
Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, c.p.a., un duplice quesito
sull’interpretazione del sistema di quantificazione della
sanzione amministrativa pecuniaria
conseguente alla riconosciuta sussistenza dei presupposti
della fiscalizzazione dell’abuso
edilizio relativo a fabbricati destinati ad uso abitativo di
cui all’art. 33, comma 2, del
d.P.R.
n. 380 del 2001, e, segnatamente:
a) con riferimento all’aestimatio della
sanzione amministrativa pecuniaria –pari al
doppio dell’aumento del valore dell’immobile conseguente
alla realizzazione
delle opere abusive, determinato con riferimento alla data
di ultimazione dei
lavori– e all’eventuale taxatio, parametrata all’ultimo
costo di produzione fissato
con decreto ministeriale, aggiornato, sulla base del
relativo indice ISTAT, alla
“data di esecuzione dell'abuso”, espressione suscettibile di
quattro possibili
alternative ermeneutiche potendosi riferire al momento:
i)
di completamento e
ultimazione dei lavori abusivi;
ii) dell’accertamento
dell’abuso da parte della
P.A.;
iii) della (auto)denuncia da parte dell’interessato;
iv) dell’irrogazione della
sanzione pecuniaria e demolitoria;
b) della possibilità di operare l’anzidetta
taxatio rivalutando gli ultimi decreti ministeriali adottati
(30.01.1997 e 18.12.1998) fino al momento di
irrogazione della sanzione pecuniaria ovvero quantomeno fino
al momento della
scoperta dell’abuso o della sua denunzia (istanza di
condono).
II. – La controversia sulla quale si innestano i suesposti
dubbi interpretativi –per quanto necessario all’ordinata
esposizione delle argomentazioni spese dall’ordinanza– può
così
riassumersi:
c) nel giudizio di primo grado avente ad oggetto
l’impugnazione del provvedimento di fiscalizzazione
dell’abuso adottato a seguito dell’accertata
impossibilità materiale del ripristino dello status quo ante
senza pregiudizio della
parte regolarmente assentita di un fabbricato destinato ad
abitazione:
c1) il comune –in applicazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui, in tali casi, la sanzione amministrativa
pecuniaria irrogata è
“pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile,
conseguente alla realizzazione
delle opere, determinato, con riferimento alla data di
ultimazione dei lavori, in base
ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392 e con
riferimento all’ultimo
costo di produzione determinato con decreto ministeriale,
aggiornato alla data di
esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del
costo di costruzione”– ha
proceduto:
i) a determinare il costo unitario di produzione;
ii) a
moltiplicarlo per la superficie convenzionale del fabbricato
computata ai
sensi dell’art. 12 della l. n. 392 del 1978;
iii) ad
attualizzarlo dal 1993 (anno
di realizzazione dell’abuso) al 2020 (anno di determinazione
della sanzione)
mediante applicazione del relativo indice ISTAT;
iv) a
raddoppiare tale
somma;
c2) la parte ricorrente non ha contestato né la fissazione
della superficie convenzionale né il valore del costo
unitario di produzione determinata dal
Comune, ma ha lamentato l’illegittimità dell’attualizzazione
del costo di
produzione da determinarsi –a suo dire– con esclusivo
riferimento al
momento di realizzazione dell’abuso;
c3) il Tar adito ha respinto il ricorso evidenziando come
la disposizione di
legge di cui all’art. 33, comma, 2 del d.P.R. n. 380 del
2001:
- sia chiara nella scelta di rapportare l’entità della
sanzione al doppio
dell’aumento di valore dell’immobile determinato alla data
di ultimazione
dei lavori in base ai criteri della l. n. 392 del 1978;
- sia invece nebulosa nella parte in cui fa riferimento
“all’ultimo costo di
produzione determinato con decreto ministeriale” sia
soprattutto alla
necessità dell’aggiornamento “alla data di esecuzione
dell’abuso”, sulla
base dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
c4) con riferimento a quest’ultima questione, il Tar ha
osservato come:
- non sia possibile sostenere la tesi della parte ricorrente
secondo cui la “data di esecuzione” deve coincidere
puramente e semplicemente con quella di
“ultimazione dei lavori”, giacché, in tal modo, non avrebbe
alcun senso il
riferimento all’aggiornamento secondo l’indice ISTAT;
- per evitare di incorrere in una interpretazione
sostanzialmente abrogante
di parte del comma 2 dell’art. 33, è necessario ritenere che
la “data di
esecuzione dell’abuso”, cui è riferito l’aggiornamento, non
sia quella della
mera ultimazione dei lavori, bensì quella in cui l’abuso
viene per così dire
fiscalizzato, essendo l’abuso edilizio un illecito
permanente, che resta in
“esecuzione” finché, come nel caso di specie, non viene
determinata la
sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria nei
confronti del
responsabile;
- una simile interpretazione, oltre a consentire
l’applicazione dell’aggiornamento ISTAT preteso dalla norma
di legge, appare corretta
anche da un punto di vista sistematico, ponendosi in armonia
con la
complessiva legislazione che consente la c.d.
fiscalizzazione dell’abuso, in
caso di impossibilità della riduzione in pristino, giacché:
i) nell’ulteriore
ipotesi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo
agli interventi eseguiti
in parziale difformità dal permesso di costruire, qualora la
demolizione non
possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità,
l’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di
produzione
stabilito secondo la l. n. 392 del 1978 e la giurisprudenza
amministrativa è
concorde nel ritenere che la fiscalizzazione degli abusi
edilizi deve tenere
conto dei valori vigenti al momento di presentazione della
relativa
domanda, per evitare che l’autore dell’abuso possa lucrare
sul tempo
intercorrente fra la conclusione dei lavori –cui fa seguito
il godimento
dell’immobile abusivo– e la determinazione della sanzione,
considerato
sempre che l’illecito edilizio ha carattere permanente, per
cui continua nel
tempo fino al ripristino della situazione originaria oppure
sino al verificarsi
degli altri casi di cessazione espressamente previsti
dall’ordinamento (cfr.
Tar per il Piemonte,
sez. II, 2019, n. 44; Tar per la
Lombardia, Milano,
sez. II, 27.02.2018 n. 568);
ii) le condotte
sanzionate dal succitato art.
34 del d.P.R. n. 380 del 2001 –difformità parziale dal
titolo edilizio–
appaiono oggettivamente meno gravi di quelle dell’art. 33
del d.P.R. n. 380
del 2001 –difformità totale o assenza di titolo– per cui
sarebbe paradossale
che la sanzione pecuniaria per quest’ultimo caso fosse più
lieve di quella
invece prevista per il primo;
iii) l’art. 33, comma 2, del
d.P.R. n. 380 del 2001
per i casi di abusi su immobili ad uso diverso da quello
abitativo prevede
una sanzione pari al doppio dell’aumento del valore venale,
determinato
dall’Agenzia del territorio e non si tratta certo del valore
venale al momento
di completamento dei lavori bensì di quello al momento della
domanda di
fiscalizzazione, onde evitare che il responsabile tragga un
vantaggio
ingiustificato dal decorso del tempo, durante il quale ha
comunque goduto
del bene ancorché abusivo;
- l’art. 33, comma 2, del vigente t.u. edilizia ricalca la
disposizione dell’abrogato art. 9 della legge 28.02.1985, n. 47, la quale però non
conteneva alcun riferimento all’ultimo costo di produzione
determinato con
decreto ministeriale ed aggiornato sulla base dell’indice
ISTAT del costo di
costruzione, sicché l’inserimento nel testo dell’art. 33,
comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001 di tale meccanismo di adeguamento si
spiegherebbe con
l’abrogazione –ad opera della l. n. 431 del 1998–
dell’art. 22 della legge n.
392 del 1978 l. n. 392 che prevedeva quoad effectum
l’adozione annuale di
decreti ministeriali recanti il costo base di produzione al
metro quadrato
così garantendo l’adeguamento periodico, con conseguenti
effetti
automatici nella fissazione della sanzione secondo il citato
art. 9 della l. n.
47 del 1985;
d) l’ordinanza in rassegna nel rimettere le
questioni all’Adunanza plenaria, richiama le motivazioni
spese dal giudice di primo grado, articolando le seguenti
e ulteriori argomentazioni:
d1) la misura reale della rimozione o della demolizione
costituisce la conseguenza tipica e primaria dell’abuso
edilizio rispetto alle altre che
costituiscono, invece, deroghe alla prescrizioni generali,
il che vale anche
per la c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio che
rappresenta una sanzione
derogatoria rispetto a quella primaria (della rimozione o
della demolizione
dell’abuso), ammessa eccezionalmente (nella fase esecutiva
della sanzione
ripristinatoria) quando emergano obiettive difficoltà
tecniche di esecuzione
(ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
08.01.2023 n. 2423;
28.03.2022 n.
2273;
10.01.2020 n. 254; sez. II,
27.11.2019 n.
8100);
d2) il legislatore ha pertanto inteso salvaguardare lo
status esistente al momento dell’esecuzione della rimozione
o della demolizione quando il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile (per il pregiudizio
che detto
ripristino potrebbe comportare a quanto legittimamente
edificato), senza
che ciò costituisca un’abdicazione del potere sanzionatorio,
trasformando
piuttosto la misura reale in misura pecuniaria ed assegnando
a quest’ultima
la stessa identica sanzione risarcitoria della collettività,
offesa dall’abuso
edilizio;
d3) la disposizione del citato art. 33, comma 2, del d.P.R.
380 del 2001 individua
–a tal fine– un duplice riferimento temporale:
- il primo costituito dalla data di ultimazione dei lavori,
in base ai criteri della legge 27.07.1978, n. 392
(riguardante il momento dell’intervento
edilizio di ristrutturazione in assenza di permesso di
costruire o in totale
difformità da esso);
- il secondo rappresentato dall’ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data
di esecuzione dell’abuso
dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
d4) l’utilizzo della combinazione dei predetti criteri e
parametri, non è di immediata soluzione poiché:
- con riferimento al primo profilo deve rilevarsi
l’intervenuta l’abrogazione dell’art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392 ad opera dell’art. 14 della legge
09.12.1998, n. 431, sicché l’ultimo decreto adottato su
tale base
normativa è quello del 18.12.1998;
- con riferimento al secondo profilo, l’equivocità
dell’espressione “momento dell’esecuzione dell’abuso” la cui
applicazione letterale la
farebbe coincidere -mancando gli ulteriori decreti
ministeriali de qua– con
la data dell’ultimazione dei lavori abusivi o tutt’al più
alla data dell’ultimo
aggiornamento (d.m. del 18.12.1998);
- appare intuitivo che l’accoglimento di una simile tesi
determinerebbe un vulnus significativo alla ratio e alla
finalità perseguite dalla disposizione del
citato art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001: la
sanzione pecuniaria così
determinata assicurerebbe un ulteriore ingiustificabile
vantaggio al titolare
del fabbricato abusivo, non garantendo né l’effettività
della pretesa
punitiva, né il giusto risarcimento alla comunità
danneggiata dall’abuso;
d5) l’assenza di consolidati e pertinenti orientamenti in
materia che impongono di rimettere le predette questioni
all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99,
comma 1, c.p.a., registrandosi:
- con riferimento all’applicazione dell’art. 34, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, un contrasto interpretativo
sulla necessità di attualizzare il valore al
momento dell’esecuzione dell’abuso, giacché:
i) per parte
della
giurisprudenza il richiamo ivi contenuto alla normativa
contenuta nella l.
n. 392 del 1978 ha natura di rinvio materiale essendo
riferita ad una specifica
metodologia di calcolo di produzione degli immobili, al di
là ed
indipendentemente dalla sua attuale vigenza, così escludendo
la necessità
dell’attualizzazione di quel valore al momento
dell’esecuzione dell’abuso,
a differenza di quanto stabilito espressamente dalla
previsione dell’art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. Stato, sez. VI,
10.06.2021 n.
4463);
ii) per altro indirizzo, invece, occorre porre in
rilievo che il regime
sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi, in ragione
della loro natura di
illecito permanente, è quello vigente al momento
dell’applicazione della
sanzione e non quello vigente all’epoca della consumazione
dell’abuso, in
quanto la sanzione pecuniaria irrogata trae fondamento solo
dall’attuale
constatazione dell’inattuabilità materiale dell’ordine
demolitorio, così da
svolgere una funzione sostitutiva che impedisce possa
assumere rilievo il
tempo di commissione dell’abuso altrimenti irrilevante, ove
si fosse dato
corso al potere repressivo-demolitorio (Cons. Stato, sez.
VI, 12.04.2023
n. 3671);
- con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 33, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, per un fabbricato destinato ad
uso diverso da quello abitativo, un
precedente giurisprudenziale che –pur attribuendo alla
sanzione
pecuniaria sostitutiva di quella reale ha la finalità di far
restituire al
trasgressore «…per equivalente in danaro alla collettività
rappresentata dal
Comune, l’intera indebita utilità realizzata» così
presupponendo che si debba,
per tale motivo, tenere conto del valore dell’opera al
momento in cui la
sanzione è applicata (Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2019
n. 5567)– valorizza
proprio il dato letterale della disposizione affermando che
ciò varrebbe solo
per gli immobili con destinazione diversa dalla quella
abitativa, giacché
«…la norma della prima parte del comma 1 citato, che per gli
immobili abilitativi
cristallizza il valore al momento in cui i lavori solo
ultimati, va interpretata come
deroga, non suscettibile di estensione»;
III. – Per completezza, si segnala quanto segue:
e) con riferimento al sistema repressivo previsto
dal d.P.R. n. 380 del 2001:
e1) sulla generale natura ripristinatoria e riparatoria di
tutte le misure amministrative irrogate nella materia
urbanistico-edilizia –sia implicanti
la demolizione del manufatto abusivo sia l’applicazione di
una sanzione
amministrativa pecuniaria– poiché volte ad eliminare la
situazione di
oggettivo squilibrio nell’assetto del territorio ingenerata
dall’attività
edilizia non assentita v. IAIONE, STELLA RICHTER, art. 33,
in Testo unico
dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 581 ss.;
e2) sulla natura afflittiva e punitiva delle sanzioni
amministrative pecuniarie e l’assenza di una strutturale
alternatività con le misure ripristinatorie
implicanti la demolizione e il ripristino dello status quo (L.
MAZZAROLLI,
Sul regime delle sanzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia: dalla l. n.
1150/1942 alla l. n. 47/1985, in Riv. giur. urbanistica,
1985, 429);
e3) per un’ampia riflessione sulla natura e sulla funzione
delle sanzioni
amministrative previste nel t.u. edilizia: v. F. BENVENUTI,
Le sanzioni amministrative come mezzo dell’azione
amministrativa, in AA.VV., Le sanzioni
amministrative, Atti del XXVI Convegno di studi di scienza
dell’amministrazione,
Milano, 1982, 43; A. DE ROBERTO, Le sanzioni urbanistiche,
Milano, 1987, 79;
E. BUOSO, I poteri di vigilanza e sanzionatori (artt. 27 ss.
TUED), in Riv. giur.
urbanistica, 2014, 791 ss.; P. TANDA, Le conseguenze della
natura giuridica di
sanzione amministrativa dell'ordine di demolizione di cui
all'art. 31, comma 9,
t.u.e., in Riv. giur. edilizia, 2016, n. 307; LUNARDELLI,
Sanzioni e misure
ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano
Benvenuti, in Riv. giur.
edilizia, 2021, 173 che opera un’ampia ricostruzione del
sistema
sanzionatoria nella teoria generale del diritto e che
qualifica le sanzioni
amministrative come espressione dell’esercizio di poteri di
amministrazione attiva;
e4) sulle problematiche connesse alla fiscalizzazione
dell’abuso: v. FABRI, TARASCHI, La c.d. fiscalizzazione
dell’abuso edilizio: alcune questioni aperte, in
Dir. processo amm., 2022, 3; AMANTE, L’iper-statalizzazione
della materia
edilizia: la Corte costituzionale enuclea ulteriori
principi, in Urb. app., 2023, 41;
e5) sulla natura afflittiva –con la previsione di un limite edittale– e non
ripristinatoria della sanzione prevista dall’art. 31, comma
4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 con conseguente
applicazione del regime previsto per le
sanzioni pecuniarie dalla l. 24.11.1981, n. 689:
Cons.
Stato, sez. VI, 09.08.2022 n. 7023, richiamata da
Cons. Stato, sez. VI,
ordinanza 19.04.2023 n. 3974 (oggetto della
News UM n. 72 del 30.05.2023);
e6) sull’utilizzo improprio e a-tecnico del termine
oblazione previsto dall’art.
36, comma 2, t.u. edilizia: v.
Corte cost., 09.01.2019,
n. 2, in Foro it., 2019,
755, in Giur. cost., 2019, 2, con nota di ZAMPETTI, «Governo
del territorio» e
riserva di competenza statale in materia penale in una
pronuncia di
incostituzionalità per irragionevolezza, nonché oggetto
della
News US n. 13
del 18.01.2019) secondo cui tale misura deve essere
qualificabile come
un adempimento del procedimento amministrativo, «che assolve
ad una
funzione in parte ripristinatoria (laddove consente
all’amministrazione di ottenere
ora per allora l’importo corrispondente agli oneri
concessori) ed in parte
sanzionatoria (laddove si compone anche di una somma
ulteriore rispetto a quanto
originariamente dovuto)» dovendosi altresì osservare che
l’esistenza di costi
differenziati tra le due forme di sanatoria dell’abuso agli
artt. 36 e 38 t.u.
edilizia si giustificano in ragione dell’evidente minor
disvalore della
condotta di chi abbia realizzato un intervento conforme alla
normativa
urbanistico-edilizia;
e7) sulla natura speciale della fiscalizzazione prevista
dall’art. 38 del t.u. edilizia per le ipotesi di opere
realizzate sulla base di un titolo edilizio
successivamente annullato (c.d. “abusività sopravvenuta”
quale istituto di
deroga eccezionale all’ordinario rimedio demolitorio
previsto in via
generale dal sistema:
i) in giurisprudenza v.
Cons. Stato,
Ad. plen., 07.09.2020 n. 17 (in Foro it., 2021, III, 33, con nota
di E. TRAVI, in Giur.
it., 2021, 4, con nota di A. GIUSTI, La fiscalizzazione
dell'abuso edilizio fra
esigenze punitive e di ripristino dell'equilibrio
urbanistico; in Urb. app., 2021, 72, con nota di A. LICCI
MARINI, L’Adunanza plenaria fissa i limiti operativi
dell’art. 38 T.U.E. nonché oggetto della
News US n. 107 del
28.09.2020);
ii) in dottrina: G. POLI, La c.d. fiscalizzazione
dell’abuso edilizio nell’art.
38 t.u.e., in Riv. giur. edilizia, 2020, C. SILVANO, La
“fiscalizzazione dell’abuso”
alla luce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato: un
istituto destinato a
scomparire?, in Riv. giur. edilizia, 2021, 1251B; M.A.
SANDULLI, Edilizia, in
Riv. giur. edilizia, 2022, 171;
e8) sull’impossibilità oggettiva di procedere alla
demolizione –limitata al profilo statico e non funzionale–
quale presupposto per applicare le
sanzioni amministrative pecuniarie alternative di cui agli
artt. 33 e 34 del
d.P.R. n. 380 del 2001: v.
Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2018 n. 6658,
secondo cui è irrilevante l’eccessiva onerosità
dell’intervento che
«rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una
sorta di condono mascherato»
(Cons. Stato, sez. VI, 22.10.2015 n. 4843);
e9) sui criteri da applicare per procedere alla
fiscalizzazione ex art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001: v.
Cons. Stato, sez. VI, 23.09.2022, n. 8170;
e10) con riferimento al riparto dell’onere della prova in
ordine alla sussistenza dei presupposti di fiscalizzazione
ex artt. 33 e 34, del d.P.R. n. 380 del 2001
(Tar per la Sicilia, sez. II, 26.02.2020 n. 439);
e11) con riferimento all’inapplicabilità della procedura di
fiscalizzazione ex artt. 33 e 24 del d.P.R. n. 380 del 2001
con riguardo ad abusi edilizi in zone
sottoposte a vincolo (Cass. pen., sez. III, 15.11.2020 n. 1443);
e12) sull’impossibilità di configurare la fiscalizzazione
dell’abuso come una forma di sanatoria –non potendosi
autorizzare per tale via il
completamento delle opere– contemperando semplicemente
l’esigenza di
ristabilire lo status quo ante con quella di salvaguardare
la sicurezza pubblica
e privata (Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2023, n. 3671;
Cass. pen., sez. III, 11.05.2018 n. 28747);
e13) sulla natura di sub-procedimento afferente alla fase
esecutiva della fiscalizzazione dell’abuso e sulla sua
irrilevanza nel giudizio di legittimità
dell’ordinanza di demolizione (Cons. Stato, sez. VI, 22.05.2023 n.
5038);
f) sull’evoluzione normativa della
fiscalizzazione degli abusi:
f1) l’art. 13 della l. 06.08.1967, n. 765 che –sostituendo l’art. 41 della l. 17.08.1942, n. 1150–
disciplinava unitariamente le previsioni oggi
contemplate agli artt. 33, 34, 36 e 38 del d.P.R. n. 380 del
2001 prevedendo
che “Qualora non sia possibile procedere alla restituzione
in pristino ovvero alla
demolizione delle opere eseguite senza la licenza di
costruzione o in contrasto
con questa, si applica in via amministrativa una sanzione
pecuniaria pari al
valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, valutato dall'Ufficio
tecnico erariale. La disposizione di cui al precedente comma
trova applicazione
anche nel caso di annullamento della licenza. I proventi
delle sanzioni pecuniarie
previste dal presente articolo sono riscossi dal Comune e
destinati al finanziamento
delle opere di urbanizzazione, ovvero dallo Stato,
rispettivamente nelle ipotesi di
cui al secondo e terzo comma”;
f2) l’art. 15 della l. 28.01.1977, n. 10 che:
i) con
riferimento alla fattispecie oggi riconducibile all’art. 38
del t.u. edilizia prevedeva che “In caso di
annullamento della concessione, qualora non sia possibile la
rimozione dei vizi delle
procedure amministrative o la riduzione in pristino, il
sindaco applica una sanzione
pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite,
valutato dall'ufficio tecnico erariale. La valutazione
dell'ufficio tecnico è notificata
alla parte dal comune e diviene definitiva decorsi i termini
di impugnativa.”;
ii) con
riferimento ad una fattispecie assimilabile all’ipotesi oggi
prevista dall’art.
34 del t.u. edilizia prevedeva che “Le opere realizzate in
parziale difformità dalla
concessione debbono essere demolite a spese del
concessionario. Nel caso in cui le
opere difformi non possono essere rimosse senza pregiudizio
della parte conforme,
il sindaco applica una sanzione pari al doppio del valore
della parte dell'opera
realizzata in difformità dalla concessione.”;
f3) l’art. 9 della l. n. 47 del 1985 –sostanzialmente
trasfuso nell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001–
stabiliva che “Qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non
sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento
di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione
delle opere, determinato,
con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base
ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, con
la esclusione, per i comuni non tenuti
all'applicazione della legge medesima, del parametro
relativo all'ubicazione e con
l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non
comprese nell'articolo 16
della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso
da quello di abitazione
la sanzione é pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile,
determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale.”;
f4) l’art. 33, comma 2, del d.lgs. 06.06.2001, n. 378 ha
introdotto l’attuale formulazione dell’art. 33, comma 2 del d.P.R. n. 380 del 2001;
g) sul limite del potere regionale in materia
urbanistico-edilizia e in ordine alla
fiscalizzazione:
g1) con riferimento all’an: v.
Corte cost., 21.07.2021
n. 77 (in Foro it. Rep. 2021, voce Edilizia e urbanistica,
n. 123; in Riv. giur. edilizia, 2021, I, 736, in
Foro amm., 2021, 1684; in Giur. costit., 2021, 969, conf.
Corte cost.,
15.04.2019 n. 86;
19.11.2015 n. 233) che ribadisce
l’impossibilità per le
regioni a statuto ordinario di introdurre nuovi casi e modi
di fiscalizzazione
dell’abuso;
g2) con riferimento al quantum: v.
Corte cost., 01.07.2022 n. 165 (in Foro it., 2023, I, 74)
Corte cost.,
09.01.2019 n. 2, cit., secondo cui, nell’ipotesi di
cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 costituisce
principio fondamentale,
la previsione del pagamento di una somma, ma non
necessariamente la
relativa misura, che può essere autonomamente determinata
dal legislatore
regionale;
h) sulla quantificazione –con criteri differenti
da quelli statali– della sanzione amministrativa per le
ipotesi di fiscalizzazione dell’abuso nella normativa delle
regioni a statuto speciale con riferimento alla fattispecie
prevista dall’art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, si segnala quanto
segue:
h1) regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 79 della
l.reg. 06.08.1998, n. 11, il
quantum è pari “al doppio dell'aumento di valore
dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere,
determinato dall'ufficio tecnico del Comune”;
h2) provincia autonoma di Trento, ai sensi dell’art. 134
della l.prov. n. 1 del 2008, si applicano le sanzioni
previste dall’art. 129 della stessa legge indicate
al punto j3);
h3) regione Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 46
della l.reg. 11.11.2009, n. 19, il quantum della
sanzione è pari al “al doppio dell'aumento di
valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle
opere, determinato, con
riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai
criteri previsti dal
regolamento di cui all'articolo 2”;
i) sulla quantificazione –con criteri differenti
da quelli statali– della sanzione amministrativa per le
ipotesi di fiscalizzazione dell’abuso nella normativa delle
regioni a statuto speciale con riferimento alla fattispecie
prevista dall’art. 34,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, si segnala quanto
segue:
i1) regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 80, comma 3,
della l.reg. n. 11 del 1998, il quantum è pari “al doppio
del valore venale dell'opera abusiva o, se questo
non è determinabile, dell'aumento di valore dell'immobile,
conseguente alla
realizzazione dell'opera stessa, determinato dall'ufficio
tecnico del Comune.”;
i2) provincia autonoma di Bolzano, ai sensi dell’art. 89
della l.prov. n. 9 del 2018, il quantum della sanzione è
pari a “pari al doppio del costo di costruzione,
stabilito in base all'articolo 80, della parte dell'opera
realizzata in difformità dalla
concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del
valore venale, determinato
dall'Ufficio provinciale Estimo ed espropri, per le opere
adibite ad usi diversi da
quello residenziale”;
i3) provincia autonoma di Trento, ai sensi dell’art. 129
della l.prov. n. 1 del 2018, il quantum della sanzione è
fissato
“5. Per le opere eseguite con
variazioni essenziali il comune ordina la demolizione a
spese dei responsabili
dell'abuso oppure, se esse non contrastano con rilevanti
interessi urbanistici e
comunque quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte
eseguita in conformità, il pagamento di una sanzione
pecuniaria determinata in
misura pari al 150 per cento del valore delle opere abusive.
Se l'abuso consiste nella
mancata esecuzione di opere o modalità costruttive
prescritte o nell'utilizzo di
materiali diversi da quelli richiesti la sanzione è pari al
150 per cento del valore
delle opere non realizzate. Se l'abuso consiste nel
mutamento della destinazione
d'uso delle unità immobiliari, la sanzione è pari al valore
venale delle unità
immobiliari interessate. In caso di violazione delle norme
riguardanti
l'abbattimento delle barriere architettoniche il comune
ordina l'esecuzione delle
opere in conformità al progetto che ha ottenuto la
concessione, a spese dei
responsabili.
6. Per le opere eseguite in difformità parziale il comune
ordina la demolizione a spese dei responsabili dell'abuso
oppure, se esse non contrastano con rilevanti
interessi urbanistici e comunque quando la demolizione non
può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il pagamento
di una sanzione
determinata in misura pari al valore delle parti eseguite in
difformità. Se l'abuso
consiste nella mancata esecuzione di opere o modalità
costruttive prescritte o
nell'utilizzo di materiali diversi da quelli richiesti la
sanzione è pari al valore delle
opere non realizzate.
7. In ogni caso le sanzioni pecuniarie previste dai commi 5
e 6 non possono essere inferiori a 1.500 euro.
8. Assieme alle sanzioni pecuniarie previste dai commi 5 e 6
il comune ordina il pagamento del contributo di concessione,
se dovuto.”;
i4) regione Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 47
della l.reg. n. 19 del 2009, il quantum della sanzione è
pari al “doppio del costo di costruzione della parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire”;
i5) regione Sardegna, ai sensi dell’art. 9 della l.reg. 23.10.1985, n. 23 “pari al doppio del valore delle parti
abusive, qualora queste ultime non possano essere
demolite senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità”;
j) sulla quantificazione della sanzione
amministrativa –con criteri differenti da quelli statali–
per le ipotesi di fiscalizzazione dell’abuso nella normativa
delle
regioni a statuto speciale con riferimento alla fattispecie
prevista dall’art. 38 del
d.PR. n. 380 del 2001, si segnala quanto segue:
j1) regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 83 della
l.reg. n. 11 del 1998, il quantum è “pari al valore venale
delle opere o loro parti abusivamente eseguite,
determinato dall'ufficio tecnico del Comune”;
j2) provincia autonoma di Bolzano, ai sensi dell’art. 94
della l.prov. n. 9 del 2018, il quantum tiene conto “del
danno urbanistico arrecato dalla trasformazione
del territorio. L’ammontare della sanzione pecuniaria varia
in ragione della gravità
degli abusi da 0,8 a 2,5 volte l’importo del costo di
costruzione, determinato ai sensi
dell’articolo 80. Ove non sia possibile determinare il costo
di costruzione, la
sanzione è calcolata in relazione all’importo delle opere
eseguite, determinato in
base all’elenco prezzi informativi opere civili della
Provincia.”;
j3) regione Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 52,
comma 1, della l.reg. n. 19 del 2009, il quantum è “pari al
valore delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, determinata secondo i criteri stabiliti dal
regolamento di attuazione di cui
all’articolo 2”, con le riduzioni ancorate all’epoca di
realizzazione dell’opera
indicate al successivo comma 3-ter;
j4) regione Sardegna, ai sensi
dell’art. 8 della l.reg. n. 23 del 1985, il quantum è pari
“al valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, accertato
secondo le disposizioni di cui ai commi terzo e seguenti
dell'articolo 7 della presente
legge." (Consiglio
di Stato, Sez. II,
ordinanza 13.07.2023 n. 6865 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All’Adunanza Plenaria alcune importanti questioni
interpretative inerenti la disciplina della fiscalizzazione
dell’abuso edilizio.
---------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione
dell’abuso – Data di esecuzione dell’abuso -
Interpretazione.
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione
dell’abuso – Sanzione pecuniaria – Determinazione.
Vengono rimessi all’Adunanza
plenaria i seguenti quesiti:
- se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui
all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n., 380 del 2001, debba
intendersi il momento
●
di completamento dell’abuso ovvero
●
in cui l’abuso è stato accertato dai competenti uffici
pubblici ovvero
●
sia stato denunciato dall’interessato a mezzo della
richiesta di un condono o ancora
●
quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o
demolitoria,
intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione
dell’abuso;
- se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del
costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex
art. 22 della l. n. 392 del 1978), ai fini della
determinazione della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
●
possa procedersi all’attualizzazione, secondo gli indici
ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria
dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997
e
18.12.1998) ovvero se ancora
● l’attualizzazione
possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta
dell’abuso o della sua denunzia (istanza di condono) (1).
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(1) Con le ordinanze n. 6864 e n. 6863 del 13.07.2023 la sezione II
del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria
identiche questioni (Consiglio
di Stato, Sez. II,
ordinanza 13.07.2023 n. 6865 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
1. I fatti di causa
1.1. Con provvedimento n. 3629/2021 del 17.03.2021 il
Responsabile dello Sportello unico per l’edilizia del Comune
di Bormio, ricordato e dato atto –in sintesi– tra l’altro
che:
- la soc. Cà del B. s.r.l. aveva presentato in data 01.03.1995
istanza di condono edilizio ai sensi dell’art. 39 della l.
724/1994 per opere edilizie eseguite abusivamente ai piani
secondo, oltre al soprastante attico, e terzo, oltre il
soprastante attico, nel fabbricato sito in via Roma, in
catasto al foglio n. 14, mapp. n. 659, del Comune di Bormio;
- tra gli immobili oggetto della richiesta di concessione edilizia
in sanatoria vi era anche quello catastalmente individuato
al foglio n. 14, mapp. n. 989, sub. n. 18;
- l’istanza di condono era stata rigettata con determinazione n.
149/1995 del 03.03.1999, la cui legittimità era stata
riscontrata dalle sentenze n. 252/2007 del Tar per la
Lombardia (sez. II) e n. 2826 dell’08.06.2017 del Consiglio
di Stato (sez. IV), che avevano rispettivamente respinto il
ricorso e l’appello proposti dalla predetta soc. Cà del B.
s.r.l.;
- con nota prot. 1055 del 23.01.2019 era stato avviato il
procedimento sanzionatorio di demolizione e rimessa in
pristino delle unità immobiliari abusive oggetto del negato
condono edilizio, tra cui quella catastalmente individuata
al foglio n. 14, mapp. n. 989, sub. n. 18, nelle more
divenuta di proprietà della sig. Ma.Lu.Me.;
- a seguito dell’ordinanza di demolizione e messa in pristino n. 48
del 16.09.2020 la predetta signora Ma.Lu.Me., a mezzo di un
proprio tecnico, aveva dichiarato che la demolizione delle
opere edilizie abusive della sua unità immobiliare avrebbero
arrecato pregiudizio alle adiacenti unità immobiliari
legittimamente realizzate;
tutto ciò esposto e premesso, ai sensi dell’art. 33 del
d.P.R. n. 380/2001, disponeva la c.d. fiscalizzazione
dell’illecito, determinando in € 62.566,58 la sanzione di
cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001; in €
2.000,00 la sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, del
D.P.R. n. 380/2001; in € 743 i contributi per oneri di
urbanizzazione e in € 1.276,93 i costi di costruzione, per
un totale complessivo di € 66.521,95 (detratti € 64,56, pari
alla quota di anticipazione degli oneri già versata in data
15.11.1995), da corrispondere nei successivi novanta giorni.
2. La vicenda processuale
2.1. La signora Ma.Lu.Me. chiedeva al TAR per la Lombardia
l’annullamento di tale provvedimento, lamentandone
l’illegittimità per “Violazione di legge dell’art. 33 del
D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per erronea applicazione
della norma, travisamento dei fatti”.
In effetti, senza contestare né la determinazione della
superficie convenzionale (mq. 33,27), né quella del costo di
produzione al momento dell’abuso (anno 1993, € 550,97), la
ricorrente si doleva esclusivamente dell’attualizzazione di
quel costo unitario all’anno 2020 (mediante l’applicazione
del coefficiente 1,7066), in palese violazione dell’art. 33
del d.P.R. n. 380/2001, il cui tenore letterale –a suo
avviso– inequivocabilmente fissava il valore del costo di
produzione al momento dell’abuso (nel caso di specie al
1993).
2.2. L’adito Tribunale (sez. II), con la sentenza 18.03.2022
n. 632, nella resistenza dell’intimata amministrazione
comunale, ha respinto il ricorso.
Ha osservato infatti che l’art. 33 del d.P.R. n. 380/2021
era meno chiaro di quanto apparisse, in quanto “se è
chiara la scelta del legislatore di rapportare l’entità
della sanzione al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile determinato alla data di ultimazione dei
lavori in base ai criteri della legge n. 392/1978, meno
chiaro è il riferimento sia all’ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale sia soprattutto alla
necessità dell’aggiornamento alla data dell’esecuzione
dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di
costruzione”.
Ha al riguardo evidenziato che “Se, infatti, la “data di
esecuzione” coincidesse puramente e semplicemente con quella
di “ultimazione dei lavori” –come sembra sostenere la parte
ricorrente– allora non avrebbe alcun senso il riferimento
all’aggiornamento secondo l’indice ISTAT. In altri termini,
una volta fissato il valore secondo la legge n. 392/1978 al
momento dell’ultimazione dei lavori, non si comprenderebbe
la necessità di un aggiornamento secondo gli indici ISTAT,
per cui la seconda parte della norma suindicata non
troverebbe mai attuazione. Al contrario, per evitare di
incorrere in una interpretazione sostanzialmente abrogante
di parte del comma 2 dell’art. 33, è giocoforza ritenere che
la “data di esecuzione dell’abuso”, cui è riferito
l’aggiornamento, non è quella della mera ultimazione dei
lavori, bensì quella in cui l’abuso viene per così dire
fiscalizzato, essendo l’abuso edilizio un illecito
permanente, che resta in “esecuzione” finché, come nel caso
di specie, non viene determinata la sanzione pecuniaria
sostitutiva di quella demolitoria nei confronti del
responsabile”.
Secondo il TAR “Una simile interpretazione, oltre a
consentire l’applicazione dell’aggiornamento ISTAT preteso
dalla norma di legge, appare corretta anche da un punto di
vista sistematico, ponendosi in armonia con la complessiva
legislazione che consente la c.d. fiscalizzazione
dell’abuso, in caso di impossibilità della riduzione in
pristino.
Infatti, nell’ulteriore ipotesi dell’art. 34 del Testo
Unico, relativo agli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, qualora la demolizione
non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, l’ufficio applica una sanzione pari al doppio
del costo di produzione stabilito secondo la legge n.
392/1978 e la giurisprudenza amministrativa è concorde nel
ritenere che la fiscalizzazione degli abusi edilizi deve
tenere conto dei valori vigenti al momento di presentazione
della relativa domanda, per evitare che l’autore dell’abuso
possa lucrare sul tempo intercorrente fra la conclusione dei
lavori –cui fa seguito il godimento dell’immobile abusivo– e
la determinazione della sanzione, considerato sempre che
l’illecito edilizio ha carattere permanente, per cui
continua nel tempo fino al ripristino della situazione
originaria oppure sino al verificarsi degli altri casi di
cessazione espressamente previsti dall’ordinamento (cfr. sul
punto TAR Piemonte, Sezione II, sentenza n. 44/2019 e la
sentenza di questa Sezione n. 568/2018).
Sempre con riguardo all’art. 34 succitato, lo stesso attiene
a condotte (difformità parziale dal titolo edilizio)
oggettivamente meno gravi di quelle dell’art. 33 (difformità
totale o assenza di titolo) per cui sarebbe paradossale che
la sanzione pecuniaria per il caso dell’art. 33 fosse più
lieve di quella invece prevista per la fattispecie dell’art.
34.
Sempre con riguardo all’art. 33, comma 2, per i casi di
abusi su immobili ad uso diverso da quello abitativo (si
veda l’ultimo periodo del comma 2) è prevista una sanzione
pari al doppio dell’aumento del valore venale, determinato
dall’Agenzia del territorio e non si tratta certo del valore
venale al momento di completamento dei lavori bensì di
quello al momento della domanda di fiscalizzazione, sempre
per evitare che il responsabile tragga un vantaggio
ingiustificato dal decorso del tempo, durante il quale ha
comunque goduto del bene ancorché”.
Ha ancora aggiunto il Tribunale, a completamento del proprio
convincimento, da un lato, che
- “Del resto, anche per la differente ipotesi del condono
edilizio ed in particolare per quello di cui al DL n.
269/2003 convertito con legge n. 326/2003 (c.d. terzo
condono), la legislazione lombarda in materia ha previsto
che gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione
da corrispondersi in caso di accoglimento dell’istanza di
condono siano determinati non con riferimento al momento di
deposito dell’istanza stessa ma a quello del rilascio del
titolo in sanatoria, ancorché ciò avvenga diversi anni dopo
(così l’art. 4, comma 6, della legge regionale della
Lombardia n. 31/2004) e questo per attualizzare gli importi
del contributo concessorio all’atto del perfezionamento del
procedimento di sanatoria (cfr. sul punto la sentenza di
questa Sezione n. 7221/2010)” e dall’altra che
- “L’art. 33, comma 2, del vigente Testo Unico ricalca la
disposizione dell’abrogato art. 9 della legge n. 47/1985, la
quale però non conteneva alcun riferimento all’ultimo costo
di produzione determinato con decreto ministeriale ed
aggiornato sulla base dell’indice ISTAT del costo di
costruzione. L’inserimento nel testo dell’art. 33, comma 2,
di tale novità si spiega con la circostanza che la legge n.
392/1978 è stata in parte abrogata dalla legge n. 431/1998,
che ha espunto dall’ordinamento le norme (in particolare gli
articoli 12-26) sulla fissazione ex lege del canone per le
locazioni abitative (c.d. equo canone), fra cui quella
dell’art. 22 della legge del 1978, che prevedeva l’adozione
annuale di decreti ministeriali recanti il costo base di
produzione al metro quadrato. L’emanazione di tali decreti
consentiva l’adeguamento periodico del costo di produzione,
con conseguenti effetti automatici nella fissazione della
sanzione secondo il citato art. 9. Per effetto
dell’abrogazione dell’art. 22, però, tale adeguamento
automatico è venuto meno, per cui l’aggiornamento del testo
dell’art. 33 rispetto a quello dell’art. 9 vale a garantire
che la misura della sanzione pecuniaria non sia ancorata al
momento di conclusione dei lavori abusivi bensì sia
attualizzata mediante l’applicazione dell’indice ISTAT. In
caso contrario, giova ancora ricordarlo, il responsabile
dell’abuso o il suo avente causa finirebbero per lucrare
ingiustificatamente sul decorso del tempo intercorrente
dalla realizzazione dell’abuso”.
2.3. L’interessata ha chiesto la riforma di tale sentenza,
deducendone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di un
unico articolato motivo di gravame, rubricato “Erroneità
della sentenza appellata per violazione del canone di
stretta interpretazione della norma e per travisamento e
falsa applicazione della prescrizione normativa di cui
all’art. 33 del d.P.R. 380/2001”, con cui ha riproposto
in sostanza il motivo di censura sollevato in primo grado, a
suo avviso malamente apprezzato, superficialmente esaminato
e respinto con motivazione tutt’altro che condivisibile.
L’appellante ha contestato decisamente l’interpretazione
della norma in questione offerta dal Tribunale, insistendo
sul suo inequivoco e chiaro tenore letterale,
incomprensibilmente disatteso, che non ammetterebbe –secondo
la giurisprudenza della Cassazione e qualificate opinioni
dottrinali- alcuna attualizzazione del valore immobiliare al
momento della richiesta di fiscalizzazione, fissando il
valore dell’immobile esclusivamente al momento
dell’esecuzione dell’abuso.
Ha negato poi che una diversa (da quella da lei sostenuta)
lettura della norma comporterebbe un’interpretazione
sostanzialmente abrogante di parte del comma 2 dell’articolo
33 in ragione della natura permanente dell’abuso edilizio,
giacché detta natura di illecito permanente rileverebbe solo
ed esclusivamente in tema di imprescrittibilità del suo
accertamento e della relativa sanzione, ma non certamente
sotto il diverso profilo della quantificazione della
sanzione, del tutto svincolata dall’accertamento dell’abuso.
Il preteso aggiornamento ISTAT “alla data di esecuzione
dell’abuso” introdurrebbe del resto, sempre secondo la
tesi dell’appellante, la necessità di aggiornare il costo di
produzione sulla base dell’indice ISTAT del costo di
costruzione per tutti gli abusi successivi alla data di
abrogazione delle disposizioni contenute nella legge
sull’equo canone che prevedevano proprio l’emanazione con
cadenza annuale di appositi, laddove l’aggiornamento del
costo di produzione sulla base dell’indice I.S.T.A.T. del
costo di costruzione, introdotto dall’art. 33, comma 2,
d.P.R. 380/2001, avrebbe sopperito al venire meno dei
predetti decreti ministeriali (l’ultimo è del 1998); in
definitiva, secondo l’appellante, se il legislatore avesse
voluto ancorare l’attualizzazione dell’ammontare della
sanzione al momento della richiesta di fiscalizzazione
avrebbe dovuto prevederlo espressamente, così come
espressamente ha fissato il momento della determinazione del
valore “alla data di esecuzione dell’abuso” e
soprattutto non avrebbe diversificato la disciplina delle
fattispecie di cui agli artt. 33 e 34 d.P.R. 380/2001.
2.4. Si è costituito nel giudizio di appello il Comune di
Bormio che dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza
dell’appello, di cui ha chiesto il rigetto.
3. La questione controversa
3.1. Come emerge dalla ricapitolazione dei fatti sub par. 1
e 2, nella fattispecie in esame non è contestato che
l’amministrazione comunale, con il provvedimento indicato al
par. 1, abbia effettivamente e correttamente esercitato il
potere attribuitole dal comma 2 dell’art. 33 del d.P.R. n.
380 del 2001 di sostituire la sanzione della demolizione e
della rimessione in pristina dell’abuso edilizio con quella
pecuniaria, avendo accertato che il ripristino dello stato
dei luoghi non sarebbe stata obiettivamente possibile.
Neppure è contestata da parte dell’appellante della
determinazione della superficie convenzionale dell’abuso
(pari a 33,27 mq) e del costo di unitario di produzione al
momento dell’abuso (anno 1993) fissato ai sensi del
D.M. 30.01.1997 in € 550,97.
Ciò che è contestato è invece l’attualizzazione operata
dall’amministrazione comunale di quel costo al momento della
irrogazione della sanzione pecuniaria (in luogo di quella
ripristinatoria), inammissibile secondo l’appellante in
mancanza di espresso fondamento normativo, giustificato da
esigenze di giustizia sostanziale e da ragioni sistematiche,
secondo l’amministrazione comunale e le conclusioni del
giudice di primo grado.
3.2. Al riguardo si osserva quanto segue.
3.2.1. L’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
(rubricato “Interventi di ristrutturazione edilizia in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità”)
dispone che “Qualora, sulla base di motivato accertamento
dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei
luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio
dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla
realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla
data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti
dalla legge 27.07.1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo
costo di produzione determinato con decreto ministeriale,
aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base
dell'indice ISTAT del costo di costruzione, con la
esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della
legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con
l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non
comprese nell'articolo 16 della medesima legge. Per gli
edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la
sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile, determinato a cura dell'agenzia del
territorio”.
3.2.2. E’ stato più volte sottolineato che la misura reale
della rimozione o della demolizione costituisce la
conseguenza tipica e primaria dell’abuso edilizio rispetto
alle altre che costituiscono, invece, deroghe alla
prescrizioni generali, il che vale anche per la c.d.
fiscalizzazione dell’abuso edilizio che rappresenta una
sanzione derogatoria rispetto a quella primaria (della
rimozione o della demolizione dell’abuso), ammessa
eccezionalmente (nella fase esecutiva della sanzione
ripristinatoria) quando emergano obiettive difficoltà
tecniche di esecuzione (ex multis, Cons. Stato, se.
II, 27.11.2019, n. 8100; sez. VI, 08.01.2023, n. 2423;
28.03.2022, n, 2273; 10.01.2020, n. 254; 21.11.2016, n.
4856).
Con la c.d. fiscalizzazione il legislatore ha pertanto
inteso salvaguardare lo status esistente al momento
dell’esecuzione della rimozione o della demolizione quando
il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile (per
il pregiudizio che detto ripristino potrebbe comportare a
quanto legittimamente edificato), senza che ciò costituisca
un’abdicazione del potere sanzionatorio, trasformando
piuttosto la misura reale in misura pecuniaria ed assegnando
a quest’ultima la stessa identica sanzione risarcitoria
della collettività, offesa dall’abuso edilizio.
3.2.3. Nella prospettiva così delineata dalla giurisprudenza
la disposizione del ricordato comma 2 dell’art. 33 del
d.P.R. 380 del 2001 ai fini della determinazione della
sanzione pecuniaria, pari al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere,
fissa due riferimenti da prendere in considerazione, il
primo costituito dalla data di ultimazione dei lavori, in
base ai criteri della legge 27.07.1978, n. 392 (riguardante
il momento di realizzazione dell’edificio in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità da esso); il
secondo rappresentato dall’ultimo costo di produzione
determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data
di esecuzione dell’abuso dell’indice ISTAT del costo di
costruzione.
Si tratta di due riferimenti temporali dalla cui
combinazione –secondo la scelta discrezionale e non
manifestamente irragionevole del legislatore– si ricava la
giusta quantificazione della sanzione pecuniaria sostitutiva
di quella ripristinatoria, idonea a contemperare l’interesse
punitivo dell’amministrazione, per il vulnus inferto
con l’abuso edilizio, e quello del privato a non vedersi
imporre un ripristino dello status quo materialmente
impossibile senza compromissione di ulteriori beni,
anch’essi ugualmente da tutelare.
3.3. Se sono chiare la struttura, la ratio e la finalità
della norma, dubbi, come si ricava proprio dalla vicenda
controversa de qua, emergono tuttavia dalla sua applicazione
in concreto, soprattutto con riferimento al secondo termine
temporale, sia quanto alle modalità di individuazione “dell’ultimo
costo di produzione determinato con decreto ministeriale,
aggiornato dalla data di esecuzione dell’abuso, sulla base
dell’indice ISTAT del costo di produzione”, sia con
riferimento al giusto significato da attribuire
all’espressione “alla data di esecuzione dell’abuso”.
3.3.1. Con riferimento al primo profilo deve rilevarsi che è
intervenuta l’abrogazione ad opera dell’art. 14 della legge
09.12.1998, n. 431, dell’art. 22 della legge 27.07.1978, n.
392, con conseguente venir meno dei decreti ministeriali
annuali di determinazione del costo base di produzione per
la realizzazione degli immobili adibiti ad uso di
abitazione: l’ultimo decreto emanato è quello del
18.12.1998.
L’applicazione letterale dell’art. 33, comma 2, del d.P.R.
n. 380 del 2001, secondo quanto sostenuto dall’appellante,
mancando gli ulteriori decreti ministeriali de qua,
fisserebbe nel caso di specie definitivamente alla data
dell’ultimazione dell’abuso (1993) il momento cui stabilire
il valore dell’immobile o tutt’al più alla data dell’ultimo
aggiornamento (D.M.
del 18.12.1998).
E’ intuitivo che l’accoglimento di una simile tesi
determinerebbe un vulnus significativo alla ratio e alla
finalità perseguite dalla disposizione del citato art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380/2001: la sanzione pecuniaria così
determinata assicurerebbe un ulteriore evidente vantaggio
ingiusto ed intollerabile a chi ha commesso l’abuso
edilizio, non garantendo né l’effettività della pretesa
punitiva, né il giusto risarcimento alla comunità
danneggiata dall’abuso.
D’altra parte la necessità dell’elemento di riferimento, cui
ancora la determinazione del valore dell’abuso, ben si
apprezza se si tiene conto che l’attuale la disposizione
dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 è derivata
dall’art. 9, comma 2, L. 47 del 1985, a tenore del quale “Qualora,
sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico
comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia
possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente
alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento
alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri
previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392,….. Per gli edifici
adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è
pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile,
determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale”, che
non prevedeva affatto proprio il secondo riferimento
temporale dell’aggiornamento del costo di produzione alla
data dell’esecuzione dell’abuso.
3.3.2. Quanto al secondo profilo, poi, deve osservarsi che
anche l’espressione “momento
dell’esecuzione dell’abuso”
è meno inequivoca di quanto possa apparire.
Se è chiara, come si cercato di delineare in precedenza, la
ratio della norma, il significato di “momento
dell’esecuzione dell’abuso” sconta almeno due
problematiche: quella della natura permanente dell’illecito
edilizio (cui si collega il potere dell’amministrazione di
perseguirlo senza alcun termine di prescrizione) e di
conseguenza quella della individuazione del momento in cui
si verifica l’esecuzione dell’abuso, cui è ragionevole
rapportare l’aumento di valore dell’immobile, così da
rendere effettiva la sanzione pecuniaria sostitutiva della
sanzione reale,
Sotto tale profilo ad avviso della Sezione non ha
particolare rilievo la questione se il momento di
realizzazione dell’immobile (primo riferimento temporale per
la determinazione della sanzione pecuniaria) possa o meno
coincidere con quello dell’esecuzione dell’abuso
(prospettata come ipotesi peculiare dall’appellante al fine
di giustificare la propria tesi, ma negata in via generale
dalla difesa del Comune, secondo cui una simile
prospettazione renderebbe la norma stessa priva di
significato), dovendo piuttosto aversi riguardo, proprio in
ragione della natura permanente dell’illecito edilizio,
quanto meno al momento della scoperta o dell’accertamento
dell’illecito, da parte dei competenti uffici pubblico o
dalla parte dello stesso responsabile dell’abuso nel caso di
richiesta di condono ovvero ancora, secondo la tesi
sostanzialmente sostenuta nel caso di specie
dall’amministrazione, al momento di irrogazione della
sanzione.
3.4. Sono tutti questi profili in relazione al quale non è
stato rinvenuto alcun puntuale e significativo precedente
giurisprudenziale.
E’ vero che secondo Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2019, n.
5567, avendo la sanzione pecuniaria sostitutiva di quella
reale la finalità di far restituire al trasgressore “…per
equivalente in danaro alla collettività rappresentata dal
Comune, l’intera indebita utilità realizzata”, ciò “…avviene
solo se si tiene conto del valore dell’opera al momento in
cui la sanzione è applicata…. C.d.S., sez. V, 33 novembre
1998, n. 1676”; tuttavia nel concludere tale
argomentazione, si valorizza proprio il dato letterale della
norma e si afferma che ciò varrebbe solo per gli immobili
con destinazione diversa dalla quella abitativa, giacché “…la
norma della prima parte del comma 1 citato, che per gli
immobili abilitativi cristallizza il valore al momento in
cui i lavori solo ultimati, va interpretata come deroga, non
suscettibile di estensione”.
Per il resto la giurisprudenza risulta invero aver affermato
in tema di art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, che
il rinvio ivi contenuto alla normativa contenuta nella l. n.
392 del 1978, riferita ad una specifica metodologia di
calcolo di produzione degli immobili, ha natura di rinvio
materiale, al di là ed indipendentemente dalla sua attuale
vigenza (Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1230;
4463/200), così escludendo la necessità dell’attualizzazione
di quel valore al momento dell’esecuzione dell’abuso, a
differenza di quanto stabilito espressamente dalla
previsione dell’art. 33, comma 2.
Sempre in relazione alla previsione dell’art. 34, comma 2, e
in ragione del rinvio operato dalla norma alla legge
sull’equo canone, è stato invece ritenuto applicabile l’attualizzazione
del costo calcolo sulla base del
D.M. 18.12.1998 alla data di irrogazione della sanzione
(Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2023, n. 3671).
4. Rimessione alla Adunanza Plenaria e
formulazione dei quesiti
4.1. Ciò posto osserva la Sezione che:
- per un verso le conclusioni raggiunte dal giudice di primo
grado non risultano prima facie irragionevoli, sono
convincentemente improntate ad un significativo intento di
giustizia sostanziale per evitare che, attraverso la c.d.
fiscalizzazione dell’illecito edilizio, il cittadino, già
resosi colpevole dell’illecito non sanabile e per il quale
era stata disposta la demolizione, possa ulteriormente
avvantaggiarsi per l’impossibilità della demolizione a danno
della collettività intera, attraverso l’imposizione di una
sanzione pecuniaria, sostitutiva di quella reale, del tutto
inadeguata, priva dei requisiti dell’effettività e
quantomeno depotenziata sotto il profilo dell’effetto
risarcitorio nei confronti della collettività offesa
dall’abuso edilizio. A tanto si giunge, anche in mancanza
del decreto ministeriale annuale di adeguamento ISTAT,
attraverso l’attualizzazione del valore dell’immobile
calcolato con riferimento all’anno di costruzione ovvero
alla data dell’ultimo decreto ministeriale all’anno di
irrogazione della sanzione o quanto meno al momento della
scoperta da parte degli uffici pubblici dell’abuso o al
momento di cui dell’abuso è stato chiesto dall’interessato
il condono;
- per altro verso non può sottacersi che, come sostenuto
dall’appellante, il dato testuale della norma (art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001) appare escludere in
radice la possibilità dell’attualizzazione
dell’aggiornamento ISTAT dei costi di produzione risultante
dall’ultimo decreto ministeriale, mancando innanzitutto in
tal senso un’apposita previsione. Peraltro non può
escludersi che, come nella specifica fattispecie in esame
che attiene ad una richiesta di condono edilizio, l’anno di
realizzazione delle opere (1993) possa anche coincidere con
quello della materiale esecuzione dell’abuso (inteso come
perfezionamento dell’abuso) e cioè della presentazione della
domanda di condono, ferma tuttavia la necessità di precisare
definitivamente il significato dell’espressione “momento
di esecuzione dell’abuso"). Inoltre neppure può
sottacersi che, non potendosi imputare al cittadino
l’abrogazione di una norma (art. 22 della l. n. 392 del
1978) che renderebbe iniqua la stessa determinazione della
sanzione pecuniaria, vertendosi in tema di irrogazione di
una sanzione, sia pur solo pecuniaria (in sostituzione di
quella ripristinatoria), potrebbe dubitarsi della
legittimità della sua determinazione quanto alla sua
attualizzazione in mancanza di una apposita espressa
previsione normativa.
4.2. In mancanza di specifici precedenti giurisprudenziali
al riguardo la Sezione ritiene di dover rimettere l’affare
alla Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1,
c.p.a. trattandosi di questione che può dar luogo a
contrasti giurisprudenziale e che d’altra parte è di
particolare rilevanza in ragione anche delle numerose
questioni pendenti in tema di condono edilizio-
4.3. Ciò posto, si formulano all’Adunanza
Plenaria i seguenti quesiti:
- se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di
cui all’art. 33, comma 2, debba intendersi il momento di
completamento dell’abuso ovvero in cui l’abuso è stato
accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato
denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di un
condono o ancora quello di irrogazione della sanzione
pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l’espressione
come momento di cessazione dell’abuso;
- se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del
costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex
art. 22 della l. n. 392 del 1978), ai fini della
determinazione della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all’attualizzazione,
secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della
sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi
decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se
ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata
al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia
(istanza di condono).
Si rimette all’Adunanza Plenaria, comunque, la decisione su
tutte le questioni controverse, salve le successive
determinazioni di questa sul prosieguo del giudizio anche ai
sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione
Seconda, non definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, ne dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato (Consiglio
di Stato, Sez. II,
ordinanza 13.07.2023 n. 6865 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Laura,
RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA - Governo del
territorio. Parte 2^. Strumenti urbanistici (01.03.2024 -
tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Premessa.
§1. Strumenti urbanistici generali: finalità ed elementi
costitutivi.
§2. Scelte di piano: principi generali. § 2.1. Limiti del sindacato
del giudice amministrativo: irragionevolezza e illogicità,
tutela dell’affidamento, disparità di trattamento. § 2.2.
Procedimento di approvazione: garanzie procedimentali,
osservazioni dei privati, insussistenza di un obbligo
dell’amministrazione di rispondere alle osservazioni,
motivazione, approvazione delle modifiche da parte della
regione, condizioni per la ripubblicazione.
§3. Varianti agli strumenti urbanistici. § 3.1. Discrezionalità. §
3.2. Regole procedimentali.
§4. Strumenti attuativi. § 4.1. Deroghe alla necessità dello
strumento attuativo. Il lotto intercluso. § 4.2. Principio
di ragionevolezza. § 4.3. Efficacia. § 4.4. Rapporti fra
pianificazione secondaria e variante sopravvenuta.
§5. Piani e convenzioni di lottizzazione. § 5.1. Efficacia. § 5.2.
Rapporto fra piano e convenzione di lottizzazione. § 5.3.
Competenza. § 5.4. Obbligo di provvedere.
§6. Piani per gli insediamenti produttivi. § 6.1. Natura. § 6.2.
Contenuto. § 6.3. Efficacia. § 6.4. Proroga dei piani e
affidamento proprietario. § 6.5. Disciplina speciale
riguardante i comuni danneggiati da eventi sismici. § 6.6.
Variante semplificata. § 6.7. Consorzi e aree di sviluppo
industriale. § 6.8. Assegnazione dei lotti e stipula delle
convenzioni. § 6.9. Principio di “neutralità finanziaria”. §
6.10. Riparto di eventuali maggiori oneri: a) derivanti da
attività contenziosa. Segue: b) derivanti dalla mancata
adozione dell’atto conclusivo del procedimento o dal suo
annullamento in sede giurisdizionale. § 6.11. Decadenza
dall’assegnazione. § 6.12. Retrocessione delle aree
assegnate.
§7. Piani per l’edilizia economica e popolare. § 7.1. Efficacia. §
7.2. Procedimento. § 7.3. Potere sostitutivo della Regione.
§8. Housing sociale.
§9. Piani di riqualificazione. § 9.1. Piani di ricostruzione. §
9.2. Programmi integrati di intervento. § 9.3. Programmi di
recupero urbano. § 9.4. Programmi integrati di
riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale.
§10. Piani per gli insediamenti commerciali e parchi commerciali. §
10.1. Mancata approvazione del piano urbanistico
commerciale. La tutela dei centri storici. § 10.2.
Competenza.
§11. Piani per le attività estrattive.
§12. Piani regolatori portuali.
§13. Questioni processuali. § 13.1. Ricevibilità. § 13.2.
Legittimazione e interesse ad agire. § 13.3. Inscindibilità
degli effetti del giudicato di annullamento. § 13.4.
Presupposizione fra atti e improcedibilità. § 13.5.
Impugnazione dei titoli edilizi.
§14. Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Perrelli,
RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA - Governo del
territorio. Parte 1^. Aspetti generali
(01.03.2024 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Premessa.
§1. Governo del territorio. §1.1. La normativa urbanistica per
tratti salienti. §1.2. La pianificazione a tutela dei beni
culturali, del paesaggio e dell’ambiente. §1.3. La
dimensione europea dell’uso consapevole del territorio: la
rigenerazione urbana.
§2. Governo del territorio: nozione. §2.1. Nella normativa. §2.2.
Nella giurisprudenza della Corte costituzionale. §2.3. Nella
giurisprudenza amministrativa.
§3. La governance multilivello. § 3.1. Il riparto delle competenze.
§3.2. I livelli di pianificazione e i principi fondamentali
della materia del governo del territorio. §3.3. Il principio
di sussidiarietà: criterio per dirimere i conflitti tra i
livelli di pianificazione.
§4. Strumenti urbanistici e strumenti di pianificazione del
territorio in funzione di tutela del paesaggio e
dell’ambiente: gerarchia. §4.1. L’interpretazione
adeguatrice della legislazione regionale. §4.2. Il piano
paesaggistico codeciso. §4.3. Il rapporto con gli ulteriori
strumenti di pianificazione territoriale: prevalenza. §4.4.
I piani territoriali con valenza paesaggistica nella
giurisprudenza amministrativa.
§5. Contenuti ed effetti degli strumenti urbanistici. §5.1. L’art.
2-bis del t.u. edilizia: vincolatività delle previsioni del
d.m. n. 1444 del 1968. §5.2. Gli standard edilizi del d.m.
n. 1444 del 1968 nella giurisprudenza della Corte
costituzionale. §5.3. Gli standard edilizi del d.m. n. 1444
del 1968 nella giurisprudenza amministrativa. §5.3.1. L’art.
8 del d.m. n. 1444 del 1968 e il concetto di edificio
esistente. §5.3.2. L’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 e la
disciplina delle distanze. §5.4. Sulla natura delle norme
dei regolamenti edilizi in materia di distanze nella
giurisprudenza civile.
§6. Aspetti comuni agli strumenti urbanistici: i principi
fondamentali della materia del governo del territorio. §6.1.
La motivazione delle scelte pianificatorie. §6.2. La tutela
dell’affidamento. §6.3. La pubblicazione e la
ripubblicazione degli strumenti urbanistici.
§7. Vincoli conformativi e vincoli espropriativi: definizione e
differenza nella giurisprudenza costituzionale. §7.1. Nella
giurisprudenza della Corte E.D.U. §7.2. Nella giurisprudenza
amministrativa. §7.3. Nella giurisprudenza della Cassazione.
§7.4. La reiterazione del vincolo: obbligo di motivazione.
§8. La zonizzazione: differenza tra destinazioni di zona e
destinazioni di uso. §8.1. Verde pubblico (parco urbano,
verde urbano, attrezzature ricreative, attrezzature
sportive). §8.2. Viabilità. §8.3. Zona F per servizi di
interesse generale. §8.4. Vincolo cimiteriale. §8.5.
Edilizia di culto. §8.6. Vincolo alberghiero.
§9. Assenza di pianificazione: principio di indefettibilità della
pianificazione e disciplina.
§10. L’urbanistica consensuale. §10.1. La cessione di cubatura.
§10.2. La perequazione urbanistica.
§11.
Regolamenti edilizi e regolamenti edilizi tipo.
§12. Gli strumenti di pianificazione della rigenerazione urbana.
§12.1. Il rapporto tra piano regolatore e pianificazione
della rigenerazione urbana.
§13. Il piano casa.
§14. Il sindacato giurisdizionale. §14.1. La disapplicazione.
§14.2. Il rito del silenzio.
§15. Conclusioni. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Diniego di convocazione del "consiglio comunale grande" -
Richiesta d'intervento ex art. 39 d.lgs. n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Esaminate le norme statali e quelle locali di cui l'ente si è dotato, il "consiglio
grande", sebbene nel regolamento dell'ente sia inserito nella parte
dedicata al consiglio, non ha le caratteristiche del consiglio ordinario.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha rappresentato che
otto consiglieri del consiglio comunale di ..., pari alla metà dei
consiglieri assegnati, hanno chiesto, con nota del ..., l'intervento
sostitutivo del Prefetto, ai sensi dell'art. 39, comma 5, del TUOEL, a
seguito del diniego opposto dal presidente del medesimo consiglio alla
richiesta di convocazione di un "consiglio comunale grande".
In particolare, i consiglieri hanno presentato istanza al presidente del
consiglio, in data ..., ai sensi degli artt. 17 e 55 del regolamento per il
funzionamento del consiglio comunale, al fine di vedere convocato un
consiglio, avente carattere straordinario, denominato "consiglio grande",
per approfondire e discutere argomenti di particolare rilevanza per la vita
cittadina concernente l'utilizzo del territorio comunale per la produzione
di energia mediante impianti di fotovoltaico e agrovoltaico.
Il presidente del consiglio ha respinto la richiesta dei consiglieri
ritenendo che nell'ambito del "consiglio grande" non sono adottabili
delibere e che lo stesso consiste in una forma di consultazione diretta
della popolazione che trova disciplina nel titolo III dello statuto
dell'ente "Partecipazione dei cittadini", agli artt. 46 e 47, e non
nella parte dello statuto titolo II, dedicata al consiglio comunale.
Inoltre, tale forma di adunanza non richiede un quorum strutturale e non
prevede l'erogazione di un gettone.
A ciò si aggiunge che il presidente, nella nota di rigetto, ha evidenziato
che l'articolo 55 del citato regolamento prevede che tale forma di consiglio
può essere convocata quando particolari motivi di ordine sociale e politico
lo facciano ritenere opportuno o quando il consiglio comunale intende
svolgere forme di consultazione diretta su temi di particolare rilevanza per
la vita cittadina. I consiglieri, con la nota del ..., richiamata in
premessa, a seguito del rigetto da parte del presidente del consiglio, hanno
chiesto l'intervento del Prefetto ai sensi dell'articolo 39, comma 5, del
TUOEL.
In via generale, si rileva che "il diritto ex art. 39, comma 2, del
d.lgs. n. 267/2000 di richiedere la convocazione del consiglio comunale da
parte di un quinto dei consiglieri comunali, è tutelato in modo specifico
dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione
dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto
in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine
emblematicamente breve di venti giorni" (TAR Puglia-sez. I, 25.07.2001,
n. 4278).
In relazione ai motivi che determinano i consiglieri a chiedere la
convocazione straordinaria dell'assemblea, al presidente del consiglio
spetta la sola verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto
numero di consiglieri (o dal sindaco) non potendo comunque sindacarne
l'oggetto. In tal senso, la giurisprudenza in materia si è espressa con
orientamento costante nel senso che spetta solo al consiglio la verifica
circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da
trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell'assemblea, in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno.
Ciò premesso, le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il
consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sono la
carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità,
impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del
consiglio.
È opportuno evidenziare che una determinata questione rientra nella
competenza del consiglio comunale quando fa riferimento agli atti
fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell'articolo 42 del TUOEL,
o quando rientri nelle funzioni di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 42, con la
possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba
necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento finale.
Si osserva che, nel caso in esame, la convocazione del consiglio grande è
stata chiesta ai sensi degli artt. 17 e 55 del regolamento per discutere
temi delicati di interesse della cittadinanza. Al riguardo, si evidenzia che
l'art. 17 riproduce il contenuto dell'art. 39, comma 2, del TUOEL che
disciplina la convocazione del consiglio ordinario, ma nulla prevede per la
convocazione del consiglio in adunanza aperta, né riproduce il contenuto del
comma 5 dell'articolo 39 concernente l'intervento sostitutivo del Prefetto.
Si rileva che gli articoli 39 del TUOEL e 17 del regolamento disciplinano un
consiglio con la presenza dei soli consiglieri e la possibilità di adottare
delibere, invece l'articolo 55 del regolamento non prevede la partecipazione
dei soli consiglieri, non prevede un quorum e non prevede un'attività
deliberativa se non nel caso di votazioni di ordini del giorno e mozioni;
solo in tal caso la delibera è votata dai soli consiglieri ed è richiesto un
quorum. Si evidenzia, altresì, che il sopra citato articolo 55 prevede che
il presidente del consiglio, in caso di richiesta di convocazione da parte
di 1/3 dei consiglieri, "può" convocare il consiglio, mentre l'art.
39, comma 2, del TUOEL utilizza la locuzione "è tenuto a riunire il
consiglio".
Si soggiunge che lo statuto dell'ente, invece, all'art. 47, comma 8, ultimo
periodo dispone che "Il Consiglio Grande si riunisce su iniziativa del
Presidente del Consiglio, sentito il Sindaco e la conferenza dei capigruppo
o quando lo richieda il Sindaco o almeno 1/3 dei consiglieri assegnati".
Tale norma sembrerebbe non lasciare al presidente alcuna valutazione che,
invece, sembra evincersi dalla disposizione normativa di cui all'articolo 55
del regolamento.
È importante evidenziare, inoltre, che il consiglio grande, mentre nello
statuto trova collocazione nel titolo III "Partecipazione dei cittadini"
(art. 47) e non nel titolo II–capo II dedicato al consiglio comunale, nel
regolamento per il funzionamento del consiglio l'art. 55 "Adunanze aperte"
trova collocazione nel titolo IV "Le adunanze del consiglio comunale",
nel capo V rubricato "Pubblicità delle adunanze", quindi nella parte
dedicata al consiglio.
Per le discordanze sopra esposte il consiglio comunale di … potrebbe
valutare la possibilità di riformulare le disposizioni regolamentari e
statutarie di cui si è dotato che non risultano di chiara interpretazione.
Ciò premesso, si ritiene, esaminate le norme statali ed in particolare
quelle locali di cui l'ente si è dotato, che il consiglio grande, sebbene
nel regolamento dell'ente sia inserito nella parte dedicata al consiglio,
non ha, per le ragioni sopra esposte, le caratteristiche del consiglio
ordinario. Infatti, la convocazione è stata richiesta ai sensi degli artt.
17 e 55 del regolamento e non ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del TUOEL,
di conseguenza non si ritiene applicabile nel caso in esame il potere
sostitutivo del Prefetto previsto dal comma 5 del predetto articolo 39.
Si è, comunque, dell'avviso che la questione debba essere portata
all'attenzione del consiglio, in quanto spetta solo a tale organo, nella sua
totalità, valutare l'ammissibilità degli argomenti da trattare, nell'ambito
delle prerogative ad esso riconosciute dalla legge. Nell'ipotesi di
inosservanza degli obblighi di convocazione del consiglio ai sensi
dell'articolo 39, comma 2, del TUOEL, il Prefetto potrà attivare gli
interventi di cui all'art. 39, comma 5, del TUEL.
Quanto alla situazione di pareggio di otto voti contro otto, che
risulterebbe dal verbale della conferenza dei capigruppo con all'oggetto la
convocazione del "consiglio grande", si osserva che per regola
interpretativa generale in caso di parità di voti nella deliberazione è
considerata respinta l'istanza all'esame poiché le delibere devono essere
sempre approvate con una maggioranza favorevole di voti
(parere
26.03.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Petrulli,
Permesso di costruire in sanatoria: calcolo degli oneri.
Domanda
Si chiede di
chiarire se le tabelle da applicare per il calcolo degli
oneri dovuti per il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria siano quelle vigenti alla data di realizzazione
dell’opera o quelle vigenti alla data di presentazione della
domanda o, ancora, quelle in essere alla data di rilascio
del titolo.
Risposta
Come chiarito
dalla giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, sent.
11.02.2020, n. 1886), la disciplina normativa applicabile
per la determinazione degli importi dovuti non è quella
vigente all’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio o
alla data di presentazione della domanda di sanatoria, bensì
quella vigente alla data di rilascio della concessione in
sanatoria: tale conclusione si impone sia in applicazione
del generale canone tempus regit actum (dato che solo
con l’adozione del provvedimento di sanatoria che il
manufatto diviene legittimo e, quindi, concorre alla
formazione del carico urbanistico che costituisce il
presupposto sostanziale del pagamento del contributo) sia in
base a considerazioni d’ordine teleologico, dato che tale
interpretazione consente di meglio tutelare l’interesse
pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai
costi reali da sostenere (Consiglio di Stato, sez. VI, sent.
02.07.2019, n. 4514) (22.03.2024 - tratto da e link a
www.ediliziaurbanistica.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Questo
comune di popolazione inferiore a 15.000 abitanti ha proceduto, mediante
modifica statutaria, all’istituzione della figura del Presidente del
Consiglio Comunale.
E’ possibile procedere all’elezione in corso di consiliatura o è necessario
attendere il rinnovo degli organi?
L’art. 39 del TUEL con riferimento al Presidente del Consiglio testualmente
recita che "I consigli provinciali e i consigli comunali dei comuni con
popolazione superiore a 15.000 abitanti sono presieduti da un presidente
eletto tra i consiglieri nella prima seduta del consiglio. Al presidente del
consiglio sono attribuiti, tra gli altri, i poteri di convocazione e
direzione dei lavori e delle attività del consiglio. Quando lo statuto non
dispone diversamente, le funzioni vicarie di presidente del consiglio sono
esercitate dal consigliere anziano individuato secondo le modalità di cui
all'articolo 40. Nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti lo
statuto può prevedere la figura del presidente del consiglio…. Nei comuni
con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti il consiglio è presieduto dal
sindaco che provvede anche alla convocazione del consiglio salvo differente
previsione statutaria".
Pertanto, nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti la figura
del presidente del Consiglio è facoltativa e non obbligatoria e qualora
istituita deve risultare da apposita previsione statutaria.
Il caso particolare posto alla nostra attenzione è di un comune che chiede
se dopo l’entrata in vigore dello statuto modificato, sia possibile
procedere all’elezione del presidente nel corso dell’attuale consiliatura e
l’argomento è quanto mai di attualità con riferimento alle prossime elezioni
amministrative che si terranno nel mese di giugno.
Per rispondere alla domanda, sul tema riscontriamo un parere del Ministero
dell’Interno (n. 6458 del 19.02.2024) secondo il quale va evidenziato che la
citata disposizione si colloca sistematicamente nell’ambito di un comma il
cui primo periodo, sia pure con riferimento espresso ai comuni "con
popolazione superiore a 15.000 abitanti", prevede testualmente che il
presidente è "eletto … nella prima seduta del consiglio".
Qualora i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti recepiscano
l’istituto in parola, dovranno pertanto farlo in aderenza a quanto previsto
dal vigente ordinamento, tenuto conto che è fondamento di un ordinamento
democratico il principio secondo cui gli organismi rappresentativi vengono a
cessare quando spira il termine di durata del loro mandato, previsto dalla
legge.
Tanto ciò premesso, conclude il Ministero ed in conformità ad un principio
di coerenza giuridica per cui l’imputazione ad un nuovo soggetto (presidente
del consiglio) di funzioni di competenza del sindaco in carica può avere
luogo soltanto una volta esaurito il mandato elettorale, "si ritiene che
in codesto ente l’elezione del presidente del consiglio, in esecuzione delle
modifiche statutarie che saranno apportate, non possa che avvenire
successivamente al rinnovo degli organi attualmente in carica".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 39 TUEL
Documenti allegati
Parere 19.02.2024, n. 6458 del Ministero dell’Interno
(20.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Cambiamento nome del gruppo consiliare.
Sintesi/Massima
Il mutamento di denominazione del
gruppo consiliare è possibile, in quanto il regolamento del consiglio
prevede espressamente la modifica della denominazione del gruppo
indipendentemente dal numero dei consiglieri.
Testo
Con nota del ..., il segretario
generale della città di … ha formulato una richiesta di parere in materia di
denominazione dei gruppi consiliari. In particolare, ha evidenziato che un
consigliere comunale, componente del gruppo monopersonale "Unione di
Centro", risultato unico eletto nella corrispondente lista "Unione di
Centro", ha comunicato di voler modificare la predetta denominazione ed
utilizzare il nome di "Democrazia Cristiana".
Il consigliere ha motivato il cambio di denominazione del gruppo di
appartenenza in quanto ha accettato l'incarico di commissario provinciale
della Democrazia Cristiana e, nella nota indirizzata al presidente del
consiglio datata ..., ha precisato che il gruppo con la nuova denominazione
si colloca sempre nell'ambito della maggioranza di centro-destra che ha
sostenuto l'attuale sindaco nelle elezioni.
Tale modifica è stata contestata dal Partito "Unione di Centro", che,
pur non negando la possibilità del consigliere di recedere dal gruppo
originario di appartenenza, ha ritenuto che tale gruppo consiliare non possa
cambiare la denominazione in quanto se si consentisse ciò si verrebbe a
costituire un nuovo gruppo consiliare formato da un solo componente laddove
l'art. 70, comma 3, del regolamento del consiglio prevede il numero minimo
di due consiglieri per poter formare un nuovo gruppo consiliare.
Il segretario generale ha fatto presente, inoltre, che la presidenza del
consiglio comunale ha sempre accolto in passato la variazione di nome dei
gruppi consiliari, in ragione del dettato recato dall'art. 70, comma 1, del
regolamento del consiglio che consente espressamente il mutamento di
denominazione del gruppo in corso di mandato.
Al riguardo, occorre premettere che l'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai
gruppi o ai capigruppo (art. 38 comma 3, art. 39 comma 4 e art. 125 del
decreto legislativo n. 267/2000).
La materia è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari adottate
dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei
consigli, riconosciuta dall'art. 38 del citato decreto legislativo n.
267/2000.
In merito giova richiamare la pronuncia del TAR Trentino Alto Adige - sez.
di Trento, n. 75 del 2009, con la quale è stato precisato che "il principio
generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'art. 67 della
Costituzione … pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva,
assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori
-pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta
libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto
alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza".
In linea con il principio generale secondo il quale, all'elemento "statico"
dell'elezione in una lista si sovrappone quello "dinamico", fondato
sull'autonomia politica dei consiglieri, si ritengono in genere ammissibili
anche i mutamenti all'interno delle forze politiche che comportano
altrettanti cambiamenti nei gruppi consiliari.
Anche il TAR Puglia, sez. di Bari, con sentenza n. 506/2005 ha evidenziato
che il rapporto tra il candidato eletto ed il partito di appartenenza "...
non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di
rapporto di mandato e l'assoluta autonomia politica dei rappresentanti del
consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista
o partito che li ha candidati."
Nel caso specifico, l'art. 40 dello statuto comunale prevede che "i
Consiglieri comunali si costituiscono in Gruppi secondo le norme del
Regolamento per il funzionamento del Consiglio comunale". Ai sensi
dell'art. 70, comma 1, del regolamento del consiglio comunale, è previsto
che "i consiglieri eletti in una medesima lista, qualunque sia il loro
numero, costituiscono di norma un gruppo consiliare, anche se la
denominazione originaria dovesse modificarsi nel corso della tornata
amministrativa".
Il successivo comma 3 del medesimo art. 70 dispone che "Se uno o più
consiglieri decidono di recedere dal proprio gruppo senza confluire in
alcuno dei gruppi esistenti, andranno a costituire un gruppo che si definirà
misto di maggioranza oppure misto di minoranza a seconda della collocazione
del consigliere o dei consiglieri in questione rispetto ai due schieramenti,
a meno che, in numero non inferiore a due, non dichiarino di costituirsi in
gruppo con una distinta qualificazione politica …".
Atteso il surriferito quadro normativo e giurisprudenziale, ad avviso della
scrivente, il mutamento di denominazione del gruppo appare coerente con la
disciplina prevista dal regolamento del consiglio comunale. Ed invero, tale
possibilità è stata consentita dal consiglio dell'ente locale in parola che,
nell'esercizio della propria autonomia normativa, ha espressamente previsto
il cambio di denominazione del gruppo in corso di consiliatura a prescindere
dal numero dei componenti del singolo gruppo
(parere
19.03.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Parere in merito all’agibilità di un’unità immobiliare condonata come
abitazione, con altezza interna utile inferiore a quella stabilita dal DM
05.07.1975
(Regione Emilia Romagna,
nota
18.03.2024 n. 285338 di prot.).
---------------
1. Si risponde ad un quesito in merito alla possibilità di
presentare una Segnalazione Certificata di Conformità Edilizia e di
Agibilità (SCEA) per un’unità immobiliare abitativa oggetto di condono
edilizio, in cui è stata legittimata un’altezza interna di 2,67 ml,
inferiore, quindi, all’altezza interna minima di cui al decreto del Ministro
per la sanità 05.07.1975 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 190 del
18.07.1975 - di seguito denominato “DM 05.07.1975”).
Nel caso di specie, l’amministrazione comunale ritiene di poter rilasciare
la certificazione di agibilità in considerazione di quattro possibili
motivazioni (sulle quali chiede il parere di questa Struttura): (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Questa Amministrazione Provinciale intende procedere a seguito
della stipula del CCDI normativo ed economico relativo all'anno 2023
all'avvio delle procedure di progressioni economiche orizzontali.
Le graduatorie da redigersi possono essere differenziate per profilo
professionale all'interno della stessa area?
L'art. 14, comma 2, del CCNL
comparto funzioni locali 2019/2021 del 16.11.2022 recita "L'attribuzione
dei “differenziali stipendiali” (ex progressioni economiche orizzontali …
avviene mediante procedura selettiva di area, attivabile annualmente in
relazione alle risorse disponibili nel Fondo risorse decentrate …".
Stante la formulazione letterale e come ribadito anche dall'Aran con proprio
Orientamento CFL244, riteniamo che le procedure selettive devono avvenire
per area senza possibilità di distinguere all'interno dell'area (Area degli
Operatori - Area degli Operatori esperti - Area degli Istruttori - Area dei
Funzionari e dell'Elevata Qualificazione) ulteriori graduatorie
differenziate per profilo professionale.
Per esemplificazione, riteniamo non sia possibile formulare all'interno
dell'Area degli Istruttori (ex cat. C) una graduatoria per il profilo di
istruttore amministrativo/contabile ed una graduatoria per il profilo di
istruttore di vigilanza (agente di polizia locale). Unica distinzione,
sempre secondo il citato Parere ARAN, potrebbe essere optata all'interno
dell'Area dei Funzionari e dell'Elevata Qualificazione in quanto "si
potrebbe creare una situazione di palese conflitto di interesse tra valutato
e valutatore si ritiene che si possano legittimamente fare due distinte
graduatorie".
Pertanto, al fine di rispondere al quesito proposto, al di fuori di questa
particolare fattispecie, invece, non è possibile approvare, nell'ambito
della stessa area, graduatorie distinte per profilo professionale.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
CCNL comparto funzioni locali 2019/2021, art. 14
Documenti allegati
ARAN CFL244
(13.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Modifica dello statuto comunale. Istituzione del presidente del
consiglio comunale.
Sintesi/Massima
L'elezione del presidente del consiglio dei comuni con popolazione inferiore
ai 15.000 abitanti, in esecuzione delle modifiche statutarie apportate ex
art. 39, c. 1, ultimo capoverso del TUEL n. 267/2000, può avvenire solo
successivamente al rinnovo degli organi.
Testo
Il sindaco di un comune, avente una popolazione inferiore ai 15.000
abitanti, ha comunicato che è in corso la modifica dello statuto comunale,
approvato nel febbraio 2000 e mai aggiornato alle norme del decreto
legislativo n. 267/2000.
In particolare, la revisione riguarderebbe l'istituzione del presidente del
consiglio comunale ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del d.lgs. n.
267/2000. È stato chiesto se, dopo l'entrata in vigore dello statuto
modificato, sia possibile procedere all'elezione del presidente nel corso
dell'attuale consiliatura, insediatasi da poco più di due anni.
Si ricorda che l'articolo 6, comma 5, del citato d.lgs. n. 267/2000 prevede
che lo statuto entra in vigore decorsi trenta giorni dalla sua affissione
all'albo pretorio dell'ente. Come è noto, ai sensi dell'art. 39, comma 1,
ultimo capoverso del T.U.E.L. n. 267/2000, "nei comuni con popolazione
sino a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la figura del presidente del
consiglio".
La norma in esame prevede che, se per i comuni con popolazione superiore a
15.000 abitanti è obbligatoriamente previsto il presidente del consiglio, i
comuni con popolazione sino a 15.000 hanno soltanto la facoltà di prevedere
nello statuto la figura del presidente del consiglio. Va evidenziato che
tale disposizione si colloca sistematicamente nell'ambito di un comma il cui
primo periodo, sia pure con riferimento espresso ai comuni "con
popolazione superiore a 15.000 abitanti", prevede testualmente che il
presidente è "eletto ... nella prima seduta del consiglio".
Qualora i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti recepiscano
l'istituto in parola, dovranno farlo in aderenza a quanto previsto dal
vigente ordinamento, tenuto conto che è fondamento di un ordinamento
democratico il principio secondo cui gli organismi rappresentativi vengono a
cessare quando spira il termine di durata del loro mandato, previsto dalla
legge.
In conformità ad un principio di coerenza giuridica per cui l'imputazione ad
un nuovo soggetto (presidente del consiglio) di funzioni di competenza del
sindaco in carica può avere luogo soltanto una volta esaurito il mandato
elettorale, si ritiene che in codesto ente l'elezione del presidente del
consiglio, in esecuzione delle modifiche statutarie che saranno apportate,
non possa che avvenire successivamente al rinnovo degli organi attualmente
in carica
(parere
11.03.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
TRIBUTI: Questo
Comune sta provvedendo all'elaborazione di avvisi di accertamento per IMU
2020.
A seguito delle modifiche introdotte allo Statuto del Contribuente, è
necessario procedere preliminarmente al contraddittorio preventivo con il
contribuente?
Il D.Lgs. 12.02.2024, n. 13,
in tema di accertamento tributario e di concordato preventivo biennale, che,
novellando il D.Lgs. 19.06.1997, n. 218, in materia di accertamento con
adesione e di conciliazione giudiziale, ha introdotto all'art. 1 il comma
2-bis la nuova disposizione in merito di "contraddittorio preventivo"
con il contribuente secondo la quale "Lo schema di atto, comunicato al
contribuente ai fini del contraddittorio preventivo previsto dall'articolo
6-bis , comma 3, della legge 27.07.2000, n. 212, reca oltre all'invito alla
formulazione di osservazioni, anche quello alla presentazione di istanza per
la definizione dell'accertamento con adesione, in luogo delle osservazioni.
L'invito alla presentazione di istanza per la definizione dell'accertamento
con adesione è in ogni caso contenuto nell'avviso di accertamento o di
rettifica ovvero nell'atto di recupero non soggetto all'obbligo del
contraddittorio preventivo".
L'art. 41, comma 2, del medesimo decreto delegato, disciplina altresì che la
nuova disciplina si applichi con riferimento agli atti emessi a decorrere
dal 30.04.2024.
All'uopo, al fine di disciplinare tale periodo transitorio, il Vice Ministro
dell'Economia e delle Finanze ha emanato apposito Atto di indirizzo
29.02.2024 in attesa dell'emanazione di apposito decreto ministeriale che
contenga la precisa elencazione degli atti esclusi dall'applicazione della
nuova normativa.
Infatti, il comma 2 del nuovo art. 6-bis dello Statuto del Contribuente (L.
27.07.2000, n. 212) dispone che "Non sussiste il diritto al
contraddittorio ai sensi del presente articolo per gli atti automatizzati,
sostanzialmente automatizzati, di pronta liquidazione e di controllo formale
delle dichiarazioni individuati con decreto del Ministro dell'economia e
delle finanze, nonché per i casi motivati di fondato pericolo per la
riscossione".
Il ricordato precetto è sostanzialmente autoapplicativo solo nei casi in cui
l'Amministrazione finanziaria possa offrire una adeguata motivazione in
ordine ad un ritenuto fondato motivo per la riscossione.
Di contro, per gli atti automatizzati, sostanzialmente automatizzati, di
pronta liquidazione e di controllo formale delle dichiarazioni,
relativamente ai quali il diritto al contraddittorio è radicalmente escluso,
occorrerà quindi attenderne l'elencazione che dovrà adottarsi con decreto
MEF.
Tanto ciò detto, conclude l'atto di indirizzo che "Alla luce di ciò,
dunque, una lettura interpretativa d'ordine sistematico delle recenti novità
normative che si sono susseguite porta a far ritenere che fino al momento
dell'emanazione del decreto ministeriale di elencazione delle fattispecie
nelle quali il diritto al contraddittorio è assolutamente escluso e, in ogni
caso, fino alla predetta data del 30.04.2024 nulla sia mutato in ordine alle
modalità procedurali di contraddittorio, occorrenti per far legittimamente
valere la pretesa tributaria, tradizionalmente disciplinate nella
legislazione ancora vigente".
Sulla scorta di quanto innanzi, ed al di là delle considerazioni esposte in
merito agli atti che saranno oggetto a decorrere dal 01.05.2024 all'istituto
del "contraddittorio preventivo", l'Ente può procedere
all'elaborazione degli avvisi di accertamento entro il prossimo 30 aprile
senza prevedere tale fase prodromica con il contribuente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 19.06.1997, n. 218, art. 1
- L. 27.07.2000, n. 212, art. 6-bis - D.Lgs. 12.02.2024, n. 13, art. 41
Documenti allegati
Atto di indirizzo 29.02.2024 del MEF (06.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Credenziali di accesso al protocollo informatico ed ai sistemi di
contabilità.
Sintesi/Massima
I dati di sintesi del
protocollo informatico, ostensibili ai sensi dell'art. 43, c. 2, del d.lgs.
n. 267/2000, possono essere acquisiti dai consiglieri con modalità da remoto
solo ove venga garantito un elevato livello di sicurezza della loro
trasmissione.
Testo
Con nota del ..., il sindaco del
Comune ... ha posto un quesito in ordine all'ammissibilità della richiesta
di alcuni consiglieri di ottenere le credenziali di accesso al protocollo
informatico e ai sistemi di contabilità. In particolare, è stato chiesto se
si possa concedere un accesso libero ed illimitato o se debbano osservarsi
norme di salvaguardia del diritto di tutela dei dati personali e della
sicurezza informatica dei dati.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato - sez. V, con sentenza
11.03.2021, n. 2089, ha precisato che il diritto di accesso del consigliere
comunale, seppur ampio, "non implica che esso possa sempre e comunque
esercitarsi con pregiudizio di altri interessi riconosciuti dall'ordinamento
meritevoli di tutela, e dunque possa sottrarsi al necessario bilanciamento
con quest'ultimi".
Ciò non solo perché ad esso si contrappongono diritti egualmente tutelati
dall'ordinamento, ma anche per il limite funzionale intrinseco cui il
diritto d'accesso, espresso dall'art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 è
sottoposto, con il richiamo alle notizie ed alle informazioni che possono
essere richieste all'ente locale se si rivelino utili all'espletamento del
proprio mandato. Tale orientamento giurisprudenziale è stato ribadito dal
TAR Veneto - sez. I, con sentenza 05.05.2021, n. 604.
L'ente, che comunque deve regolamentare questo tipo di accesso, può
certamente consentire l'utilizzo di postazioni informatiche presso i propri
locali per l'accesso ai dati di sintesi contenuti nel protocollo informatico
(cfr. C.d.S. n. 769 del 03.02.2022 e n. 2945 del 19.04.2022) ma deve
comunque valutare l'opportunità di consentire ai consiglieri l'accesso da
remoto. Infatti, l'Alto Consesso, con la pronuncia n. 769/2022, ha precisato
che il particolare diritto di accesso del consigliere non è illimitato,
vista la sua potenziale pervasività e capacità di interferenza con altri
interessi primariamente tutelati (in termini, Cons. Stato, V, 02.01.2019, n.
12).
Tale particolare accesso, per essere funzionalmente correlato al migliore
svolgimento del mandato consiliare non deve incidere sulle prerogative
proprie degli altri organi comunali, a necessaria garanzia delle funzioni
che a questi (il sindaco e la giunta) e non al consiglio l'ordinamento
attribuisce, nel quadro dell'assetto dell'ente, non deve essere in contrasto
con il principio costituzionale di razionalità e buon funzionamento
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.) e deve avvenire con modalità
corrispondenti al livello di digitalizzazione dell'amministrazione (cfr.
art. 2, comma primo, d.lgs. n. 82/2005).
L'ente, quindi, può prevedere una postazione pc alla quale il consigliere
potrà accedere tramite utilizzo di apposite credenziali per la consultazione
telematica delle notizie necessarie in ragione dell'esercizio delle sue
funzioni. Anche alla luce della sentenza del TAR Basilicata n. 599/2019, il
consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive
connesse all'espletamento del suo mandato attraverso la modalità
informatica, con accesso da remoto (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II,
04.04.2019, n. 545; TAR Sardegna, 04.04.2019, n. 317).
Con la sopra citata sentenza il TAR Basilicata ha, tuttavia, precisato "che
l'accesso da remoto" (in maniera specifica al sistema contabile
dell'ente) "vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi
ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere
esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane
soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso - tra le quali la
necessità di richiesta specifica".
In merito ai dati di sintesi del protocollo informatico il TAR Lombardia -
sez. I, con sentenza n. 2317 del 24.10.2022, ha evidenziato che tali dati,
pacificamente ricompresi tra quelli ostensibili, ai sensi dell'art. 43,
comma 2, del d.lgs. n. 267/2000, possono essere infatti acquisiti con
modalità da remoto, solo ove venga garantito un elevato livello di sicurezza
della loro trasmissione.
Si soggiunge che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3564 del 06.04.2023,
ha precisato che l'accesso sistematico al protocollo informatico dell'ente
trova un limite nella funzione espletata dal consigliere (che non è quella
di affiancarsi alla struttura amministrativa istituendo, in concreto, una
nuova figura organizzativa e dunque nuovi assetti funzionali ed ulteriori
modelli procedimentali) e soprattutto nel principio di proporzionalità
dell'azione amministrativa, in quanto tale accesso comporterebbe una "innovazione
organizzativa radicale"
(parere
28.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un partecipante ad un concorso pubblico organizzato da questo
Ente non ha dichiarato, nella domanda di partecipazione, l'attestato di
lodevole servizio quale titolo di preferenza già posseduto al momento della
scadenza dei termini.
E' possibile concedere al concorrente la facoltà di integrazione della
documentazione?
Al fine di rispondere al quesito proposto è necessario in primis analizzare
le specifiche norme contenute nel D.P.R. 09.05.1994, n. 487 "Regolamento
recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e
le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre
forme di assunzione nei pubblici impieghi" come in ultimo modificato dal
D.P.R. 16.06.2023, n. 82.
In materia di concorsi per l'accesso a pubblici impieghi infatti, l'art. 5,
comma 4, D.P.R. 09.05.1994, n. 487 così come modificato e integrato dal
D.P.R. 16.06.2023, n. 82, elenca i titoli preferenziali da utilizzare in
caso di parità di punteggio di merito dei candidati nella relativa
graduatoria evidenziando che l'applicazione dei suddetti titoli
preferenziali deve avvenire nel rispetto dell'ordine previsto dallo stesso
art. 5, che ha carattere tassativo.
Tali titoli di preferenza sono da ritenersi valutabili sebbene non
dichiarati ma comunque posseduti all'atto della domanda di partecipazione ed
esibiti nei termini previsti dal bando, in caso di superamento delle prove
selettive poiché la loro valutazione interviene solo successivamente nella
redazione della graduatoria ed esclusivamente nell'ipotesi in cui più
candidati conseguano il medesimo punteggio di merito, con loro applicazione
automatica nel rispetto dell'ordine previsto dal citato art. 5, D.P.R.
09.05.1994, n. 487.
A tale conclusione è pervenuta anche recente giurisprudenza amministrativa
TAR Marche Ancona Sez. II, Sent., 15.01.2024, n. 51, ove il Tribunale
Amministrativo delle Marche, decidendo su una simile questione con
riferimento alla scelta di un'amministrazione di “accettare” la
dichiarazione di preferenza di un titolo già posseduto da un candidato ma
effettuata successivamente alla domanda di partecipazione a nulla rilevando
che tali titoli, effettivamente posseduti dal candidato nominato primo
vincitore, non siano stati tempestivamente dichiarati nella domanda di
partecipazione in quanto il bando di concorso mancante di una disposizione
specifica sul tema.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487,
art. 4 - D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 5
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Marche Ancona Sez. II, Sent.,
15.01.2024, n. 51
(28.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PATRIMOnIO:
Trasferimento di beni immobili dallo Stato all’ente locale destinatario ai
sensi del D.lgs. 237 del 24.04.2001.
La giurisprudenza riconosce la sdemanializzazione
c.d. tacita di beni immobili, che opera a fronte di atti univoci ed
inequivocabili della Pubblica Amministrazione, tali da dedurre
l'incompatibilità con la volontà di conservare il bene alla sua destinazione
originaria.
Un tanto trova conferma nel fatto che l'atto formale di sdemanializzazione
c.d. espressa, richiesto dall'art. 829 del Codice civile, sia privo di
effetti costitutivi, poiché il passaggio del bene pubblico al patrimonio
disponibile dell'ente locale consegue direttamente al realizzarsi della
perdita della demanialità, potendo l’autorità amministrativa attestare
semplicemente con un provvedimento di carattere dichiarativo il venir meno
degli elementi costitutivi della demanialità.
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di riconoscere alcuni
beni immobili oggetto di attuazione del D.lgs. 24.04.2001, n. 237
[1] tra quelli
appartenenti al patrimonio disponibile oppure se sia necessario procedere ad
una formale sdemanializzazione degli stessi.
Premesso che, ai sensi dell’art. 1, c. 2, del D.lgs. 237/2001
[2], i beni immobili
trasferiti dallo Stato all’ente locale destinatario entrano a far parte del
demanio dello stesso, il Comune riferisce in particolare che –a seguito di
verbale di consegna e presa in carico dei beni in oggetto ex art. 2, c. 3,
del decreto legislativo in esame– aveva fin da subito appurato la perdita
della funzione servente rispetto al fine pubblico e conseguentemente il
riconoscimento degli stessi tra i beni appartenenti al patrimonio
disponibile dell’ente locale.
Tenuto conto della dichiarazione del Comune circa l’insussistenza della
funzione servente rispetto al fine pubblico sin dalla data di presa in
carico dei beni [3],
si esprimono le seguenti considerazioni.
L’art. 829, c. 2, del Codice civile prevede che il provvedimento che
dichiara il passaggio di beni demaniali del Comune al patrimonio disponibile
deve essere pubblicato nei modi stabiliti per i regolamenti comunali. Sul
punto, la Dottrina è concorde nel riconoscere la portata puramente
dichiarativa dell’atto formale richiesto, ammettendo altresì nella prassi
l’operatività della sdemanializzazione c.d. tacita [4].
Quest’ultima opera a fronte di atti univoci e concludenti della Pubblica
Amministrazione, tali da dedurre l’incompatibilità con la volontà di
conservare il bene alla sua destinazione originaria.
Un tanto trova conferma nel fatto che l’atto formale di sdemanializzazione
cd. espressa, richiesto dall’art. 829 del Codice, è d’altro canto privo di
effetti costitutivi, poiché il passaggio del bene pubblico al patrimonio
disponibile dell’ente locale consegue direttamente al realizzarsi della
perdita della destinazione pubblica, potendo l’autorità amministrativa
attestare semplicemente con un provvedimento di carattere dichiarativo il
venir meno degli elementi costitutivi la demanialità [5].
Occorre tuttavia considerare anche l’obiettivo originario dell’articolo 829
C.c., che era quello di garantire la certezza dei rapporti giuridici,
ovviando quindi a questioni o comportamenti di dubbia natura ed intenzione
[6]. Con questa premessa,
non sono quindi sufficienti, quali elementi indiziari, il disuso prolungato
del bene da parte dell’ente pubblico proprietario o, in generale, situazioni
negative di inerzia o tolleranza [7].
La volontà della Pubblica Amministrazione, secondo consolidata
Giurisprudenza, deve risultare inequivocabile, così come l’irreversibilità
rispetto all’inidoneità del bene a servire ancora all’uso della collettività
[8].
Ciò detto, nel caso specifico si è dell’avviso che l’inventario, il quale fa
rientrare i beni immobili in esame nel patrimonio disponibile del Comune a
decorrere dalla consegna dei beni fino ad oggi, possa essere considerato
atto univoco ed inequivocabile attestante di fatto la perdita della funzione
pubblica dei medesimi, atteso che lo stesso è stato annualmente oggetto di
approvazione da parte del consiglio comunale, in quanto allegato ai
rendiconti della gestione patrimoniale dell’ente.
Ad ogni modo, nella deliberazione del consiglio comunale relativa
all’eventuale alienazione dei beni immobili in argomento, ai sensi dell’art.
42, comma 2, lett. l), del D.lgs. 267/2000, si suggerisce di dare
contestualmente atto dell’avvenuta sdemanializzazione tacita degli stessi.
---------------
[1] “Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione
Friuli-Venezia Giulia, recanti il trasferimento alla regione di beni
immobili dello Stato”.
[2] Tale comma è stato successivamente abrogato dall’art. 1 del D.lgs.
17.09.2003, n. 278.
[3] La quale risulta antecedente all’entrata in vigore del D.lgs. 278/2003 e
dunque all’abrogazione del c. 2, art. 1, del D.lgs. 237/2001.
[4] Cfr. sul punto Tresca F. La Circolazione dei beni dello Stato, Rivista
del Notariato, Fasc. 1, 01.02.2018, pag. 193.
[5] Cfr. C. Cudia, Le modificazioni del regime proprietario dei beni
pubblici tra atti e fatti della Pubblica Amministrazione: orientamenti
giurisprudenziali e sistema, Foro amm., TAR, fasc. 12, 2003, pag. 3666.
[6] Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice civile
del 1942.
[7] Cfr. sul punto M. Calabrò, G. Mari, Rilevanza degli usi civici nella
circolazione degli immobili, Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc. 4,
01.08.2021, pag. 143.
[8] Ex multis Cass. Civ. Sez. III, 23.05.2023, n. 14269; Cass., Sez. II,
18.06.2020 n. 11801; Cass. Civ., S.U., 07.04.2020 n. 7739; Corte cost.,
24.04.2020 n. 71; Cass. 19.02.2007, n. 3742
(18.01.2024 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso documentale ed attività di interesse pubblico di
enti privati.
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Atto amministrativo – Accesso ai documenti – Attività di
interesse pubblico di enti privati – Interesse concreto ed
attuale – Ordini professionali.
L’art. 22, comma 1, lett. e), della
legge n. 241 del 1990, ammette l’accesso agli atti
“limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
L’interesse all’ostensione degli atti inerenti attività di
pubblico interesse può discendere da notizie di stampa, le
quali devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed
elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare
l’interesse, concreto e attuale all’accesso degli atti
richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a
consentire la violazione delle prescrizioni di legge che
impongono di remunerare le prestazioni professionali con un
equo compenso.
(Nella fattispecie in esame, la sezione ha ritenuto che, pur
muovendo dalla natura privatistica di ASMEL, l’attività
dalla stessa posta in essere, nel sottoscrivere l’accordo
quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, sia di pubblico
interesse. Ha statuito che sono ostensibili l’accordo quadro
e tutti gli altri atti, nella disponibilità della stessa,
richiesti dall’ordine degli avvocati di Roma, quale ente
esponenziale della categoria degli avvocati) (1)
---------------
(1) Su fattispecie analoga, Cons. Stato, sez. V, 20.03.2024, n.
2693.
Precedenti conformi: Cons.
Stato, Ad. plen., 28.06.2016, n. 13
(ConsIglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.03.2024 n. 2694 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
La ASMEL -Associazione per la Sussidiarietà e la
Modernizzazione degli Enti Locali- è un’associazione senza
scopo di lucro costituita da comuni e altri enti pubblici,
tra i cui scopi rientra, tra l’altro, quello “di
implementare soluzioni per il conseguimento di obiettivi di
semplificazione amministrativa e di contenimento della spesa
nell'ambito dei procedimenti di acquisizione di beni e
servizi”.
A tal fine lo statuto prevede che “…l'Associazione potrà
attivare in favore dei soci funzioni di approvvigionamento (convenzionamenti,
accordi, centralizzazione di committenze, e-procurement, etc.)
connesse al reperimento delle migliori condizioni di mercato
allo scopo di rendere più efficiente ed economica la
gestione delle procedure di acquisizione; e di realizzare
economie di scala”.
In attuazione degli obiettivi statutari, la ASMEL ha
sottoscritto, con la Le. s.r.l. -società benefit
costituita ai sensi dell’art. 1, commi da 376 a 384, della L. 28/12/2015, n. 208- un accordo quadro di collaborazione
con il fine di mettere a disposizione degli enti associati
un servizio privato al miglior prezzo di mercato,
consistente nella cessione da parte degli enti dei diritti
di causa attraverso appositi contratti.
In base al detto accordo, la detta società acquisisce, dai
propri clienti, i diritti che questi ultimi intendono far
valere in giudizio (c.d. res litigiosa) e assume di
conseguenza i costi per la successiva gestione del
contenzioso, sulla base di uno schema negoziale, di
derivazione anglosassone, noto come “third party litigation
funding”, il quale configura un contratto atipico aleatorio,
finalizzato a favorire l’accesso alla tutela
giurisdizionale.
Al fine di verificare il rispetto della normativa sull’equo
compenso per l’esercizio delle prestazioni professionali, di
cui alla L. 21/04/2023, n. 49, l’Ordine degli Avvocati di
Roma, quale ente esponenziale della categoria degli
avvocati, ha presentato alla ASMEL un’istanza di accesso
avente ad oggetto copia dell’accordo quadro tra la stessa
ASMEL e Le., con tutti gli atti presupposti o
conseguenti alla stipula dell’anzidetto accordo e
concernenti la cessione dei diritti litigiosi dei comuni
associati ad ASMEL.
In assenza di riscontro, l’Ordine degli Avvocati di Roma ha
proposto ricorso al TAR Lombardia–Milano, col quale ha
chiesto l’ostensione degli atti di cui sopra.
Il Tribunale adito, con sentenza 28/11/2023, n. 2825, ha
accolto il ricorso.
Avverso la sentenza ha proposto appello la ASMEL.
...
Passando al merito delle questioni poste, va,
preliminarmente, osservato che non è contestata la natura
privatistica di ASMEL.
Orbene, con riguardo ai soggetti privati, l’art. 22, comma
1, lett. e), della L. n. 241/1990, ammette l’accesso agli
atti “…limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”
(Cons. Stato, A.P., 28/06/2016, n. 13).
Ai fini del decidere occorre, quindi, stabilire se
l’attività posta in essere da ASMEL, nel sottoscrivere, con
Le., l’accordo quadro di cui è stata chiesta
l’ostensione, rientri o meno fra quelle di pubblico
interesse.
La risposta non può che essere positiva.
E invero, come correttamente rilevato dal giudice di prime
cure, <<l’eventuale
cessione di diritti e di crediti dei Comuni a favore di una
società benefit, secondo il già ricordato modello
contrattuale del “litigation funding”, non è una mera
attività di diritto privato, risolvendosi al contrario nella
scelta di un contraente della Pubblica Amministrazione (il
c.d. funder), che provvederà alla gestione del contenzioso
quale cessionario dei diritti già in capo agli Enti Locali
cedenti>>, scelta
che, peraltro, lo si osserva incidentalmente, avviene
attraverso un meccanismo di dubbia legittimità, in quanto
opera in deroga a tutta la disciplina sull’evidenza
pubblica.
A nulla rileva che l’opzione di avvalersi dei servizi della
Le. sia, come sostiene l’appellante, facoltativa per
gli enti associati.
Ciò che importa, con riguardo alla presente controversia, è
che, laddove questi ultimi decidano di affidare a detta
società il loro contenzioso, sulla base del menzionato
accordo quadro, questo costituirà la fonte della disciplina
del rapporto.
E’ evidente, quindi, come nella fattispecie sussistano tutti
i presupposti per ritenere che l’attività posta in essere da
ASMEL con la sottoscrizione dell’accordo in parola, risulti
connotata da profili di pubblico interesse.
Quanto all’interesse a ottenere gli atti oggetto della
richiesta di accesso, è basta rilevare che l’appellato ha
fatto discendere il proprio interesse all’ostensione, da
notizie di stampa in base alle quali, l’accordo quadro
stipulato con la Le., avrebbe consentito agli
associati ASMEL, di tutelare i propri diritti per le vie
giurisdizionali senza spese e senza rischi.
Ebbene, tali notizie di stampa, l’esistenza delle quali non
è stata smentita dall’odierna appellante, devono ritenersi
idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più
specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e
attuale, dell’ordine forense appellato all’ostensione degli
atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente
idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di
legge che impongono di remunerare le prestazioni
professionali con un equo compenso.
Dalle esposte considerazioni discende l’ostensibilità
dell’accordo quadro e di tutti gli altri atti reclamati
dall’istante, che siano nella disponibilità di ASMEL, senza
che a ciò osti il paventato pericolo, peraltro solo
genericamente evocato, di disvelare le strategie commerciali
della Le., dato che, ove anche così fosse, l’unica
conseguenza sarebbe quella di dover attivare, ai fini del
rilascio della documentazione richiesta, il preventivo
contraddittorio con la detta società, ai sensi dell’art. 3
del D.P.R. 12/04/2006, n. 184 (Regolamento recante
disciplina in materia di accesso ai documenti
amministrativi).
L’appello va, in definitiva, respinto (ConsIglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.03.2024 n. 2694 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Illegittima l’ordinanza che impone il crocifisso negli uffici
pubblici.
Il sindaco può fare un atto straordinario solo in caso di rischi per la
comunità.
Il sindaco che impone, con un’ordinanza, la presenza del crocifisso negli
uffici pubblici, va oltre il suo potere. Nel nostro ordinamento, infatti, a
garanzia della sfera giuridico-patrimoniale dei consociati, valgono i
principi di legalità e di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Per questo, i casi nei quali la legge ammette che un primo cittadino possa
emanare un atto amministrativo atipico sono eccezionali.
Con queste motivazioni il Consiglio di Stato (Sez. II -
sentenza 18.03.2024 n. 2567) ha chiuso, dopo 14 anni, il caso
aperto dall'Unione Atei e agnostici razionalistici (Uaar), contro
l'ordinanza del sindaco del Comune di Mandas, a sud della Sardegna, che
imponeva, pena una multa da 500 euro, di esporre il Crocifisso negli uffici
pubblici.
Un provvedimento, giustificato con l'urgenza di «preservare le attuali
tradizioni ovvero mantenere negli edifici pubblici di questo comune la
presenza del Crocifisso quale simbolo fondamentale dei valori civili e
culturali del nostro paese».
Il Consiglio di Stato precisa però che le urgenze sulle quali il sindaco ha
margine di manovra per adottare atti straordinari sono altre. E vanno dalle
emergenze sanitarie, alla necessità di intervenire per superare situazioni
di grave incuria o degrado del territorio, fino all'eliminazione di seri
pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Ed è
chiaro che la motivazione fornita dal primo cittadino per l'adozione
dell'atto non rientra -spiegano i giudici amministrativi- neppure
indirettamente, nei presupposti che avrebbero legittimato l'esercizio del
potere speciale.
Il Cds ribalta dunque la decisione del Tar che aveva respinto il ricorso
dell'Uaar, muovendosi sul solco della sentenza della Cedu del 2011.
Allora la Grande Chambre di Strasburgo aveva escluso la condanna dell'Italia
per la presenza del Crocifisso nelle scuole chiarendo che ogni Stato ha un
margine di apprezzamento sul luogo dell' esposizione. Ed ha escluso che il
Crocifisso rappresenti un elemento di indottrinamento, incompatibile con la
libera espressione del pensiero.
Il Consiglio di Stato, fa invece riferimento alla sentenza delle Sezioni
unite della Cassazione del 2021, secondo la quale la comunità scolastica può
decidere di esporre il Crocifisso in aula, con valutazione che sia frutto
del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima
comunità, ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni
difformi.
Il Consiglio di Stato considera tuttavia che l'ordinanza impugnata è stata
revocata dopo soli pochi mesi dalla sua emanazione, «dunque ha avuto un
modesto impatto nella comunità locale». Il che giustifica la
compensazione integrale delle spese di giudizio (articolo NT+Diritto del 21.03.2024).
---------------
SENTENZA
4. Il primo motivo d’appello contesta l’erroneità della sentenza
impugnata nella parte in cui ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse, interesse che viceversa la parte ritiene
tuttora attuale, evidenziando che:
1. la revoca, a differenza dell’annullamento, non opera
retroattivamente, a maggior ragione nel caso di specie in cui non sono state
riconosciute le ragioni dell’appellante, ma dove l’autorità ha giustificato
l’autotutela sol perché la precedente ordinanza impositiva dell’obbligo
aveva “esplicato i suoi effetti”;
2. comunque permane l’interesse ad avere una decisione
giurisdizionale che accerti l’illegittimità del provvedimento, anche a fini
risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., in relazione
ai quali la parte si riserva di procedere con autonomo giudizio.
4.1. Il motivo è fondato non tanto e non solo per quanto osservato in merito
alla diversità di effetti tra annullamento e revoca. Sotto questo profilo,
infatti, essendo venuta meno l’originaria ordinanza, la violazione
dell’obbligo è rimasta priva di sanzione, il che dimostra che l’originaria
previsione ha perso la sua natura prescrittiva con conseguente dequotazione
dell’interesse a gravarla autonomamente.
Piuttosto la fondatezza delle ragioni della parte si coglie con riferimento
alla prospettata possibilità di chiedere il risarcimento dei danni, la cui
precondizione è l’accertamento dell’originaria illegittimità del
provvedimento.
Infatti (vedasi Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2022) “per
procedersi all'accertamento dell'illegittimità dell'atto ai sensi dell'art.
34, comma 3, c.p.a., è sufficiente dichiarare di avervi interesse a fini
risarcitori posto che ai sensi dell’art. 30, comma 5, del codice del
processo amministrativo la domanda risarcitoria è proponibile anche in
seguito, nel termine previsto da quest’ultima disposizione. Di conseguenza,
“una volta manifestato l'interesse risarcitorio, il giudice deve limitarsi
ad accertare se l'atto impugnato sia o meno legittimo, come avrebbe fatto in
caso di permanente procedibilità dell'azione di annullamento, mentre gli è
precluso pronunciarsi su una questione in ipotesi assorbente della
fattispecie risarcitoria, oggetto di eventuale successiva domanda”.
Or bene, alla luce della sopra richiamata dichiarazione dell’associazione
ricorrente va senz’altro ritenuta l’attualità di un interesse della stessa
ad una pronuncia di merito sulla legittimità del provvedimento impugnato,
con conseguente riforma in parte qua della sentenza appellata.
5. Con il successivo motivo la parte appellante ha riproposto i mezzi
di impugnazione già dedotti in primo grado. In particolare, ha nuovamente
sollevato, col secondo mezzo di gravame, il vizio di incompetenza del
provvedimento impugnato, per avere il Sindaco straripato dai poteri
attribuitigli dagli articoli 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000.
5.1. Il motivo è fondato.
Nel nostro ordinamento, a garanzia della sfera giuridico-patrimoniale dei
consociati, vigono il principio di legalità ed il principio di tipicità dei
provvedimenti amministrativi.
Per tale ragione, le fattispecie nelle quali la legge ammette che un atto
amministrativo possa avere contenuto atipico sono da ritenersi eccezionali
e, per tali motivi, di stretta interpretazione.
Nel caso dei poteri contingibili e urgenti attribuiti al Sindaco –che,
presentando un contenuto atipico, rientrano in quest’ultima categoria– onde
ulteriormente restringerne l’operatività, il T.U.E.L. prevede specifici
requisiti per il relativo esercizio.
Il provvedimento impugnato si basa sugli articoli 50 e 54 comma 2 del d.lgs.
n. 267 del 2000.
Il comma 5 dell’articolo 50 ora richiamato attribuisce al Sindaco, in caso
di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale, il potere di emettere ordinanze contingibili e urgenti quando vi sia
un’“urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave
incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o
di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare
riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei
residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per
asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche…..”
L’art. 54, dopo aver previsto al comma 2 che il sindaco agisce quale
Ufficiale del Governo nell’esercizio di detti poteri, prevede al comma 4 che
egli “adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e
urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica
e la sicurezza urbana”.
Il comma 4 bis del medesimo articolo 54 prevede infine che “i
provvedimenti adottati ai sensi del comma 4 concernenti l’incolumità
pubblica sono diretti a tutelare l’integrità fisica della popolazione,
quelli concernenti la sicurezza urbana sono diretti a prevenire e
contrastare [le situazioni che favoriscono ] l'insorgere di fenomeni
criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento
della prostituzione, la tratta di persone, l'accattonaggio con impiego di
minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale
l'illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati
all'abuso di alcool o all'uso di sostanze stupefacenti.”
Il provvedimento impugnato ha giustificato la prescrizione con cui imponeva
l’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici con l’urgenza di “preservare
le attuali tradizioni ovvero mantenere negli edifici pubblici di questo
comune la presenza del crocifisso quale simbolo fondamentale dei valori
civili e culturali del nostro paese”. All’evidenza la motivazione ora
richiamata non rientra, neppure indirettamente, in alcuno dei presupposti di
fatto che avrebbero legittimato l’esercizio del relativo potere.
E poiché oltre a quanto osservato, in tema di provvedimenti contingibili e
urgenti, “soltanto a fronte di una puntuale rappresentazione della
situazione di grave pericolo attuale, suffragata da istruttoria e
motivazione adeguate, si può giustificare l'eccezionale deroga al principio
di tipicità degli atti amministrativi ed alla disciplina vigente, attuata
mediante l'utilizzazione di provvedimenti "extra ordinem" (così
Consiglio di Stato sez. V, 27.10.2022, n. 9178), ne deriva che il
provvedimento impugnato è stato emesso in difetto di attribuzioni e che
pertanto, in accoglimento del gravame, deve ritenersi per tali ragioni
illegittimo.
5.2. Declaratoria di illegittimità che a maggior ragione va affermata nel
caso di specie –e dunque sono accoglibili anche gli altri motivi di appello
che detta illegittimità deducono– dove non risulta che il sindaco, prima di
emettere la misura, abbia effettuato alcun ragionevole bilanciamento tra gli
interessi in gioco coinvolti nella decisione amministrativa.
Per contro, come hanno affermato, sebbene con specifico riferimento al
crocifisso affisso nelle aule scolastiche, le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione tale valutazione andava esperita perché “il R.D. n. 965 del
1924, art. 118, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve
essere interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che
dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione, nel senso
che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso in aula con
valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i
componenti della medesima comunità, ricercando un "ragionevole
accomodamento" tra eventuali posizioni difformi”. (In questo senso la
Suprema Corte, con la sentenza n. 24414 del 09.09.2021 che ha dichiarato
illegittima una circolare del dirigente scolastico che, nel richiamare tutti
i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli
studenti, espressa a maggioranza in una assemblea, di vedere esposto il
crocifisso nella loro aula, non ricerchi un ragionevole accomodamento con la
posizione manifestata dal docente dissenziente).
6. Questi motivi inducono all’accoglimento dell’appello e, per l’effetto, a
dichiarare l’illegittimità dell’ordinanza impugnata.
Va tuttavia considerato che quest’ultima è stata revocata dopo soli pochi
mesi dalla sua emanazione, dunque ha avuto un modesto impatto nella comunità
locale, il che giustifica la compensazione integrale delle spese di
giudizio. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza – Esclusione dell’operatività dell’art.
21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
Il mancato rispetto dell’obbligo di
preventiva comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza, imposto dall’art. 10-bis
della legge n. 241/1990, determina l’annullamento del
provvedimento discrezionale senza che sia consentito
all’amministrazione dimostrare in giudizio che il
provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso da
quello in concreto adottato.
Infatti, in seguito alla novella introdotta con l’art. 12,
comma 1, lett. i), del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito
con legge 11.09.2020, n. 120, è stata esclusa l’operatività
dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
laddove il provvedimento sia stato adottato in violazione
del menzionato articolo 10-bis
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 12.03.2024 n. 5033 - link a www.ambientediritto.it).
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1. La ricorrente, cittadina iraniana, rappresentava di aver
presentato all’Ambasciata d’Italia a Teheran una richiesta
di visto per motivi di affari.
1.1. L’Ambasciata, in data 11.05.2023, rigettava la
richiesta di visto della ricorrente sulla base delle
seguenti motivazioni “le informazioni fornite per
giustificare la finalità e le condizioni del soggiorno
previsto non sono attendibili” e “vi sono ragionevoli
dubbi sull’affidabilità e l’autenticità dei documenti
giustificativi forniti o sulla veridicità del loro contenuto”.
2. La ricorrente, con la proposizione del presente ricorso,
insorgeva avverso detto provvedimento di rigetto,
lamentandone l’illegittimità per violazione di legge ed
eccesso di potere sotto distinti profili, e ne chiedeva
l’annullamento.
3. In particolare, il Collegio ritiene che il primo
motivo di gravame, con il quale è stata contestata la
legittimità del gravato provvedimento per violazione
dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, sia
meritevole di accoglimento in quanto non consta, agli atti
del presente giudizio, che l’amministrazione abbia
comunicato alla ricorrente, prima dell’adozione del gravato
diniego, le ragioni ostative all’accoglimento della sua
istanza.
3.1. Tale motivo di ricorso merita accoglimento in quanto
viene in rilievo un procedimento a istanza di parte e,
pertanto, la comunicazione del preavviso di rigetto deve
necessariamente precedere l’adozione, da parte
dell’amministrazione, del provvedimento di rigetto, pena la
lesione delle garanzie partecipative che la legge riconosce
al privato in sede procedimentale.
3.2. In proposito, giova evidenziare che la giurisprudenza
amministrativa ha affermato che “l’introduzione
nell’ordinamento, con legge 11.02.2005 n. 15 del 2005, del
preavviso di rigetto ha segnato l’ingresso di una modalità
di partecipazione al procedimento, con la quale si è voluta
‘anticipare’ l’esplicitazione delle ragioni del
provvedimento sfavorevole alla fase endoprocedimentale, allo
scopo di consentire una difesa ancora migliore
all’interessato, mirata a rendere possibile il confronto con
l’amministrazione sulle ragioni da essa ritenute ostative
all’accoglimento della sua istanza, ancor prima della
decisione finale.
L’istituto del cd. ‘preavviso di rigetto’ ha così lo scopo
di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio
rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti
dell’istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e
giuridiche, dell’interessato, che potrebbero contribuire a
far assumere agli organi competenti una diversa
determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando
una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr.
Consiglio di Stato, sez. III, 05/12/2019, n. 834 e
26/06/2019, n. 4413; sez. VI, 06/08/2013, 4111; sez. III
27/06/2013, n. 3525)” (cfr. Cons. Stato, sez. III, sent.
n. 6743 dell’08.10.2021).
3.3. Tali principi trovano piena applicazione nel caso di
specie, posto che l’amministrazione ministeriale resistente,
nel rendere il gravato provvedimento, ha fatto esercizio di
un potere di carattere discrezionale correlato alla
valutazione inerente alla sussistenza del rischio
migratorio, sul quale sostanzialmente appunta la motivazione
del diniego reso sull’istanza formulata dal ricorrente in
vista del rilascio del visto di ingresso per cui è causa.
3.4. Il mancato rispetto dell’obbligo di preventiva
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza, imposto dall’art. 10-bis della legge n.
241/1990, determina l’annullamento del provvedimento
discrezionale senza che sia consentito all’amministrazione
dimostrare in giudizio che il provvedimento non avrebbe
potuto avere contenuto diverso da quello in concreto
adottato.
Infatti, in seguito alla novella introdotta con l’art. 12,
comma 1, lett. i), del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito
con legge 11.09.2020, n. 120, è stata esclusa l’operatività
dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
laddove il provvedimento sia stato adottato in violazione
del menzionato articolo 10-bis (cfr. art. 21-octies, comma
2, in fine, della legge n. 241/1990).
3.5. Che la violazione dell’art. 10-bis della legge n.
241/1990, nel caso in cui venga in rilievo l’esercizio di un
potere discrezionale, determini sempre l’illegittimità del
provvedimento adottato in spregio delle garanzie
partecipative del privato istante, ha trovato definitiva
conferma nella giurisprudenza amministrativa di secondo
grado.
In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto superato
l’orientamento giurisprudenziale formatosi durante la
vigenza della precedente formulazione dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, affermando che “Si deve però
considerare che tale orientamento si è formato prima della
modifica della seconda parte dell’art. 21-octies intervenuta
con l’art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16.07.2020, n. 76,
convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120,
con l’aggiunta della previsione, per cui ‘La disposizione di
cui al secondo periodo non si applica al provvedimento
adottato in violazione dell’articolo 10-bis’.
Con tale aggiunta è stata realizzata una distinzione tra il
regime della comunicazione di avvio del procedimento e
quello del preavviso di rigetto per i procedimenti ad
istanza di parte, la cui omissione non è superabile nel caso
di provvedimento discrezionali, tramite l’intervento
dell’effetto ‘processuale’ della seconda parte del secondo
comma dell’art. 21-octies, con la conseguenza che per i
provvedimenti discrezionali, come quello oggetto del
presente giudizio, rimane rilevante anche la sola omissione
formale della mancata comunicazione del preavviso di
rigetto.
L’attuale formulazione della norma sottrae, infatti, il
modello procedimentale correlato all’esercizio di un potere
discrezionale, ai meccanismi di possibile ‘sanatoria
processuale’ previsti in via generale per la violazione di
norme sul procedimento, in caso di omissione del preavviso
di rigetto (Cons. Stato Sez. III, 22.10.2020, n. 6378)”
(cfr. Cons. Stato, sez. II, sent. n. 1790 del 14.03.2022). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aree vincolate, tutti i criteri per sanare i piccoli abusi.
In una sentenza del Tar Lazio tutte le condizioni da rispettare per ottenere
una sanatoria nelle zone tutelate.
Nelle aree vincolate possono essere sanati solamenTe piccoli abusi ma a
determinate condizioni. Ossia opere realizzate prima dell’imposizione del
vincolo; seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio,
che siano conformi alle prescrizioni urbanistiche. Inoltre devono essere
minori senza aumento di volume o superficie (restauro, risanamento
conservativo, manutenzione straordinaria) e inoltre ci sia il parere
favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
A esplicitarlo rimarcando che devono
trovarsi congiuntamente le diverse situazioni è il TAR Lazio-Latina con la
sentenza
11.03.2024 n. 196
pronunciata dopo il ricorso di una persona
che aveva presentato istanza al Tribunale amministrativo per l'annullamento
del del diniego relativo alla domanda di condono edilizio.
Tutto era nato
quando il ricorrente aveva presentato al Comune una richiesta di permesso
di costruire in sanatoria riguardante «la costruzione di un fabbricato con
solo
piano terra, adibito a civile abitazione, composto da tre ambienti,
completamente ultimato compreso impianto idraulico ed elettrico».
Il
ricorrente aveva anche pagato di tutti gli oneri accessori e al deposito
della
documentazione necessaria a supporto della richiesta. Inizialmente il
tecnico incaricato dal Comune «aveva
espresso parere favorevole al rilascio del permesso». Poi «nelle more del
procedimento era sopraggiunto il parere
negativo della Soprintendenza, in quanto le opere da sanare non rientravano
tra le tipologie 4, 5 e 6 della Legge
326/2003 per le quali era consentita la sanatoria in zone vincolate e
comunque erano manufatti in contrasto con il
contesto architettonico, ambientale e paesaggistico dell'area vincolata per
la particolare valenza architettonica della
stessa; - per questi stessi motivi il Comune di Maenza aveva negato al
ricorrente il permesso in sanatoria richiesto».
Quindi il ricorso al Tar.
Per i giudici il ricorso va respinto. Premettendo
che l'istanza è stata presentata il base al
cosiddetto terzo condono che ha fissato limiti più stringenti rispetto ai
precedenti primo e secondo condono i giudici
ricordano che «la realizzazione di nuovi volumi e superfici in aree
vincolate, indipendentemente dalla data di
imposizione del vincolo e dalla natura di vincolo assoluto o relativo alla
inedificabilità, è estranea all'ambito di
applicazione della disciplina dettata sul terzo condono».
Partendo dalle
diverse sentenze già pronunciate in merito, i
giudici rimarcano che «le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a
specifici vincoli, fra cui quello
ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le
seguenti condizioni: che si tratti di opere
realizzate prima dell'imposizione del vincolo; seppure realizzate in assenza
o in difformità del titolo edilizio, le opere
siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; si tratti di opere minori
senza aumento di volume o superficie
(restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); vi sia il
previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo».
Quanto al caso specifico, «trattandosi
di un fabbricato con solo piano terra, adibito a civile abitazione, composto
da tre ambienti, completamente ultimato
compreso impianto idraulico ed elettrico esso va qualificato come abuso
maggiore essendo una nuova
costruzione».
Inoltre, risulta per tabulas che l'abuso in questione è stato
realizzato su una zona vincolata. «Ne
discende che tale abuso -proprio perché maggiore ed incidente su area
vincolata- non può essere condonato in
ossequio al costante insegnamento giurisprudenziale sopra richiamato, con
conseguente piena legittimità del
provvedimento di diniego impugnato» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 20.03.2024).
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SENTENZA
4- Il ricorso va respinto per i motivi di seguito esposti.
4.1 – Va rilevato, in primo luogo, che l’istanza di condono in relazione
alla quale è stata adottata la determinazione negativa impugnata è stata
presentata in base al regime del c.d. “terzo condono” disciplinato
dall’art. 32 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269 (convertito in legge dalla
L. 326/2003) che ha fissato limiti più stringenti rispetto ai precedenti “primo
e secondo condono”, di cui alle leggi 28.02.1985, n. 47 e 23.12.1994, n.
724.
In particolare, alla luce delle coordinate applicative del c.d. “terzo
condono”, come attuato, in sede regionale, con la L.R. 08.11.2004, n.
12, solo determinate tipologie di interventi –c.d. abusi formali o minori–
risultano condonabili se realizzati in aree sottoposte a vincolo.
Ed infatti, la realizzazione di nuovi volumi e superfici in aree vincolate,
indipendentemente dalla data di imposizione del vincolo e dalla natura di
vincolo assoluto o relativo alla inedificabilità, è estranea all’ambito di
applicazione della disciplina dettata sul terzo condono, come risultante
dalla combinato disposto delle disposizioni della l. 326/2003 e della L.R.
12/2004 e come costantemente applicata dalla giurisprudenza amministrativa,
nonché secondo le coordinate interpretative individuate dalla Corte
Costituzionale, investita della verifica di tenuta costituzionale delle
relative disposizioni.
Ciò premesso, alla luce dell’art. 32, commi 26 e 27, del d.l. 269/2003 e
degli artt. 2 e 3, comma 1, lettera b), della L.R. n. 12/2004, possono
ritenersi suscettibili di sanatoria, nelle aree soggette a vincoli, solo le
opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui
ai nn. 4, 5 e 6 dell’Allegato 1 del d.l. 269/2003, corrispondenti a opere di
restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria (ex
plurimis, in termini: Tar Lazio, Roma, Sez. II-bis, 17.02.2015, n. 2705;
04.04.2017 n. 4225; 13.10.2017, n. 10336; 11.07.2018, n. 7752; 24.01.2019,
n. 931; 09.07.2019, n. 9131; 13.03.2019, n. 4572; 02.12.2019 n. 13758;
07.01.2020, n. 90; 02.03.2020, n. 2743; 26.03.2020 n. 2660; 07.05.2020, n.
7487; 18.08.2020, n. 9252; Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.01.2020 n. 425),
mentre per le altre tipologie di abusi interviene una preclusione legale
alla sanabilità.
Più nel dettaglio, la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente
affermato che “il condono previsto dall’art. 32 del decreto-legge n. 269
del 2003 (terzo condono edilizio) è applicabile esclusivamente agli
interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato 1
del decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione
straordinaria) e previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela
del vincolo. Non sono invece suscettibili di sanatoria le opere abusive di
cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è
sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici” (cfr. ex multis Cons. St., Sez. VI, 17.01.2020, n.
425).
In sintesi, quindi, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a
specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili
solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del
vincolo;
b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo
edilizio, le opere siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
c) si tratti di opere minori senza aumento di volume o superficie
(restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
d) vi sia il previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla
tutela del vincolo.
Orbene, nel caso di specie viene in rilievo un abuso edilizio che – come
dichiarato dallo stesso ricorrente nell’istanza di sanatoria dell’-OMISSIS-
– rientra nella tipologia abusiva n. 1; trattandosi di “un fabbricato con
solo piano terra, adibito a civile abitazione, composto da tre ambienti,
completamente ultimato compreso impianto idraulico ed elettrico” esso va
qualificato come “abuso maggiore” essendo una nuova costruzione.
Inoltre, risulta per tabulas che l’abuso in questione è stato
realizzato su una zona vincolata.
Ne discende che tale abuso -proprio perché “maggiore” ed incidente su
area vincolata- non può essere condonato in ossequio al costante
insegnamento giurisprudenziale sopra richiamato, con conseguente piena
legittimità del provvedimento di diniego impugnato.
4.2 - Né può essere accolta la censura in merito ad un presunto difetto di
motivazione del diniego di sanatoria impugnato, atteso che il provvedimento
in questione ha carattere vincolato, essendo ancorato a due specifici
presupposti, ovverosia l’esistenza del vincolo paesaggistico e l’incremento
di superficie o volumetria. Orbene, il provvedimento impugnato dà
puntualmente conto di tali presupposti, con ciò assolvendo in pieno
all’obbligo motivazionale sancito dall’art. 3 della L. 241/1990.
Per tutto quanto sopra esposto il ricorso va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere stagionali – Attività edilizia libera – Condizione
della tempestiva rimozione al cessare dell’esigenza
contingente – Opere non rimosse – Natura di nuova
costruzione – Permesso di costruire.
La natura temporanea e contingente delle
esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al
regime concessorio se la stessa non sia comunque di facile
amovibilità.
Le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive
esigenze, contingenti e temporanee, sono soggette ad
attività edilizia libera a condizione che siano
tempestivamente rimosse al cessare dell’esigenza, mentre
l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova costruzione” e
necessita, in quanto tale, di permesso di costruire.
Lo stabile e permanente collegamento al terreno esclude
sempre la natura precaria dell’opera
(Consiglio di Stato, Sez. VII,
sentenza 08.03.2024 n. 2276 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
4.1. Il motivo è complessivamente infondato.
Il procedimento terminato con l’ordine di demolizione
impugnato ha avuto inizio con la comunicazione del
04.03.2019, con cui il Comune rappresentava alla parte di
aver accertato la presenza di centotrenta case mobili
abusive sull’area, prive altresì del necessario nulla-osta
paesaggistico, installate sull’area da epoca risalente.
In base al principio “tempus regit actus” la
fattispecie va regolata dalla disciplina vigente al momento
in cui il procedimento era iniziato e quindi la
sopravvenienza rappresentata dal comma 1, lett. e5),
dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, diversamente da
quanto opinato, non è applicabile al caso di specie.
Né la circostanza che questa disposizione fosse in vigore al
momento dell’emanazione del provvedimento definitivo può
rilevare in senso contrario. A voler diversamente opinare,
tenendo conto che quelle unità erano state realizzate anni
addietro, si darebbe infatti a codesta modifica/aggiunta
normativa un’impropria portata condonistica che non traspare
affatto dall’intentio legis e che comunque non
potrebbe invocarsi, dovendo una legge di sanatoria, in
quanto norma eccezionale, essere sempre espressamente
prevista dal legislatore e non potendosi desumere in via
indiretta.
4.2. Sarebbe in ogni caso discutibile l’inquadramento degli
edifici di cui si discute nella tipologia di “case mobili”
contemplata dal ricordato comma 1, lett. e5), dell’art. 3
del Testo Unico Edilizia: gli accertamenti eseguiti dalla
Guardia di Finanza hanno infatti dimostrato che si trattava
di organismi stabilmente ancorati al suolo, non tutti dotati
di un meccanismo funzionante di rotazione, completi di
verande e privi di un sistema di rapida attivazione per
l’allaccio e/o il distacco dalle condotte fognarie ivi
installate.
Soprattutto quei manufatti risultano presenti sull’area da
lungo tempo, dunque non possono definirsi precari e, a
maggior ragione, non possono dirsi diretti “… a
soddisfare esigenze meramente temporanee” come richiesto
dalla disposizione invocata.
In questo senso, anche Cassazione penale sez. III,
13.04.2023, n. 33408, secondo cui la natura “precaria”
dell’opera non deriva dalla tipologia dei materiali
impiegati per realizzarla, né dalla sua facile rimovibilità,
bensì dalla natura delle esigenze che l’opera stessa intende
soddisfare. Ciò è chiaramente evincibile dal tenore testuale
degli artt. 3, comma 1, lett. e.5, e 6, comma 1, lett.
e-bis, t.u.ed., nei quali si fa esplicito riferimento alle “esigenze
meramente temporanee” (art. 3) e alle “esigenze
contingenti e temporanee” (art. 6).
Ma anche “La natura temporanea e contingente delle
esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al
regime “concessorio” se la stessa non sia comunque di facile
amovibilità. Lo stabile e permanente collegamento al terreno
esclude sempre la natura precaria dell’opera; lo si evince
chiaramente dal fatto che anche le “unità abitative mobili”,
per non essere considerate “nuove costruzioni”, devono
comunque essere dotate di meccanismi di rotazione
funzionanti e non devono essere collegate al terreno in
maniera permanente (art. 3, lett. e.5, seconda parte).
Il che si spiega con il fatto che le opere destinate a
soddisfare esigenze non temporanee e quelle comunque
stabilmente collegate al suolo condividono con gli
“interventi di nuova costruzione” la loro attitudine alla
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in via
permanente.
Prova ne sia il fatto che le opere stagionali e quelle
dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e
temporanee, sono soggette ad attività edilizia libera a
condizione che siano tempestivamente rimosse al cessare
dell’esigenza: l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova
costruzione” e necessita, in quanto tale, di permesso di
costruire.” Consiglio di Stato sez. IV, 24.07.2012, n.
4214.
4.3. Né può fondatamente sostenersi che l’avere il
campeggio, nel suo complesso, ottenuto sia l’autorizzazione
edilizia che quella paesaggistica, escludesse la necessità
di munirsi dei singoli titoli edilizi per ciascuna unità,
innanzitutto perché confonde due oggetti: altro è ottenere
il nulla-osta relativo ad un intero campeggio, inteso come
complesso, altra è la necessità che i singoli interventi
siano individualmente autorizzati, allorquando, come in
questo caso, creano nuovi volumi edilizi.
A maggior ragione laddove si tenga conto che quando dette
autorizzazioni generali furono ottenute, quegli edifici non
esistevano né erano contemplati dal progetto sulla cui base
fu ottenuta la concessione edilizia.
Aggiungasi che, in considerazione della notevole estensione
che la struttura ricettiva aveva avuto, con la erezione di
più di centocinquanta unità abitative (questo è il numero
risultante dall’ultimo accesso), essa aveva anche
verosimilmente perso la qualifica di “campeggio”, ai
sensi del comma 1 e del comma 6 dell’art. 15 della L. R. n.
16 del 2017, per assumere quella diversa di “villaggio
turistico”.
Questa modifica, a sua volta, prospettando una nuova
configurazione tipologica della struttura ricettiva,
necessitava verosimilmente di ulteriori provvedimenti
autorizzatori.
Infine, e comunque, una volta esclusa, per le ragioni sopra
viste, la possibilità di applicare a dette unità la
previsione di cui al citato comma 1, lett. e5), dell’art. 3
D.P.R. 380 del 2001, conseguiva la necessità della richiesta
di permesso di costruire, e, con essa, la qualifica come
abusive delle opere che ne erano sprovviste. |
URBANISTICA:
Sul sindacato che il
giudice amministrativo può esercitare sugli atti che formano
espressione della funzione di pianificazione paesaggistica.
«Le valutazioni in materia di tutela del paesaggio sono
"espressione dell'ampia discrezionalità
tecnico-amministrativa attribuita all'Amministrazione in
materia pianificatoria, che involge, primariamente, un
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che gli atti di esercizio del potere
pianificatorio siano inficiati da errori di fatto, abnormi
illogicità o profili di eccesso di potere per palese
travisamento dei fatti o manifesta irrazionalità".
Va, inoltre, precisato che la valenza paesaggistica di
un'area può dipendere dalla sua mera conformazione e
ubicazione naturalistica, dal suo significato storico o
dalla presenza di beni di interesse archeologico (e quindi
paesaggistico) nel sottosuolo, indipendentemente da
eventuali compromissioni che l'area stessa abbia subito nel
tempo a causa di interventi industriali o di fenomeni di
degrado ambientale di altro genere, in quanto il Piano
Paesaggistico, ai sensi dell'art. 143, primo comma, lett.
g), deve individuare anche gli "interventi di...
riqualificazione delle aree significativamente compromesse o
degradate e degli altri interventi di valorizzazione
compatibili con le esigenze della tutela".
Ne consegue che la mera presenza di siti
produttivi/industriali non preclude l'adozione di scelte di
tutela ambientale tenuto anche conto che "la finalità del
Piano Paesaggistico non è quella di operare una semplice
mediazione di fatto fra interessi paesaggistici e
preesistenti interessi industriali, ma quella di individuare
la disciplina più idonea, nei consueti limiti della
ragionevolezza, per la tutela e la valorizzazione del
Paesaggio, anche a discapito di più immediate esigenze di
natura economica o industriale"».
Il sindacato che il giudice amministrativo può esercitare
sugli atti che formano espressione della funzione di
pianificazione paesaggistica, pertanto, è di tipo “esterno”,
ossia limitato alla rilevazione di macroscopici vizi o
travisamenti della realtà di fatto.
---------------
Come anche evidenziato dal Consiglio di Stato:
«l’avvenuta edificazione di un'area o il suo degrado non
costituiscono ragione sufficiente per escludere
l'imposizione di un vincolo, e a maggiore ragione il
giudizio di incompatibilità di un intervento con il vincolo
esistente, che in sintesi va a limitare i danni ulteriori e
a proteggere quanto rimasto dell'originario valore
paesaggistico.
Del resto, più volte questo Consiglio ha ritenuto che gli
organi preposti alla tutela dei vincoli paesaggistici o
archeologici debbano valutare come 'salvare il salvabile'”.
Né “l'eventuale compromissione del territorio impedisce
l'apposizione del vincolo finalizzato ad impedire
l'ulteriore degrado e a rilanciare la riqualificazione
dell'area. E neppure è d'ostacolo una precedente previsione
urbanistica più favorevole al privato, che comunque non può
vincolare l'Amministrazione.
D'altra parte, i piani paesaggistici sono in cima alla
piramide degli strumenti di pianificazione del territorio e
ad essi devono conformarsi in caso di contrasto gli altri
strumenti urbanistici».
---------------
6.8- Infondate,
altresì, sono le argomentazioni prospettate con il
settimo motivo di ricorso.
Alla trattazione del motivo è bene anteporre una premessa di
carattere metodologico in ordine alla tipologia di sindacato
esercitabile dal giudice amministrativo in relazione a
provvedimenti che esprimono scelte di carattere
tecnico-discrezionale.
In particolare, come recentemente ribadito da questa Sezione
con la sentenza n. 21/02/2023, n. 522, in fattispecie
analoga e in relazione al medesimo atto di pianificazione,
«le valutazioni in materia di tutela del paesaggio sono
"espressione dell'ampia discrezionalità
tecnico-amministrativa attribuita all'Amministrazione in
materia pianificatoria, che involge, primariamente, un
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che gli atti di esercizio del potere
pianificatorio siano inficiati da errori di fatto, abnormi
illogicità o profili di eccesso di potere per palese
travisamento dei fatti o manifesta irrazionalità" (cfr. tra
le tante C.G.A. parere n. 380/2021 reso sul medesimo piano;
Cons. Stato, sez. VI, 03.07.2014, n. 3367; TAR Sicilia-Catania, sez. I, 17.08.2018, n. 1713).
Va, inoltre, precisato che la valenza paesaggistica di
un'area può dipendere dalla sua mera conformazione e
ubicazione naturalistica, dal suo significato storico o
dalla presenza di beni di interesse archeologico (e quindi
paesaggistico) nel sottosuolo, indipendentemente da
eventuali compromissioni che l'area stessa abbia subito nel
tempo a causa di interventi industriali o di fenomeni di
degrado ambientale di altro genere, in quanto il Piano
Paesaggistico, ai sensi dell'art. 143, primo comma, lett.
g), deve individuare anche gli "interventi di...
riqualificazione delle aree significativamente compromesse o
degradate e degli altri interventi di valorizzazione
compatibili con le esigenze della tutela".
Ne consegue che la mera presenza di siti
produttivi/industriali non preclude l'adozione di scelte di
tutela ambientale tenuto anche conto che "la finalità del
Piano Paesaggistico non è quella di operare una semplice
mediazione di fatto fra interessi paesaggistici e
preesistenti interessi industriali, ma quella di individuare
la disciplina più idonea, nei consueti limiti della
ragionevolezza, per la tutela e la valorizzazione del
Paesaggio, anche a discapito di più immediate esigenze di
natura economica o industriale" (cfr. TAR Catania n.
1515/2014 cit.)».
Il sindacato che il giudice amministrativo può esercitare
sugli atti che formano espressione della funzione di
pianificazione paesaggistica, pertanto, è di tipo “esterno”,
ossia limitato alla rilevazione di macroscopici vizi o
travisamenti della realtà di fatto che, nel caso di specie,
il Collegio reputa non ricorrenti.
Quanto al “terreno B-costiero", non appare dirimente, al
fine di dimostrare l’illogica imposizione del livello di
tutela 3, la circostanza che il lotto dei ricorrenti confini
sia a nord che a sud con un’area urbanizzata, trattandosi di
un livello di tutela imposto, in modo omogeneo, su tutti i
territori costieri della provincia siracusana (salvo, per le
aree più intensamente urbanizzate e tendente al degrado,
ricondotte in regime di recupero), peraltro, già soggetti a
vincolo paesaggistico ope legis (sia per effetto dell’art.
142 del d.lgs. n. 42/2004, comma 1, lett. A), che dell’art.
15, l.r. 78/1976).
L’imposizione del rigoroso livello di tutela, da tale
prospettiva, risulta pertanto esente dai dedotti
macroscopici vizi, posto che, come già evidenziato al punto
precedente, appare del tutto coerente il criterio impiegato
dall’amministrazione per preservare la costa e il relativo
«alto valore paesaggistico caratterizzato da una grande
varietà di elementi morfologici di particolare bellezza ed
anche da taluni aspetti storico-culturali. Essa va pertanto
tutelata con norme volte alla sua conservazione e integrità
di tutti gli elementi che ne fanno parte».
Del resto, come anche evidenziato dal Consiglio di Stato:
«l’avvenuta edificazione di un'area o il suo degrado non
costituiscono ragione sufficiente per escludere
l'imposizione di un vincolo, e a maggiore ragione il
giudizio di incompatibilità di un intervento con il vincolo
esistente, che in sintesi va a limitare i danni ulteriori e
a proteggere quanto rimasto dell'originario valore
paesaggistico (C.d.S., VI, 11.06.2012, n. 3401, e 15.06.2011, n. 3644).
Del resto, più volte questo Consiglio ha ritenuto che gli
organi preposti alla tutela dei vincoli paesaggistici o
archeologici debbano valutare come 'salvare il salvabile' (CdS,
IV, 22.11.2018, n. 6600; VI, 19.06.2018, n. 3773;
VI, 26.06.2017, n. 3118), [...]” (Consiglio di Stato,
sez. VI , 06/04/2022 , n. 2547.
Né “l'eventuale compromissione del territorio impedisce
l'apposizione del vincolo finalizzato ad impedire
l'ulteriore degrado e a rilanciare la riqualificazione
dell'area (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 3770 del 2009). E
neppure è d'ostacolo una precedente previsione urbanistica
più favorevole al privato, che comunque non può vincolare
l'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 5547 del
2016). 14. D'altra parte, i piani paesaggistici sono in cima
alla piramide degli strumenti di pianificazione del
territorio e ad essi devono conformarsi in caso di contrasto
gli altri strumenti urbanistici (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
n. 5658 del 2015 e Sez. IV, n. 4244 del 2010)» (Consiglio di
Stato sez. IV, 24/02/2020, n. 1355) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 05.03.2024 n. 879 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 36 tu edilizia prevede chiaramente una
ipotesi di formazione del silenzio-rifiuto, decorsi 60
giorni dalla presentazione della domanda di accertamento di
conformità, senza che sia stato emanato alcun provvedimento
espresso.
Pertanto, in mancanza della impugnazione del
provvedimento tacito di diniego, l'ordinanza di demolizione,
già precedentemente emanata e sospesa negli effetti, si
consolida riprendendo piena efficacia.
Non può pertanto condividersi la tesi della ricorrente
dell’efficacia caducante sull’ordinanza di demolizione
prodotto dalla presentazione dell’istanza di sanatoria.
---------------
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente
deduce:
Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n.
380/2001 e, segnatamente, dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 -
violazione dei principi generali regolanti l’attività
edilizia - eccesso di potere - ingiustizia manifesta -
sviamento - carenza assoluta di istruttoria - violazione del
giusto procedimento - violazione del principio di buon
andamento, di cui all'art. 97 Cost. - inesistenza dei
presupposti di fatto e di diritto,
sostenendo che il Comune
avrebbe dovuto dapprima esaminare la domanda di permesso di
Costruire in sanatoria
ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 presentata dalla ricorrente e
tutt’ora pendente, e solo successivamente
al rigetto della stessa avrebbe potuto adottare il
provvedimento di acquisizione delle opere abusive.
Infatti,
la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
(così come la presentazione di una istanza di condono
edilizio) in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di
demolizione ha automatico effetto caducante sull’ordinanza
ripristinatoria, rendendola inefficace.
Il motivo non può essere accolto.
L’art. 36 tu edilizia, infatti, prevede chiaramente una
ipotesi di formazione del silenzio-rifiuto, decorsi 60
giorni dalla presentazione della domanda di accertamento di
conformità, senza che sia stato emanato alcun provvedimento
espresso. Pertanto, in mancanza della impugnazione del
provvedimento tacito di diniego, l'ordinanza di demolizione,
già precedentemente emanata e sospesa negli effetti, si
consolida riprendendo piena efficacia (TAR Napoli
(Campania) sez. III, 04/10/2019, n. 4757).
Non può pertanto condividersi la tesi della ricorrente
dell’efficacia caducante sull’ordinanza di demolizione
prodotto dalla presentazione dell’istanza di sanatoria, pur
sostenuta da alcune pronunce giurisprudenziali, cui questo
Tribunale non ha ritenuto di aderire (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 29.02.2024 n. 1363 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una
misura di carattere sanzionatorio che
consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di
demolizione.
L’acquisizione pertanto è un atto avente mera
natura dichiarativa e di conseguenza nessuna rilevanza può
assumere l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di
interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione,
essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura,
stante la natura interamente vincolata del provvedimento,
sicché risulta necessario solo che in detto atto siano
esattamente individuate ed elencate le opere e le relative
pertinenze urbanistiche
---------------
Con il secondo motivo, parte ricorrente ha dedotto il
vizio di eccesso di potere per difetto assoluto di
istruttoria e di motivazione – violazione dei principi
generali in tema di acquisizione al patrimonio,
in quanto il
provvedimento impugnato non fornisce alcuna spiegazione
delle ragioni di interesse pubblico che hanno indotto
l’amministrazione comunale ad acquisire il bene che si
assume abusivo a distanza di ben 12 anni dall’accertamento
dell’inottemperanza alla ordinanza di demolizione.
Il motivo è infondato.
Come recentemente chiarito anche dall’adunanza plenaria n.
16 in data 11.10.2023, l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate
costituisce una misura di carattere sanzionatorio che
consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di
demolizione.
L’acquisizione pertanto è un atto avente mera
natura dichiarativa e di conseguenza nessuna rilevanza può
assumere l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di
interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione,
essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura,
stante la natura interamente vincolata del provvedimento,
sicché risulta necessario solo che in detto atto siano
esattamente individuate ed elencate le opere e le relative
pertinenze urbanistiche (cfr. ex multis TAR Napoli
(Campania) sez. IV, 11/10/2023, n. 5554) (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 29.02.2024 n. 1363 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante orientamento giurisprudenziale, in caso di
provvedimento plurimotivato è sufficiente a sorreggerne la
legittimità anche una sola delle ragioni espresse, “con la
conseguenza che il rigetto delle doglianze svolte contro una
di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative
alle altre parti del provvedimento, sicché il giudice,
qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno
dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di
per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la
potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale
rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso
altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine
con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la
conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del
ricorrente all'esame delle altre doglianze”.
---------------
... per l'annullamento:
- della nota -OMISSIS- dell'Ufficio Sportello Unico Edilizia
del Comune di Palermo che esprime parere negativo alla SCIA
presentata dai Sig.ri -OMISSIS- per la realizzazione di una
piscina interrata e locali tecnici interrati nel terreno
sito in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al
foglio -OMISSIS-;
...
Con il ricorso in trattazione, le parti ricorrenti hanno
impugnato la nota-OMISSIS- con cui l’Ufficio Sportello Unico
Edilizia del Comune di Palermo ha espresso parere negativo
alla SCIA presentata dai ricorrenti per la realizzazione di
una piscina e locali tecnici interrati nel terreno sito a
Palermo in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al
foglio -OMISSIS-.
I ricorrenti hanno chiesto, altresì, l’accertamento e la
condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno per
equivalente ai sensi dell'art. 30 c.p.a. e 2058 c.c., e,
comunque in via subordinata, al risarcimento del danno per
perdita di chance, con interessi e rivalutazione, come per
legge.
I ricorrenti premettono di aver presentato in data
-OMISSIS- una SCIA (prot. -OMISSIS-) per la realizzazione di
una piscina ad uso privato a servizio delle unità
residenziali, delle dimensioni di metri 10 per 5 ed una
volumetria complessiva inferiore ai 220 mc, nonché di un
corpo tecnico interrato destinato ad ospitarne i motori.
Ad avviso dei ricorrenti la piscina avrebbe dimensioni
compatibili con i limiti di pertinenzialità fissati dal
Regolamento edilizio comunale.
Ciononostante, e benché fosse già decorso il termine di
trenta giorni previsto per l’esercizio dei poteri inibitori,
il Comune di Palermo ha adottato l’impugnato provvedimento
inibitorio degli effetti della S.C.I.A, ritenendo che
l’intervento sarebbe “in contrasto con l’art 17 delle N.T.A.
del P.R.G. nella considerazione che è ammessa esclusivamente
l’edificazione di manufatti residenziali e strutture
connesse all’attività produttiva, limitatamente al
fabbisogno agricolo” e che la realizzazione di una piscina
non sarebbe “attuabile tramite S.C.I.A., ai sensi dell’art
22 del D.P.R. 380/2001”.
I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento per i seguenti
motivi:
...
1. Il ricorso non è fondato.
2. In via preliminare occorre osservare che il provvedimento
inibitorio impugnato presenta una duplice motivazione: il
contrasto dell’opera con la destinazione urbanistica
dell’area e la insufficienza della S.C.I.A. quale titolo
abilitativo.
Per costante orientamento giurisprudenziale, in caso di
provvedimento plurimotivato è sufficiente a sorreggerne la
legittimità anche una sola delle ragioni espresse, “con la
conseguenza che il rigetto delle doglianze svolte contro una
di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative
alle altre parti del provvedimento, sicché il giudice,
qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno
dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di
per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la
potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale
rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso
altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine
con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la
conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del
ricorrente all'esame delle altre doglianze” (ex multis,
Consiglio di Stato sez. III, 16/06/2023, n. 5964) (TAR Sicilia-Palerrmo, Sez. III,
sentenza 29.02.2024 n. 815 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo il più recente indirizzo,
la realizzazione di una piscina interrata integra intervento
di nuova costruzione e necessita del previo rilascio del
permesso di costruire.
Infatti “La realizzazione della stessa non può essere
attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze,
in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle
abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma
integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà
luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul
sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo
rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal
permesso di costruire”.
---------------
... per l'annullamento:
- della nota -OMISSIS- dell'Ufficio Sportello Unico Edilizia
del Comune di Palermo che esprime parere negativo alla SCIA
presentata dai Sig.ri -OMISSIS- per la realizzazione di una
piscina interrata e locali tecnici interrati nel terreno
sito in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al
foglio -OMISSIS-;
...
Con il ricorso in trattazione, le parti ricorrenti hanno
impugnato la nota -OMISSIS- con cui l’Ufficio Sportello Unico
Edilizia del Comune di Palermo ha espresso parere negativo
alla SCIA presentata dai ricorrenti per la realizzazione di
una piscina e locali tecnici interrati nel terreno sito a
Palermo in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al
foglio -OMISSIS-.
I ricorrenti hanno chiesto, altresì, l’accertamento e la
condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno per
equivalente ai sensi dell'art. 30 c.p.a. e 2058 c.c., e,
comunque in via subordinata, al risarcimento del danno per
perdita di chance, con interessi e rivalutazione, come per
legge.
I ricorrenti premettono di aver presentato in data
-OMISSIS- una SCIA (prot. -OMISSIS-) per la realizzazione di
una piscina ad uso privato a servizio delle unità
residenziali, delle dimensioni di metri 10 per 5 ed una
volumetria complessiva inferiore ai 220 mc, nonché di un
corpo tecnico interrato destinato ad ospitarne i motori.
Ad avviso dei ricorrenti la piscina avrebbe dimensioni
compatibili con i limiti di pertinenzialità fissati dal
Regolamento edilizio comunale.
Ciononostante, e benché fosse già decorso il termine di
trenta giorni previsto per l’esercizio dei poteri inibitori,
il Comune di Palermo ha adottato l’impugnato provvedimento
inibitorio degli effetti della S.C.I.A, ritenendo che
l’intervento sarebbe “in contrasto con l’art. 17 delle N.T.A.
del P.R.G. nella considerazione che è ammessa esclusivamente
l’edificazione di manufatti residenziali e strutture
connesse all’attività produttiva, limitatamente al
fabbisogno agricolo” e che la realizzazione di una piscina
non sarebbe “attuabile tramite S.C.I.A., ai sensi dell’art.
22 del D.P.R. 380/2001”.
I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento per i seguenti
motivi:
...
1. Il ricorso non è fondato.
...
1. Il secondo dei due rilievi ostativi all’efficacia della S.C.I.A. (la necessità di un permesso di costruire) è da
ritenersi immune alle censure articolate da parte
ricorrente.
Secondo il più recente indirizzo di questo TAR, la
realizzazione di una piscina interrata integra intervento di
nuova costruzione e necessita del previo rilascio del
permesso di costruire (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II,
02.05.2023, n. 1486, TAR Sicilia, Palermo, sez. I,
02.05.2022, n. 1471).
Infatti “La realizzazione della stessa non può essere
attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze,
in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle
abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma
integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà
luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul
sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo
rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal
permesso di costruire (TAR Salerno, sez. II, 10/11/2020,
n. 1631)” (TAR Napoli, sez. VI, 07/01/2022, n. 105; TAR
Piemonte, sez. II, 02.08.2022, n. 703; TAR Sicilia,
Catania, sez. III, 03.06.2022, n. 1508).
Tanto basta a superare i rilievi formulati con il primo
motivo, atteso che gli effetti connessi al decorso del
termine di cui all’art. 19, comma 3, L. 241/1990 presuppongono
che l’intervento edilizio sia assoggettato al regime della S.C.I.A., non potendo invece prodursi in presenza di
interventi non sussumibili all’interno del suddetto
paradigma legale.
Trattandosi di opera non assoggettabile al regime della
S.C.I.A., non rileva indagare sulla tempestività del
provvedimento inibitorio impugnato rispetto al termine di
cui all’art. 19, comma 3, L. 241/1990, dovendo ad esso
riconoscersi natura di atto dichiarativo dell’inefficacia
della S.C.I.A. in quanto titolo non idoneo a legittimare
l’opera.
2. L’insufficienza del titolo edilizio presentato dai
ricorrenti basta a sostenere la legittimità del
provvedimento, trattandosi di circostanza assorbente,
rispetto alla quale neppure rileva la mancata comunicazione
di avvio del procedimento, trattandosi di atto espressione
di attività amministrativa interamente vincolata.
3. L’insussistenza dei vizi dedotti con la domanda di
annullamento determina la necessaria reiezione della domanda
risarcitoria, per l’assorbente ragione dell’inconfigurabilità,
a fronte di un provvedimento esente dai vizi dedotti, del
presupposto dell’”antigiuridicità” del danno lamentato.
4. In conclusione, il ricorso è infondato (TAR
Sicilia-Palerrmo, Sez. III,
sentenza 29.02.2024 n. 815 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Sulla decorrenza del termine per l’annullamento d’ufficio.
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Atto
amministrativo – Autotutela – Annullamento d’ufficio –
Termine a provvedere – Motivazione.
Ai sensi dell’art. 21-novies, comma
2-bis, l. n. 241 del 1990, il differimento del termine
iniziale per l’esercizio dell’autotutela deve essere
determinato dall’impossibilità per la p.a., a causa del
comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto
accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito
della fase istruttoria del procedimento di primo grado (1).
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(1) Non risultano precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.02.2024 n. 1926 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. Il Comune di Aversa ha rilasciato alla signora Te.Go. il
permesso di costruire n. 112 del 26.04.2012 per la
realizzazione di un sottotetto in legno/ferro ventilato con
copertura a falde e sovrastanti manto di tegole e pannelli
fotovoltaici sul fabbricato in Aversa, alla Via ... n. 92.
Con il successivo provvedimento del 30.03.2018, la detta
Amministrazione comunale ha disposto l’annullamento del
permesso di costruire n. 112 del 2012.
Infine, il Comune di Aversa, con provvedimento del
27.12.2019, ha conseguentemente ordinato alla signora Go. di
demolire a propria cura e spese le opere abusive
originariamente assentite e, precisamente, il sottotetto con
copertura a falde realizzato sul fabbricato in Aversa, alla
Via ... n. 92, nonché di ripristinare lo stato dei
luoghi entro novanta giorni dalla notifica dell’ordinanza.
L’interessata ha impugnato dinanzi al Tar per la Campania,
con il ricorso introduttivo del giudizio, l’annullamento del
permesso di costruire del 30.03.2018 e, con motivi
aggiunti, l’ordinanza di demolizione del 27.12.2019.
Il Tar per la Campania, Sezione Ottava, con la sentenza n.
6136 del 15.12.2020, ha respinto il ricorso proposto
anche mediante motivi aggiunti.
Di talché, la signora Go. ha interposto il presente
appello, articolando i motivi così sintetizzati:
Error in judicando. Violazione e falsa applicazione
dell’art. 6 della legge n. 124 del 2015. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n.
241 del 1990. Eccesso di potere. Difetto di istruttoria.
Carente ed erronea motivazione.
La disciplina introdotta con le modifiche apportate all’art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990 dall’art. 6 della
legge n. 124 del 2015, in ordine all’esercizio del potere di
autotutela, ha completamente eliminato l’indeterminato ed
elastico limite temporale del “termine ragionevole”,
fissando un termine espresso e rigido, sicché l’annullamento
d’ufficio dovrebbe sempre intervenire entro un termine
“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell’adozione dei provvedimenti”.
La norma di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del
1990 prevede che, al fine di procedere all’annullamento
d’ufficio di un atto amministrativo, l’Amministrazione
necessita di un triplice ordine di presupposti: che l’atto
sia illegittimo; che sussistano ragioni di interesse
pubblico che ne giustifichino l’annullamento; che il tutto
avvenga nei termini di legge.
Non potrebbe in alcun modo condividersi la tesi esposta in
sentenza, secondo cui vi sarebbe stata “una parziale se non
erronea rappresentazione dei presupposti necessari al
conseguimento del riconosciuto vantaggio”, circostanza che
condurrebbe al superamento del limite temporale per
l’esercizio dell’autotutela.
Oltre al mancato rispetto del limite temporale imposto dalla
legge per l’esercizio dell’autotutela, in ogni caso il
Comune non avrebbe posto in essere alcuna comparazione
dell’interesse pubblico con quello del privato.
...
2. L’appello è fondato e va di conseguenza accolto.
3. Il Comune di Aversa, con il provvedimento del 30.03.2018, ha annullato il permesso di costruire n. 112 del 2012,
rilasciato alla signora Te.Go., per i seguenti motivi:
- con la realizzazione del sottotetto l’altezza complessiva del
fabbricato supera il valore massimo di m. 13,50 assentibile
fissato dalle Norme Tecniche di Attuazione del PRG per la
zona B1 nella quale ricade lo stesso edificio;
- l’altezza massima netta del sottotetto risulta di fatto superiore
al valore di m 2,20 assentibile stabilito dall’art. 3 delle
stesse Norme Tecniche di Attuazione del PRG e, precisamente,
pari a m 2,98, comportando la realizzazione di un volume non
consentito in zona B1 satura e rendendolo così, peraltro,
abitabile;
- la pendenza delle falde è inferiore al valore minimo del 15%
prescritto per le coperture inclinate dal sopra indicato
art. 3 delle Norme Tecniche di Attuazione, elemento anche
questo che determina l’abitabilità del sottotetto.
L’Amministrazione ha evidenziato nel corpo motivazionale del
provvedimento di autotutela che:
- a seguito di una più attenta verifica degli atti, è stata
riscontrata la circostanza che dai grafici allegati al
permesso in oggetto l’altezza massima netta del sottotetto
risulta di fatto superiore al citato valore di m 2,20
stabilito dalle NTA;
- tale ultimo valore di m 2,20, infatti, risulta misurato non a
partire dal piano di calpestio interno ma a partire da un
livello indicato con tratteggio sopraelevato di m 0,18
rispetto allo stesso piano di calpestio. Peraltro, la stessa
misura di m 2,20 è indicata rispetto all’intradosso della
trave di colmo, che emerge dalla copertura per un’ulteriore
altezza di m 0,60. Di fatto l’altezza complessiva risulta
pari a m 2,98, comportando la realizzazione di un volume non
consentito in zona B1 satura e rendendo così abitabile il
sottotetto;
- nei citati elaborati allegati al permesso di costruire è indicata
la pendenza delle falde del 5% inferiore al valore minimo
del 15% prescritto per la copertura inclinata dal sopra
indicato art. 3 delle NTA, elemento anche questo che
determina l’abitabilità del sottotetto;
- negli stessi elaborati progettuali del permesso di costruire in
oggetto non è riportata l’altezza dell’intero edificio,
prima e dopo l’intervento, elemento indispensabile ai fini
della verifica del non superamento dell’altezza massima di m
13,50 prescritta dal suddetto art. 38 delle richiamate NTA
per la zona B1 nella quale ricade il fabbricato in
argomento;
- dall’elaborato tecnico non emerge l’altezza complessiva del
fabbricato prima dell’intervento, che, se rappresentata,
avrebbe consentito di verificare ed evidenziare
l’impossibilità di superare l’altezza massima assentibile di
m 13,50, contro i circa m 18,00 risultanti oggi.
4. L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nel testo
in vigore dal 28.08.2015 al 31.05.2021 e, quindi, ratione
temporis vigente, ha previsto che:
“1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al
mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento
annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico
ed entro un termine ragionevole.
2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di
false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false
o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere
annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del
termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva
l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni
previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445.”.
Di talché, i presupposti affinché possa disporsi
l’annullamento d’ufficio di un provvedimento illegittimo
sono i seguenti:
a) sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
b) termine non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione
dell’atto;
c) bilanciamento con l’interesse dei destinatari e dei
controinteressati.
5. Nella fattispecie in esame, fermo restando che
l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera edilizia
abusiva potrebbe ritenersi in re ipsa, l’esercizio
del potere di autotutela si rivela illegittimo per la
carenza dei presupposti sub b) e sub c).
5.1. L’atto, con cui il Comune di Aversa ha annullato il
permesso di costruire rilasciato alla signora Te.Go.
in data 26.04.2012, è stato adottato in data 30.03.2018
(nonostante nello stesso si dia atto che il 25.08.2015 il
Settore comunale competente ha disposto la sospensione dei
lavori), vale a dire in uno iato temporale estremamente
ampio e, quindi, poco ragionevole e, comunque, ben oltre il
termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore, in data
28.08.2015, dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990
come novellato dalla c.d. legge Madia (legge n. 124 del
2015).
Il regime temporale di diciotto mesi introdotto dalla legge
n. 124 del 2015, così come non può decorrere dall’adozione
dell’atto di prime cure, se antecedente al 28.08.2015,
decorre senz’altro, per tali atti, dall’indicato giorno di
entrata in vigore della novella legislativa; per cui, nella
fattispecie, il provvedimento di ritiro è stato adottato
oltre il termine perentorio di legge, essendo decorsi oltre
trentuno mesi dal dies a quo.
Il termine di diciotto mesi, peraltro, può essere
legittimamente superato nelle ipotesi di cui al comma 2-bis
dell’art. 21-nonies, vale a dire di provvedimenti
amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell’atto di notorietà mendaci per effetto
di condotte costituenti reato, accertate con sentenza
passata in giudicato.
La giurisprudenza ha chiarito in proposito come non possa
sostenersi che le “false attestazioni”, ai fini
dell’operatività del comma 2-bis dell’art. 21-nonies e,
quindi, per poter consentire di superare il termine dei 18
mesi nell’esercizio dell’autotutela, debbano essere state
accertate con sentenza penale passata in giudicato.
A tali fini, infatti, è stata operata una netta distinzione
tra le due ipotesi contemplate dal comma 2-bis dell’art.
21-nonies, costituite, l’una, dalle "false
rappresentazioni dei fatti", l’altra, dalle "dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false
o mendaci".
In particolare (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
18.03.2021 n. 2329), la giurisprudenza ha evidenziato che il
superamento del rigido limite temporale di 18 mesi per
l'esercizio del potere di autotutela di cui all'art.
21-nonies, legge n. 241/1990, deve ritenersi ammissibile, a
prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura
processuale, tutte le volte in cui il soggetto richiedente
abbia rappresentato uno stato preesistente diverso da quello
reale, atteso che, in questi casi, viene in rilievo una
fattispecie non corrispondente alla realtà.
Tale contrasto, tra la fattispecie rappresentata e quella
reale, può essere determinato da dichiarazioni false o
mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di
falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal
fatto che siano state all'uopo rese dichiarazioni
sostitutive), dovrà scontare l'accertamento definitivo in
sede penale, ovvero da una falsa rappresentazione dei fatti,
che può essere rilevante al fine di superamento del termine
di diciotto mesi anche in assenza di un accertamento
giudiziario della falsità, purché questa sia accertata
inequivocabilmente dall'Amministrazione con i propri mezzi.
L'articolo 21-nonies, in definitiva, contempla due categorie
di provvedimenti -differenziabili in ragione dell'uso della
disgiuntiva "o"- che consentono all'Amministrazione di
esercitare il potere di annullamento d'ufficio oltre il
termine di diciotto mesi dalla loro adozione, a seconda che
siano, appunto, conseguenti a false rappresentazioni dei
fatti o a dichiarazioni sostitutive false.
La ratio dell’illustrato comma 2-bis, infatti,
risiede nell’esigenza che il dies a quo di decorrenza
del termine per l’esercizio dell’autotutela debba essere
individuato nel “momento della scoperta, da parte
dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell’atto di ritiro” (cfr. Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, n. 8 del 17.10.2017, riferita peraltro
al concetto di termine “ragionevole”, in quanto
involgente una fattispecie concreta venuta in essere prima
della c.d. riforma Madia).
La “scoperta” sopravvenuta all’adozione del
provvedimento di primo grado deve tradursi in una
impossibilità di conoscere fatti e circostanze rilevanti
imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del
titolo edilizio, non potendo la negligenza
dell’Amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per
la stessa, che potrebbe continuamente differire il termine
di decorrenza dell’esercizio del potere.
In sostanza, il differimento del termine iniziale per
l’esercizio dell’autotutela deve essere determinato
dall’impossibilità per l’Amministrazione, a causa del
comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto
accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito
della fase istruttoria del procedimento di primo grado.
Nel caso di specie, l’Amministrazione comunale non solo non
ha rappresentato l’esistenza di dichiarazioni false
accertate con sentenza penale passata in giudicato, ma
nemmeno ha dimostrato l’esistenza di una falsa
rappresentazione dei fatti, tanto che le ragioni poste a
base dell’annullamento sono state rilevate a seguito di una
più attenta verifica degli atti, vale a dire che il Comune
avrebbe potuto e dovuto accertare “lo stato progettuale
non conforme allo strumento urbanistico”, per il quale
il permesso di costruire non poteva essere attribuito, nel
corso della fase istruttoria del procedimento avviato su
istanza della parte in data 14.03.2012, senza dover
attendere le segnalazioni da parte di cittadini per avviare
le attività di verifica a considerevole distanza di tempo
dal rilascio del permesso di costruire.
L’Amministrazione, cioè, aveva la possibilità di conoscere
tutti i fatti e le circostanze necessarie all’assunzione di
una corretta decisione sull’istanza di parte volta a
conseguimento del titolo abilitativo edilizio.
La stessa considerazione che negli elaborati progettuali non
era stata riportata l’altezza dell’intero edificio, prima e
dopo l’intervento, non costituiva una preclusione alla
doverosa attività istruttoria che l’Amministrazione avrebbe
dovuto compiere per rilasciare o negare a suo tempo il
permesso di costruire.
Diversamente, una volta rilasciato, sia pure
illegittimamente, il permesso di costruire, il potere di
annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto
delle condizioni di cui all’art. 21-nonies della legge n.
241 del 1990 ratione temporis vigente.
D’altra parte, i diversi presupposti in presenza dei quali
possono essere esercitati il potere di negare il permesso di
costruire (così come di ordinare la demolizione di un
immobile abusivo), provvedimento di primo grado, ed il
potere di annullamento d’ufficio di un permesso di costruire
già rilasciato, provvedimento di secondo grado, sono diretta
conseguenza della natura vincolata del primo potere e della
natura discrezionale del secondo potere.
5.2 Il presupposto sub c) è parimenti carente, in quanto,
ribadito che l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera
edilizia abusiva potrebbe ritenersi in re ipsa, il
Comune non ha svolto alcuna considerazione in ordine al
bilanciamento degli interessi del destinatario dell’atto,
pur prevista dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990
ratione temporis vigente.
6. La fondatezza dei motivi dedotti circa l’illegittimità
dell’atto di autotutela ed il conseguente annullamento dello
stesso determinano il travolgimento dell’ordinanza di
demolizione del 27.12.2019, che trova il suo unico
presupposto nell’annullamento del permesso di costruire del
30.03.2018, tanto che il contenuto di quest’ultimo
costituisce la sola motivazione dell’atto.
7. In definitiva, l’appello è fondato e va di conseguenza
accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza
impugnata, deve essere accolto il ricorso di primo grado,
con conseguente annullamento degli atti impugnati (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.02.2024 n. 1926 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla giurisdizione in caso di domanda di condanna della
p.a. al consolidamento di un costone.
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Giustizia amministrativa – Giurisdizione - Azione di
condanna ad un facere – Giurisdizione civile.
Sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario sulla domanda di condanna del comune al
consolidamento di un costone, trattandosi di azione di
condanna ad un facere specifico, pena la responsabilità
della p.a. ai sensi art. 2043 c.c. (1).
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(1) Conformi: Cass. civ., sez. un., 13.09.2017, n. 21192;
Difformi: Trib. Vallo della
Lucania, n. 29 del 2022 (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 23.02.2024 n. 495 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con il ricorso in epigrafe i sig.ri Ca., in espressa
applicazione dell’istituto della translatio iudicii,
hanno riproposto ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a., il
giudizio originariamente incardinato innanzi al Tribunale
Ordinario di Vallo della Lucania, dichiaratosi carente di
giurisdizione, con il quale gli stessi, lamentando di aver
subìto l’occupazione sine titulo di un terreno
agricolo di loro proprietà, sito nel Comune di Agropoli,
appreso e utilizzato dalla Provincia di Salerno per la
realizzazione dei lavori di ricostruzione parziale e
consolidamento strutturale del Viadotto “Chiusa”
sulla strada a scorrimento veloce “SP430 Variante alla SS
18” nel Comune di Agropoli, chiedevano al G.O. di
dichiarare l’illegittimità del comportamento della Provincia
per aver occupato la proprietà senza aver mai adottato nei
loro confronti alcun provvedimento ablativo e
conseguentemente di condannarla sia al risarcimento dei
danni subìti per effetto della condotta illecita dell’Ente,
sia all’esecuzione di opere di consolidamento del terreno
dissestato a causa della realizzazione degli anzidetti
lavori, ovvero, in subordine, al pagamento di una somma pari
all’esecuzione delle anzidette opere.
Si è costituita la Provincia rappresentando in fatto che,
durante i lavori eseguiti nel corso degli anni 2016 e 2017
per la ricostruzione parziale e il consolidamento
strutturale del Viadotto “Chiusa”, a seguito di
problemi legati a un movimento franoso in concausa con il
decadimento dovuto all’usura e al cedimento del sostrato
inferiore sul quale poggiavano i piloni anche per copiose
infiltrazioni di acque nel sottosuolo, si riscontrava la
necessità di una più estesa e corretta regimentazione idrica
del versante collinare in frana a monte della SP 430,
prevedendo la realizzazione di terrazzamenti e la
canalizzazione delle acque superficiali.
Ha dedotto che sono stati pertanto eseguiti alcuni
interventi sulle fasce di pertinenza stradale, senza
occupazione di aree di proprietà privata e senza arrecare
danno al bene immobile dei ricorrenti né danneggiare le
colture, essendo l’area in questione incolta e occupata da
sola vegetazione spontanea sin dal 2006.
Ha eccepito inoltre la genericità e indeterminatezza delle
avverse domande e rappresentato la necessità di integrare il
contraddittorio nei confronti di ANAS, che è subentrata
nella proprietà e gestione, anche amministrativa,
dell’arteria.
Nel merito, ha contestato espressamente la sussistenza dei
danni al fondo lamentati dai ricorrenti, ritenendo anzi,
anche quale compensatio lucri cum damno, che gli
interventi eseguiti abbiano migliorato l’effettiva
fruibilità del fondo.
Ha assunto, infine, che i ricorrenti erano in realtà
obbligati alla realizzazione delle opere di convogliamento
delle acque e di consolidamento delle ripe, che la Provincia
di Salerno ha realizzato a proprie spese.
Pur ritualmente intimata, non si è invece costituita in
giudizio la controinteressata.
I ricorrenti hanno depositato una memoria in cui contestano
l’addebitata responsabilità omissiva in ordine alla
manutenzione del fondo affermando, al contrario, che il
fenomeno di dissesto del viadotto ha trovato origine in
errori progettuali e/o esecutivi e richiamando la relazione
del Dirigente del Settore Viabilità e Trasporti della
Provincia dimessa in atti, in cui si dà atto dell’avvenuta
occupazione dell’area di loro proprietà.
Hanno chiesto il riconoscimento anche dell’ulteriore
indennità di servitù prevista e disciplinata dall’art. 44
D.P.R. n. 327/2001 e richiamato la relazione tecnica
depositata, la quale dimostrerebbe che il fondo è stato
spianato e occupato da alcune file di canalette metalliche
longitudinali, e non invece terrazzato.
Hanno contestato il richiamo alla compensatio lucri cum
damno e all’art. 31 D.Lgs. n. 285/1992, deducendo che
non vi è alcuna necessità di integrare il contraddittorio
nei confronti dell’ANAS s.p.a., la quale è subentrata nella
proprietà e nella gestione della strada solo nel 2018, in
epoca successiva alla realizzazione dei lavori per cui è
causa, che rappresentano il fatto causativo del danno
dedotto nel presente giudizio.
Con memoria di replica la Provincia ha evidenziato che
l’avversa domanda è qualificata espressamente come richiesta
ex art. 2043 di condanna dell’ente locale al risarcimento
dei danni conseguenti ad un’occupazione protrattasi per il
periodo dei lavori (quindi definita nello spazio temporale
dei lavori e non perdurante all’attualità) e al pagamento
della somma necessaria per il consolidamento del terreno
dissestato.
Ha affermato che l’intervento di sistemazione e
rimodellazione del versante in frana è stato solamente
ampliato, senza differire in alcun modo dalla tipologia di
opere previste nel progetto definitivo, e che non è stata da
controparte offerta adeguata prova: dell’estensione
dell’occupazione (essendoci un generico riferimento a una
particella catastale); dell’effettiva presenza di alberi e
colture in sito; dell’effettivo spazio temporale della
lamentata occupazione; della necessità di opere di
sistemazione del terreno dissestato a seguito degli
interventi eseguiti dalla Provincia e del dissesto del
terreno conseguente ai lavori pubblici eseguiti;
dell’imposizione di una servitù sul fondo.
...
Il ricorso è parzialmente fondato.
Preliminarmente, va disattesa la domanda di integrazione del
contraddittorio nei confronti di ANAS s.p.a., attuale
proprietaria della strada confinante, posto che la questione
controversa attiene all’occupazione sine titulo del
fondo da parte della Provincia e ai relativi danni alla
proprietà, asseritamente realizzati dalla Provincia medesima
nel corso della realizzazione dei lavori descritti in fatto.
Ciò posto, la domanda di accertamento dell’occupazione
abusiva del fondo e di condanna al risarcimento dei relativi
danni è fondata, nei termini che seguono.
L’avvenuta apprensione dell’area con conseguente
spossessamento dei proprietari ai fini dello svolgimento dei
lavori di consolidamento risulta provata alla luce dei
documenti dimessi in atti.
In particolare, nella Relazione Settore Viabilità (all. 9
del fascicolo di parte resistente) si legge testualmente
che: “Durante il corso dei lavori, sia la Direzione dei
Lavori che l’impresa esecutrice hanno più volte, senza
esito, cercato di contattare i legittimi proprietari del
versante in frana, al fine di pervenire ad un accordo
bonario per l’occupazione temporanea dei terreni, necessaria
per consentire le lavorazioni di messa in sicurezza dei
terreni in frana gravanti sulle strutture del Viadotto
“Chiusa”, mediante la realizzazione di terrazzamenti e la
regimentazione idrica delle acque superficiali ruscellamento”.
Risulta pertanto confermata la circostanza dell’avvenuta
occupazione ai fini della realizzazione dei lavori in
questione, mentre non risulta adottato alcun provvedimento
ablativo legittimo, non essendo stato ancora emanato un
provvedimento formale di definizione della procedura
espropriativa, né formalizzata una transazione traslativa
della proprietà.
In tale evenienza, secondo la giurisprudenza dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato: “in linea generale,
quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto,
occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la
condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto
di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e
configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c., con
decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla
proposizione della domanda basata sull’occupazione contra
ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul
mancato godimento del bene. Tale illecito viene a cessare
solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita
nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente
monetario a fronte dell’irreversibile trasformazione del
fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo a condizione che:
- sia effettivamente
configurabile il carattere non violento della condotta;
- si possa individuare il
momento esatto della interversio possesionis;
- si faccia decorrere la
prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del
D.P.R. n. 327 del 2001 (30.06.2003), per evitare che sotto
mentite spoglie (alleviare gli oneri finanziari altrimenti
gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca
una forma surrettizia di espropriazione indiretta in
violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del
2001” (Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2).
Applicando i principi sopra riportati al caso in esame, deve
dichiararsi l’obbligo della Provincia di Salerno di
procedere, entro novanta giorni dalla comunicazione in via
amministrativa e/o dalla notificazione della presente
sentenza, a cura di parte ricorrente, alla valutazione di
attualità e prevalenza dell’interesse pubblico
all’acquisizione dei beni occupati ai sensi dell’art. 42-bis
del D.P.R. n. 327 del 2001 e non coperti da precedenti atti
espropriativi, nonché di adottare, all’esito di essa, un
provvedimento con il quale i beni stessi, in tutto o in
parte, siano alternativamente:
a) acquisiti non retroattivamente al patrimonio indisponibile della
Provincia (fatta salva, come detto, la ulteriore possibilità
di acquisto iure privatorum);
b) restituiti entro novanta giorni ai legittimi proprietari, previa
riduzione nello stato di fatto esistente al momento
dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se ad interessare è l’intero terreno o parte di
esso, disponendo la restituzione della restante porzione
entro novanta giorni, previo ripristino dello status quo
ante;
- dovrà prevedere che, entro trenta giorni, sia corrisposto ai
proprietari il valore venale del bene, nonché un indennizzo
per il pregiudizio non patrimoniale, forfettariamente
liquidato in misura pari al dieci per cento del medesimo
valore venale del bene;
- dovrà recare le indicazioni delle circostanze eccezionali che
hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la
data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà motivare in
modo specifico sulle attuali ed eccezionali ragioni di
pubblico interesse che ne giustificano l’emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi
privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative
alla sua adozione;
- dovrà essere notificato ai proprietari e comporterà il passaggio
del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva del
pagamento delle somme dovute, ovvero del loro deposito
effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. n. 327
del 2001;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri
immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà
trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art.
14, comma 2, D.P.R. n. 327 del 2001, nonché comunicato,
entro trenta giorni, alla Corte dei Conti, mediante
trasmissione di copia integrale (art. 42-bis, comma 7).
Per le ragioni sopra evidenziate, il ricorso, in parte
qua, merita accoglimento, ai sensi, nei limiti e per gli
effetti indicati in motivazione.
Quanto invece alla domanda di condanna al consolidamento del
costone, il Collegio ritiene che la fattispecie non rientri
nella giurisdizione del giudice amministrativo, ma in quella
del giudice ordinario e solleva pertanto d’ufficio un
conflitto negativo di giurisdizione con rinvio della
questione alle Sezioni Unite della Cassazione ai sensi
dell’art. 11, comma 3, c.p.a.
Come chiarito dalla giurisprudenza tale norma (secondo cui “quando
il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice
amministrativo, quest’ultimo, alla prima udienza, può
sollevare anche d’ufficio il conflitto di giurisdizione”)
subordina la possibilità di sollevare il conflitto negativo
a tre presupposti:
a) che un primo giudice declini la giurisdizione e indichi un
secondo giudice che ritiene fornito di giurisdizione;
b) che tale giudizio venga tempestivamente riassunto dinnanzi a
questo secondo giudice;
c) che il secondo giudice, non condividendo l’indicazione data dal
primo, sollevi conflitto alla prima udienza (cfr. Cassazione
civile, Sez. Un., 11.04.2018, n. 8981).
Tali presupposti ricorrono nel caso in esame perché:
a) con la sentenza n. 29 del 13.01.2022 il Tribunale ordinario di
Vallo della Lucania ha declinato la propria giurisdizione;
b) il giudizio è stato tempestivamente riproposto avanti a questo
Tribunale con atto notificato il 16.03.2022 (la
giurisprudenza ha chiarito che, per la disciplina di cui
all’art. 11 c.p.a., la riassunzione può avvenire sia prima
sia dopo il passaggio in giudicato della sentenza che
declina la giurisdizione, purché non oltre tre mesi dal
passaggio in giudicato della stessa: cfr. Consiglio di
Stato, v. Adunanza Plenaria, 16.12.2011, n. 24);
c) il conflitto viene sollevato alla prima udienza fissata alla
data del 14.02.2024.
Ebbene, la presente controversia esula, in parte qua,
dalla giurisdizione del giudice amministrativo, in virtù di
quanto affermato da Cass. civ., Sez. Unite, Sent.,
13.09.2017, n. 21192, secondo la quale: “Sussiste la
giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria
relativamente alla domanda rivolta dal privato contro un
Comune per conseguirne la condanna ad un facere specifico,
consistente nella realizzazione delle opere necessarie ad
adeguare l’impianto fognario e di smaltimento delle acque
meteoriche al fine di scongiurare allagamenti ed
infiltrazioni idriche nella proprietà privata, e la condanna
al risarcimento dei danni prodotti a questa proprietà a
causa della pregressa cattiva manutenzione o gestione degli
impianti comunali, prospettandosi la responsabilità
aquiliana della Pubblica Amministrazione ai sensi dell’art.
2043 c.c.”.
Pertanto, sulla scorta dei richiamati principi
giurisprudenziali e ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a,
deve disporsi la trasmissione degli atti alle Sezioni Unite
della Suprema Corte di Cassazione affinché si pronuncino sul
conflitto negativo di giurisdizione sollevato (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 23.02.2024 n. 495 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Sulla natura intellettuale di un servizio.
La natura intellettuale o meno del
servizio dipende dalle sue (oggettive) caratteristiche
intrinseche, di talché “Per servizi di natura intellettuale
si devono intendere quelli che richiedono lo svolgimento di
prestazioni professionali, svolte in via eminentemente
personale, costituenti ideazione di soluzioni o elaborazione
di pareri, prevalenti nel contesto della prestazione erogata
rispetto alle attività materiali e all’organizzazione di
mezzi e risorse.
Al contrario va esclusa la natura intellettuale del servizio
avente ad oggetto l’esecuzione di attività ripetitive che
non richiedono l’elaborazione di soluzioni personalizzate,
diverse, caso per caso, per ciascun utente del servizio, ma
l’esecuzione di meri compiti standardizzati”.
---------------
4. Col terzo motivo di gravame l’appellante si duole
dell’erroneo rigetto del corrispondente motivo di ricorso in
primo grado, col quale aveva posto in dubbio che la
direzione lavori potesse rientrare fra i servizi
intellettuali, e -per quanto qui di rilievo- aveva dedotto
che, comunque, la necessità o meno di indicare i costi della
manodopera doveva essere verificata in concreto, in ragione
cioè delle modalità di (prevista) erogazione del servizio,
profilo questo che il Tar avrebbe nella specie trascurato.
Segnatamente, avendo la controinteressata SDE previsto
l’impiego di due dipendenti per lo svolgimento
dell’attività, la stessa non poteva non indicare i relativi
costi della manodopera, al fine di consentire anche la
verifica del rispetto dei minimi salariali ex art. 95, comma
10, d.lgs. n. 50 del 2016.
Su tale profilo il Tar avrebbe omesso di pronunciarsi,
essendosi concentrato sulla sola natura del servizio di
direzione lavori, e non anche sulle relative concrete
modalità di espletamento fatte valere dalla ricorrente.
4.1. Il motivo non è condivisibile.
4.1.1. Come emerge dalla narrativa, la censura alla sentenza
si appunta nella specie sull’omessa considerazione delle
concrete modalità di espletamento del servizio, col
coinvolgimento cioè di alcuni dipendenti di SDE.
Il che non è tuttavia conducente, e non consente di
pervenire alle conclusioni invocate dall’appellante.
La natura intellettuale o meno del servizio dipende infatti
dalle sue (oggettive) caratteristiche intrinseche, di talché
“Per servizi di natura intellettuale si devono intendere
quelli che richiedono lo svolgimento di prestazioni
professionali, svolte in via eminentemente personale,
costituenti ideazione di soluzioni o elaborazione di pareri,
prevalenti nel contesto della prestazione erogata rispetto
alle attività materiali e all’organizzazione di mezzi e
risorse; al contrario va esclusa la natura intellettuale del
servizio avente ad oggetto l’esecuzione di attività
ripetitive che non richiedono l’elaborazione di soluzioni
personalizzate, diverse, caso per caso, per ciascun utente
del servizio, ma l’esecuzione di meri compiti standardizzati”
(Cons. Stato, III, 28.10.2022, n. 9312; IV, 22.10.2021, n.
7094).
In tale contesto, il fatto che servizi di siffatta natura
siano prestati avvalendosi (nella erogazione d’un servizio
di natura pur sempre intellettuale) della collaborazione di
alcuni addetti non vale sic et simpliciter ad
escluderne la natura intellettuale e dunque a rendere
necessaria la indicazione di costi di manodopera (esclusa,
appunto, per i servizi intellettuali) ex art. 95, comma 10,
d.lgs. n. 50 del 2016.
Il tutto in un contesto in cui peraltro neppure la lex
specialis indicava nella specie il costo della
manodopera, e d’altra parte la controinteressata aveva
indicava un costo, seppur in misura pari a 0 (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 21.02.2024 n. 1745 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimo il regolamento edilizio del Comune anteriore al 1967.
Il Consiglio di Stato ha escluso violazioni al principio di uguaglianza per
l’ente locale che discrezionalmente abbia regolato lo «jus aedificandi»
prima della legge nazionale.
«L’obbligo di munirsi di
licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente
alla legge urbanistica del 1967 è da considerare legittimo, valido e
cogente».
Lo afferma il Consiglio di Stato
pronunciandosi sul caso di un residente in un comune lombardo che aveva
impugnato l'ordinanza di demolizione per un manufatto realizzato fuori dal
centro abitato e risultato difforme dalla licenza edilizia rilasciata nel
1965, in conformità a un regolamento edilizio adottato dal comune, il quale
aveva deciso di anticipare la legge nazionale del 1967. Legge che,
estendendo l'obbligo di ottenere una licenza edilizia all'intero territorio
nazionale, ha incluso anche gli ambiti extraurbani, fino a qual momento
esclusi dalla legge urbanistica del 1942.
Il Tar Lombardia ha respinto il ricorso dell'interessato; e ora, anche il
Consiglio di Stato, con la
sentenza 08.02.2024 n. 1297,
ha respinto l'appello.
Il principale motivo del ricorso consiste nella presunta illegittimità di
una decisione del comune «che avrebbe prodotto una disparità di
trattamento violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale,
che si manifesterebbe nella diversità di trattamento a cui sarebbero stati
sottoposti in relazione all'esercizio del jus aedificandi i cittadini del
Comune di Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia anche per
attività edificatoria da realizzarsi fuori del centro abitato, rispetto ai
quelli residenti in altri comuni che non avevano adottato un regolamento
edilizio recante un simile obbligo».
I giudici della II Sezione di Palazzo Spada, replicano che «secondo un
consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale l'obbligo di munirsi
di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente
alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare
legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione
e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista
dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di
estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e
controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa
degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna
violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di
ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli
appellanti».
D'altra parte, accogliendo la tesi del ricorrente si arriverebbe alla «irragionevole
e illogica rimozione di una legittima attribuzione municipale, quale è
proprio quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti quei
comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per tutelare
adeguatamente il particolare pregio dei propri territori, avessero avvertito
l'esigenza di subordinare il legittimo esercizio del diritto di edificazione
al rilascio della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la
imponesse in via generalizzata».
Non si realizza alcuna violazione del principio di uguaglianza formale e/o
sostanziale, neanche «nella diversità di trattamento a cui sarebbero
stati sottoposti in relazione all'esercizio del jus aedificandi i cittadini
del Comune di Merate rispetto ai quelli residenti in altri comuni che non
avevano adottato un regolamento edilizio recante un simile obbligo, giacché
intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, neppure è
immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la
connessa ingiustificata diversità di trattamento» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
26.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul potere regolatorio in tema di jus aedificandi.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Abusi commessi
ante 1967 in comune dotato di regolamento edilizio anche per
costruzione in aree fuori del centro abitato – Violazione
del principio di uguaglianza – Non sussiste.
Il regolamento edilizio discrezionalmente
adottato da un ente locale che prima del 1967 abbia
subordinato l’esercizio del jus aedificandi al rilascio
della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori
del centro abitato non integra la violazione del principio
di uguaglianza formale e/o sostanziale sotto il profilo
anche della diversità di trattamento a cui sarebbero stati
sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi, a
seconda che l’edificazione fosse o meno avvenuta in un
comune che aveva adottato quel regolamento, intuitivamente
diverse essendo le singole realtà locali, con la conseguenza
che neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del
principio di uguaglianza e la connessa diversità di
trattamento (1).
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Rilascio del
certificato di abitabilità – Efficacia sanante - Esclusione.
Il rilascio del certificato di abitabilità
non ha alcun effetto sanante rispetto alle opere abusive in
quanto la illiceità dell'immobile sotto il profilo
urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal
conseguimento del certificato di agibilità che riguarda
profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni
differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano
il rispettivo rilascio:
- il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è
stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in
materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio
energetico degli edifici e degli impianti, viceversa
- il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle
norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da
esso interessata (2).
---------------
(1) Precedenti conformi: non si segnalano precedenti negli esatti
termini.
Precedenti difformi: non si
segnalano precedenti difformi.
(2) Precedenti conformi: ex multis, Cons. Stato, sez. VII,
08.09.2023, n. 8239; Cons. Stato, sez. II, n. 17.05.2021, n.
3836.
Precedenti difformi: non si
segnalano precedenti difformi
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1297 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. L’appello è infondato.
7.1. Giova ricordare in punto di fatto che nella specie le
difformità che interessano la proprietà degli appellanti
riguardano alcune modifiche alle aperture e la realizzazione
della soletta di copertura a quote sensibilmente superiori
rispetto alla licenza edilizia (in particolare: - gronda
autorizzata a 1,05 mt, ma realizzata 1,75 mt; - gronda
autorizzata a 0,45 mt, ma realizzata 1,24 mt; - colmo
autorizzato a 2,40 mt, ma realizzato a 3,27 mt); al
proposito eloquenti e incontestate sono le risultanze del
verbale di sopralluogo dell’Ufficio tecnico comunale (in
atti), nonché le indicazioni contenute nel provvedimento
impugnato con il quale è stata ordinata “la demolizione
della porzione residenziale e opere abusive sopra descritte
ed il ripristino della situazione autorizzata con Licenza
Edilizia n. 1228 del 18.02.1965 …”, trattandosi di
interventi realizzati in parziale difformità rispetto al
titolo abilitativo (art. 34, comma 1, del DPR 380/2001).
8. Ciò posto, passando alla disamina del primo motivo di
appello, occorre in principalità considerare che:
- l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo
generalizzato della licenza edilizia per tutti gli
interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale;
- per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge
17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo
limitatamente ai centri abitati;
- è pacifico in causa che, all’epoca in cui erano stati realizzati
gli abusi de qua (1965), il Comune di Merate era dotato di
un Regolamento Edilizio e di Programma di Fabbricazione
(approvato con Decreto Interministeriale del 18.07.1956 n.
1108), il quale inseriva l'area di specie in zona
semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il
rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di
immobili nel territorio comunale;
- l’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza
edilizia (Prat. n. 1228) rilasciata in data 18 febbraio 1965
e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto, previo
sopralluogo, in data 01.09.1965, il permesso di abitabilità.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo
giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia,
imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla
legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da
considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la
previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista
dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva
ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il
potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia,
trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che
come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione
del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di
ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come
prospettato dagli appellanti.
Del resto l’accoglimento di una siffatta prospettazione
condurrebbe ad una irragionevole ed illogica rimozione di
una legittima attribuzione municipale, qual’e è proprio
quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti
quei comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per
tutelare adeguatamente il particolare pregio dei propri
territori, avessero avvertito l’esigenza di subordinare il
legittimo esercizio del diritto di edificazione al rilascio
della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la
imponesse in via generalizzata; né può ragionevolmente
invocarsi una pretesa violazione del principio di
uguaglianza formale e/o sostanziale, che si manifesterebbe
-secondo la prospettazione degli appellanti- nella diversità
di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione
all’esercizio del jus aedificandi i cittadini del
Comune di Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia
anche per attività edificatoria da realizzarsi fuori del
centro abitato, rispetto ai quelli residenti in altri comuni
che non avevano adottato un regolamento edilizio recante un
simile obbligo, giacché intuitivamente diverse essendo le
singole realtà locali, neppure è immediatamente apprezzabile
la violazione del principio di uguaglianza e la connessa
ingiustificata diversità di trattamento.
In definitiva, non può ragionevolmente dubitarsi del fatto
che, in presenza di opere realizzate in difformità dalla
licenza edilizia del 18.02.1965, le stesse debbono
qualificarsi come abusive.
8.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di
gravame.
Invero, a fronte di opere realizzate in parziale difformità
dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale
l’ente locale non è titolare di alcun margine di
discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione
dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che
la repressione degli abusi edilizi costituisce attività
doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto
alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente
costituita dalla descrizione delle opere abusive e della
loro contrarietà al titolo, come è nella specie
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del
manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità
dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo
affidamento in capo ai proprietari (cfr., sul punto,
sentenza n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato).
8.3. Non merita favorevole apprezzamento neppure il terzo
motivo di gravame, in quanto, come ribadito più volte dalla
giurisprudenza, il rilascio del certificato di abitabilità
non può avere efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti (ex multis Consiglio di Stato sez. VII, n.
8239/2023; Consiglio di Stato sez. II, n. 3836/2021) la
illiceità dell'immobile sotto il profilo
urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal
conseguimento del certificato di agibilità che riguarda
profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni
differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano
il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad
accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto
delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità
igiene e risparmio energetico degli edifici e degli
impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità
dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che
disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere
un’interferenza reciproca, come sostenuto dal motivo in
esame.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di
un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la
disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che
l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto
certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri
di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in
quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio.
9. In definitiva l’appello deve essere rigettato (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1297 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul diritto di accesso dei sindacati anche non
rappresentativi.
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Atto amministrativo - Accesso ai documenti – Diritto –
Sindacato non rappresentativo – Sussiste - Limiti –
Richiesta generalizzata ed esplorativa – Inammissibile.
Sussiste il diritto dell’organizzazione
sindacale anche non rappresentativa ad esercitare il diritto
di accesso per la cognizione di documenti che possano
coinvolgere sia le prerogative del sindacato quale
istituzione esponenziale di una determinata categoria di
lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti
nel cui interesse e rappresentanza opera, purché l’accesso
non configuri una forma di preventivo e generalizzato
controllo dell’intera attività dell’amministrazione datrice
di lavoro (1).
Secondo il Consiglio di Stato, la circostanza che il
sindacato richiedente l’accesso non sia rappresentativo non
incide affatto sulla sua legittimazione (nonché sulla sua
astratta titolarità dell’interesse) ad agire, giacché
proprio attraverso l’esercizio del diritto di accesso può
acquisire quegli atti e documenti che gli sarebbe precluso
conoscere –anche per intero– per effetto dei diritti di
informazione derivanti dagli accordi sindacali in materia;
infatti, la richiesta di accesso ha carattere accessorio e
complementare rispetto ai diritti di informazione,
differenziandosene solo per il contenuto (e la forma).
Inoltre, la distinzione tra sindacati rappresentativi e non
rappresentativi è rilevante ai fini della partecipazione
alle trattative e alla conclusione degli accordi sindacali,
ma non può incidere sulla diversa e autonoma disciplina del
diritto di accesso di cui alla l. n. 241 del 1990.
---------------
(1) Precedenti conformi: sulla legittimazione ad agire dei
sindacati, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 23.02.2012, n.
1034. Sul diritto di accesso dei sindacati, ex multis, Cons.
Stato, sez. VI, 20.11.2013, n. 5511. Sull’inammissibilità di
richieste di accesso del sindacato generalizzate ed
esplorative, ex multis, Cons. Stato, sez. III, 04.05.2012,
n. 2559.
Precedenti difformi: non
risultano precedenti difformi (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1295 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. L’appello è fondato nei sensi appresso indicati.
8.1. Il primo motivo di gravame, che concerne la
legittimazione ad agire del sindacato SNAP, sostanzialmente
negata dall’amministrazione appellante, è infondato.
8.1.1. L’amministrazione ha sottolineato in particolare la
differenza dei diritti di informazione che sussiste tra i
sindacati c.d. rappresentativi e quelli che tali non sono,
come quello ricorrente in primo grado, e a tal fine ha
evidenziato che detta differenza è contenuta nell’accordo
quadro del 2009 che, mentre riconosce ai primi
un’informazione molto estesa ad una serie di provvedimenti
che riguardano la gestione del personale e l’attuazione dei
contratti collettivi, riserva ai secondi solamente
un’informazione sulle circolari e altri atti normativi: di
qui –a suo avviso– la carenza di legittimazione del
sindacato ricorrente, non essendo neppure chiaro se il
sindacato aveva agito a tutela delle proprie prerogative
ovvero a tutela dei diritti dei singoli lavoratori (tanto
più che nel caso di specie il sindacato era costituito da un
solo iscritto).
La tesi è tutt’altro che convincente.
8.1.2. Infatti, secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione di
discostarsi, sussiste il diritto dell’organizzazione
sindacale ad esercitare il diritto di accesso per la
cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le
prerogative del sindacato quale istituzione esponenziale di
una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di
lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e
rappresentanza opera l’associazione (Cons. Stato sez. VI, 23.01.2012, n. 1034; 20.11.2013, n. 5511), purché
l’accesso non configuri una forma di preventivo e
generalizzato controllo dell’intera attività
dell’amministrazione datrice di lavoro (Cons. Stato, sez.
III, 04.05.2012, n. 2559).
E’ stato anche evidenziato che “l’esercizio del diritto di
accesso costituisce, rispetto ai diritti di informazione
riconosciuti per legge al sindacato, uno strumento del tutto
autonomo, ma è per converso legittimato dallo stesso tipo di
interesse e dalla stessa ratio che sostiene le norme del
diritto di informazione. L’esistenza di queste dimostra in
modo tangibile che i dati in materia non corrispondono ad
interessi di singoli, ma ad un interesse tipicamente
collettivo, in quanto riguardano la verifica della
osservanza di criteri oggettivi attraverso il confronto di
una pluralità di casi e l’esame di singole situazioni
anomale alle luce dei criteri fissati. Si tratta quindi di
un interesse specifico e proprio del sindacato, del tutto
distinto da quello che i singoli associati potrebbero far
valere. Non solo, ma questo interesse va oltre quello dei
propri associati: un sindacato non solo tutela i propri
iscritti, ma anche quelli dei non iscritti e tende ad
accrescere la sua forza agendo per acquisire nuovi iscritti
e maggiore rappresentatività” (Cons. Stato, sez. III,
2559/2012, cit.).
8.1.3. Ciò posto la circostanza che nel caso di specie il
sindacato richiedente l’accesso non sia rappresentativo non
incide affatto sulla sua legittimazione (nonché sulla sua
astratta titolarità dell’interesse) ad agire, giacché
proprio attraverso l’esercizio del diritto di accesso può
acquisire quegli atti e documenti che gli sarebbe precluso
conoscere –anche per intero– per effetto dei diritti di
informazione derivanti dagli accordi sindacali in materia;
infatti la richiesta di accesso ha carattere accessorio e
complementare rispetto ai diritti di informazione,
differenziandosene solo per il contenuto (e la forma).
Inoltre la distinzione tra sindacati rappresentativi e non
rappresentativi è rilevante ai fini della partecipazione
alle trattative e alla conclusione degli accordi sindacali,
ma non può incidere sulla diversa e autonoma disciplina del
diritto di accesso di cui alla legge n. 241 del 1990.
8.1.4. In definitiva non vi è ragione di dubitare sulla
legittimazione ad agire del sindacato ricorrente in primo e
sulla esistenza in capo ad esso della astratta titolarità di
un interesse ad agire.
8.2. Sono invece fondati il secondo ed il terzo
motivo di gravame, che per la loro intima connessione
possono essere esaminati congiuntamente, con cui
l’amministrazione appellante ha sostenuto che nel caso di
specie la richiesta di accesso sarebbe massiva ed
esplorativa, finalizzata ad un inammissibile controllo
generalizzato sulla propria attività istituzionale.
8.2.1. Secondo la giurisprudenza richiamata in precedenza il
carattere propriamente collettivo e sindacale della
richiesta di accesso non è sufficiente da solo a radicare un
interesse valido e giuridicamente rilevante in capo al
sindacato richiedente se la richiesta configura una forma di
controllo generalizzato sulla pubblica amministrazione,
quest’ultima costituendo un limite all’accesso espressamente
stabilito dall’art. 24 della legge n. 241 del 1990;
l’accesso a determinati documenti richiede infatti che
sussista un interesse diretto a tutelare specifici interessi
che debbono essere indicati preventivamente secondo quanto
richiesto dall’art. 22 l. 241/1990.
Se è vero che la pubblica amministrazione detentrice del
documento e il giudice amministrativo adito nel relativo
giudizio di accesso non possono svolgere ex ante alcuna
valutazione sull'ammissibilità, sull'influenza o sulla
decisività dei documenti richiesto su un eventuale giudizio
instaurato o instaurando, poiché un simile apprezzamento
compete, se del caso, solo all'autorità giudiziaria
investita della questione, salvo il caso di una evidente,
assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le
esigenze difensive (Cons. Stato, sez. V, 29.09.2023,
n. 8589; 17.07.2023, n. 6978), è altrettanto vero che le
finalità dell'accesso devono essere dedotte e rappresentate
dalla parte istante in modo puntuale e specifico
nell'istanza di ostensione e suffragate con idonea
documentazione e ciò anche allo scopo di consentire
all'Amministrazione detentrice del documento il vaglio del
nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione
richiesta di astratta pertinenza con la situazione finale
controversa, dovendosi escludersi la sufficienza di un
generico riferimento a non meglio precisate esigenze
probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo
già pendente o ancora instaurando poiché l'ostensione del
documento passa attraverso uno scrupoloso vaglio circa il
nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione
richiesta e la situazione finale controversa (Cons. Stato,
sez. VI, 19.05.2023, n. 5015).
Inoltre è stato affermato che ai fini dell'accesso agli atti
difensivo è necessario che sussista una strumentalità fra
accessibilità dei documenti amministrativi ed esigenze di
tutela, che si traduce in un onere aggravato sul piano
probatorio, in quanto spetta alla parte interessata l'onere
di dimostrare che il documento al quale intende accedere è
necessario per la cura o la difesa dei propri interessi (Cons.
Stato, sez. II, 28.03.2023, n. 3160).
8.2.2. Nel caso di specie la richiesta di accesso avanzata
dal sindacato non solo ha riguardato un’ampia documentazione
(relativa all’espletamento di tutti i servizi del
Commissariato di Ostuni), riferita peraltro ad un lungo arco
temporale (cinque mesi), per quanto non è stato fornito e
indicato alcuna idonea giustificazione in ordine alla
necessità di acquisire tali elementi e cioè quale fosse lo
specifico interesse da tutelare; tanto meno sono stati
evidenziati o indicati elementi fattuali (anche solo
indiziari) che potessero giustificare quell’accesso: e ciò
malgrado l’Amministrazione avesse espressamente invitato in
tal senso il sindacato richiedente non solo a precisare i
documenti cui accedere, ma anche a indicare l’interesse
specifico a quell’accesso.
E’ da ritenere pertanto che quella richiesta, massiva e
generale, avesse uno scopo meramente esplorativo, volta cioè
non già ad ottenere documenti a mezzo dei quali verificare
la correttezza o meno di una situazione di fatto già
conosciuta o denunciata al sindacato (per esempio con un
esposto o una lamentela), situazione ritenuta dal sindacato
in astratto di dubbia correttezza, quanto piuttosto a
verificare proprio attraverso l’esame di quegli atti se vi
fossero stati da parte dell’amministrazione di comportamenti
o fossero stati adottati atti eventualmente lesivi.
Si è pertanto in presenza di una modalità di esercizio del
diritto di accesso che ne travisa il senso e la ratio,
integrando pertanto gli estremi dell’inammissibile controllo
generalizzato sull’attività dell’amministrazione, vietato
dalla legge.
8.2.3. Non possono essere condivise le conclusioni cui è
pervenuto il Tar circa una sorta di diritto generalizzato
da parte del sindacato a conoscere ogni documento relativo
alla gestione del personale quale strumento di difesa dei
diritti dei propri assistiti; la richiesta di accesso deve
essere infatti connessa con un interesse specifico, la cui
tutela richiede la conoscenza di determinati documenti,
mentre non è ammesso utilizzare il diritto di acceso per
compiere una verifica e indiscriminata degli atti di
gestione del personale relativamente ad un determinato
periodo in mancanza di un qualsivoglia elemento fattuale e
concreto, anche solo indiziario, che possa far supporre
l’esistenza di irregolarità dell’Amministrazione nella
gestione del personale.
8.4. La fondatezza degli esaminati motivi di gravame
determina l’assorbimento del quarto motivo di gravame.
9. In conclusione l’appello deve essere accolto e, per
l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere
respinto il ricorso proposto in primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1295 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Responsabilità della Pa, niente risarcimento se c’è caos
normativo.
Nel caso esaminato non prospettabile l’elemento della colpevolezza in capo
al Comune.
Non è dovuto il risarcimento del danno qualora l’amministrazione incorra in
un errore scusabile per l’esistenza di contrasti giudiziari, incertezza del
quadro normativo di riferimento o complessità della situazione fattuale.
Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 02.02.2024 n. 1087.
Il fatto
È stata appellata la sentenza con cui il Tar ha respinto il
ricorso proposto da una società per la condanna del Comune al risarcimento
dei danni derivanti dai provvedimenti di diniego della Scia presentata per
l'avvio di una attività, che avrebbe comportato una gravissima perdita
economica.
Si lamentava in particolare che la posizione assunta si porrebbe
in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza secondo
cui il privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo
può limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo
della
colpa, restando a carico dell'amministrazione provare la propria
incolpevolezza.
Le coordinate
Nel giudicare infondato l'appello, la V
sezione ripercorre le «pacifiche coordinate ermeneutiche» tracciate dalla
giurisprudenza in materia di responsabilità della Pa per i danni da
provvedimento illegittimo: la lesione dell'interesse legittimo è condizione
necessaria ma non sufficiente per
accedere alla tutela risarcitoria, occorrendo anche verificare che risulti
leso, per effetto dell'attività illegittima e
colpevole, l'interesse materiale al quale il soggetto aspira; la valutazione
non può avvenire sulla base del mero dato
dell'illegittimità dell'azione amministrativa, dovendo il giudice svolgere
una più penetrante indagine, estesa anche
alla valutazione dell'elemento soggettivo; deve essere fornita la
dimostrazione che la Pa abbia agito quanto meno
con colpa, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento
dell'azione amministrativa.
E in particolare,
perché si configuri la colpa dell'amministrazione occorre avere riguardo al
carattere e al contenuto della regola di
azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente si dovrà riconoscere
la sussistenza dell'elemento psicologico;
se il canone della condotta amministrativa è ambiguo, equivoco o costruito
in modo tale da affidare all'autorità
pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà sussistere solo
nelle ipotesi in cui il potere è stato
esercitato in palese spregio delle regole di imparzialità, correttezza e
buona fede, proporzionalità e ragionevolezza,
con la conseguenza che ogni altra violazione del diritto oggettivo resta
assorbita nel perimetro dell'errore scusabile.
La colpevolezza
È il caso della sentenza impugnata, che secondo i giudici di
Palazzo Spada ha giustamente ritenuto
non prospettabile l'elemento della colpevolezza in capo al Comune in ragione
del complicato e non lineare contesto
nel quale si era inserita la Scia presentata dall'appellante.
E ancora, non
è stato dimostrato che, in mancanza
dell'illegittimo provvedimento di diniego, l'appellante avrebbe avuto titolo
ad avviare l'attività produttiva, per cui non è
stata provata l'esistenza del nesso di causalità tra il provvedimento di
diniego e i danni di cui si domanda il ristoro in assenza di un'adeguata
dimostrazione del
possesso effettivo di tutti i requisiti per avviare l'attività produttiva (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 22.02.2024).
---------------
SENTENZA
8. Le statuizioni della sentenza di prime cure sono corrette e meritano
conferma.
8.1. Giova richiamare le pacifiche coordinate ermeneutiche tracciate dalla
giurisprudenza in materia di responsabilità della pubblica amministrazione
per i danni da provvedimento illegittimo alla luce delle quali va riguardata
la presente fattispecie.
8.2. Com’è noto, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria
-anche se non sufficiente- per accedere alla tutela risarcitoria, occorrendo
anche verificare che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima e
colpevole dell’amministrazione, l'interesse materiale al quale il soggetto
aspira: il risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo
esercizio dell'attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza
di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest'ultimo che
qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento
illegittimo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 21.04.2023 n. 4050).
Ne consegue che ai fini della sussistenza di una responsabilità
dell’amministrazione per danni da provvedimento illegittimo, la valutazione
non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità
dell'azione amministrativa, dovendo, al contrario, il giudice svolgere una
più penetrante indagine, estesa anche alla valutazione dell'elemento
soggettivo (non del funzionario agente ma) dell'amministrazione intesa come
apparato. In particolare, deve essere fornita la dimostrazione che la
pubblica amministrazione abbia agito quanto meno con colpa, in contrasto con
i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, di cui
all'art. 97 Cost..
La responsabilità della pubblica amministrazione può, dunque, ritenersi
accertata quando, tenuto conto del comportamento complessivo degli organi
intervenuti nel procedimento (Consiglio di Stato, sez. III, 14.05.2015, n.
2464), la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze
di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tale da
palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del
provvedimento viziato (Consiglio di Stato, sez. III, 11.03.2015 n. 1272).
In definitiva, come, anche di recente, statuito dalla giurisprudenza, “ai
fini dell’accertamento della responsabilità, perché si configuri la colpa
dell’amministrazione, occorre avere riguardo al carattere ed al contenuto
della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, in
caso di sua violazione, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento
psicologico. Al contrario, se il canone della condotta amministrativa è
ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare
all'autorità pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà
sussistere solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese
spregio delle menzionate regole di imparzialità, correttezza e buona fede,
proporzionalità e ragionevolezza, con la conseguenza che ogni altra
violazione del diritto oggettivo resta assorbita nel perimetro dell'errore
scusabile, ai sensi dell'art. 5 c.p.” (cfr. Consiglio di Stato, n.
4050/2023 già citata e giurisprudenza ivi richiamata).
8.3. Di tali principi ha fatto corretta applicazione la sentenza impugnata.
Infatti, se è vero che, come rammenta l’appellante, sulla base
dell’orientamento prevalente, in sede di giudizio per il risarcimento del
danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato
danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice
presuntivo della colpa, restando a carico dell’Amministrazione l’onere di
dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile (cfr. Consiglio di
Stato, sez. VI, 19.03.2019 n. 1815), è pure vero che la presunzione di colpa
dell'amministrazione può essere riconosciuta solo nelle ipotesi di
violazioni commesse in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di
riferimento, giuridico e fattuale, tale da palesarne la negligenza e
l'imperizia, cioè l'aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di
correttezza, imparzialità e buona fede nell'assunzione del provvedimento
viziato.
Pertanto la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al
riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti
giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la
complessità della situazione di fatto.
8.4. Tale è il caso oggetto del presente giudizio.
8.5. Correttamente il giudice di prime cure ha infatti ritenuto non
prospettabile l’elemento della colpevolezza in capo al Comune di Arzano in
ragione della complessità della sottesa situazione fattuale, sulla base dei
seguenti elementi:
a) da un lato, il precedente intricato contenzioso, relativo
all’attività di parcheggio, definito con la menzionata sentenza del Tar
Campania Napoli n. 2641/2011;
b) dall’altro, l’intensa attività edilizia posta in essere
sull’area interessata dalla ricorrente nel corso del 2013, non sempre
ritenuta conforme ai corrispondenti titoli edilizi dall’autorità comunale,
attività che comunque complicava il quadro di riferimento su cui si sarebbe
innestata la s.c.i.a. produttiva oggetto del provvedimento di diniego del
2014, poi annullato dalla sentenza n. 1709/2019.
8.5.1. In considerazione del complicato e non lineare contesto, nel quale si
era inserita la s.c.i.a. presentata dall’appellante, oggetto del
provvedimento di diniego poi annullato, la sentenza impugnata ha quindi
correttamente ritenuto che, sebbene il provvedimento inibitorio adottato
dall’Ente nel 2014 fosse stato annullato dal giudice amministrativo, non era
però “immediatamente percepibile la compatibilità urbanistico-edilizia
dell’attività di autolavaggio con la destinazione di zona, anche ragionando
nell’ottica corretta della zona bianca come sancito nella sentenza n.
1709/2019, alla luce del dato normativo di riferimento (art. 9 del d.P.R. n.
380/2001) e dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, il che
contribuisce ad aggravare la complessità del sostrato fattuale oggetto di
attività valutativa da parte dell’amministrazione comunale.”.
8.5.2. Tenuto conto del contesto di circostanze di fatto e del quadro
normativo e giuridico di riferimento, si deve quindi escludere la
sussistenza, nella fattispecie, della colpevolezza del Comune appellato.
Invero, il risarcimento del danno non si configura come una conseguenza
automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, in
quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione del bene della
vita sotteso all’interesse legittimo concretamente inciso, anche del nesso
causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della
colpevolezza dell’amministrazione; quanto all’elemento soggettivo, da ultimo
citato, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata,
costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da
considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa
applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato
della situazione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della
discrezionalità dell’amministrazione, sicché la responsabilità deve essere
negata quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per
l’esistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo
di riferimento o per la complessità della situazione di fatto, come appunto
verificatosi nella specie (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez.
III, 18.06.2020 n. 3903; Consiglio di Stato, sez. IV, 05.05.2020 n. 2848).
8.6. Va poi anche evidenziato che la sentenza del Tribunale amministrativo
della Campania n. 1709 del 27.03.2019 posta a fondamento della domanda
risarcitoria dell’appellante non ha affermato che nell’area in questione
potesse essere legittimamente avviata un’attività di autolavaggio, ma ha
annullato il provvedimento di diniego, limitandosi a ravvisarne
l’illegittimità alla stregua delle seguenti considerazioni:
a) l’intervento inibitorio dell’amministrazione comunale era stato
posto in essere tardivamente, dopo più di sette mesi dalla formazione del
titolo abilitativo, ben oltre i sessanta giorni dalla data di presentazione
della SCIA previsti dall’art. 19, comma 3, della legge n. 241/1990 e senza
far ricorso all’esercizio del potere di autotutela, in violazione della
norma citata;
b) il diniego di SCIA si poneva in contraddizione con la DIA
edilizia presentata dalla società ricorrente il 07.02.2013 per la
realizzazione delle vasche biologiche finalizzate all’attività di
autolavaggio, mai rimossa in via ordinaria o in sede di autotutela;
c) il provvedimento di diniego era viziato per difetto di
istruttoria, non avendo tenuto conto che sull’area in questione era decaduto
il vincolo espropriativo impresso dallo strumento urbanistico a fini di
edilizia scolastica, come già accertato dalla sentenza del Tar Campania n.
2641 del 16.05.2011 (emessa con riguardo all’attività di parcheggio
esercitata sul medesimo suolo dal precedente gestore), con la conseguenza
che l’attività di autolavaggio avrebbe potuto acquistare una sua
compatibilità urbanistica alla luce del nuovo regime urbanistico assunto dal
suolo.
8.6.1. Su queste basi la menzionata sentenza n. 1709/2019 censurava
l’operato dell’ente comunale il quale:
- se, da un lato, considerato il notevole lasso di tempo
intercorso dalla SCIA, per rimuovere gli effetti della medesima, anziché
inibire in via ordinaria l’attività, avrebbe dovuto “in maniera più
appropriata”, verificata la sussistenza delle relative condizioni, fare
ricorso al potere di autotutela previsto dall’art. 19, comma 4, legge
241/1990, esplicitando nel provvedimento di secondo grado l’interesse
pubblico concreto ed attuale all’annullamento e comparando tale interesse
con l’interesse privato sacrificato;
- dall’altro lato, appurata la decadenza del vincolo
espropriativo imposto sull’area interessata dall’attività di autolavaggio,
prima adibita a parcheggio, “ai fini di una corretta e compiuta
istruttoria, avrebbe dovuto valorizzare tale aspetto e verificare la
compatibilità dell’attività in questione con una zona ormai divenuta bianca
(cioè priva di disciplina urbanistica e soggetta ai limiti edificatori di
cui all’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001), anziché soffermarsi sulla non più
attuale classificazione urbanistica (zona V.A.I.) prevista in generale dal
Piano di Fabbricazione.”
8.6.2. Il Tribunale amministrativo, pertanto, con la decisione sopra
indicata, annullava il provvedimento inibitorio gravato per violazione
dell’art. 19 della legge n. 241/1990 ed eccesso di potere per
contraddittorietà e difetto di istruttoria, “fatti salvi, comunque, gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione”.
8.7. Orbene, alla luce delle riportate statuizioni, deve quindi rilevarsi
che non è si è affatto dimostrato che, in mancanza dell’illegittimo
provvedimento di diniego, l’appellante avrebbe avuto titolo ad avviare
l’attività produttiva. |
URBANISTICA:
Secondo un costante indirizzo interpretativo, il
sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti di
pianificazione urbanistica non può estendersi alle
valutazioni di merito, a meno che esse non risultino
inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, ovvero
che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree,
risultino confliggenti con particolari situazioni che
abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate.
In base a tale impostazione, largamente condivisa, il comune
ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare le
precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di
motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone,
purché fornisca una indicazione congrua delle diverse
esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le
soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento
siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico
stabiliti per la formazione del piano regolatore.
Le scelte di ordine
urbanistico sono riservate alla discrezionalità
dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle
esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo
articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto
di programmazione territoriale avente rilevanza generale,
essa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole
scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione
nei criteri generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono,
pertanto, sorrette da ampia discrezionalità e, in tale
ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto
alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale,
si è nel dettaglio chiarito che la modifica di un piano
regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che
risultano già urbanisticamente classificate, necessita di
apposita motivazione esclusivamente quando le
classificazioni esistenti siano assistite da specifiche
aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle,
non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto».
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Secondo la moderna concezione della funzione di
pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione
del Consiglio di Stato sul caso Cortina (Cons. Stato. Sez.
IV, 10.05.2012, n. 2710), il potere conformativo del
comune non può essere condizionato dalle caratteristiche
oggettive dell’area o da precedenti determinazioni, pena la
messa in discussione della potestà generale di piano.
Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di
chiarire che l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del
potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo
che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei
suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione
della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia
dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di
tutela della salute e quindi della vita salubre degli
abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità
radicata sul territorio.
L’esercizio del potere di
pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in
definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere
ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia,
tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla
propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed
autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni
dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la
partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria
non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello
strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza
amministrativa da tempo ritenuto che "il potere di gestione
in chiave urbanistica del territorio, proprio perché
comprende tra i suoi fini anche la protezione dell'ambiente,
quale fattore condizionante le relative scelte può
legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali
che privilegino la qualità della vita, anche in parti del
territorio comprensive di beni immobili non aventi le
caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino
livelli sovraordinati di tutela".
In tale ordine di idee, è stato
ulteriormente osservato che "i limiti imposti alla proprietà
privata attraverso destinazioni d'uso che garantiscano la
salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede
giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che
garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei
criteri propri della materia urbanistica", per cui
"l'esercizio del potere di conformazione urbanistica è
compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme
complementari di protezione preordinate a curare con diversi
strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che
pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni
di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo
stesso oggetto".
Da tale innovativa impostazione discende che l’ambito di
discrezionalità del comune nel determinare le scelte che
incidono sull’assetto del territorio comunale è quindi molto
ampio sia nel quid che nel quomodo.
È oramai pacifico in giurisprudenza che, nell'ambito di tale
discrezionalità l'amministrazione comunale, qualora il
comune avvii un procedimento teso alla redazione di un nuovo
piano regolatore generale, o di una sua variante generale,
ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio
le cui destinazioni d'uso vigenti non sembrano essere più
consone alle nuove scelte. Ciò può riguardare
simmetricamente sia la retrocessione delle aree edificabili
ad aree agricole sia quello di riconoscere a queste ultime
la destinazione edificatoria.
Si tratta in questi casi dell’esplicazione della
discrezionalità amministrativa che permette ai comuni di
pianificare il territorio anche in senso restrittivo
rispetto al passato, con i limiti della razionalità e
dell’insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a
favore della proprietà.
---------------
Giusta il
consolidato principio giurisprudenziale,
la scadenza del piano di lottizzazione fa riespandere la
discrezionalità del Comune in ordine alle scelte
pianificatorie sulle aree non trasformate.
E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio
secondo il quale: “In materia urbanistica, l'inefficacia
collegata alla scadenza dei termini dei piani integrati o
comunque attuativi (e degli strumenti urbanistici che ne
condividono la natura quali, ad esempio, i piani di
lottizzazione ed i piani di zona per l'edilizia economica e
popolare) è un effetto di legge che si produce
automaticamente, con la conseguenza che la convenzione di
lottizzazione scaduta e rimasta in parte inattuata non può
vincolare i successivi strumenti urbanistici generali”.
---------------
Il Collegio evidenzia che le osservazioni
formulate dai proprietari interessati dal Piano Attuativo costituiscono un mero
apporto collaborativo alla formazione degli strumenti
urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative.
Pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata
motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e
ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione del piano regolatore generale.
D'altra parte le
scelte effettuate dall'Amministrazione pubblica,
nell'adozione degli strumenti urbanistici, costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione
data alle singole aree non necessita di apposita motivazione
oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di
ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del
piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento
alla relazione di accompagnamento al progetto di
modificazione al piano regolatore generale, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni.
---------------
L’articolato motivo di appello appena riassunto non è
fondato.
Va in primo luogo ribadito che la parte appellante non può
lamentare nell’ambito del presente giudizio danni che
casualmente derivano dal diniego di convenzionamento perché
tale questione è ormai coperta dal giudicato formatosi per
effetto della sentenza passata del Consiglio di Stato n.
7092/2021.
Le censure muovono principalmente dal fatto che il nuovo
piano ha attribuito all'area di proprietà della Im.Sa.Gi. s.r.l. una volumetria, di difficile, se non
impossibile (specie sul piano della relativa profittabilità
economica.), realizzazione.
In via preliminare va ribadito che, secondo un costante
indirizzo interpretativo, il sindacato giurisdizionale di
legittimità sugli atti di pianificazione urbanistica non può
estendersi alle valutazioni di merito, a meno che esse non
risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità,
ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di
specifiche aree, risultino confliggenti con particolari
situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative
qualificate (Consiglio di Stato sez. II, 24.06.2020, n.
4040).
In base a tale impostazione, largamente condivisa, il comune
ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare le
precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di
motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone,
purché fornisca una indicazione congrua delle diverse
esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le
soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento
siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico
stabiliti per la formazione del piano regolatore (Cons. St.,
sez. IV, 26.01.1999, n. 74).
Le scelte di ordine
urbanistico sono riservate alla discrezionalità
dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle
esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo
articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto
di programmazione territoriale avente rilevanza generale,
essa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole
scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione
nei criteri generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono,
pertanto, sorrette da ampia discrezionalità e, in tale
ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto
alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (cfr., tra
le ultime, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2023).
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale,
si è nel dettaglio chiarito che la modifica di un piano
regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che
risultano già urbanisticamente classificate, necessita di
apposita motivazione esclusivamente quando le
classificazioni esistenti siano assistite da specifiche
aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle,
non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto» (ex pluribus C. Stato, sez. V, 02.03.2009, n. 1149).
Nel caso in esame, in relazione alla pianificazione
urbanistica del comune di Sassari, con particolare
riferimento al contesto nel quale è ubicata la proprietà
della società appellante, si è negli anni registrata una
significativa evoluzione nella direzione del progressivo
riduzione del consumo di suolo.
Le scelte di pianificazione adottate dal comune tra il 1987
(vecchio PRG) e il 2014 (PUC vigente) sono del tutto
coerenti con la necessità di limitare il consumo del suolo e
preservare le aree situate al limite del tessuto urbano e
gli beni immobili a carattere monumentale. Tale modus
operandi si colloca armonicamente nel nuovo concetto di
pianificazione urbanistica così come sviluppato dalla più
recente giurisprudenza amministrativa.
Secondo la moderna concezione della funzione di
pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione
del Consiglio di Stato sul caso Cortina (Cons. Stato. Sez.
IV, 10.05.2012, n. 2710), il potere conformativo del
comune non può essere condizionato dalle caratteristiche
oggettive dell’area o da precedenti determinazioni, pena la
messa in discussione della potestà generale di piano.
Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di
chiarire che l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del
potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo
che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei
suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione
della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia
dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di
tutela della salute e quindi della vita salubre degli
abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità
radicata sul territorio. L’esercizio del potere di
pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in
definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere
ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia,
tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla
propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed
autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni
dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la
partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria
non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello
strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza
amministrativa da tempo ritenuto che "il potere di gestione
in chiave urbanistica del territorio, proprio perché
comprende tra i suoi fini anche la protezione dell'ambiente,
quale fattore condizionante le relative scelte può
legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali
che privilegino la qualità della vita, anche in parti del
territorio comprensive di beni immobili non aventi le
caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino
livelli sovraordinati di tutela" (Cons. Stato, sez. IV,
04.12.1998, n. 1734).
In tale ordine di idee, è stato
ulteriormente osservato che "i limiti imposti alla proprietà
privata attraverso destinazioni d'uso che garantiscano la
salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede
giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che
garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei
criteri propri della materia urbanistica", per cui
"l'esercizio del potere di conformazione urbanistica è
compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme
complementari di protezione preordinate a curare con diversi
strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che
pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni
di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo
stesso oggetto" (Cons. Stato, sez. IV, n. 1734 cit.; id.
06.03.1998, n. 382).
Da tale innovativa impostazione discende che l’ambito di
discrezionalità del comune nel determinare le scelte che
incidono sull’assetto del territorio comunale è quindi molto
ampio sia nel quid che nel quomodo.
È oramai pacifico in giurisprudenza che, nell'ambito di tale
discrezionalità l'amministrazione comunale, qualora il
comune avvii un procedimento teso alla redazione di un nuovo
piano regolatore generale, o di una sua variante generale,
ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio
le cui destinazioni d'uso vigenti non sembrano essere più
consone alle nuove scelte. Ciò può riguardare
simmetricamente sia la retrocessione delle aree edificabili
ad aree agricole sia quello di riconoscere a queste ultime
la destinazione edificatoria.
Si tratta in questi casi dell’esplicazione della
discrezionalità amministrativa che permette ai comuni di
pianificare il territorio anche in senso restrittivo
rispetto al passato, con i limiti della razionalità e
dell’insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a
favore della proprietà.
In coerenza con tali coordinate di fondo della funzione di
pianificazione, modernamente intesa, il comune di Sassari ha
ripianificato quelle parti del territorio le cui
destinazioni d’uso non sembravano essere più consone alle
nuove scelte dell’amministrazione. L’attività di
pianificazione, per quanto emerso nel giudizio di primo
grado, senza che si registi nessun rilievo di oggettivo
segno contrario nei motivi di appello, è stata coerentemente
e ragionevolmente preordinata ad attuare la riduzione del
consumo di suolo e ha conseguito questo risultato, avendo
predisposto una nuova strumentazione finalizzata a
raggiungere questo obiettivo.
La circostanza, valorizzata a più riprese nell’atto di
appello, per cui, nel caso in esame, sussistessero in favore
della parte appellante ragioni di affidamento, scaturenti
dalla convenzione di lottizzazione approvata, non priva
l’amministrazione della possibilità di adottare, nel
prosieguo, differenti scelte urbanistiche, a condizione che,
come avvenuto nel caso in esame, siano esplicitate le
ragioni del pubblico interesse che hanno indotto a ritenere
superato il precedente assetto urbanistico.
La nuova pianificazione, coerentemente con la significativa
evoluzione registratasi sul piano della funziona
pianificatoria prima ricordata, ha contemperato le esigenze
della parte appellante con quelle pubbliche di riduzione del
consumo di suolo, optando per una disciplina generale che
non ha previsto la conferma di indici territoriali alti.
Scelta opinabile, come correttamente rilevato nella sentenza
impugnata, ma non illegittima.
Peraltro, e in via autonomamente assorbente, nel caso di
specie, il piano di lottizzazione era stato approvato nel
1993 (con pubblicazione nel febbraio 1994), ma
all’approvazione non era seguita la stipulazione della
relativa convenzione e, pertanto, nel febbraio 2004,
trascorsi dieci anni dalla sua pubblicazione, siffatto piano
era divenuto inefficace ai sensi degli articoli 16, comma 5
e 17, della legge 1150/1942.
Del resto, come accertato dalla sentenza resa dal Consiglio
di Stato n. 7092/2021 (in particolare paragrafi 15, 15.1,
15.2, 15.3, 15.4) di rigetto della istanza risarcitoria
proposta dalla Sa.Gi. in relazione al diniego al convenzionamento ottenuto con la richiamata sentenza n.
467/2013, la società SA. in realtà non aveva mai avanzato
al comune alcuna richiesta di convenzionamento, quanto
piuttosto aveva presentato una istanza per la proroga del
Piano di lottizzazione a ridosso della scadenza.
Deve pertanto nel caso in esame trovare applicazione il
consolidato principio giurisprudenziale al metro del quale
la scadenza del piano di lottizzazione fa riespandere la
discrezionalità del Comune in ordine alle scelte
pianificatorie sulle aree non trasformate.
E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio
secondo il quale: “In materia urbanistica, l'inefficacia
collegata alla scadenza dei termini dei piani integrati o
comunque attuativi (e degli strumenti urbanistici che ne
condividono la natura quali, ad esempio, i piani di
lottizzazione ed i piani di zona per l'edilizia economica e
popolare) è un effetto di legge che si produce
automaticamente, con la conseguenza che la convenzione di
lottizzazione scaduta e rimasta in parte inattuata non può
vincolare i successivi strumenti urbanistici generali.” (cfr.,per
tutti, Consiglio di Stato, sez. IV 19/07/2021 n. 5385).
Non coglie nel segno neanche la censura che fa leva sulla
mancata adeguata considerazione delle osservazioni
presentate dalla Im.Sa.Gi..
In senso contrario il Collegio evidenzia che le osservazioni
formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero
apporto collaborativo alla formazione degli strumenti
urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative;
pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata
motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e
ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione del piano regolatore generale; d'altra parte le
scelte effettuate dall'Amministrazione pubblica,
nell'adozione degli strumenti urbanistici, costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione
data alle singole aree non necessita di apposita motivazione
oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di
ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del
piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento
alla relazione di accompagnamento al progetto di
modificazione al piano regolatore generale, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni (Consiglio di Stato
sez. IV, 08.05.2017, n. 2089) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.02.2024 n. 1028 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, per evitare la demolizione va dimostrata
l’esistenza ante 1967.
Il Consiglio di Stato ricorda che l’onere della prova spetta sempre e
necessariamente al proprietario (o al responsabile dell’abuso).
Un comune pugliese ha
annullato un permesso di costruire rilasciato nel 2016 per presa d'atto
relativo a tre abitazioni di costruzione anteriore al 1942.
A un esame più attento l'ufficio tecnico comunale ha constatato una
discordanza significativa tra le opere indicate nel permesso di costruire
del 2016 (oltre che in una precedente Scia del 2015) e la mappa catastale
del 1939. Opere che «difettavano di adeguata dimostrazione circa la
datazione».
L'interessato, nonostante le richieste del comune non è stato in grado di
fornire prove convincenti.
Il Comune ha pertanto annullato il permesso di costruire e emesso
un'ordinanza di demolizione. Entrambi gli atti sono stati impugnati al Tar
Puglia, che ha respinto il ricorso.
Il Consiglio di Stato ha confermato in pieno l'operato sia del comune, sia
del primo giudice.
I giudici della Seconda Sezione di Palazzo Spada hanno ricordato
l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza secondo il quale «è a
carico esclusivamente del privato l'onere della prova in ordine alla data
della realizzazione dell'opera edilizia al fine di poter escludere al
riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio».
«Tale onere -si legge nella
sentenza 01.02.2024 n. 1016- discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1,
c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l'onere della prova in ordine
a circostanze che rientrano nella sua disponibilità. Detto onere, prima
ancora che di carattere processuale, vale nei rapporti tra l'interessato e
l'Amministrazione, la quale in termini generali, in presenza di un manufatto
non assistito da un titolo abilitativo che lo legittimi, ha solo il potere
dovere di sanzionarlo ai sensi di legge» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.03.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’onere probatorio in materia di abusi edilizi.
----------------
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Prova della
realizzazione prima del 1967 - Onere del proprietario o del
responsabile dell’abuso – Fondamento – Principio della
vicinanza della prova.
È il proprietario (o il responsabile
dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che
deve provare il carattere risalente del manufatto,
collocandone la realizzazione in epoca anteriore alla c.d.
legge ponte n. 761 del 1967 che con l’art. 10, novellando
l’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, ha esteso l’obbligo di
previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di
fuori del perimetro del centro urbano.
Tale criterio di riparto dell’onere probatorio tra privato e
amministrazione discende dall’applicazione alla specifica
materia della repressione degli abusi edilizi del principio
di vicinanza della prova, in forza del quale spetta al
ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che
rientrano nella sua disponibilità
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 01.02.2024 n. 1016 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
6. L’appello è infondato alla stregua delle osservazioni che
seguono.
6.1. Preliminarmente deve ricordarsi che, ai sensi dell'art.
101 c.p.a., nel processo innanzi al Consiglio di Stato il
ricorrente è tenuto ad indicare in modo chiaro nell'atto di
appello le critiche che egli rivolge contro i capi della
sentenza gravata e le ragioni per le quali le conclusioni,
cui il primo Giudice è pervenuto, non sono condivisibili,
così che è inammissibile il mero richiamo delle censure
sollevate con il ricorso di primo grado o la pedissequa
riproposizione delle questioni e delle eccezioni articolate
in quel grado laddove essere non siano accompagnate dalle
necessarie puntuali critiche alla decisione del giudice.
6.2. Volgendo pertanto l’esame alle sole questioni oggetto
di specifica contestazione e argomentazione nell’atto di
appello, deve sottolinearsi che dette deduzioni non
scalfiscono le ragionevoli conclusioni raggiunte dal TAR.
Infatti tutta l’articolata ricostruzione, offerta dagli
appellanti, circa il contenuto dei plurimi interventi
edilizi realizzati sull’immobile di causa (quelli di cui
alla SCIA n. 3/2015 e ad una serie concatenata di C.I.L., nn.
64/2016, 66/2016, 78/2016 e 82/2016), ma in tutt’altra parte
dell’edificio rispetto alle tre abitazioni di causa, non
contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo
giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano
correttamente desunti e condivisibili.
7.1. Deve in primo luogo condividersi il richiamo del TAR al
consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le
tante, Cons. Stato, II, 05.02.2021, n. 1109 e 08.05.2020, n. 2906), secondo cui è a carico esclusivamente del
privato l’onere della prova in ordine alla data della
realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere
al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio;
tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1,
e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al
ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che
rientrano nella sua disponibilità.
Detto onere, prima ancora
che di carattere processuale, vale nei rapporti tra
l’interessato e l’Amministrazione, la quale in termini
generali, in presenza di un manufatto non assistito da un
titolo abilitativo che lo legittimi, ha solo il potere
dovere di sanzionarlo ai sensi di legge (si vedano, al
proposito, Cons. Stato, sez. VI, sentenze 02.07.2020, n.
4267, 07.01.2020, n. 106, 18.10.2019, n. 7072, e 06.02.2019, n. 903) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 01.02.2024 n. 1016 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ordinanza d’urgenza, il sindaco non può imporre al gestore il
prezzo del contratto scaduto. Il primo cittadino può obbligare il gestore a
proseguire il servizio mediante la proroga tecnica.
Con l'ordinanza contingibile e urgente il sindaco può obbligare il gestore a
proseguire il servizio mediante la proroga tecnica del contratto scaduto, ma
non può imporre allo stesso, per l'erogazione delle prestazioni, un
corrispettivo determinato secondo accordi contrattuali non più vigenti.
Diversamente, si consentirebbe alla Pa di sacrificare la libera iniziativa
economica privata a beneficio del proprio esclusivo interesse al risparmio
di spesa, in violazione dei principi sanciti dall'articolo 41 della
Costituzione.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la
sentenza 30.01.2024 n. 1811.
Il fatto
A seguito di una gara pubblica,
una società gestiva il servizio di igiene ambientale nel territorio di un
Comune sulla base di un contratto di durata
quadriennale con scadenza al 31.07.2023. In prossimità di tale data l'ente
locale chiedeva alla società di avvalersi della facoltà di proroga concessa
dal capitolato speciale d'appalto per un periodo di tempo comunque non
superiore a 6 mesi, occorrente per l'aggiudicazione della nuova procedura di
affidamento del servizio rifiuti.
Tuttavia la società si opponeva alla richiesta
di proseguire il servizio oltre la scadenza contrattuale sostenendo che
l'ente
non era in grado, a suo dire, di disporre alcuna proroga tecnica, non avendo
a quella data neppure avviato le
procedure di gara finalizzate all'affidamento del servizio di igiene urbana.
Al che il sindaco, ravvisando
nell'interruzione del servizio un pericolo grave e attuale per la salute
pubblica e l'igiene urbana, con ordinanza
d'urgenza del 25.07.2023 ingiungeva alla società di continuare a
provvedere per un periodo di 3 mesi a decorrere
dal 01.08.2023, secondo le precedenti condizioni economiche convenute,
ritenendo tale periodo compatibile
con l'indizione e l'espletamento di una procedura per l'individuazione del
nuovo gestore.
A questo punto la società
impugnava l'ordinanza sindacale avanti al Tar lamentando, tra i vari motivi
di ricorso, la violazione del principio
costituzionale della libertà di iniziativa economica privata, a seguito
dell'imposizione unilaterale del Comune di
proseguire il servizio alle condizioni del precedente contratto ormai giunto
a termine.
La definizione del corrispettivo
Nel vagliare la causa il Tar ha ritenuto legittimo l'impiego dello strumento
dell'ordinanza contingibile e urgente in
base al combinato disposto degli articoli 50, comma 5, del Tuel e 191 del
Dlgs 152/2006, ma ha escluso che la
situazione di necessità possa giustificare la definizione in via
autoritativa dell'importo dei canoni da corrispondere al
gestore.
A sostegno di questa decisione i giudici hanno evocato un
orientamento, risalente nel tempo ma non
superato, secondo cui il provvedimento contingibile e urgente non può
giustificare anche una sorta di prezzo
imposto dall'amministrazione al privato; all'obbligo di proseguire
nell'espletamento del servizio si ricollega
un'esigenza di giusto compenso per il destinatario del provvedimento
(Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n.
6624/2002).
In altre parole, il profilo economico del nuovo rapporto con il gestore non
può essere attratto dai presupposti di contingibilità e urgenza posti a
fondamento
dell'ordinanza. Di conseguenza il Tar ha disposto l'annullamento
dell'ordinanza impugnata nella parte in cui, per la
definizione del corrispettivo, faceva rinvio ai pregressi (e non più
efficaci) accordi contrattuali, con il conseguente
obbligo del Comune di formulare una nuova proposta economica alla società
ricorrente in ordine alla
determinazione del corrispettivo dovuto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
22.02.2024).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento dell’ordinanza contingibile ed urgente volta ad
imporre la prosecuzione della gestione del servizio di igiene urbana oltre
la scadenza contrattuale a far data dal 01.08.2023 e per mesi tre.
...
Con ricorso tempestivamente promosso, la “Tr.” s.r.l. insorgeva avverso
l’ordinanza sindacale n. 52 del 25.07.2023, in pari data ad essa notificata,
con la quale il primo cittadino del comune di Bassano Romano le ingiungeva
di continuare a provvedere, senza soluzione di continuità e per un periodo
di tempo di tre mesi decorrenti dall’01.08.2023 (periodo di tempo ritenuto
compatibile con l’indizione e l’espletamento di una procedura di gara per
l’individuazione del nuovo gestore), al servizio di raccolta dei rifiuti
urbani “(…) per come previsto dagli accordi contrattuali in precedenza
stipulati”, sussistendo, a dire del Sindaco, un pericolo grave ed
attuale per la salute pubblica e l’igiene urbana derivante dall’interruzione
del servizio.
Più in particolare, la ricorrente esponeva di gestire il servizio di
raccolta dei rifiuti solidi urbani presso il comune resistente in forza di
contratto stipulato con l’ente il 20.12.2019 ed avente una durata
quadriennale, con scadenza al 31.07.2023.
Approssimandosi il termine finale di efficacia del predetto accordo, con
nota del 06.07.2023 il responsabile dell’area 3° -servizi al territorio– del
comune resistente informava la ricorrente dell’intenzione dell’ente di
avvalersi della facoltà di proroga concessa dall’art. 3 del capitolato
speciale d’appalto per un periodo di tempo comunque non superiore a sei mesi
occorrente per l’aggiudicazione della nuova procedura di affidamento del
servizio.
A tale nota replicava la ricorrente con comunicazione dell’11.07.2023 nella
quale, rendendosi indisponibile a proseguire il rapporto contrattuale oltre
la data di scadenza, essa rilevava come, a suo giudizio, l’amministrazione
resistente non fosse neppure nelle condizioni di disporre alcuna proroga
tecnica, non avendo, a quella data, ancora neppure avviato le procedure di
gara finalizzate all’affidamento del servizio di igiene urbana.
Ancora, il 18.07.2023, la “Tr.” s.r.l. ribadiva la propria intenzione di non
prestare ossequio ad eventuali proroghe informando che, alla scadenza del
contratto, avrebbe provveduto a ritirare i mezzi e le attrezzature
utilizzate per l’espletamento del servizio.
A valle del predetto scambio di corrispondenza, però, il 25.07.2023
interveniva il provvedimento gravato, col quale il comune di Bassano Romano
–premesso che la nuova gara non risultava ancora indetta essendo stato il
bilancio di previsione dell’ente approvato solo il 03.07.2023 e che, alla
luce degli orientamenti dell’autorità di settore, non sussistessero le
condizioni per ricorrere alla proroga tecnica del contratto in essere, non
essendo stata ancora avviata la procedura di affidamento del servizio– onde
evitare un interruzione del servizio che, stante anche le elevate
temperature del periodo estivo, avrebbe determinato una situazione di
pericolo per la salute pubblica e l’ambiente, ai sensi degli artt. 50,
d.lgs. n. 267/2000 e 191, d.lgs. n. 152/2006, ordinava all’impresa
ricorrente di continuare a provvedere alla raccolta dei rifiuti urbani sul
territorio comunale per un periodo di tre mesi a decorrere dall’01.08.2023,
avvertendo che, l’inosservanza della medesima, avrebbe integrato la
fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 650 c.p.
Contro il provvedimento avversato, la società ricorrente articolava i
seguenti mezzi di censura.
...
Quanto al gravame proposto, ritiene il Collegio che esso possa trovare
accoglimento solo parzialmente.
In particolare, da disattendere è la prima censura, con cui la società
ricorrente si doleva dell’insussistenza dei presupposti per l’esercizio del
potere di ordinanza contingibile ed urgente con cui è stata imposta ad essa
la prosecuzione, senza soluzione di continuità, del servizio di raccolta dei
rifiuti urbani sul territorio comunale per un periodo di tre mesi decorrente
dall’01.08.2023, ossia dal giorno successivo alla scadenza del contratto
concluso tra le parti per una durata quadriennale a partire dall’01.08.2019.
Essa, infatti, si scontra con il consolidato orientamento pretorio –dal
quale il Collegio non ritiene di doversi discostare nel caso di specie–
secondo cui “deve ritenersi legittimo il ricorso all'istituto della
ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto del servizio
di gestione dei rifiuti, malgrado il Comune non si sia tempestivamente
attivato per la indizione della gara per l'affidamento di tale servizio, in
quanto la situazione di pericolo per la salute pubblica e l'ambiente
connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le
ordinarie misure, legittimava comunque il sindaco all'esercizio dei poteri
"extra ordinem" riconosciutigli dall'ordinamento giuridico (art. 50 D.Lgs.
18.08.2000, n. 267) e, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva
affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il
provvedimento è rivolto a rimuovere" (TAR Lecce, I, 19.02.2019, n. 275)”
(cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. II, n. 1238 del 19.07.2022; Cons. St., sez. V,
n. 962 del 02.02.2021, secondo la quale “la giurisprudenza ha da sempre
ammesso il ricorso alle ordinanze contingibili e urgenti in materia di
affidamento o di proroga degli appalti di servizi di raccolta dei rifiuti,
precisando finanche che esse "prescindono dall'imputabilità delle cause che
hanno generato la situazione di pericolo cui si tratta di ovviare", in
quanto "l'urgenza del provvedere all'eliminazione della situazione di
pericolo, prescinde dall'accertamento dell'eventuale responsabilità della
provocazione di quest'ultimo, poiché non ha natura sanzionatoria", e perciò,
"ai fini dell'adozione dell'ordinanza, non rileva chi o cosa abbia
determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è volto ad
affrontare" (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2610, che
richiama sez. IV, 25.09.2006, n. 5639 e sez. V, 09.11.1998, n. 1585)”.
In termini confermativi, infatti, si è condivisibilmente affermato che
l'esecuzione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti
solidi urbani deve, in generale, essere svolto con efficacia ed immediatezza
a tutela del bene pubblico indicato dalla legge; pertanto qualora la
necessità di provvedere si appalesi imperiosa -specie al fine di prevenire
eventuali ipotesi di emergenze sanitarie e di igiene pubblica- il Sindaco
può legittimamente ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile ed
urgente, ai sensi dell'art. 50, comma 5, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
anche se sussiste una apposita disciplina che regoli, in via ordinaria, la
materia.
L'acclarato legittimo esercizio del potere di ordinanza -in presenza dei
presupposti di cui all'art. 191 del T.U. ambiente- giustifica la deroga ad
ogni altra normativa di settore, essendo caratteristica propria delle
ordinanze ambientali di cui all' art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (così
come, in genere, di tutte le ordinanze extra ordinem contemplate
dall'ordinamento) quella di poter operare in deroga alle disposizioni
vigenti (cfr. TAR Sicilia-Catania, sez. IV, n. 2196 del 16.09.2019).
In ordine, poi, all’asserita carenza istruttoria derivante dalla mancata
allegazione dei pareri tecnici delle autorità preposte alla tutela della
salute pubblica e della pubblica incolumità, ritiene il Collegio di poter
condividere le conclusioni già raggiunte con il decreto presidenziale n.
4635 del 27.07.2023 con cui, nel denegare la richiesta di sospensione
interinale del provvedimento avversato avanzata dalla ricorrente, veniva
rilevato che “in ogni caso, appare plausibile –nell’attuale contingenza
storico-climatica connotata da picchi di calore che non registrano
precedenti– ritenere che l’interruzione del servizio verrebbe a generare,
nell’arco di strettissimo periodo di tempo, quei pericoli che l’ordinanza
avversata mira a fronteggiare ed evitare”, dovendosi considerare
conforme all’id quod plerumque accidit la conclusione secondo cui,
una volta interrotto il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, si
determini, nel volgere di brevissimo tempo, una situazione di pericolo per
la salute la cui ricorrenza non richiede certo approfondite analisi
tecnico-scientifiche che corroborino la decisione dell’organo politico di
ordinare d’imperio la prosecuzione del servizio.
In sostanza, quindi, non può trovare fondamento il primo motivo di
doglianza articolato con l’odierno ricorso.
A conclusioni diverse deve giungersi, invece, con riguardo al secondo
motivo di ricorso, con il quale veniva lamentata la sostanziale
imposizione, da parte dell’amministrazione resistente, della prosecuzione
del servizio alle medesime condizioni contrattuali precedentemente
stipulati, risolvendosi tale previsione nell’imposizione unilaterale alla
controparte privata del corrispettivo previsto per l’esecuzione delle
prestazioni dedotte in contratto, in contrasto con la libertà di iniziativa
economica privata sancita dall’art. 41 Cost.
Al riguardo, ritiene il Collegio di dover accogliere la doglianza così
prospettata.
Infatti, in forza dello strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente,
l'ente può solo imporre al privato l'erogazione delle prestazioni nonostante
la scadenza del contratto stipulato tra le parti, anche in assenza del
consenso da parte dell'impresa a prorogarne spontaneamente gli effetti, ma
non può certo imporre alla società un corrispettivo per l'espletamento di
quel servizio e tanto meno può farlo rinviando ad accordi contrattuali sulla
cui vigenza ed efficacia vi è contesa tra le parti (cfr. in termini del
tutto analoghi, TAR Calabria–Reggio Calabria, n. 437 del 02.07.2019).
Diversamente opinandosi, infatti,
si consentirebbe all'Amministrazione di
sacrificare la libera iniziativa economica privata a beneficio del proprio
esclusivo interesse di risparmio di spesa, con violazione dei principi
desumibili dall'art. 41 Cost.
Invero, la giurisprudenza amministrativa risulta consolidata nel senso che "il
provvedimento contingibile ed urgente non può giustificare anche una sorta
di prezzo imposto dall'Amministrazione al privato; all'obbligo di proseguire
nell'espletamento del servizio si ricollega un'esigenza di giusto compenso
per il destinatario del provvedimento" (Cons. St., sez. V, n. 6624 del
02.12.2002).
In una vicenda del tutto analoga, è stato osservato che la situazione di
necessità e urgenza non giustifica la definizione in via autoritativa e
definitiva dell'importo dei canoni da corrispondere al gestore, poiché "il
profilo economico del rapporto in alcun modo può essere attratto dai
presupposti di contingibilità e urgenza, posti a fondamento dell'ordinanza"
(Cons. St., sez. V, n. 1969 del 31.03.2011).
Pertanto, la domanda di annullamento del provvedimento impugnato dev’essere
accolta nei termini sopra indicati, ossia nella parte in cui stabilisce le
condizioni economiche del servizio mediante rinvio ai pregressi, e non più
efficaci, accordi contrattuali. |
URBANISTICA:
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di
politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, se non per la loro manifesta illogicità,
contraddittorietà o insussistenza dei presupposti; e ciò al
fine di evitare un indebito sconfinamento del giudice nel
c.d. merito amministrativo.
In altri termini, le scelte pianificatorie operate
dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero
arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in
relazione alle esigenze che si intendono concretamente
soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree,
non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si
può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano
stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non
risultino incoerenti con l’impostazione di fondo
dell’intervento pianificatorio o manifestamente
incompatibili con le caratteristiche oggettive del
territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le
particolari situazioni che abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza
di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza
dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione
urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di
concessione, la decadenza di un vincolo preordinato
all’espropriazione.
---------------
10. Possono, infine, esaminarsi congiuntamente le censure di
irragionevolezza e difetto di motivazione, oltre che di
lesione dell’affidamento formulate nei restanti motivi di
ricorso.
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica
urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, se non per la loro manifesta illogicità,
contraddittorietà o insussistenza dei presupposti (TAR
Basilicata, Sez. I, 21.12.2017, n. 792); e ciò al fine di
evitare un indebito sconfinamento del giudice nel c.d.
merito amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
11.10.2017, n. 4707).
In altri termini, le scelte pianificatorie operate
dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero
arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in
relazione alle esigenze che si intendono concretamente
soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree,
non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si
può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano
stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non
risultino incoerenti con l’impostazione di fondo
dell’intervento pianificatorio o manifestamente
incompatibili con le caratteristiche oggettive del
territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le
particolari situazioni che abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza
di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza
dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione
urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di
concessione, la decadenza di un vincolo preordinato
all’espropriazione (TAR Lombardia–Milano, Sez. I,
02.01.2018, n. 2; TAR Campania-Salerno, Sez. II, 21.05.2018
n. 760) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2024 n. 652 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In
tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del
territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute
nel piano regolatore, deve distinguersi
- fra le prescrizioni
che in via immediata stabiliscono le potenzialità
edificatorie della porzione di territorio interessata -nel
cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la
destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici;
la localizzazione di opere pubbliche o di interesse
collettivo-
- dalle altre regole che, più in dettaglio,
disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria,
generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione
del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul
calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di
canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e
documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva,
ecc.):
● mentre per le disposizioni appartenenti alla prima
categoria s'impone, in relazione all'immediato effetto conformativo dello jus aedificandi dei proprietari dei suoli
interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il
contenuto, un onere di immediata impugnativa, in osservanza
del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello
strumento pianificatorio,
● a diversa conclusione deve
pervenirsi, invece, con riguardo alle prescrizioni di
dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare, che
sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano
effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto
applicativo e possono essere, quindi, oggetto di censura in
occasione della sua impugnazione.
Anche il piano strutturale
può dispiegare effetti di diretta conformazione della
proprietà con riguardo a quelle disposizioni che rientrano
nel regime di salvaguardia vigente fino alla approvazione
del regolamento urbanistico.
---------------
Il carattere di piena autonomia fra gli atti di
adozione e di approvazione del P.R.G. comporta la
possibilità di un'impugnativa anche successiva dell'atto di
approvazione, a ciò non ostando la circostanza per cui, al
ricorrere di determinate condizioni, anche la delibera di
adozione risulti ex se impugnabile.
L'impugnazione
dell'adozione del Piano Regolatore, nella misura in cui sia
suscettibile di applicazione e, quindi, immediatamente
lesiva, costituisce una facoltà e non un onere, con la
conseguenza che non può in alcun modo ritenersi che la
mancata impugnazione dell'atto di adozione del P.R.G.
comporti ex se preclusione o decadenza nei confronti della
successiva proposizione di un ricorso avverso la delibera di
approvazione del Piano.
---------------
6.5- In tale ottica, peraltro, la deliberazione consiliare n.
-OMISSIS- (a prescindere dalla correttezza o meno del
richiamo alla valenza costitutiva della presa d’atto) con la
quale il consiglio comunale ha approvato di “prendere atto
dell’efficacia del PRG, del regolamento edilizio, delle
N.T.A., della localizzazione delle osservazioni e della
visualizzazione delle osservazioni accoglibili del Comune di
-OMISSIS-” non può intendersi come approvazione di un
documento diverso da quello già adottato e su cui è maturato
il silenzio-assenso.
6.5- Né a conclusioni diverse può riferirsi il riferimento
alla “localizzazione delle osservazioni”, la cui indicazione
risulta del tutto neutra e, ovviamente, inidonea ad innovare
il Piano così come cristallizzato con il silenzio-assenso
(anche perché, si ribadisce a tutto concedere, in base alla
disciplina vigente sarebbe comunque necessaria una
rielaborazione complessiva del documento, alla luce delle
osservazioni e una successiva “staffetta" presso la Regione,
che non è dato rinvenire -né avrebbe potuto, stante la
maturazione del silenzio-assenso, nel provvedimento in
questione).
6.6- In tale ottica, peraltro, ben si spiega la nota della
Regione Sicilia n. -OMISSIS- con la quale ha precisato (a
seguito di definizione di diverso contenzioso del tutto
estraneo all’odierno thema decidendum) che non si deve tener
conto delle osservazioni al Piano.
6.7- In sostanza, essendo certo (anche perché oggetto di
plurime diffide) che, al momento dell'adozione del nuovo
P.R.G. e delle relative N.T.A. con applicazione delle
relative misure di salvaguardia, la convenzione di
lottizzazione in discussione non era stata approvata, non è
dubitabile l’incompatibilità della stessa con il nuovo P.R.G.,
non valendo il regime derogatorio dell’art. 52 delle N.T.A.
6.8- Peraltro, considerata la giurisprudenza per cui “In
tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del
territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute
nel piano regolatore, deve distinguersi fra le prescrizioni
che in via immediata stabiliscono le potenzialità
edificatorie della porzione di territorio interessata -nel
cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la
destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici;
la localizzazione di opere pubbliche o di interesse
collettivo- dalle altre regole che, più in dettaglio,
disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria,
generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione
del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul
calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di
canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e
documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva,
ecc.): mentre per le disposizioni appartenenti alla prima
categoria s'impone, in relazione all'immediato effetto
conformativo dello jus aedificandi dei proprietari dei suoli
interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il
contenuto, un onere di immediata impugnativa, in osservanza
del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello
strumento pianificatorio, a diversa conclusione deve
pervenirsi, invece, con riguardo alle prescrizioni di
dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare, che
sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano
effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto
applicativo e possono essere, quindi, oggetto di censura in
occasione della sua impugnazione. Anche il piano strutturale
può dispiegare effetti di diretta conformazione della
proprietà con riguardo a quelle disposizioni che rientrano
nel regime di salvaguardia vigente fino alla approvazione
del regolamento urbanistico" (TAR Toscana, Sez. III,
20/11/2017, n. 1414) ed anche a considerare la giurisprudenza
per cui “Il carattere di piena autonomia fra gli atti di
adozione e di approvazione del P.R.G. comporta la
possibilità di un'impugnativa anche successiva dell'atto di
approvazione, a ciò non ostando la circostanza per cui, al
ricorrere di determinate condizioni, anche la delibera di
adozione risulti ex se impugnabile; l'impugnazione
dell'adozione del Piano Regolatore, nella misura in cui sia
suscettibile di applicazione e, quindi, immediatamente
lesiva, costituisce una facoltà e non un onere, con la
conseguenza che non può in alcun modo ritenersi che la
mancata impugnazione dell'atto di adozione del P.R.G.
comporti ex se preclusione o decadenza nei confronti della
successiva proposizione di un ricorso avverso la delibera di
approvazione del Piano” (TAR Lazio, Roma, Sez. II,
09.08.2022, n. 11119), parte ricorrente avrebbe dovuto
tempestivamente proporre doglianze specifiche avverso il
nuovo Piano regolatore, costituente in sé fonte della
lesione dei propri interessi.
6.9- In conclusione, non sussistono i presupposti per
ritenere accoglibile la domanda dei ricorrenti, né
sussistono ab imis i presupposti perché il Comune sia
obbligato alla stipula della convenzione di lottizzazione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 23.01.2024 n. 223 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Giurisprudenza consolidata rileva che “L'infondatezza
della domanda giudiziale di annullamento determina
l'infondatezza e la conseguente reiezione dell'azione di
condanna al risarcimento del danno (...) in quanto manca
l'illegittimità dell'azione amministrativa.
Del resto, la
domanda di risarcimento da illegittimità provvedimentale
della P.A. deve essere respinta una volta accertata la
legittimità dell'atto impugnato, perché in ragione di ciò è
escluso il requisito del danno ingiusto richiesto dall'art.
2043 c.c., per mancanza degli elementi costitutivi della
fattispecie ivi prevista, in quanto
l'attività dell'Amministrazione di adozione del
provvedimento riconosciuto legittimo non può essere
considerata ingiusta o illecita".
---------------
Affinché possa configurarsi una responsabilità
precontrattuale dell'Amministrazione è necessario non solo
che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva,
ovvero di aver maturato un affidamento incolpevole circa
l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di
compiere conseguenti attività economicamente onerose, bensì
anche che:
i) detto affidamento incolpevole risulti leso da una
condotta che —valutata nel suo complesso e a prescindere
dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti—
risulti oggettivamente contraria ai cennati doveri di buona
fede e lealtà;
ii) tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza
sia anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione in
termini di colpa o dolo;
iii) il privato provi sia il danno-evento (la lesione
della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il
danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa
delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i
relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta
scorretta che si imputa all'Amministrazione.
---------------
7- Viene quindi scrutinata domanda di risarcimento danni.
7.1- È anzitutto da rigettare la domanda risarcitoria dei
danni da atto illegittimo.
7.1.1- Giurisprudenza consolidata rileva che “L'infondatezza
della domanda giudiziale di annullamento determina
l'infondatezza e la conseguente reiezione dell'azione di
condanna al risarcimento del danno (...) in quanto manca
l'illegittimità dell'azione amministrativa. Del resto, la
domanda di risarcimento da illegittimità provvedimentale
della P.A. deve essere respinta una volta accertata la
legittimità dell'atto impugnato, perché in ragione di ciò è
escluso il requisito del danno ingiusto richiesto dall'art.
2043 c.c., per mancanza degli elementi costitutivi della
fattispecie ivi prevista, in quanto -come nella specie-
l'attività dell'Amministrazione di adozione del
provvedimento riconosciuto legittimo non può essere
considerata ingiusta o illecita" (TAR Lazio, Roma, Sez.
I, 28/12/2022, n. 17734: v. anche Cons. St., sez. V, 03.05.2019 n. 2870; TAR Toscana, 12.03.2019 n. 351).
7.1.2- Nella fattispecie, l’immunità degli atti impugnati
dalle censure prospettate comporta l’assenza dell’essenziale
presupposto per ritenere inverata una responsabilità
risarcitoria.
7.2- Parimenti è da rigettare la domanda risarcitoria (su
cui il quarto motivo di ricorso) per gli esborsi patiti dai
ricorrenti per la progettazione, ascrivibili a violazione
del dovere di agire secondo correttezza e buona fede e
lesione del legittimo affidamento.
7.2.1- Si premette sul punto che “Affinché possa
configurarsi una responsabilità precontrattuale
dell'Amministrazione è necessario non solo che il privato
dimostri la propria buona fede soggettiva, ovvero di aver
maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un
presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere
conseguenti attività economicamente onerose, bensì anche
che:
i) detto affidamento incolpevole risulti leso da una
condotta che —valutata nel suo complesso e a prescindere
dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti—
risulti oggettivamente contraria ai cennati doveri di buona
fede e lealtà;
ii) tale oggettiva violazione dei doveri di
correttezza sia anche soggettivamente imputabile
all'Amministrazione in termini di colpa o dolo;
iii) il
privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà
di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza
(le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali
illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di
causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si
imputa all'Amministrazione" (TAR Lazio, Roma, Sez. II,
23.09.2022, n. 12110).
7.2.2- Tanto chiarito, rileva il Collegio che parte
ricorrente non ha adeguatamente provato la sussistenza dei
relativi presupposti (prova certamente non ritraibile dal
mero dato temporale per cui il Comune aveva, prima,
approvato una convenzione di lottizzazione e, a distanza di
dieci giorni, adottato un Piano incompatibile con la prima),
dovendo piuttosto il ricorrente fornire una prova
complessiva di tutte le circostanze e gli accadimenti
preesistenti (anche relativi ai rispettivi iter di
approvazione del Piano di lottizzazione e di adozione del
nuovo P.R.G.), idonei a ritenere adeguatamente comprovata la
maturazione di un affidamento, poi disatteso, sul favorevole
operato dell’Amministrazione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 23.01.2024 n. 223 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di
politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, se non per la loro manifesta illogicità,
contraddittorietà o insussistenza dei presupposti; e ciò al
fine di evitare un indebito sconfinamento del giudice nel
c.d. merito amministrativo.
In altri termini, le scelte pianificatorie operate
dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero
arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in
relazione alle esigenze che si intendono concretamente
soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree,
non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si
può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano
stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non
risultino incoerenti con l’impostazione di fondo
dell’intervento pianificatorio o manifestamente
incompatibili con le caratteristiche oggettive del
territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le
particolari situazioni che abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza
di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza
dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione
urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di
concessione, la decadenza di un vincolo preordinato
all’espropriazione.
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve
sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento
alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine
al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non
potendosi invece fondare sul generico interesse ad una
migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto
tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il
quisque de populo potrebbe nutrire.
---------------
10. Possono, infine, esaminarsi congiuntamente le censure di
irragionevolezza e difetto di motivazione, oltre che di
lesione dell’affidamento formulate nei restanti motivi di
ricorso.
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica
urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, se non per la loro manifesta illogicità,
contraddittorietà o insussistenza dei presupposti (TAR
Basilicata, Sez. I, 21.12.2017, n. 792); e ciò al fine di
evitare un indebito sconfinamento del giudice nel c.d.
merito amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
11.10.2017, n. 4707).
In altri termini, le scelte pianificatorie operate
dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero
arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in
relazione alle esigenze che si intendono concretamente
soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree,
non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si
può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano
stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non
risultino incoerenti con l’impostazione di fondo
dell’intervento pianificatorio o manifestamente
incompatibili con le caratteristiche oggettive del
territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le
particolari situazioni che abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza
di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza
dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione
urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di
concessione, la decadenza di un vincolo preordinato
all’espropriazione (TAR Lombardia–Milano, Sez. I,
02.01.2018, n. 2; TAR Campania-Salerno, Sez. II, 21.05.2018
n. 760).
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve
sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento
alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine
al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non
potendosi invece fondare sul generico interesse ad una
migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto
tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il
quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 13.07.2010, n. 4546; id., 12.01.2011, n. 133; TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, 29.11.2016, n. 2250; id.,
08.10.2018, n. 2228; TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
05.03.2019, n. 461; TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, n.
731/2020) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 08.01.2024 n. 161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per consolidata giurisprudenza, le scelte di
pianificazione urbanistica:
- siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia
del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro
delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello
stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da
ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino
incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento
pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le
caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a
fronte delle osservazioni dei privati interessati,
configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non
necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che
si può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello
strumento urbanistico;
- non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel
previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni
d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla
non reformatio in peius o alla reformatio in melius di
queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro
proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più
proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di
tutela;
- anche laddove peggiorative del regime pregresso, non
richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in
comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente
pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando
giustificazione nei criteri generali di impostazione dello
strumento urbanistico.
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato
motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più
favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato
nella loro conservazione, ravvisabile, ad es.,
nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella
stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto
privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella
formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli
standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968.
---------------
3. Innanzitutto non sono accreditabili gli ordini di doglianze
rubricati retro, in narrativa, sub n. 2.a-c, incentrati
sulla denunciata illogicità delle seguenti destinazioni di
zona, contemplate dal PUC:
- Sp_PV – “Aree integrate per
parcheggi e verde attrezzato di progetto”, in relazione
all’area censita in catasto al foglio 5, particella 897
(contigua al “Palazzo Ferrajoli della Starza”);
- APs –
“Aree pubbliche per lo sport e il tempo libero di progetto”,
in relazione ai lotti censiti in catasto al foglio 5,
particelle 2168 e 2169;
- Sp_I – “Aree per attrezzature
destinate all'istruzione di progetto”, in relazione al fondo
censito in catasto al foglio 5, particella 2359.
3.1. In argomento, giova previamente rammentare che, per
consolidata giurisprudenza, le scelte di pianificazione
urbanistica:
- siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia
del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro
delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello
stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da
ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino
incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento
pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le
caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a
fronte delle osservazioni dei privati interessati,
configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non
necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che
si può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello
strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
12.05.2016, n. 1907; 20.07.2016, n. 3292; 26.07.2016, n. 3337; 24.02.2017, n. 874; 12.06.2017, n.
2822; 03.07.2017, n. 3237; 11.10.2017, n. 4707; sez.
V, 10.04.2018, n. 2164; sez. IV, 28.06.2018, n.
3986; 25.06.2019; sez. II, 07.08.2019, n. 5611; sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; sez. II,
04.09.2019, n.
6086; sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; sez. II, 06.11.2019, n. 7560;
08.01.2020, n. 153; 09.01.2020, n.
161; 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 10.03.2021, n. 2056; sez. IV, 22.03.2021, n. 2410; 10.02.2022, n. 963; 21.12.2022, n. 6656; 31.01.2023, n. 1084;
02.02.2023, n. 1171; 23.02.2023,
n. 1863; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.07.2016, n.
1429; 04.10.2016, n. 1803; 05.04.2017, n. 797; 16.11.2017, n. 2181; Brescia, sez. I, 14.10.2020, n.
703; TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243;
sez. II, 08.09.2016, n. 4191; Salerno, sez. II, 07.11.2022, n. 2952; 27.12.2022, n. 3663; TAR
Puglia, Bari, sez. II, 10.05.2016, n. 613; TAR Piemonte,
Torino, sez. II, 26.02.2016, n. 230; 15.04.2016,
n. 487; sez. I, 13.05.2016, n. 657; sez. II, 07.05.2018, n. 525; TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
01.09.2020, n. 627; 15.03.2021, n. 246; TAR Friuli Venezia
Giulia, Trieste, 04.11.2015, n. 472; 13.10.2016,
n. 431; 10.08.2021, n. 247; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 21.06.2016, n. 524; TAR Emilia Romagna, Parma, 23.11.2016, n. 332;
02.01.2017, n. 1; TAR Veneto,
Venezia, 03.01.2018, n. 13; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28);
- non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel
previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni
d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla
non reformatio in peius o alla reformatio in melius di
queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro
proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più
proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di
tutela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2016, n. 4666; 24.03.2017, n. 1326;
01.08.2018, n.
4734; 26.10.2018, n. 6094; 24.06.2019, n. 4297;
sez. II, 08.01.2020, n. 153; 20.01.2020, n. 456; 18.05.2020, n. 3163; sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 22.03.2021, n. 2410-2422; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV,
13.10.2022, n. 8731; 06.12.2022, n. 10661; 07.12.2022, n. 10731;
02.02.2023, n. 1171; TAR
Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020,
n. 703; 15.03.2021, n. 246; 06.05.2021, n. 411; 02.09.2021, n. 780; Milano, sez. II, 22.10.2021, n.
2333; Brescia, sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 10.08.2021, n. 247;
05.07.2022, n. 307; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.09.2022, n. 11465);
- anche laddove peggiorative del regime pregresso, non
richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in
comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente
pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando
giustificazione nei criteri generali di impostazione dello
strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
03.02.2020, n. 844; sez. II, 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 22.03.2021, n. 2410-2422;
05.05.2021, n. 3518; sez. IV, 02.02.2023, n. 1171; TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246;
06.05.2021, n. 411; 11.01.2022,
n. 19; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 02.02.2023, n.
329).
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato
motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più
favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato
nella loro conservazione, ravvisabile, ad es.,
nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella
stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto
privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella
formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli
standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968 (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV,
02.11.2022, n. 9481; TAR
Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020,
n. 703; 15.03.2021, n. 246; 02.09.2021, n. 780;
sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119;
TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 05.07.2022, n. 307) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.01.2024 n. 26 - link a
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URBANISTICA:
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di
politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità nel loro opinabile contenuto afferente al merito
amministrativo.
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che
eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei
proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte
urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni
tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in
tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale
su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al
riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al
sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della
condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla
sfera del merito
(…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure,
condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente
piano regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più
favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento
urbanistico o di una sua variante, con il solo limite
dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della
nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto
una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico
esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato,
piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno
adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa
qualificata alla conservazione della precedente destinazione
o da giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni
edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione o
la modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo”.
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve
sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento
alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine
al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non
potendosi invece fondare sul generico interesse ad una
migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto
tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il
quisque de populo potrebbe nutrire.
---------------
7. Passando all’esame della ulteriore serie di censure con
cui le ricorrenti si dolgono della ragionevolezza e coerenza
intrinseca delle scelte pianificatorie effettuate, va
ricordato che, per giurisprudenza pacifica, le scelte di
politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità nel loro opinabile contenuto afferente al merito
amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2017, n. 4707).
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che
eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei
proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte
urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni
tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in
tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale
su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al
riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al
sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della
condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla
sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020,
n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907)
(…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure,
condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente
piano regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più
favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento
urbanistico o di una sua variante, con il solo limite
dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della
nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto
una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico
esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato,
piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno
adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa
qualificata alla conservazione della precedente destinazione
(cfr. Cons. Stato, Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; sez. IV, 01.08.2018, n. 4734; sez. IV, 12.04.2018, n.
2204; sez. IV, 25.08.2017, n. 4063) o da giudicati di
annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su domanda di concessione (Cons. Stato,
Sez. II, 10.07.2020, n. 4467; Sez. VI, 08.06.2020, n.
3632; sez. IV, 25.06.2019, n. 4343) o la modificazione
in zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons.
Stato Sez. II, 08.05.2020, n. 2893; Sez. IV, 30.12.2016, n. 5547)” (Cons. Stato, Sez. II, 13.10.2021, n.
6883).
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve
sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento
alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine
al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non
potendosi invece fondare sul generico interesse ad una
migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto
tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il
quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 13.07.2010, n. 4546; id., 12.01.2011, n. 133;
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 29.11.2016, n.
2250; id., 08.10.2018, n. 2228; TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
05.03.2019, n. 461; TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, n. 731/2020) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 27.12.2023 n. 7279 - link a
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URBANISTICA:
Il Collegio ricorda che la differenza tra le
varianti
specifiche e quelle generali al piano regolatore si fonda su
di un criterio spaziale di delimitazione del potere di
pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime
interessano soltanto una parte del territorio comunale (e
rispondono quindi all’esigenza di fare fronte alle
sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate),
le seconde consistono in una nuova disciplina generale del
territorio, connessa alla stessa durata indeterminata dello
strumento urbanistico e alla necessità di assoggettarlo a
revisioni periodiche.
«Ai fini della legittimità di una
variante (generale o
parziale) è sufficiente, sotto il profilo della motivazione
e dell'istruttoria, l'accertata esistenza di problematiche,
anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non
arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle
condizioni di vita della cittadinanza (quali, ad esempio,
quelle relative ai parcheggi, alla viabilità, al verde
pubblico etc.), evidenziando problematiche che, medio
tempore, si siano aggravate, non essendo per contro
necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al
fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare
esigenze pubbliche».
«La variante urbanistica avente a oggetto una singola
particella o un singolo immobile non è di per sé vietata a
condizione che l'intervento modificativo sia comunque frutto
di un esame della situazione urbanistica complessiva della
zona, che dimostri la necessità dell'intervento in variante,
non potendo derogarsi al principio per cui la programmazione
urbanistica deve tendere alla cura integrale del territorio
comunale mediante previsioni che ne favoriscano una
sistemazione omogenea e ,viluppo ordinato ed armonico».
Va, inoltre, osservato che le ragioni sopravvenute, idonee a
giustificare ai sensi dell'art. 10, legge 17.08.1942, n.
1150, la modifica di un piano regolatore generale, per il
tramite di una variante, possono comprendere non solo il
verificarsi di circostanze non esistenti al momento della
redazione del piano stesso, ma anche ogni diversa
valutazione di fatti e situazioni non considerati dal piano
ovvero considerati in maniera successivamente palesatasi
imperfetta o insufficiente. Il Comune ha la facoltà,
ampiamente discrezionale, di modificare con apposite
varianti, le precedenti previsioni urbanistiche senza
obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a
specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua
delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a
condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro
soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine
tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano
regolatore.
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla
discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il
coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si
presentano in modo articolato, con la conseguenza che,
nell'adozione di un atto di programmazione territoriale
avente rilevanza generale essa, non è tenuta a dare
specifica motivazione delle singole scelte operate, in
quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri
generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono
sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la
posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che
non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale,
si è nel dettaglio chiarito che
«la variante di un piano
regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che
risultano già urbanisticamente classificate, necessita di
apposita motivazione esclusivamente quando le
classificazioni esistenti siano assistite da specifiche
aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle,
non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto».
---------------
Con un quinto mezzo di gravame Or. aveva dedotto in
primo grado il difetto di motivazione della variante
adottata con delibera di Giunta regionale n. 219/2013, in
considerazione del fatto che la stessa, pur essendo
funzionale a non consentire ulteriori edificazioni e a
ridurre drasticamente i lotti residui insediabili per
ragioni legate a evidenti carenze infrastrutturali (di opere
a rete) e a ragioni paesistiche, ambientali e/o
urbanistiche, riguardarderebbe soltanto una parte del
territorio comunale e segnatamente la zona BC5.
Il motivo non è fondato.
Il Collegio ricorda che la differenza tra le varianti
specifiche e quelle generali al piano regolatore si fonda su
di un criterio spaziale di delimitazione del potere di
pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime
interessano soltanto una parte del territorio comunale (e
rispondono quindi all’esigenza di fare fronte alle
sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate),
le seconde consistono in una nuova disciplina generale del
territorio, connessa alla stessa durata indeterminata dello
strumento urbanistico e alla necessità di assoggettarlo a
revisioni periodiche.
«Ai fini della legittimità di una
variante (generale o
parziale) è sufficiente, sotto il profilo della motivazione
e dell'istruttoria, l'accertata esistenza di problematiche,
anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non
arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle
condizioni di vita della cittadinanza (quali, ad esempio,
quelle relative ai parcheggi, alla viabilità, al verde
pubblico etc.), evidenziando problematiche che, medio
tempore, si siano aggravate, non essendo per contro
necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al
fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare
esigenze pubbliche» (Cons. St, sez. IV, 06.02.2002, n. 664).
«La variante urbanistica avente a oggetto una singola
particella o un singolo immobile non è di per sé vietata a
condizione che l'intervento modificativo sia comunque frutto
di un esame della situazione urbanistica complessiva della
zona, che dimostri la necessità dell'intervento in variante,
non potendo derogarsi al principio per cui la programmazione
urbanistica deve tendere alla cura integrale del territorio
comunale mediante previsioni che ne favoriscano una
sistemazione omogenea e ,viluppo ordinato ed armonico» (C.
Stato, sez. IV, 02.08.2011, n. 4599).
Va, inoltre, osservato che le ragioni sopravvenute, idonee a
giustificare ai sensi dell'art. 10, legge 17.08.1942, n.
1150, la modifica di un piano regolatore generale, per il
tramite di una variante, possono comprendere non solo il
verificarsi di circostanze non esistenti al momento della
redazione del piano stesso, ma anche ogni diversa
valutazione di fatti e situazioni non considerati dal piano
ovvero considerati in maniera successivamente palesatasi
imperfetta o insufficiente. Il Comune ha la facoltà,
ampiamente discrezionale, di modificare con apposite
varianti, le precedenti previsioni urbanistiche senza
obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a
specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua
delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a
condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro
soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine
tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano
regolatore (Cons. St., sez. IV, 26.01.1999, n. 74).
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla
discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il
coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si
presentano in modo articolato, con la conseguenza che,
nell'adozione di un atto di programmazione territoriale
avente rilevanza generale essa, non è tenuta a dare
specifica motivazione delle singole scelte operate, in
quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri
generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono
sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la
posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che
non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (cfr., tra
le ultime, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2023).
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale,
si è nel dettaglio chiarito che
«la variante di un piano
regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che
risultano già urbanisticamente classificate, necessita di
apposita motivazione esclusivamente quando le
classificazioni esistenti siano assistite da specifiche
aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle,
non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di
un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto» (ex pluribus C. Stato, sez. V,
02.03.2009, n. 1149).
Ciò premesso, la variante di che trattasi è stata
adeguatamente motivata, all’esito di un’istruttoria accurata
la quale è stata ulteriormente implementata nel corso del
procedimento in seguito alle richieste del CTR n. 39/2008
regionale di approfondimenti, traenti le mosse dal pericolo
per il territorio e per l’ambiente della Pineta derivante
dall’edificazione abnorme avvenuta in seguito
all’approvazione del PRG del 2001. L’esito di tale
approfondimento istruttorio sì è tradotto nella
individuazione di alcuni puntuali indici di criticità per la
classificazione dei lotti come edificabili o non
edificabili. Sono state, in particolare, individuate le
seguenti cinque categorie di criticità:
- eccessiva acclività dei terreni tale da comportare importanti
opere di sistemazione e forti movimenti di terra con
eccessiva modificazione della morfologia dei siti;
- mancanza di accessibilità dal sistema viario esistente, con
conseguente necessità di creare nuovi collegamenti;
- incompatibilità delle previsioni con le indicazioni del Piano di
Bacino in presenza di criticità o pericoli (di movimenti
franosi) sui versanti;
- presenza di piante da salvaguardare perché
espressione significativa di vegetazione autoctona;
- presenza di costruzioni (box, piscine) rivelatrici dell'attuale
uso come area pertinenziale di altri edifici.
Sulla scorta di tali indici di criticità, il Comune ha
individuato tre diverse categorie di aree: sature; non
edificabili ma dotate di indice volumetrico trasferibile ad
altri lotti edificabili; edificabili ma con possibilità di
ricevere un ulteriore quota di indice da trasferimenti di
cubatura fino al limite previsto per ciascun lotto sulla
base di un’istruttoria le cui risultanze sono state raccolte
in un’apposita scheda analitica.
Muovendo dalla predetta griglia di valutazione, il comune ha
proceduto a riclassificare i lotti della “Pineta”,
redigendo per ognuno una scheda tecnica dettagliata che ne
ha riportato: l’ubicazione; la descrizione; la compatibilità
morfologica e geomorfologica; l’inquadramento da parte della
Carta del dissesto; la presenza di edificazioni nel lotto e
nei lotti vicini; il grado di accessibilità dalla viabilità
pubblica; la documentazione fotografica.
Tale certosina
attività propedeutica è stata allegata alla delibera del
Consiglio comunale n. 69/2008 di riadozione della variante
al piano urbanistico. L’analitica attività istruttoria
passata in rassegna, letta alla luce del consolidato
formante giurisprudenziale sopra richiamato, conduce a
dichiarare l’infondatezza della censura in esame
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.09.2023 n. 8324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per consolidata giurisprudenza, le scelte di
pianificazione urbanistica:
- siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia
del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro
delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello
stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da
ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino
incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento
pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le
caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a
fronte delle osservazioni dei privati interessati,
configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non
necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che
si può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello
strumento urbanistico;
- non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel
previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni
d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla
non reformatio in peius o alla reformatio in melius di
queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro
proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più
proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di
tutela;
- anche laddove peggiorative del regime pregresso, non
richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in
comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente
pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando
giustificazione nei criteri generali di impostazione dello
strumento urbanistico.
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato
motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più
favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato
nella loro conservazione, ravvisabile, ad es.,
nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella
stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto
privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella
formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli
standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968.
---------------
La pianificazione territoriale «prescinde» «dalla titolarità
delle aree sulle quali va ad incidere e dalla loro
ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo piuttosto
alla qualità di dette aree, al contesto nel quale si
inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di
sviluppo che l’amministrazione intende perseguire.
Può dunque legittimamente accadere che un’area appartenente
a un unico proprietario o costituente un unico mappale
catastale sia in parte assoggettata a un regime urbanistico
e in parte un altro».
---------------
3. Deve, poi, escludersi la sussistenza dei vizi di illogicità
e deficit motivazionale, asseritamente infirmanti la
destinazione urbanistica riservate ad una porzione di suolo
in titolarità dello S. (cfr. retro, in narrativa, sub n.
2.b-c).
3.1. In argomento, giova rammentare che, per consolidata
giurisprudenza, le scelte di pianificazione urbanistica:
- siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia
del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro
delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello
stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da
ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al
sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino
incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento
pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le
caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a
fronte delle osservazioni dei privati interessati,
configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non
necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che
si può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello
strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
15.05.2012, n. 2759; 22.05.2012, n. 2952; 24.01.2013, n. 431; 26.02.2013, n. 1187;
06.05.2013, n.
2443; sez. VI, 16.05.2013, n. 2653; sez. IV, 04.06.2013, n. 3055; 18.11.2014, n. 5661; 27.04.2015, n.
2103; 14.05.2015, n. 2453; 01.09.2015, n. 4072;
12.05.2016, n. 1907; 20.07.2016, n. 3292; 26.07.2016, n. 3337; 24.02.2017, n. 874; 12.06.2017, n.
2822; 03.07.2017, n. 3237; 11.10.2017, n. 4707; sez.
V, 10.04.2018, n. 2164; sez. IV, 28.06.2018, n.
3986; 25.06.2019; sez. II, 07.08.2019, n. 5611; sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; sez. II,
04.09.2019, n.
6086; sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; sez. II, 06.11.2019, n. 7560;
08.01.2020, n. 153; 09.01.2020, n.
161; 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 10.03.2021, n. 2056; sez. IV, 22.03.2021, n. 2410;
02.02.2023, n. 1171; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.07.2016, n. 1429;
04.10.2016, n. 1803; 05.04.2017, n. 797; 16.11.2017, n. 2181; Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. III,
05.05.2016, n. 2243; sez. II, 08.09.2016, n. 4191;
TAR Puglia, Bari, sez. II, 10.05.2016, n. 613; TAR
Piemonte, Torino, sez. II, 26.02.2016, n. 230; 15.04.2016, n. 487; sez. I, 13.05.2016, n. 657; sez. II,
07.05.2018, n. 525; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 15.03.2021, n. 246; TAR Friuli
Venezia Giulia, Trieste, 04.11.2015, n. 472; 13.10.2016, n. 431; 10.08.2021, n. 247; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, 21.06.2016, n. 524; TAR Emilia
Romagna, Parma, 23.11.2016, n. 332; 02.01.2017, n.
1; TAR Veneto, Venezia, 03.01.2018, n. 13; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28);
- non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel
previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni
d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla
non reformatio in peius o alla reformatio in melius di
queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro
proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più
proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di
tutela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2016, n. 4666; 24.03.2017, n. 1326;
01.08.2018, n.
4734; 26.10.2018, n. 6094; 24.06.2019, n. 4297;
sez. II, 08.01.2020, n. 153; 20.01.2020, n. 456; 18.05.2020, n. 3163; sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 22.03.2021, n. 2410-2422; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV,
06.12.2022, n. 10661; 07.12.2022, n. 10731; 02.02.2023, n. 1171; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
01.09.2020, n. 627; 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n.
246; 06.05.2021, n. 411; 02.09.2021, n. 780;
Milano, sez. II, 22.10.2021, n. 2333; Brescia, sez. II,
10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119; TAR Friuli
Venezia Giulia, Trieste, 10.08.2021, n. 247; 05.07.2022, n. 307);
- anche laddove peggiorative del regime pregresso, non
richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in
comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente
pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando
giustificazione nei criteri generali di impostazione dello
strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
03.02.2020, n. 844; sez. II, 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 22.03.2021, n. 2410-2422; sez. IV,
02.02.2023, n. 1171; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246;
06.05.2021,
n. 411; 11.01.2022, n. 19).
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato
motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più
favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato
nella loro conservazione, ravvisabile, ad es.,
nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella
stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto
privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella
formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli
standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968 (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV,
02.11.2022, n. 9481; TAR
Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020,
n. 703; 15.03.2021, n. 246; 02.09.2021, n. 780;
sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119;
TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 05.07.2022, n. 307).
...
Ciò posto, il
ricorrente non può fondatamente dolersi della circostanza
che la frazione di lotto controversa sia stata estrapolata
dalla restante consistenza immobiliare in sua titolarità,
ricadente in zona B2, “Insediamento consolidato con valore
paesaggistico”, per essere classificata quale “parco” (PA).
La pianificazione territoriale «prescinde», infatti, «dalla
titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla
loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo
piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale
si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di
sviluppo che l’amministrazione intende perseguire. Può
dunque legittimamente accadere che un’area appartenente a un
unico proprietario o costituente un unico mappale catastale
sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte
un altro» (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.10.2021,
n. 2354; cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 10.03.2021,
n. 235) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.06.2023 n. 1580 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ad avviso del Collegio, a fronte di un piano
meramente adottato, oggetto delle osservazioni di tutti gli
interessati e delle altre amministrazioni pubbliche, è da
condividere la consolidata giurisprudenza amministrativa
secondo cui non può rinvenirsi un ragionevole affidamento o
aspettativa da parte del privato in merito all’adozione di
una particolare destinazione, nel caso in cui questi non
rivesta una posizione differenziata e qualificata, la quale
può sorgere solo a seguito di un piano attuativo approvato e
convenzionato ovvero di un permesso di costruire già
rilasciato oppure in esito ad un pronuncia giurisdizionale.
Invero,
“Sul piano generale, è peraltro pacifica la peculiare
rilevanza dell’interesse pubblico al mantenimento
dell’ordinato assetto del territorio e al risparmio di
suolo, e la sua idoneità a giustificare, nel bilanciamento
degli interessi, anche l’esercizio dell’autotutela.
In tale ipotesi
l’onere di motivazione risulterà attenuato in ragione della
rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati,
al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà
essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell’esercizio dello ius poenitendi”.
Peraltro, “«l'approvazione del Piano di lottizzazione non è
atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al
Piano regolatore generale, essendo l'approvazione medesima
sempre espressione di potere discrezionale dell'organo
deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle
previsioni dello strumento urbanistico generale: ciò in
quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi
sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di
formale coincidenza»”.
Nel caso di specie, il piano attuativo non era stato mai
approvato, per cui il Comune aveva conservato piena
disponibilità dei propri poteri in ambito urbanistico.
L’adozione costituiva dunque esclusivamente una prima fase
cui ha fatto seguito l’apertura agli apporti della
collettività e delle altre amministrazioni (tra cui la
Provincia, i Comitati, la Confesercenti).
Rispetto a essa,
come da giurisprudenza anche di questa sezione, “l’esistenza
di una precedente diversa previsione urbanistica non
comporta per l'Amministrazione la necessità di fornire
particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti
scelte operate, anche quando queste siano nettamente
peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative,
“dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo
all'interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie
intendono perseguire; più specificamente, la mera esistenza,
nella pianificazione previgente, di una destinazione
urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza
sufficiente a fondare in capo a quest'ultimo quell'aspettativa
qualificata la cui sussistenza imporrebbe
all'Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica
motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata
sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano”.
Il Collegio condivide quindi le conclusioni cui è pervenuta,
conformemente alla citata giurisprudenza amministrativa,
l’impugnata sentenza del TAR:
a) pur in presenza di un
provvedimento di adozione dello strumento urbanistico attuativo,
non v'è obbligo per l'amministrazione di disporne
l'approvazione, pure nell'ipotesi di conformità agli atti
pianificatori generali essendo l'approvazione medesima
sempre espressione di potere discrezionale dell'organo
deputato a valutare l'opportunità;
b) è immune da tale censura il
provvedimento avversato, sorretto da un più approfondito
scrutinio che ha condotto all'emersione di vizi del piano attuativo che non avrebbero potuto consentirne la sua
definitiva approvazione;
c) tanto meno può essere ritenuto
motivo di sviamento la circostanza che il Comune abbia
tenuto conto delle osservazioni proposte dalla Provincia, da
vari Comitati sorti in opposizione al progetto e dalla
Confesercenti, atteso che le osservazioni dei privati
svolgono pacificamente proprio tale funzione collaborativa
nei riguardi dell'amministrazione alla quale possono
segnalare incongruenze o illegittimità prima facie non
percepite dal soggetto emanante.
---------------
13.2.3. Quanto al motivo sub § 5.2.3., con cui l’appellante
censura la violazione del principio del legittimo
affidamento oltre che dell’art. 21-nonies della legge n.
241/1990 e, segnatamente, del termine ragionevole
dell’annullamento, su cui la sentenza impugnata non si
sarebbe pronunciata, la società fa perno sui contatti che
avrebbero avuto luogo con il Comune e che avrebbero
ingenerato l’affidamento circa l’esito approvativo finale.
Tuttavia, ad avviso del Collegio, a fronte di un piano
meramente adottato, oggetto delle osservazioni di tutti gli
interessati e delle altre amministrazioni pubbliche secondo
la procedura prevista dall’art. 69 della legge regionale
Toscana n. 1/2005 all’epoca vigente, è da condividere la
consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui non
può rinvenirsi un ragionevole affidamento o aspettativa da
parte del privato in merito all’adozione di una particolare
destinazione, nel caso in cui questi non rivesta una
posizione differenziata e qualificata, la quale può sorgere
solo a seguito di un piano attuativo approvato e
convenzionato ovvero di un permesso di costruire già
rilasciato oppure in esito ad un pronuncia giurisdizionale (cfr.,
ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2057 del 2022; sez.
VI, n. 5292 del 2013).
Va inoltre considerato che la delibera n. 20 del 15.03.2012 (annullamento della delibera n. 56/2007 e revoca della
delibera n. 86/2007) illustra in modo chiaro e analitico le
plurime ragioni che ne costituiscono il fondamento.
“Sul piano generale, è peraltro pacifica la peculiare
rilevanza dell’interesse pubblico al mantenimento
dell’ordinato assetto del territorio e al risparmio di
suolo, e la sua idoneità a giustificare, nel bilanciamento
degli interessi, anche l’esercizio dell’autotutela (cfr., in
termini generali, relativamente agli atti di ritiro Cons.
Stato, sez. IV, sentenze n. 6470 del 2021, n. 2945 del 2021,
n. 293 del 2017; sez. V n. 3237 del 2015).
In tale ipotesi
l’onere di motivazione risulterà attenuato in ragione della
rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati,
al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà
essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell’esercizio dello ius poenitendi
(Cons. Stato, Ad. plen., n. 8 del 17.10.2017).” (Cons.
Stato, sez. IV, n. 2057/2022).
Peraltro, “«l'approvazione del Piano di lottizzazione non è
atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al
Piano regolatore generale, essendo l'approvazione medesima
sempre espressione di potere discrezionale dell'organo
deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle
previsioni dello strumento urbanistico generale: ciò in
quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi
sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di
formale coincidenza» -Cons. Stato Sez. IV, 19.09.2012, n.
4977)” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 1479/2013).
Nel caso di specie, il piano attuativo non era stato mai
approvato, per cui il Comune aveva conservato piena
disponibilità dei propri poteri in ambito urbanistico.
L’adozione costituiva dunque esclusivamente una prima fase
cui ha fatto seguito l’apertura agli apporti della
collettività e delle altre amministrazioni (tra cui la
Provincia, i Comitati, la Confesercenti). Rispetto a essa,
come da giurisprudenza anche di questa sezione, “l’esistenza
di una precedente diversa previsione urbanistica non
comporta per l'Amministrazione la necessità di fornire
particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti
scelte operate, anche quando queste siano nettamente
peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative,
“dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo
all'interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie
intendono perseguire; più specificamente, la mera esistenza,
nella pianificazione previgente, di una destinazione
urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza
sufficiente a fondare in capo a quest'ultimo quell'aspettativa
qualificata la cui sussistenza imporrebbe
all'Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica
motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata
sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano”
(così, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016,
n. 5547)” (Cons. Stato, sez. IV, n. 135 del 2021).
Il Collegio condivide quindi le conclusioni cui è pervenuta,
conformemente alla citata giurisprudenza amministrativa,
l’impugnata sentenza del TAR:
a) pur in presenza di un
provvedimento di adozione dello strumento urbanistico attuativo, non v'è obbligo per l'amministrazione di disporne
l'approvazione, pure nell'ipotesi di conformità agli atti
pianificatori generali essendo l'approvazione medesima
sempre espressione di potere discrezionale dell'organo
deputato a valutare l'opportunità (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.09.2012, n. 4977);
b) è immune da tale censura il
provvedimento avversato, sorretto da un più approfondito
scrutinio che ha condotto all'emersione di vizi del piano attuativo che non avrebbero potuto consentirne la sua
definitiva approvazione;
c) tanto meno può essere ritenuto
motivo di sviamento la circostanza che il Comune abbia
tenuto conto delle osservazioni proposte dalla Provincia, da
vari Comitati sorti in opposizione al progetto e dalla
Confesercenti, atteso che le osservazioni dei privati
svolgono pacificamente proprio tale funzione collaborativa
nei riguardi dell'amministrazione alla quale possono
segnalare incongruenze o illegittimità prima facie non
percepite dal soggetto emanante.
Né può assegnarsi rilievo determinante alla censura relativa
alla omessa pronuncia da parte del Tar in ordine alla
violazione del termine ragionevole di cui all’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990. Infatti, la sentenza del Tar
illustra ampiamente le ragioni per cui ritiene che la
delibera di annullamento dell’adozione del piano attuativo
sia esente dalle censure sollevate.
Il fatto che il Tar non abbia ripercorso con analitica
puntualità le argomentazioni della ricorrente non implica
che la pronuncia sia stata viziata da omissione bensì che,
per quanto possibile, vi sia stato uno sforzo di sintesi, in
ossequio al principio di sinteticità degli atti di cui
all’art. 3 c.p.a.
Nel processo amministrativo, l'omessa pronuncia, da parte
del giudice di primo grado, su censure e motivi di
impugnazione costituisce tipico errore di diritto per
violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e
il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il
profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112
c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo con il
correttivo secondo il quale l'omessa pronuncia su un vizio
del provvedimento impugnato deve essere accertata con
riferimento alla motivazione della sentenza nel suo
complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché
essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui
risulti non essere stato esaminato il punto controverso e
non quando, al contrario, la decisione sul motivo
d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione
decisoria di segno contrario ed incompatibile (ex multis,
Consiglio di Stato, sez. III, 01.06.2020, n. 3422; Cons.
Stato, sez. V, n. 9800/2022).
E peraltro, “l'omessa pronuncia su una o più censure
proposte con il ricorso giurisdizionale è vizio
dell'impugnata sentenza che non ne determina ex se la
riforma, essendo il giudice di appello legittimato a
eliminare detto vizio, integrando la motivazione carente”
(Consiglio di Stato sez. V, n. 1223 del 2022).
In una prospettiva sostanzialistica, non si può dubitare del
fatto che la disposizione ex art. 21-nonies della legge n.
241/1990 miri a tutelare il privato in modo da evitare che
debba soggiacere a un tempus poenitendi sostanzialmente
illimitato. Tuttavia, nel caso di specie non sussiste un
tale rischio dal momento che, come si è visto, nessun
affidamento era maturato in capo alla -OMISSIS-, in ragione
della mancata approvazione del piano. A riprova -come ha
congruamente osservato controparte comunale- il Comune di
-OMISSIS- avrebbe comunque potuto concludere il procedimento
in questione con provvedimento espresso di diniego di
approvazione del piano attuativo, senza che il trascorrere
del tempo inficiasse sulla legittimità dell’esercizio del
potere. Di qui l’infondatezza della censura di controparte.
Né gli approfondimenti istruttori svolti dalla società con
gli uffici comunali nel corso del tempo, di cui al §
5.2.3.2., possono condurre al riconoscimento di un
affidamento giuridicamente tutelabile, mentre sfuggono alla
verifica di legittimità di questo giudice gli argomenti
metagiuridici svolti dalla società appellante circa la
volontà del Comune di dare una “spallata” al piano della
-OMISSIS-, “divenuto evidentemente scomodo”.
13.2.4. Per analoghe ragioni vanno disattese le censure con
cui la società rileva che le sue osservazioni in sede di
controdeduzioni non sarebbero state correttamente e
compiutamente esaminate dall’amministrazione. A ben vedere,
infatti, le osservazioni in questione non facevano altro che
svolgere i medesimi argomenti già ripercorsi, quali, ad
esempio, il carattere non vincolante delle previsioni della
scheda grafica e la non necessità della acquisizione delle
aree comunali.
La sentenza del Tar, oltre ad essersi pronunciata
sull’infondatezza delle osservazioni in questione, ha
correttamente rilevato che non si è fornita in questa sede
la prova che il provvedimento impugnato avrebbe potuto avere
un contenuto diverso da quello poi effettivamente adottato.
13.2.5. A quanto esposto consegue anche il rigetto dei
motivi riferiti all’annullamento della delibera del
commissario straordinario n. 86 del 07.06.2007, relativa
alla vendita alla -OMISSIS- delle aree di proprietà comunale ricomprese nel progetto di piano attuativo,
in quanto basati sull'asserita illegittimità
dell'annullamento d'ufficio della delibera commissariale n.
56/2007 senza che alcuna censura specifica fosse rivolta nei
confronti del corrispondente capo della sentenza.
L’infondatezza consegue in via derivata da quanto già
esposto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.12.2022 n. 10662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale, vanno richiamati e confermati i
consolidati principi secondo
cui:
- le scelte di pianificazione urbanistica sono
caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità;
- in occasione della formazione di uno strumento urbanistico
generale, le decisioni dell’Amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri
generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti
nell’impostazione del piano stesso.
In questo caso viene in considerazione una aspettativa
generica del privato alla non reformatio in peius delle
destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla
discrezionalità del potere pubblico di pianificazione
urbanistica, ed analoga a quella di ogni altro proprietario
di aree che aspira ad una utilizzazione più proficua del
proprio immobile.
Inoltre:
- l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti;
- una destinazione di zona precedentemente impressa non
determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una
aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo P.R.G., conseguenza di una nuova e complessiva
valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute;
- la motivazione delle scelte urbanistiche,
sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia
dai documenti di accompagnamento all'atto di pianificazione
urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte
effettuate dall'amministrazione comunale.
---------------
13.3. Analogamente sono infondati i motivi dell’appello
rivolti contro la delibera consiliare n. 19/2012 (v. sopra §
5.3.), con cui è stata approvata la Variante straordinaria
al R.U. di salvaguardia del P.S., già adottata con
deliberazione n. 2/2011, con modifiche che avrebbero privato
i terreni della -OMISSIS- delle capacità edificatorie e
delle destinazioni
residenziali/commerciali/direzionali/ricettive
precedentemente ammesse, in lesione (in tesi)
dell’affidamento dell’interessata.
In ordine alla pretesa violazione del principio del
legittimo affidamento, valgono anche in questo caso le
considerazioni già svolte circa l’insussistenza di un
legittimo affidamento giuridicamente tutelabile, ingenerato
nella società interessata dalla mera adozione del piano
attuativo e in assenza dell’approvazione del medesimo e
della relativa convenzione attuativa.
L’affidamento non può conseguire dal fatto che le previsioni
del PN5 fossero state confermate in sede di adozione della
Variante al R.U., sia per l’ampia discrezionalità di cui
gode l’amministrazione nella formazione dello strumento
urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione
di varianti generali del regolamento urbanistico sia per
l’assenza di vincoli specifici di motivazione.
In linea generale, vanno richiamati e confermati i
consolidati principi (sintetizzati nella recente sentenza
del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 7977 del 2022) secondo
cui:
- le scelte di pianificazione urbanistica sono
caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità;
- in occasione della formazione di uno strumento urbanistico
generale, le decisioni dell’Amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree non necessitano di apposita
motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri
generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti
nell’impostazione del piano stesso (cfr. Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato, 22.12.1999, n. 24, nonché, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6483; 28.06.2018, n. 3987).
In questo caso viene in considerazione una aspettativa
generica del privato alla non reformatio in peius delle
destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla
discrezionalità del potere pubblico di pianificazione
urbanistica, ed analoga a quella di ogni altro proprietario
di aree che aspira ad una utilizzazione più proficua del
proprio immobile.
Inoltre:
- l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del
territorio è funzionalmente rivolto alla realizzazione
contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che
trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente
garantiti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n.
2710);
- una destinazione di zona precedentemente impressa non
determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una
aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo
appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un
nuovo P.R.G., conseguenza di una nuova e complessiva
valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e
delle esigenze medio tempore sopravvenute (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 25.05.2016, n. 2221; 08.06.2011, n. 3497);
- la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente
espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di
accompagnamento all'atto di pianificazione urbanistica, sia
dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate
dall'amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. IV,
26.03.2014, n. 1459).
Coerentemente con tale impostazione si è espresso anche il
Tar con la sentenza impugnata. Il fatto che le previsioni
del PN5 fossero state confermate in sede di variante
adottata non produce di per sé alcun effetto di affidamento,
atteso che la stessa Variante deve essere sottoposta al
riesame del Consiglio comunale.
E d’altronde, non si vedono ragioni per discostarsi dai
rilievi della sentenza impugnata che, in adesione alle tesi
di controparte comunale, anche la variante adottata non
configurava neanche una riconferma pura e semplice, essendo
presenti (come si desume dalla scheda normativa del PN 5 -
Parco di Sant’Anna (pag. 170 delle n.t.a. della Variante al
R.U. adottata) una serie di specifiche misure di mitigazione
e compensazione volte a garantire la sostenibilità degli
interventi previsti da ritenersi vincolanti ai fini della
definitiva approvazione dello stesso piano attuativo.
Tali misure avrebbero richiesto la presentazione di un
progetto nuovo da parte della -OMISSIS- in ordine al quale
l’Amministrazione avrebbe dovuto poi svolgere le proprie
valutazioni di carattere tecnico-discrezionale circa il
completo ed esaustivo rispetto delle stesse (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.12.2022 n. 10662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla scelta del Comune di non approvare una variante
urbanistica gradita ad un operatore economico.
Giova, in proposito, richiamare i consolidati principi sulla
natura delle scelte pianificatorie e sui limiti del
sindacato giurisdizionale.
“Le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono il frutto di complesse
valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello
politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta
recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in
quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da
travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali
regole solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali
valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al
riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al
sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della
condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla
sfera del merito.
L'esercizio della discrezionalità riguarda, inoltre, non
soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione
edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto
e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo
sviluppo socio-economico.
Il potere di pianificazione, infatti, è considerato
espressione di un potere ampio e funzionalizzato di "governo
del territorio" discendente direttamente dalla indicazione
prevista dall'art. 117, comma 3, della Costituzione, che si
esplica non solo nella individuazione delle destinazioni
delle zone del territorio comunale e della disciplina della
edificazione dei suoli, ma in tutte le modalità di utilizzo
delle aree, nel quadro di rispetto e di positiva attuazione
di valori costituzionalmente tutelati. L'urbanistica, ed il
correlativo esercizio del potere di pianificazione, non
possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”.
---------------
3. Il motivo non è fondato.
Non costituisce motivo di illegittimità della delibera di
non approvazione della variante la incontestata coerenza
della proposta con il PAT. La compatibilità con il PAT
avrebbe costituito, ove fosse stata approvata, un necessario
presupposto di legittimità della variante, ma non costituiva
anche un vincolo per l’amministrazione ad approvarla. Il PAT
definisce, infatti, le scelte strategiche di sviluppo del
territorio, ma, di regola (e comunque non nel caso di
specie), non impone anche le tempistiche della loro
realizzazione, che restano rimesse alla discrezionalità
dell’organo consiliare.
Nel caso di specie, in particolare, la non approvazione è
stata conseguenza del dibattito che si è sviluppato su
un’osservazione presentata da talune sigle sindacali dei
lavoratori di Be.. La scelta finale, pertanto, ha
costituito un possibile e fisiologico sviluppo delle
valutazioni degli interessi contrapposti che attengono
all’uso del territorio il cui momento di emersione ben può
condensarsi nella fase dell’analisi delle osservazioni, che
costituiscono il principale strumento partecipativo della
collettività locale alla formazione delle scelte
pianificatorie.
Infine l’affermazione secondo cui l’osservazione si fondava
sull’errato presupposto che l’approvazione della variante
avrebbe avuto un immediato effetto conformativo non trova
riscontro nel testo della stessa, che, si esprime, nella
sostanza, in termini prospettici (“l’inserimento di una
scheda a supporto di un futuro accordo pubblico-privato
nell’area dell’azienda produttiva, compromette
immediatamente la destinazione produttiva dell’area e della
stessa Azienda, lasciando immediatamente intravvedere (ed
incoraggiando tale visione) la possibilità di un diverso
utilizzo (sfruttamento) dell’area”).
Ma ciò che più rileva è che il Comune aveva ben presente il
contenuto della variante e che le ragioni per le quali essa
non è stata approvata risiedono negli approfondimenti
successivi dallo stesso promossi sulle prospettive di
sviluppo aziendale delle ricorrenti che sarebbero rimasti –stando a quanto si legge nel verbale della discussione che
ha preceduto la votazione della delibera impugnata– privi
di sufficiente riscontro.
Nella discussione che ha preceduto la delibera di non
approvazione il Sindaco ha affermato: “Questa variante è
stata più volte esaminata sia nelle commissioni e sia nel
Consiglio Comunale precedente dove su mia proposta è stata
rinviata in attesa che la proprietà riempisse di contenuti
le osservazioni presentate ancora in fase di approvazione al
piano degli interventi. Devo dire che non ho avuto la
possibilità di raccogliere questo tipo di contenuti da parte
della ditta Be., nel senso che non ho ricevuto in
qualche modo anche abbozzata qual è la volontà dell’azienda
e quindi che ha fatto scaturire le osservazioni che poi
abbiamo approvato ancora l’anno scorso.”.
E ancora: “In
buona sostanza dal punto di vista tecnico come abbiamo già
altre volte occasione di esplicare l’osservazione proposta
sia dalla ditta Be. che dalla ditta Vi. è congruente
al piano di assetto territoriale che è il piano urbanistico sovraordinato nel nostro territorio. La visione del piano di
assetto territoriale prevedeva nel tempo una trasformazione
di quell’area, è chiaro in un tempo non ben definito essendo
uno strumento sovraordinato. Sono altre caratteristiche però
che mi hanno fatto riflettere e poi arrivare a questo parere
che in realtà dice che si può fare una cosa e si può farne
anche un’altra.
E allora però se si deve farne anche un’altra bisogna che ci
siano dei contenuti, il tempo per i contenuti c’è stato, il
tempo per la discussione c’è stato, non abbiamo ricevuto i
contenuti e non voglio assolutamente che una futura
amministrazione si trovi in difficoltà qualora gli arrivi
una proposta di accordo pubblico–privato contenente anche
un cambio di destinazione d’uso”.
La ragione della mancata approvazione della variante
risiede, quindi, nell’assenza di chiarezza sulle prospettive
che le società intendevano perseguire con essa e, di
conseguenza, nella impossibilità di valutare in modo pieno
la rispondenza al pubblico interesse della scelta
pianificatoria proposta.
L’amministrazione, in sostanza, ha accordato prevalenza -nel dubbio sui reali programmi di sviluppo industriale delle
società istanti– ad un’esigenza di chiarezza e di certezza
sulle future utilizzazioni dell’area.
Si tratta di valutazioni coerenti con la natura del potere
esercitato e rientranti nel novero delle scelte che
legittimamente il Comune poteva compiere, non palesandosi
affette da profili di macroscopica irragionevolezza.
Infatti, il sostegno e la promozione delle attività
produttive del territorio certamente costituiscono finalità
coerenti con i possibili obiettivi della pianificazione
urbanistica, ma i contenuti e le modalità con cui esse
devono inverarsi e il contemperamento delle stesse con gli
altri usi del territorio e con gli interessi pubblici e
privati contrapposti afferiscono al merito dell’attività
amministrativa, se non all’attività politica, e non sono
sindacabili, ove non palesemente illogiche.
La scelta del Comune di non approvare una variante gradita
ad un operatore economico, sia pure importante per la realtà
territoriale, le cui implicazioni, tuttavia, non apparivano
del tutto chiare, non può ritenersi viziata da illogicità.
Giova, in proposito, richiamare i consolidati principi sulla
natura delle scelte pianificatorie e sui limiti del
sindacato giurisdizionale.
“Le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono il frutto di complesse
valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello
politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta
recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in
quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da
travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali
regole solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali
valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al
riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità
apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al
sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della
condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla
sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020,
n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n.
1907).
L'esercizio della discrezionalità riguarda, inoltre, non
soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione
edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto
e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo
sviluppo socio-economico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2018 n. 4734; id. 26.10.2018, n. 6106).
Il potere di pianificazione, infatti, è considerato
espressione di un potere ampio e funzionalizzato di "governo
del territorio" discendente direttamente dalla indicazione
prevista dall'art. 117, comma 3, della Costituzione, che si
esplica non solo nella individuazione delle destinazioni
delle zone del territorio comunale e della disciplina della
edificazione dei suoli, ma in tutte le modalità di utilizzo
delle aree, nel quadro di rispetto e di positiva attuazione
di valori costituzionalmente tutelati. L'urbanistica, ed il
correlativo esercizio del potere di pianificazione, non
possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo (Cons. Stato,
sez. IV, 22.02.2017, n. 821; id. 01.06.2018, n.
3314, Sez. II, 20.12.2019, n. 8631; id. 14.11.2019, n. 7839).” (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 08.08.2022 n. 1282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Come evidenziato dalla costante giurisprudenza
della Sezione, “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non
perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle
scadenze previste non determina il venir meno degli atti
della procedura pianificatoria”.
La Sezione rileva che, della disposizione di legge regionale
sopra richiamata deve darsi necessariamente
un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a
garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e buon andamento della pubblica
amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad
assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai
principi fondamentali desumibili dalla legge statale
(articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale
stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera
di adozione del piano, fissando unicamente i termini di
efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro
di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute. In particolare, la
soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia
che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, co. 7,
della L.r. n. 12 del 2005.
Ciò consente di riferire la
sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine
di novanta giorni, previsto nella prima parte della
disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito
nella seconda parte della previsione normativa, di decidere
sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le
conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori.
---------------
3. Con il primo motivo si assume la tardività
dell’adozione della variante (rispetto al termine di 90
giorni dalla scadenza del termine ultimo per la
presentazione delle osservazioni allo strumento adottato di
cui all’art. 13, co. 7, l.r. n. 12/2005) e, per ciò stesso,
la sua illegittimità. La deliberazione n. 32/2017, al
contrario, sarebbe stata approvata dopo la scadenza del
citato termine di legge di novanta giorni.
Sul punto si osserva che, come evidenziato dalla costante
giurisprudenza della Sezione, che il Collegio condivide (cfr.,
ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 28.12.2020, n.
2613), “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non
perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle
scadenze previste non determina il venir meno degli atti
della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II,
20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015,
n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765;
11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508)”.
La Sezione rileva che, della disposizione di legge regionale
sopra richiamata deve darsi necessariamente
un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a
garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e buon andamento della pubblica
amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad
assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai
principi fondamentali desumibili dalla legge statale
(articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale
stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera
di adozione del piano, fissando unicamente i termini di
efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro
di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute. In particolare, la
soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia
che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, co. 7,
della L.r. n. 12 del 2005.
Ciò consente di riferire la
sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine
di novanta giorni, previsto nella prima parte della
disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito
nella seconda parte della previsione normativa, di decidere
sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le
conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori (cfr.:
TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
22.1.2019, n. 122; Id., 10.12.2018, n. 2761; Id., 30.3.2017,
n. 761; Id., 26.5.2016, n. 1097; cfr., da ultimo, TAR per
la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 10.2.2021, 374; Id.,
26.11.2021, n. 2622).
Le assorbenti considerazioni esposte conducono, quindi, alla
reiezione del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo
chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura
sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive
del proprio interesse.
L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica
aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di
propria spettanza, richiedendosi, invece che le
‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni
raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che
l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà”.
---------------
4. Con il secondo motivo, si lamenta che, nonostante
l’adozione di modifiche sostanziali anche al Piano delle
Regole ed al Piano dei Servizi, l’aggiornamento sarebbe
stato svolto senza alcuna verifica ambientale strategica,
dunque in violazione dell’art. 4, co. 2-bis, l.r. n. 12/2005
che prescrive espressamente che “le varianti al piano dei
servizi, di cui all’articolo 9, e al piano delle regole, di
cui all’articolo 10, sono soggette a verifica di assoggettabilità a VAS, fatte salve le fattispecie previste
per l’applicazione della VAS di cui all’articolo 6, commi 2
e 6, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (Norme in
materia ambientale)”.
Come eccepito dal Comune resistente, il motivo è
inammissibile e infondato.
4.1. Anzitutto, non è stato allegato né dimostrato dai
ricorrenti se e in quale misura le doglianze relative alla
fase di Vas incidano sul “regime” riservato ai suoli di loro
proprietà.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo
chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura
sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive
del proprio interesse. L’interesse a impugnare lo strumento
pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica
aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di
propria spettanza, richiedendosi, invece che le
‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni
raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che
l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà” (cfr.,
ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.11.2016 n.
2140).
4.2. In ogni caso, il motivo è anche infondato per assenza
di vizi illogicità o di travisamento nella decisione di
esclusione.
Il documento di piano sottoposto a Vas contemplava l’area
della ricorrente (denominata “Golfo Agricolo”); a fronte di
tale Vas sono stati necessari adeguamenti al piano dei
servizi ed a quello delle regole, per i quali però
l’amministrazione ha deciso di chiedere un parere motivato
circa l’assoggettamento a Vas anche delle citate modifiche
al PdS e al PdR (cfr. la deliberazione di Giunta n.
151/2016).
Con parere del marzo 2017 l’Autorità Competente per la Vas
ha escluso l’assoggettamento alla stessa Vas delle modifiche
ai due citati piani, in quanto gli elementi di novità non
erano tali da determinare la necessità di una nuova
procedura di verifica. Si tratta di un parere estremamente
articolato ed analitico, fra l’altro espressione di
discrezionalità tecnico-amministrativa delle Autorità
preposte alla Vas, parere nel quale non si ravvisano
evidenti errori o palesi illogicità (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo pacifico indirizzo
della giurisprudenza amministrativa, la destinazione
agricola non implica esclusivamente l’esercizio
dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di
salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo
l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto
equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive
di edificazione.
---------------
6. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono che il
Comune non avrebbe considerato, nell’assegnazione della
destinazione all’area, lo stato effettivo dei luoghi, poiché
erano state effettuate delle opere di piantumazione
preventiva durante la vigenza del previgente Pgt, che
determinerebbero la compromissione irrimediabile della
possibilità di uno sfruttamento agricolo del suolo.
Il motivo è infondato.
Sul punto, si osserva che, secondo pacifico indirizzo della
giurisprudenza amministrativa, condiviso anche dalla
scrivente Sezione, la destinazione agricola non implica
esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma
risponde anche alla necessità di salvaguardare valori
ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di
suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane
edificate ed aree libere prive di edificazione (cfr. la già
richiamata sentenza di questa Sezione n. 62/2022,
pronunciata in una causa contro lo stesso Comune di Segrate,
nonché TAR Campania, Napoli, Sez. II, 30.05.2018, n. 3563;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 11.06.2013, n. 1502).
Ne consegue che l’avvenuta piantumazione non preclude
l’assegnazione di una destinazione prevalentemente agricola
al comparto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale, va ricordato che “la
pianificazione urbanistica implica valutazioni di
opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli
interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si
dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o
irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata
dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina
dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo
complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti
obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti,
devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee
programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale rappresentino
scelte di merito, che non possono essere sindacate dal
giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare”.
---------------
Con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area il Consiglio di Stato ha
ribadito
- che “le scelte
urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte
al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che
risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità,
violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la
destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con
particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e
aspettative qualificate” e
- che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica
attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria
di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti
per l'amministrazione in ordine ad una diversa
‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento
qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
Sicché, le valutazioni di merito compiute
dall’amministrazione nell’imprimere una diversa destinazione
all’area, non sono quindi sindacabili in sede
giurisdizionale, se non nei limiti dell’abnormità e
dell’irragionevolezza.
---------------
8. Con il sesto motivo, si deduce che il Comune non
avrebbe valutato in alcun modo la sostenibilità economica
delle politiche di intervento e delle scelte pianificatorie
concretamente approvate: le previsioni relative
all’attuazione del parco agricolo sarebbero generiche e non
darebbero conto delle modalità di finanziamento e attuazione
dei servizi in progetto.
Come dedotto dalla difesa comunale, il motivo è
inammissibile per la parte in cui è volto a censurare nel
merito le valutazioni operate dall’amministrazione comunale,
senza dedurre illogicità o irragionevolezza delle scelte
effettuate, unico ambito di sindacabilità delle scelte
discrezionali del Comune.
In linea generale, va ricordato che “la pianificazione
urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta
di valutazioni comparative degli interessi pubblici in
gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale
potere non è limitato solo alla disciplina coordinata
dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina
dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo
complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi
pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli
scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis,
Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della
Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute
dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale
rappresentino scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id.,
29.05.2020, n. 960; id., 09.12.2016, n. 2328; id.
03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id.,
21.01.2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id.,
16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id.,
05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area –nemmeno avvenuta nel
caso di specie, posto che la previsione precedente è stata
annullata in via giurisdizionale-, il Consiglio di Stato, in
seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato
conto, ha ribadito, con la pronuncia della Sezione IV,
09.05.2018, n. 2780, che “le
scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito
sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo
che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi
illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto
riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino
confliggenti con particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative qualificate”
e che “la semplice reformatio in peius della disciplina
urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine
edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni
vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa
‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento
qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex
plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001,
n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Come già osservato, le valutazioni di merito compiute
dall’amministrazione nell’imprimere una diversa destinazione
all’area, non sono quindi sindacabili in sede
giurisdizionale, se non nei limiti dell’abnormità e
dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sul rapporto della pianificazione comunale con il PTCP.
Il sistema della pianificazione
territoriale urbanistica successivo alla riforma
costituzionale del 2001, caratterizzato dalle leggi
regionali c.d. di "seconda generazione" si presenta in
maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge
urbanistica del 1942. Esso risponde, cioè, ad una visione
meno "gerarchica" e più armonica, che vede nella leale
collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici
principi ispiratori delle scelte.
La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello
regionale sia provinciale, si connota pertanto per una
natura "mista" relativamente a contenuti -prescrittivi, di
indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la
flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati.
La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più
nel solo tradizionale piano regolatore generale, ma presenta
un'articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti
tra il profilo strutturale e quello operativo, e si connota
per l'intersecarsi di disposizioni volte ad una
programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo
socio-economico dell'intero contesto.
L'atto rimesso alla competenza dell'Ente sovraordinato
(tipicamente, la Provincia), in quanto rivolto ad un ambito
territoriale più ampio, non può che essere destinato ad
indirizzare per linee generali le scelte degli enti
territoriali, nel pieno rispetto dell'allocazione delle
stesse, secondo il richiamato principio di sussidiarietà, al
livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce,
rispondendo all'obiettivo di valorizzare le peculiarità
storiche, economiche e culturali locali e insieme assicurare
il principio di adeguatezza ed efficacia dell'azione
amministrativa.
Nell’impostazione articolata e flessibile del sistema della
pianificazione territoriale, cioè, tipicamente strutturata
su vari livelli, esso si colloca "a monte", quale
inquadramento degli elementi strutturali, delle reti e delle
strategie, dalle quali è evidente che il Comune non può
prescindere.
---------------
5. Sul rapporto con il PTCP, il Consiglio di Stato, sez. II
– 15/10/2020 n. 6263 ha evidenziato che <<Il sistema
della pianificazione territoriale urbanistica successivo
alla riforma costituzionale del 2001, caratterizzato dalle
leggi regionali c.d. di "seconda generazione" si presenta in
maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge
urbanistica del 1942. Esso risponde, cioè, ad una visione
meno "gerarchica" e più armonica, che vede nella leale
collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici
principi ispiratori delle scelte.
La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello
regionale sia provinciale, si connota pertanto per una
natura "mista" relativamente a contenuti -prescrittivi, di
indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la
flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati.
La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più
nel solo tradizionale piano regolatore generale, ma presenta
un'articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti
tra il profilo strutturale e quello operativo, e si connota
per l'intersecarsi di disposizioni volte ad una
programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo
socio-economico dell'intero contesto.
L'atto rimesso alla competenza dell'Ente sovraordinato
(tipicamente, la Provincia), in quanto rivolto ad un ambito
territoriale più ampio, non può che essere destinato ad
indirizzare per linee generali le scelte degli enti
territoriali, nel pieno rispetto dell'allocazione delle
stesse, secondo il richiamato principio di sussidiarietà, al
livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce,
rispondendo all'obiettivo di valorizzare le peculiarità
storiche, economiche e culturali locali e insieme assicurare
il principio di adeguatezza ed efficacia dell'azione
amministrativa.
Nell’impostazione articolata e flessibile del sistema della
pianificazione territoriale, cioè, tipicamente strutturata
su vari livelli, esso si colloca "a monte", quale
inquadramento degli elementi strutturali, delle reti e delle
strategie, dalle quali è evidente che il Comune non può
prescindere>> (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 09.03.2022 n. 248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo i consolidati principi giurisprudenziali in tema di
pianificazione urbanistica:
“- le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di
merito sottratte al sindacato giurisdizionale di
legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di
fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero
che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree,
risultino confliggenti con particolari situazioni che
abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate;
- il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale
solo all'interesse all'ordinato sviluppo edilizio del
territorio in considerazione delle diverse tipologie di
edificazione distinte per finalità e zone (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma è rivolto anche alla realizzazione
contemperata di una pluralità di differenti interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti;
- l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in
sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi
in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte
ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e
risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e
dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza
necessità di una motivazione puntuale e "mirata"; (…)
- la semplice reformatio in peius della disciplina
urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine
edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni
vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa
"zonizzazione" dell'area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento
qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo".
Ulteriormente va ribadito che la destinazione impressa dal
previgente strumento urbanistico a una determinata area non
costituisce, di per sé, un vincolo alla successiva
pianificazione, atteso che "l'Amministrazione gode di
un'ampia discrezionalità nell'effettuazione delle proprie
scelte, che relega l'interesse dei privati alla conferma (o
al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse
di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
---------------
In punto di motivazione va evidenziato, inoltre, che il
ricorrente non è titolare di un’aspettativa qualificata ad
evitare un’eventuale reformatio in peius della
classificazione dell’area di proprietà, sicché, anche sotto
tale profilo, il Comune non era gravato da un onere di
motivazione puntuale delle scelte urbanistiche.
Secondo i consolidati principi giurisprudenziali in tema di
pianificazione urbanistica, recentemente richiamati anche da
questo giudice, infatti:
“- le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di
merito sottratte al sindacato giurisdizionale di
legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di
fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero
che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree,
risultino confliggenti con particolari situazioni che
abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589;
sez. IV, 16.04.2014, n. 1871);
- il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale
solo all'interesse all'ordinato sviluppo edilizio del
territorio in considerazione delle diverse tipologie di
edificazione distinte per finalità e zone (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma è rivolto anche alla realizzazione
contemperata di una pluralità di differenti interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2017, n. 821);
- l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in
sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi
in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte
ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e
risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e
dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza
necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons.
Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5478); (…)
- la semplice reformatio in peius della disciplina
urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine
edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni
vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa
"zonizzazione" dell'area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento
qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. ex
plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)." (Cons. Stato,
sez. IV, 09.05.2018, n. 2780).
Ulteriormente va ribadito che la destinazione impressa dal
previgente strumento urbanistico a una determinata area non
costituisce, di per sé, un vincolo alla successiva
pianificazione, atteso che "l'Amministrazione gode di
un'ampia discrezionalità nell'effettuazione delle proprie
scelte, che relega l'interesse dei privati alla conferma (o
al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse
di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale
(Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR
Lombardia, Milano, II, 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393)." (TAR Lombardia, Milano, sez. II,
07.07.2020, n. 1291).” (TAR Lombardia, Brescia Sez. I, 05.05.2021, n. 407) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.05.2021 n. 484 - link a
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URBANISTICA: Rapporto
tra PTCP e PGT.
Va evidenziato come
l’art. 2, co.
3, della L.r. n. 12 del 2005 si limiti a
disporre che “i piani si uniformano al
criterio della sostenibilità, intesa come la
garanzia di uguale possibilità di crescita
del benessere dei cittadini e di
salvaguardia dei diritti delle future
generazioni”.
La norma si ispira al
principio dello sviluppo sostenibile, e non
impone certo di prevedere sempre, nei piani,
la possibilità di incrementare le
sfruttamento edilizio del territorio. Anzi,
a ben guardare, essa dice proprio l’opposto,
e cioè che occorre evitare nuovo
sfruttamento qualora questo sia
pregiudizievole per i diritti delle future
generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei
cittadini non deve per forza conseguirsi
attraverso il consumo di nuovo suolo, ben
potendo esservi esigenze attuali che
consiglino invece di dare prevalenza
all’interesse alla preservazione
dell’ambiente e del paesaggio.
---------------
In base all’art. 2, co. 4, della l.r. n. 12/2005, il Piano
Territoriale Regionale ed i Piani
Territoriali di Coordinamento Provinciale
hanno efficacia di orientamento, indirizzo e
coordinamento, fatte salve le previsioni
che, ai sensi della stessa legge, abbiano
efficacia prevalente e vincolante.
Il
modello delineato dalla legge regionale
prevede che i piani collocati al livello
superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri ma dettano una
disciplina di orientamento, indirizzo e
coordinamento, che non può essere stravolta
ma, in particolari casi, derogata dalla
disciplina puntuale dettata dallo strumento
di pianificazione contenente disposizioni di
maggior dettaglio.
Ciò naturalmente non può
azzerare il potere pianificatorio dei
Comuni, la cui partecipazione deve essere,
quindi, assicurata e non può essere
puramente nominale, essendo precluso a
Regioni e Province trasformare i poteri
comunali in ordine all’uso del territorio in
funzioni meramente consultive prive di reale
incidenza o in funzioni di proposta o ancora
in semplici attività esecutive.
...
Nel caso di specie, la Provincia di
Monza e della Brianza non comprime,
tuttavia, in modo arbitrario il potere di
pianificazione urbanistica spettante ai
Comuni.
Come già evidenziato da questa
Sezione in plurime occasioni, le previsioni riguardanti la Rete
verde di ricomposizione paesaggistica,
contrariamente a quanto sostenuto dalla
parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono
certamente riconducibili al novero delle
“previsioni in materia di tutela dei beni
ambientali e paesaggistici in attuazione
dell’articolo 77”, di cui alla lett. a)
dell’art. 18, co. 2, della legge regionale
n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede
la conformazione di tutti gli strumenti di
pianificazione urbanistica agli “obiettivi”
e alle “misure generali” di tutela
paesaggistica, con facoltà di introdurre
“previsioni conformative di maggiore
definizione che, alla luce delle
caratteristiche specifiche del territorio,
risultino utili ad assicurare l’ottimale
salvaguardia dei valori paesaggistici
individuati dal PTR”.
La disposizione
normativa non contiene, invero, alcun
riferimento ad aree o a specifici beni di
rilevanza paesaggistica, ma solo a
“obiettivi”, “misure generali” e “valori
paesaggistici” indicati dal P.T.R..
Deve quindi ritenersi che, nel
perseguimento degli obiettivi di tutela
stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei
valori paesaggistici ivi indicati, ben possa
il P.T.C.P. introdurre ulteriori
disposizioni destinate a prevalere
immediatamente sugli strumenti comunali,
riferite anche ad aree e a beni che non
siano stati direttamente e specificamente
individuati dal P.T.R. D’altra parte, il
riconoscimento della possibilità per il
P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni
appare del tutto rispondente alle finalità
stesse dello strumento di pianificazione
provinciale, cui l’art. 15 della l.r. n. 12
del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in
tema di conservazione dei valori ambientali
e paesaggistici.
...
L’individuazione degli ambiti
destinati a far parte della Rete verde
costituisce oltretutto scelta che involge
interessi di carattere sovracomunale,
ambientali e paesaggistici, la cui tutela è
stata affidata dalla legge regionale n. 12
del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118, comma
primo, della Costituzione– alla Regione e
alle Province.
Questi interessi sono dunque
presi in considerazione dagli strumenti di
pianificazione territoriale approvati da
tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si
sovrappongono agli interessi di carattere
urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni.
Va poi osservato che, come ogni altra
scelta pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità di
cui l’Amministrazione dispone in materia e
dalla quale discende la loro sindacabilità
solo nei ristretti limiti costituiti dalla
manifesta illogicità ed evidente
travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono
evidenziati macroscopici profili di
illogicità nelle scelte operate dalla
Provincia, non apparendo, al contrario,
illogica la decisione di porre rimedio
all’eccessivo consumo di suolo ormai posto
in essere in una parte del territorio
provinciale anche in relazione alla finalità
di tutela ambientale e paesaggistica.
---------------
10. Con il primo motivo la ricorrente assume
che, nella predisposizione del P.T.C.P. di
Monza e della Brianza, non siano tenuti in
debita considerazione i principi generali di
sussidiarietà, adeguatezza, partecipazione,
collaborazione, efficienza e sostenibilità
poiché i riferimenti statistici da cui
sarebbero ricavate le varie prescrizioni
vincolanti sarebbero contenuti in studi non
aggiornati –riguardando un periodo che va
dal 2001 al 2009– e quindi non congruenti
con gli atti pianificatori comunali
successivamente approvati.
10.1. La doglianza è infondata.
10.2. Pur essendo veritiera la circostanza
che i riferimenti statistici contenuti in
una parte della relazione accompagnatoria
del P.T.C.P. –utilizzati dalla Provincia
per verificare quale potrebbe essere, nel
periodo di vigenza del Piano, la domanda di
nuove abitazioni– sono ricavati analizzando
il periodo ricompreso fra gli anni 2001 e
2009, nondimeno ciò non può far desumere in
maniera automatica che il Piano sia stato
elaborato, nel suo complesso, sulla base di
dati obsoleti.
10.3. Difatti, va evidenziato come il Piano,
approvato nel 2013 e adottato nell’anno
2011, richieda l’avvio di un iter
procedimentale di molto anteriore al periodo
di approvazione, in modo da consentire agli
uffici di elaborare le scelte conseguenti.
Oltretutto, ciò non esclude che la Provincia
tenga conto, nel corso del procedimento,
degli sviluppi successivi basando le
decisioni su dati per quanto possibile
aggiornati (così, sulla specifica questione,
TAR per la Lombardia – sede di Milano, II,
23.09.2016, n. 1700; Id, 19.6. 2015, n.
1432).
10.4. Anche con riguardo all’asserita
violazione del criterio della sostenibilità
che impedirebbe lo sviluppo dell’edificato
esistente, va evidenziato come l’art. 2, co.
3, della L.r. n. 12 del 2005 si limiti a
disporre che “i piani si uniformano al
criterio della sostenibilità, intesa come la
garanzia di uguale possibilità di crescita
del benessere dei cittadini e di
salvaguardia dei diritti delle future
generazioni”.
La norma si ispira al
principio dello sviluppo sostenibile, e non
impone certo di prevedere sempre, nei piani,
la possibilità di incrementare le
sfruttamento edilizio del territorio. Anzi,
a ben guardare, essa dice proprio l’opposto,
e cioè che occorre evitare nuovo
sfruttamento qualora questo sia
pregiudizievole per i diritti delle future
generazioni.
Del resto, l’incremento del
benessere dei cittadini non deve per forza
conseguirsi attraverso il consumo di nuovo
suolo, ben potendo esservi esigenze attuali
che consiglino invece di dare prevalenza
all’interesse alla preservazione
dell’ambiente e del paesaggio (TAR
Lombardia, Milano, II, 23.09.2016, n.
1700; 19.06.2015, n. 1432; 10.09.2014, n. 2343).
11. Con la
seconda doglianza e parte della
terza, da trattare congiuntamente in quanto
strettamente connesse, si deduce che la
Provincia detterebbe una disciplina
eccessivamente invasiva, così da comprimere
illegittimamente le prerogative comunali, in
violazione degli artt. 15, 17 e 18 della
legge regionale n. 12 del 2005.
11.1. Le doglianze sono infondate.
11.2. In base all’art. 2, co. 4, della legge
regionale n. 12 del 2005, il Piano
Territoriale Regionale ed i Piani
Territoriali di Coordinamento Provinciale
hanno efficacia di orientamento, indirizzo e
coordinamento, fatte salve le previsioni
che, ai sensi della stessa legge, abbiano
efficacia prevalente e vincolante.
Il
modello delineato dalla legge regionale
prevede che i piani collocati al livello
superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri ma dettano una
disciplina di orientamento, indirizzo e
coordinamento, che non può essere stravolta
ma, in particolari casi, derogata dalla
disciplina puntuale dettata dallo strumento
di pianificazione contenente disposizioni di
maggior dettaglio.
Ciò naturalmente non può
azzerare il potere pianificatorio dei
Comuni, la cui partecipazione deve essere,
quindi, assicurata e non può essere
puramente nominale, essendo precluso a
Regioni e Province trasformare i poteri
comunali in ordine all’uso del territorio in
funzioni meramente consultive prive di reale
incidenza o in funzioni di proposta o ancora
in semplici attività esecutive.
11.3. Nel caso di specie, la Provincia di
Monza e della Brianza non comprime,
tuttavia, in modo arbitrario il potere di
pianificazione urbanistica spettante ai
Comuni.
Come già evidenziato da questa
Sezione in plurime occasioni (sentenze 23.07.2020, n. 1433; 16.03.2020, n. 489;
30.06.2017, n. 1474; 15.12.2017,
n. 2394), le previsioni riguardanti la Rete
verde di ricomposizione paesaggistica,
contrariamente a quanto sostenuto dalla
parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono
certamente riconducibili al novero delle
“previsioni in materia di tutela dei beni
ambientali e paesaggistici in attuazione
dell’articolo 77”, di cui alla lett. a)
dell’art. 18, co. 2, della legge regionale
n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede
la conformazione di tutti gli strumenti di
pianificazione urbanistica agli “obiettivi”
e alle “misure generali” di tutela
paesaggistica, con facoltà di introdurre
“previsioni conformative di maggiore
definizione che, alla luce delle
caratteristiche specifiche del territorio,
risultino utili ad assicurare l’ottimale
salvaguardia dei valori paesaggistici
individuati dal PTR”.
La disposizione
normativa non contiene, invero, alcun
riferimento ad aree o a specifici beni di
rilevanza paesaggistica, ma solo a
“obiettivi”, “misure generali” e “valori
paesaggistici” indicati dal P.T.R. (cfr. sul
punto in maniera specifica, TAR per la
Lombardia - sede di Milano, Sez. II,
30.6.2017, n. 1474).
11.4 Deve quindi ritenersi che, nel
perseguimento degli obiettivi di tutela
stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei
valori paesaggistici ivi indicati, ben possa
il P.T.C.P. introdurre ulteriori
disposizioni destinate a prevalere
immediatamente sugli strumenti comunali,
riferite anche ad aree e a beni che non
siano stati direttamente e specificamente
individuati dal P.T.R. D’altra parte, il
riconoscimento della possibilità per il
P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni
appare del tutto rispondente alle finalità
stesse dello strumento di pianificazione
provinciale, cui l’articolo 15 della legge
regionale n. 12 del 2005 attribuisce un
ruolo di rilievo in tema di conservazione
dei valori ambientali e paesaggistici (cfr.:
TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
08.10.2014, n. 2423).
11.5. L’individuazione degli ambiti
destinati a far parte della Rete verde
costituisce oltretutto scelta che involge
interessi di carattere sovracomunale,
ambientali e paesaggistici, la cui tutela è
stata affidata dalla legge regionale n. 12
del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118, comma
primo, della Costituzione– alla Regione e
alle Province.
Questi interessi sono dunque
presi in considerazione dagli strumenti di
pianificazione territoriale approvati da
tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si
sovrappongono agli interessi di carattere
urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, Sez.
IV, 15.01.2020, n. 379; TAR per la
Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
23.07.2020, n. 1433; Id., 30.06.2017, n. 1474; Id.,
05.04.2017, n. 798).
11.6. Va poi osservato che, come ogni altra
scelta pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità di
cui l’Amministrazione dispone in materia e
dalla quale discende la loro sindacabilità
solo nei ristretti limiti costituiti dalla
manifesta illogicità ed evidente
travisamento dei fatti (ex plurimis,
Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n.
6686); e che, nel caso di specie, non sono
evidenziati macroscopici profili di
illogicità nelle scelte operate dalla
Provincia, non apparendo, al contrario,
illogica la decisione di porre rimedio
all’eccessivo consumo di suolo ormai posto
in essere in una parte del territorio
provinciale anche in relazione alla finalità
di tutela ambientale e paesaggistica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.04.2021 n. 877 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo
un consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’onere di motivazione
gravante sull’Amministrazione in sede di
adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali,
è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei criteri
principali che sorreggono le scelte
effettuate, potendo la
motivazione desumersi anche dai documenti di
accompagnamento all’atto di pianificazione
urbanistica e, più in generale, dagli atti
del procedimento.
Oltretutto l’individuazione degli ambiti da ricomprendere
nella rete verde e nei correlati corridoi
non è vincolata dai contenuti degli
strumenti urbanistici comunali, ma ad essi
si sovrappone e rappresenta una valutazione
di merito affidata alla Provincia.
---------------
In materia urbanistica non opera il
principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma (o al miglioramento)
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale.
Si deve poi
rilevare come le contestazioni formulate
dalla ricorrente attengano al merito delle
scelte dell’Amministrazione, palesando un
differente punto di vista rispetto a quest’ultima,
assolutamente soggettivo, che non può
trovare ingresso in questa sede.
---------------
12. Con la
quinta censura si assume che
attraverso l’art. 32 delle N.T.A. del
P.T.C.P. siano disciplinate tutte le aree
ricomprese nel corridoio trasversale della
rete verde, in cui sarebbe incluso anche il
tracciato dell’Autostrada Pedemontana,
provocando in tal modo una frattura del
territorio comunale avente una ampiezza di
circa due km che imporrebbe, senza alcun
coinvolgimento dei Comuni interessati, la
delocalizzazione delle attività ivi
esistenti.
12.1. La doglianza è infondata.
12.2. Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
l’onere di motivazione gravante
sull’Amministrazione in sede di adozione di
strumenti urbanistici, anche sovracomunali,
è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei criteri
principali che sorreggono le scelte
effettuate (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.01.2020, n. 379), potendo la
motivazione desumersi anche dai documenti di
accompagnamento all’atto di pianificazione
urbanistica e, più in generale, dagli atti
del procedimento (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. IV, 28.06.2018, n. 3987);
oltretutto l’individuazione degli ambiti da ricomprendere nella rete verde e nei
correlati corridoi non è vincolata dai
contenuti degli strumenti urbanistici
comunali, ma ad essi si sovrappone e
rappresenta una valutazione di merito
affidata alla Provincia (cfr., sugli Ambiti
agricoli strategici, Consiglio di Stato,
Sez. IV, 19.11.2018, nn. 6483 e 6484).
12.3. Va poi osservato che, come ogni altra
scelta pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità di
cui l’Amministrazione dispone in materia e
dalla quale discende la loro sindacabilità
solo nei ristretti limiti costituiti dalla
manifesta illogicità ed evidente
travisamento dei fatti; e che, nel caso di
specie, non sono stati evidenziati
macroscopici profili di illogicità nelle
scelte operate dalla Provincia (v. supra,
punto 11.6).
Del resto, nella Relazione di
Piano si sottolinea come il P.T.C.P. abbia
l’obiettivo di rilanciare i processi di
sviluppo a partire da un utilizzo più
razionale, ordinato e consapevole delle
risorse territoriali disponibili, anche
attraverso una razionalizzazione degli
insediamenti produttivi.
A questo fine “il PTCP propone di verificare le condizioni di
compatibilità di un insediamento produttivo
secondo tre parametri: compatibilità
urbanistica, (riguarda i rapporti tra
l’insediamento produttivo e i tessuti urbani
e residenziali circostanti), compatibilità
logistica (presuppone la possibilità, per
quelle attività produttive che generano
flussi significativi di traffico pesante e/o
flussi di traffico leggero ad ampio raggio,
di accedere alla rete stradale primaria e
alle piattaforme logistiche intermodali
senza attraversare centri abitati e zone
residenziali) e compatibilità ambientale-paesaggistica (collocazione
dell’insediamento produttivo nei confronti
di zone di pregio ambientale o
paesaggistico)”.
Quindi “la rete verde
provinciale di ricomposizione paesaggistica,
rappresentata nella Tavola 6a, identifica un
sistema integrato di spazi aperti di varia
natura e qualificazione, ambiti boschivi e
alberati. In quanto tale essa assume un
valore strategico nell’insieme delle
proposte del PTCP proponendosi di
riqualificare i paesaggi rurali, urbani e
periurbani, di valorizzare le loro
componenti ecologiche, naturali e
storico-culturali, di contenere il consumo
di suolo e la sua eccessiva
impermeabilizzazione, di promuovere la
fruizione del paesaggio” (sul punto
specifico, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, Sez. II, 23.07.2020, n. 1433).
Inoltre, “l’obiettivo di ricucire un varco
‘verde’ di protezione paesaggistica ed
ecologica assume dunque qui particolare
importanza, non solo come elemento di
conservazione ma anche di possibile stimolo
a un recupero di aree urbane di frangia,
degradate o malamente utilizzate. Si è
pertanto identificato un ‘corridoio trasversale’ che risponde ai requisiti della
Rete Ecologica Provinciale e, di
conseguenza, Regionale avente come estremi
il Parco delle Groane e il Parco dell’Adda
Nord” (Relazione di Piano, pag. 114).
12.4. In ordine, poi, al deteriore
trattamento rispetto al Piano adottato, nel
caso di specie pare applicabile, a fortiori,
l’orientamento della costante giurisprudenza
secondo la quale, in materia urbanistica,
non opera il principio del divieto di
reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma (o al miglioramento)
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV,
24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia,
Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n.
309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n.
566; 15.12.2017, n. 2393).
Si deve poi
rilevare come le contestazioni formulate
dalla ricorrente attengano al merito delle
scelte dell’Amministrazione, palesando un
differente punto di vista rispetto a quest’ultima,
assolutamente soggettivo, che non può
trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n. 1291;
10.12.2019, n. 2636; 20.08.2019, n. 1896).
12.5. Peraltro, all’atto dell’adozione del
P.T.C.P., l’area di proprietà della
ricorrente, sebbene già edificata, non è
assoggettata a previsione di Ambito di
trasformazione dal Documento di Piano del
P.G.T. del Comune di Desio e quindi non
risulta interessata dalla specifica norma
avente valore prescrittivo e prevalente di
cui al comma 3 dell’art. 32 delle N.T.A. del
P.T.C.P. (riguardante, tra l’altro, la
salvaguardia e valorizzazione da un punto di
vista paesaggistico/ambientale delle aree
verdi libere contermini all’infrastruttura
autostradale e il contenimento del consumo
di suolo); di contro, essendo il predetto
compendio assoggettato alle disposizioni del
Piano delle regole del P.G.T., ai sensi del
comma 3.a dell’art. 31 delle N.T.A. del
P.T.C.P., ne deriva la perduranza delle
previsioni del P.G.T. del Comune Desio
vigenti all’adozione del P.T.C.P., con la
possibilità di effettuare gli ulteriori
interventi previsti dallo strumento
urbanistico comunale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.04.2021 n. 877 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’art. 13, comma 7, della legge regionale n. 12
del 2005 prevede che il Consiglio comunale decida sulle
osservazioni nel termine di novanta giorni, cosa che è
effettivamente avvenuta nella fattispecie, essendosi
rinviato a un momento successivo solo per la definitiva
approvazione degli atti di variante.
Come già ritenuto dalla Sezione in altre pronunce, “il termine e i
presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti
dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del
2005 […] [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e
[…], conseguentemente, il superamento delle scadenze
previste non determina il venir meno degli atti della
procedura pianificatoria.
La Sezione ha, invero, rilevato che della
disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi
necessariamente un’interpretazione costituzionalmente
orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di
ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della
pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione),
nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si
attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge
statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la
quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della
delibera di adozione del piano, fissando unicamente i
termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia,
peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380
del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni,
consentite dal tenore letterale della previsione normativa,
deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la
soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va
in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione
dell’inefficacia degli atti assunti è collocata
incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della
legge regionale n. 12 del 2005. Ciò consente di riferire la
sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine
di novanta giorni, previsto nella prima parte della
disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito
nella seconda parte della previsione normativa, di decidere
sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le
conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori”.
---------------
3. Con il primo motivo, le società ricorrenti lamentano che la
variante sia stata definitivamente approvata oltre il
termine di novanta giorni dalla scadenza del termine per la
proposizione delle osservazioni, mentre, entro il termine,
l’amministrazione si sarebbe limitata a controdedurre alle
osservazioni.
Ciò in violazione dell’art. 13, comma 7, della L.R. n. 12/2005, il quale prevede che “Entro novanta giorni
dalla scadenza del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il
consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti
di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale
accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di
inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del
documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia
abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le
previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di
coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma
5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora
le osservazioni provinciali riguardino previsioni di
carattere orientativo”.
In tesi, la delibera di approvazione
della variante sarebbe illegittima poiché intervenuta quando
gli atti di adozione erano già divenuti inefficaci.
Il motivo è infondato.
Anzitutto, l’art. 13, comma 7, della legge regionale n. 12
del 2005 prevede che il Consiglio comunale decida sulle
osservazioni nel termine di novanta giorni, cosa che è
effettivamente avvenuta nella fattispecie, essendosi
rinviato a un momento successivo solo per la definitiva
approvazione degli atti di variante.
Come già ritenuto dalla Sezione in altre pronunce (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 28.12.2020, n.
2613), che il Collegio condivide, “il termine e i
presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti
dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del
2005 […] [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e
[…], conseguentemente, il superamento delle scadenze
previste non determina il venir meno degli atti della
procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n.
1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764;
24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
La Sezione ha, invero, rilevato che della
disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi
necessariamente un’interpretazione costituzionalmente
orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di
ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della
pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione),
nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si
attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge
statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la
quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della
delibera di adozione del piano, fissando unicamente i
termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia,
peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380
del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni,
consentite dal tenore letterale della previsione normativa,
deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la
soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va
in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione
dell’inefficacia degli atti assunti è collocata
incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della
legge regionale n. 12 del 2005. Ciò consente di riferire la
sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine
di novanta giorni, previsto nella prima parte della
disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito
nella seconda parte della previsione normativa, di decidere
sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le
conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori (cfr.
TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097)”.
Ciò determina il rigetto della censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.02.2021 n. 374 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla sussistenza, o meno, di
un’aspettativa qualificata ad evitare un’eventuale reformatio in pejus
della classificazione dell’area di proprietà.
Va ricordato che “la pianificazione
urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta
di valutazioni comparative degli interessi pubblici in
gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale
potere non è limitato solo alla disciplina coordinata
dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina
dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo
complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi
pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli
scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio”.
Altresì, "le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di
merito, che non possono essere sindacate dal giudice
amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare”.
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato
ha ribadito
- che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito
sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo
che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi
illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto
riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino
confliggenti con particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e
- che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica
attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria
di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti
per l'amministrazione in ordine ad una diversa
‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento
qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
---------------
5. Con il terzo motivo, infine, le ricorrenti ripropongono,
declinandoli quali profili di vizio per omessa istruttoria e
genericità delle controdeduzioni, le medesime osservazioni
svolte in relazione alla variante adottata e non accolte in
sede di controdeduzioni.
5.1. Come già evidenziato in fatto, le società chiedevano,
con le osservazioni,
(i) il mantenimento dell’azzonamento
originario (come aree esistenti e di completamento D1),
(ii)
che nelle tavole allegate alla variante venisse indicata
anche l’impronta in pianta del fabbricato e la relativa
campitura,
(iii) l’esclusione di vincoli di qualsiasi natura
che possano inficiare il corretto esercizio delle attività
che interessano il capannone e
(iv) la qualificazione come
“pubblica” del tratto di sede stradale di accesso al
capannone per renderla sicura mediante illuminazione ed
asfaltatura.
Il Comune le respingeva controdeducendo che
(i)
“l’area di proprietà è individuata entro ‘tessuto
prevalentemente produttivo’, in quanto la Variante di PGT
individua un solo tessuto, non esistendo più il citato
tessuto ‘aree esistenti e di completamento D1’”, che
(ii)
“la medesima impronta del fabbricato è già individuata nelle
tavole cartografiche. La localizzazione degli edifici
esistenti, qualora attivato un intervento edilizio sugli
stessi, è definita da specifico rilievo in loco”, che
(iii)
“la localizzazione di vincoli sovraordinati è indipendente
dallo strumento urbanistico, il quale recepisce i medesimi
nella cartografia di Piano. Si individua nel dettaglio un
vincolo derivante dalla presenza dell’elettrodotto ad alta
tensione, con relative fasce di rispetto […], specificando
che nessun altro vincolo, oltre a quanto già individuato, è
localizzato nell’area”; infine, quanto alla qualificazione
della strada di accesso come “pubblica”, riteneva che le
richieste non fossero “coerenti con i dettami e gli
obiettivi della presente redigenda Variante al PGT, citati
nella Deliberazione di avvio del procedimento”.
5.2. I profili di vizio allegati dalle ricorrenti sono
insussistenti.
5.3. Quanto all’asserita genericità delle controdeduzioni, è
sufficiente leggerne il contenuto per avvedersi che esse,
lungi dall’essere “stereotipate e generiche”, replicano
puntualmente alle osservazioni della proprietà.
5.4. Quanto al merito delle singole osservazioni, le
ricorrenti lamentano in primo luogo (i) che il Comune non
abbia motivato circa l’inserimento dell’area nella nuova
zona “tessuto prevalentemente produttivo” e non abbia
giustificato tale scelta in relazione agli obiettivi della
variante.
La tesi delle ricorrenti è infondata.
In punto di fatto, il Comune ha in realtà dato conto della
scelta effettuata, esplicitando che la zona D1 desiderata
dalle ricorrenti non esiste più a seguito della
riorganizzazione della pianificazione. Inoltre, le
ricorrenti non allegano in alcun modo quale sia l’interesse
al mantenimento della precedente classificazione (si ripete,
non più esistente), nemmeno operando un raffronto tra la
disciplina previgente e quella attuale e allegando i profili
di attuale lesione.
Peraltro, la difesa comunale ha messo in luce le ragioni di
semplificazione sottese alla scelta di riclassificazione,
esplicitate nella delibera di adozione della variante.
Ciò precisato, deve essere comunque ribadito che non
sussiste, nel caso di specie, un’aspettativa qualificata
delle ricorrenti ad evitare un’eventuale reformatio in pejus
(nemmeno affermata, in realtà) della classificazione
dell’area di proprietà, sicché, anche sotto tale profilo, il
Comune non era gravato da un onere di motivazione puntuale.
Sul punto, va infatti ricordato che “la pianificazione
urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta
di valutazioni comparative degli interessi pubblici in
gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale
potere non è limitato solo alla disciplina coordinata
dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina
dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo
complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi
pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli
scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di
Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi
termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo
cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di
merito, che non possono essere sindacate dal giudice
amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id.,
09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01.2019, n. 119; id.,
05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id.,
05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato,
in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato
conto, ha ribadito, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte urbanistiche
costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino
inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni
procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione
di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari
situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative
qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della
disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento
dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da
determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad
una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da
fondare legittime aspettative potendosi configurare un
affidamento qualificato del privato esclusivamente in
presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto
privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV,
04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.02.2021 n. 374 - link a
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URBANISTICA:
L’art. 2, comma 3, della
legge regionale n. 12 del 2005 si limita a
disporre che “i piani si
uniformano al criterio della sostenibilità,
intesa come la garanzia di uguale
possibilità di crescita del benessere dei
cittadini e di salvaguardia dei diritti
delle future generazioni”.
La norma si
ispira al principio dello sviluppo
sostenibile, e non impone certo di prevedere
sempre, nei piani, la possibilità di
incrementare le sfruttamento edilizio del
territorio. Anzi, a ben guardare, essa dice
proprio l’opposto, e cioè che occorre
evitare nuovo sfruttamento qualora questo
sia pregiudizievole per i diritti delle
future generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei
cittadini non deve per forza conseguirsi
attraverso il consumo di nuovo suolo, ben
potendo esservi esigenze attuali che
consiglino invece di dare prevalenza
all’interesse alla preservazione
dell’ambiente e del paesaggio.
---------------
4. Con il primo motivo la ricorrente
assume che nella predisposizione del
P.T.C.P. di Monza e della Brianza non
sarebbero stati tenuti in debita
considerazione i principi generali di
sussidiarietà, adeguatezza, partecipazione,
collaborazione, efficienza e sostenibilità,
poiché i riferimenti statistici da cui
sarebbero state ricavate le varie
prescrizioni vincolanti sarebbero contenuti
in studi non aggiornati –riguardando un
periodo che va dal 2001 al 2009– e quindi
non congruenti con gli atti pianificatori
comunali successivamente approvati.
4.1. La doglianza è infondata.
Pur essendo veritiera la circostanza che i
riferimenti statistici contenuti in una
parte della relazione accompagnatoria del
P.T.C.P. –utilizzati dalla Provincia per
verificare quale potrebbe essere, nel
periodo di vigenza del Piano, la domanda di
nuove abitazioni– sono stati ricavati
analizzando il periodo ricompreso fra gli
anni 2001 e 2009, nondimeno ciò non può far
desumere in maniera automatica che il Piano
sia stato elaborato, nel suo complesso,
sulla base di dati obsoleti.
Difatti, va evidenziato come il Piano,
approvato nel 2013 e adottato nell’anno
2011, ha richiesto un avvio dell’iter
procedimentale di molto anteriore al periodo
di approvazione, in modo da consentire agli
uffici di elaborare le scelte conseguenti.
Oltretutto, ciò non esclude che la Provincia
abbia tenuto conto, nel corso del
procedimento, degli sviluppi successivi
basando le decisioni su dati per quanto
possibile aggiornati (così, sulla specifica
questione, TAR Lombardia, Milano, II, 23.09.2016, n. 1700; altresì 19.06.2015, n. 1432).
4.2. Anche con riguardo all’asserita
violazione del criterio della sostenibilità
che impedirebbe lo sviluppo dell’edificato
esistente, va evidenziato come l’art. 2,
comma 3, della legge regionale n. 12 del
2005 si limita a disporre che “i piani si
uniformano al criterio della sostenibilità,
intesa come la garanzia di uguale
possibilità di crescita del benessere dei
cittadini e di salvaguardia dei diritti
delle future generazioni”.
La norma si
ispira al principio dello sviluppo
sostenibile, e non impone certo di prevedere
sempre, nei piani, la possibilità di
incrementare le sfruttamento edilizio del
territorio. Anzi, a ben guardare, essa dice
proprio l’opposto, e cioè che occorre
evitare nuovo sfruttamento qualora questo
sia pregiudizievole per i diritti delle
future generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei
cittadini non deve per forza conseguirsi
attraverso il consumo di nuovo suolo, ben
potendo esservi esigenze attuali che
consiglino invece di dare prevalenza
all’interesse alla preservazione
dell’ambiente e del paesaggio (TAR
Lombardia, Milano, II, 23.09.2016, n.
1700; 19.06.2015, n. 1432; 10.09.2014, n. 2343).
4.3. Ciò determina il rigetto della sopra
esposta censura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.12.2020 n. 2492 -
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URBANISTICA: Rete
del verde a protezione dei valori
paesaggistici nel PTCP.
Come già evidenziato da questa Sezione
in plurime occasioni, le previsioni riguardanti la Rete
verde di ricomposizione paesaggistica,
contrariamente a quanto sostenuto dalla
parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono
certamente riconducibili al novero delle
“previsioni in materia di tutela dei beni
ambientali e paesaggistici in attuazione
dell’articolo 77”, di cui alla lett. a
dell’art. 18, comma 2, della legge regionale
n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione
di tutti gli strumenti di pianificazione
urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure
generali” di tutela paesaggistica, con
facoltà di introdurre “previsioni
conformative di maggiore definizione che,
alla luce delle caratteristiche specifiche
del territorio, risultino utili ad
assicurare l’ottimale salvaguardia dei
valori paesaggistici individuati dal PTR”.
La disposizione normativa non contiene,
invero, alcun riferimento ad aree o a
specifici beni di rilevanza paesaggistica,
ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e
“valori paesaggistici” indicati dal P.T.R..
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento
degli obiettivi di tutela stabiliti dal
P.T.R. e a protezione dei valori
paesaggistici ivi indicati, ben possa il
P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni,
destinate a prevalere immediatamente sugli
strumenti comunali, riferite anche ad aree e
a beni che non siano stati direttamente e
specificamente individuati dal P.T.R.
D’altra parte, il riconoscimento della
possibilità per il P.T.C.P. di dettare
siffatte previsioni appare del tutto
rispondente alle finalità stesse dello
strumento di pianificazione provinciale, cui
l’articolo 15 della legge regionale n. 12
del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in
tema di conservazione dei valori ambientali
e paesaggistici.
L’individuazione degli ambiti destinati a
far parte della Rete verde costituisce
oltretutto scelta che involge interessi di
carattere sovracomunale, ambientali e
paesaggistici, la cui tutela è stata
affidata dalla legge regionale n. 12 del
2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118, comma
primo, della Costituzione– alla Regione e
alle Province. Questi interessi sono dunque
presi in considerazione dagli strumenti di
pianificazione territoriale approvati da
tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si
sovrappongono agli interessi di carattere
urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta
pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità
tecnica di cui l’Amministrazione dispone in
materia e dalla quale discende la loro
sindacabilità solo nei ristretti limiti
costituiti dalla manifesta illogicità ed
evidente travisamento dei fatti; e che, nel
caso di specie, non sono stati evidenziati
macroscopici profili di illogicità nelle
scelte operate dalla Provincia, non
apparendo, al contrario, illogica la
decisione di porre rimedio all’eccessivo
consumo di suolo ormai posto in essere in
una parte del territorio provinciale anche
in relazione alla finalità di tutela
ambientale e paesaggistica.
---------------
5. Con la seconda doglianza e
parte della terza, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente
connesse, si deduce che la Provincia avrebbe
dettato una disciplina eccessivamente
invasiva, così da aver illegittimamente
compresso le prerogative comunali, in
violazione degli artt. 15, 17 e 18 della
legge regionale n. 12 del 2005.
5.1. Le doglianze sono infondate.
In base all’art. 2, comma 4, della legge
regionale n. 12, il Piano Territoriale
Regionale ed i Piani Territoriali di
Coordinamento Provinciale hanno efficacia di
orientamento, indirizzo e coordinamento,
fatte salve le previsioni che, ai sensi
della stessa legge, abbiano efficacia
prevalente e vincolante.
Il modello delineato dalla legge regionale
prevede che i piani collocati al livello
superiore non sono gerarchicamente
sovraordinati agli altri, ma dettano una
disciplina di orientamento, indirizzo e
coordinamento, che non può essere stravolta
ma, in particolari casi, derogata dalla
disciplina puntuale dettata dallo strumento
di pianificazione contenente disposizioni di
maggior dettaglio.
Ciò naturalmente non può azzerare il potere
pianificatorio dei Comuni, la cui
partecipazione deve essere quindi assicurata
e non può essere puramente nominale, essendo
precluso a Regioni e Province trasformare i
poteri comunali in ordine all’uso del
territorio in funzioni meramente consultive
prive di reale incidenza, o in funzioni di
proposta o ancora in semplici attività
esecutive.
Nel caso di specie, la Provincia di Monza e
della Brianza non ha, tuttavia, con il
proprio P.T.C.P., arbitrariamente compresso
il potere di pianificazione urbanistica
spettante ai Comuni.
Come già evidenziato da questa Sezione in
plurime occasioni (sentenze 23.07.2020,
n. 1433; 16.03.2020, n. 489; 30.06.2017, n. 1474; 15.12.2017, n. 2394) le
previsioni riguardanti la Rete verde di
ricomposizione paesaggistica, contrariamente
a quanto sostenuto dalla parte ricorrente,
possiedono una efficacia prescrittiva e
prevalente in quanto appaiono certamente
riconducibili al novero delle “previsioni in
materia di tutela dei beni ambientali e
paesaggistici in attuazione dell’articolo
77”, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma
2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione
di tutti gli strumenti di pianificazione
urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure
generali” di tutela paesaggistica, con
facoltà di introdurre “previsioni conformative di maggiore definizione che,
alla luce delle caratteristiche specifiche
del territorio, risultino utili ad
assicurare l’ottimale salvaguardia dei
valori paesaggistici individuati dal PTR”.
La disposizione normativa non contiene,
invero, alcun riferimento ad aree o a
specifici beni di rilevanza paesaggistica,
ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e
“valori paesaggistici” indicati dal P.T.R. (cfr.
sul punto in maniera specifica, TAR
Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n.
1474).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento
degli obiettivi di tutela stabiliti dal
P.T.R. e a protezione dei valori
paesaggistici ivi indicati, ben possa il
P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni,
destinate a prevalere immediatamente sugli
strumenti comunali, riferite anche ad aree e
a beni che non siano stati direttamente e
specificamente individuati dal P.T.R.
D’altra parte, il riconoscimento della
possibilità per il P.T.C.P. di dettare
siffatte previsioni appare del tutto
rispondente alle finalità stesse dello
strumento di pianificazione provinciale, cui
l’articolo 15 della legge regionale n. 12
del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in
tema di conservazione dei valori ambientali
e paesaggistici (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 08.10.2014, n. 2423).
L’individuazione degli ambiti destinati a
far parte della Rete verde costituisce
oltretutto scelta che involge interessi di
carattere sovracomunale, ambientali e
paesaggistici, la cui tutela è stata
affidata dalla legge regionale n. 12 del
2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118, comma
primo, della Costituzione– alla Regione e
alle Province. Questi interessi sono dunque
presi in considerazione dagli strumenti di
pianificazione territoriale approvati da
tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si
sovrappongono agli interessi di carattere
urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, IV,
15.01.2020, n. 379; TAR Lombardia,
Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 30.06.2017, n. 1474;
05.04.2017, n.
798).
Va poi osservato che, come ogni altra scelta
pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità
tecnica di cui l’Amministrazione dispone in
materia e dalla quale discende la loro
sindacabilità solo nei ristretti limiti
costituiti dalla manifesta illogicità ed
evidente travisamento dei fatti (ex plurimis,
Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n.
6686); e che, nel caso di specie, non sono
stati evidenziati macroscopici profili di
illogicità nelle scelte operate dalla
Provincia, non apparendo, al contrario,
illogica la decisione di porre rimedio
all’eccessivo consumo di suolo ormai posto
in essere in una parte del territorio
provinciale anche in relazione alla finalità
di tutela ambientale e paesaggistica (cfr.
TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017,
n. 1474; 05.04.2017, n. 798; 27.05.2014, n. 1355).
5.2. Ciò determina il rigetto delle
scrutinate doglianze
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.12.2020 n. 2492 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale,
l’onere di motivazione gravante
sull’Amministrazione in sede di adozione di
strumenti urbanistici, anche sovracomunali,
è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei criteri
principali che sorreggono le scelte
effettuate, potendo la
motivazione desumersi anche dai documenti di
accompagnamento all’atto di pianificazione
urbanistica e, più in generale, dagli atti
del procedimento; oltretutto
l’individuazione degli ambiti da ricomprendere
nella rete verde e nei correlati corridoi
non è vincolata dai contenuti degli
strumenti urbanistici comunali, ma ad essi
si sovrappone e rappresenta una valutazione
di merito affidata alla Provincia.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta
pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità
tecnica di cui l’Amministrazione dispone in
materia e dalla quale discende la loro
sindacabilità solo nei ristretti limiti
costituiti dalla manifesta illogicità ed
evidente travisamento dei fatti; e che, nel
caso di specie, non sono stati evidenziati
macroscopici profili di illogicità nelle
scelte operate dalla Provincia, non
apparendo, al contrario, illogica la
decisione di porre rimedio all’eccessivo
consumo di suolo, ormai posto in essere in
una parte del territorio provinciale, anche
in relazione alla finalità di tutela
ambientale e paesaggistica.
---------------
Giusta l’orientamento della costante
giurisprudenza, in materia urbanistica non
opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma (o al miglioramento)
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale.
---------------
6. Con la quinta censura si assume
che attraverso l’art. 32 delle N.T.A. del
P.T.C.P. sono state disciplinate tutte le
aree ricomprese nel corridoio trasversale
della rete verde, in cui sarebbe incluso
anche il tracciato dell’Autostrada
Pedemontana, provocando in tal modo una
frattura del territorio comunale avente una
ampiezza di circa due km che imporrebbe,
senza alcun coinvolgimento dei Comuni
interessati, la delocalizzazione delle
attività ivi esistenti.
6.1. La doglianza è infondata.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
l’onere di motivazione gravante
sull’Amministrazione in sede di adozione di
strumenti urbanistici, anche sovracomunali,
è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei criteri
principali che sorreggono le scelte
effettuate (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n. 379), potendo la
motivazione desumersi anche dai documenti di
accompagnamento all’atto di pianificazione
urbanistica e, più in generale, dagli atti
del procedimento (cfr. Consiglio di Stato,
IV, 28.06.2018, n. 3987); oltretutto
l’individuazione degli ambiti da ricomprendere nella rete verde e nei
correlati corridoi non è vincolata dai
contenuti degli strumenti urbanistici
comunali, ma ad essi si sovrappone e
rappresenta una valutazione di merito
affidata alla Provincia (cfr., sugli Ambiti
agricoli strategici, Consiglio di Stato, IV,
19.11.2018, nn. 6483 e 6484).
Va poi osservato che, come ogni altra scelta
pianificatoria, queste decisioni sono
espressione dell’ampia discrezionalità
tecnica di cui l’Amministrazione dispone in
materia e dalla quale discende la loro
sindacabilità solo nei ristretti limiti
costituiti dalla manifesta illogicità ed
evidente travisamento dei fatti (ex plurimis,
Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n.
6686); e che, nel caso di specie, non sono
stati evidenziati macroscopici profili di
illogicità nelle scelte operate dalla
Provincia, non apparendo, al contrario,
illogica la decisione di porre rimedio
all’eccessivo consumo di suolo, ormai posto
in essere in una parte del territorio
provinciale, anche in relazione alla
finalità di tutela ambientale e
paesaggistica (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 05.04.2017, n. 798).
Del resto, nella Relazione di Piano si
sottolinea come il P.T.C.P. abbia
l’obiettivo di rilanciare i processi di
sviluppo a partire da un utilizzo più
razionale, ordinato e consapevole delle
risorse territoriali disponibili, anche
attraverso una razionalizzazione degli
insediamenti produttivi. A questo fine “il PTCP propone di verificare le condizioni di
compatibilità di un insediamento produttivo
secondo tre parametri: compatibilità
urbanistica, (riguarda i rapporti tra
l’insediamento produttivo e i tessuti urbani
e residenziali circostanti), compatibilità
logistica (presuppone la possibilità, per
quelle attività produttive che generano
flussi significativi di traffico pesante e/o
flussi di traffico leggero ad ampio raggio,
di accedere alla rete stradale primaria e
alle piattaforme logistiche intermodali
senza attraversare centri abitati e zone
residenziali) e compatibilità
ambientale-paesaggistica (collocazione
dell’insediamento produttivo nei confronti
di zone di pregio ambientale o
paesaggistico)”.
Quindi “la rete verde
provinciale di ricomposizione paesaggistica,
rappresentata nella Tavola 6a, identifica un
sistema integrato di spazi aperti di varia
natura e qualificazione, ambiti boschivi e
alberati. In quanto tale essa assume un
valore strategico nell’insieme delle
proposte del PTCP proponendosi di
riqualificare i paesaggi rurali, urbani e
periurbani, di valorizzare le loro
componenti ecologiche, naturali e
storico-culturali, di contenere il consumo
di suolo e la sua eccessiva
impermeabilizzazione, di promuovere la
fruizione del paesaggio” (sul punto
specifico, TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; in precedenza 15.12.2017, n. 2394).
Inoltre,
“l’obiettivo di ricucire un varco ‘verde’ di
protezione paesaggistica ed ecologica assume
dunque qui particolare importanza, non solo
come elemento di conservazione ma anche di
possibile stimolo a un recupero di aree
urbane di frangia, degradate o malamente
utilizzate. Si è pertanto identificato un
‘corridoio trasversale’ che risponde ai
requisiti della Rete Ecologica Provinciale
e, di conseguenza, Regionale avente come
estremi il Parco delle Groane e il Parco
dell’Adda Nord” (Relazione di Piano, pag.
114, richiamata a pag. 7 dalla memoria
provinciale depositata il 26.10.2020).
In ordine, poi, al deteriore trattamento
rispetto al Piano adottato, nel caso di
specie pare applicabile, a fortiori,
l’orientamento della costante giurisprudenza
secondo la quale, in materia urbanistica,
non opera il principio del divieto di
reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma (o al miglioramento)
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia,
Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019,
n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Si deve poi
rilevare come le contestazioni formulate
dalla ricorrente attengano al merito delle
scelte dell’Amministrazione, palesando un
differente punto di vista rispetto a quest’ultima,
assolutamente soggettivo, che non può
trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n.
1291; 10.12.2019, n. 2636; 20.08.2019, n. 1896).
Peraltro, all’atto dell’adozione del
P.T.C.P., l’area di proprietà della
ricorrente, sebbene già edificata, non era
assoggettata a previsione di Ambito di
trasformazione dal Documento di Piano del
P.G.T. del Comune di Desio e quindi non
risulta interessata dalla specifica norma
avente valore prescrittivo e prevalente di
cui al comma 3 dell’art. 32 delle N.T.A. del
P.T.C.P. (riguardante, tra l’altro, la
salvaguardia e valorizzazione da un punto di
vista paesaggistico/ambientale delle aree
verdi libere contermini all’infrastruttura
autostradale e il contenimento del consumo
di suolo); di contro, essendo il predetto
compendio assoggettato alle disposizioni del
Piano delle regole del P.G.T., ai sensi del
comma 3.a dell’art. 31 delle N.T.A. del
P.T.C.P., ne deriva la perduranza delle
previsioni del P.G.T. del Comune Desio
vigenti all’adozione del P.T.C.P., con la
possibilità di effettuare gli ulteriori
interventi previsti dallo strumento
urbanistico comunale (cfr. all. 5 al
ricorso).
6.2. Ne discende il rigetto della scrutinata
censura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.12.2020 n. 2492 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In merito alla revisione della disciplina
dell’area di proprietà rispetto al previgente strumento
urbanistico, la giurisprudenza ha
più volte chiarito che il potere pianificatorio può essere
esercitato anche incidendo negativamente sull’affidamento
(mero e non qualificato) dei privati al mantenimento delle
pregresse previsioni urbanistiche.
In linea generale, va infatti ricordato che “la
pianificazione urbanistica implica valutazioni di
opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli
interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si
dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o
irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla
disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per
mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è
finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali
della comunità locale nel suo complesso con riflessi
qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari
di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i
detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti,
devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee
programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza
della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute
dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale
rappresentino scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare”.
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato,
in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato
conto, ha ribadito
- che “le scelte urbanistiche
costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino
inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni
procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione
di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari
situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative
qualificate” e
- che “la semplice reformatio in peius della
disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento
dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da
determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad
una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da
fondare legittime aspettative potendosi configurare un
affidamento qualificato del privato esclusivamente in
presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto
privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
---------------
3. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta che all’area di
proprietà sarebbe stata attribuita destinazione boschiva in
difformità dallo stato di fatto dei luoghi, poiché sull’area
vi sarebbe invero solo vegetazione arbustiva. Inoltre, la
nuova destinazione impressa all’area –che, come si è detto,
in precedenza era destinata ad attrezzatura turistica
soggetta a piano attuativo– confliggerebbe con l’interesse
pubblico, desumibile dal PGT, a valorizzare il territorio
comunale mediante l’iniziativa turistica.
3.1. Anzitutto, in merito alla revisione della disciplina
dell’area di proprietà rispetto al previgente strumento
urbanistico, la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha
più volte chiarito che il potere pianificatorio può essere
esercitato anche incidendo negativamente sull’affidamento
(mero e non qualificato) dei privati al mantenimento delle
pregresse previsioni urbanistiche.
In linea generale, va infatti ricordato che “la
pianificazione urbanistica implica valutazioni di
opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli
interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si
dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o
irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla
disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per
mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è
finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali
della comunità locale nel suo complesso con riflessi
qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari
di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i
detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti,
devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee
programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (cfr.,
ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n.
283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza
della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute
dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale
rappresentino scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id.,
09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id.,
21.01.2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id.,
16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id.,
05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato,
in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato
conto, ha ribadito, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte urbanistiche
costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino
inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni
procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione
di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari
situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative
qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della
disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento
dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da
determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad
una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da
fondare legittime aspettative potendosi configurare un
affidamento qualificato del privato esclusivamente in
presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto
privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex
plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Nella fattispecie in esame, come emerge dalla narrativa in
fatto, nessun affidamento qualificato può essere
riconosciuto in capo alla ricorrente, che si limita invero
ad allegare di voler sfruttare l’area secondo la precedente
destinazione, ritenuta più conforme alle caratteristiche
della zona.
Come già osservato, le valutazioni di merito compiute
dall’amministrazione nell’imprimere una diversa destinazione
all’area, non sono sindacabili in sede giurisdizionale, se
non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se è vero che il Comune
non può imporre un vincolo forestale né un vincolo
paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una
destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei
suoli, che include le aree destinate all'esercizio sia di
attività propriamente agricole che di delle attività
boschive, tanto è vero che l'art. 59, comma 3°, lett. b),
della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice
fondiario anche su ‘terreni a bosco’.
La giurisprudenza poi
riconosce che la classificazione a zona agricola possiede
anche una valenza conservativa dei valori naturalistici,
venendo a costituire il polmone dell'insediamento urbano ed
assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di
contenimento dell'espansione dell'aggregato urbano. Ne
consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può
ritenersi illegittima in quanto riconducibile ad una
destinazione a verde agricolo.
---------------
3.2. Così tracciati i limiti del sindacato di legittimità,
deve essere respinto anche il profilo di censura attinente
alla non conformità della destinazione boschiva rispetto
alle caratteristiche dell’area, in quanto caratterizzata da
vegetazione prevalentemente arbustiva.
In merito alla riconducibilità al concetto di bosco dei cd.
“elementi boscati minori”, la Sezione si è già espressa –con argomenti che il Collegio condivide– evidenziando che,
sostanzialmente, la destinazione boschiva prevista dal PGT
non impone un vincolo forestale, bensì è equiparabile a una
destinazione a verde agricolo e ad essa riconducibile.
Conseguentemente, è irrilevante la verifica –richiesta
dalla ricorrente in via istruttoria– in ordine alla
specifica natura degli arbusti presenti sui suoli,
trattandosi nella sostanza di una destinazione agricola.
Ha
precisato infatti la Sezione che “se è vero che il Comune
non può imporre un vincolo forestale né un vincolo
paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una
destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei
suoli, che include le aree destinate all'esercizio sia di
attività propriamente agricole che di delle attività
boschive, tanto è vero che l'art. 59, comma 3°, lett. b),
della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice
fondiario anche su ‘terreni a bosco’. La giurisprudenza (ex
plurimis TAR Valle d'Aosta, sentenza 02.11.2011 n. 73) poi
riconosce che la classificazione a zona agricola possiede
anche una valenza conservativa dei valori naturalistici,
venendo a costituire il polmone dell'insediamento urbano ed
assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di
contenimento dell'espansione dell'aggregato urbano. Ne
consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può
ritenersi illegittima in quanto riconducibile ad una
destinazione a verde agricolo” (cfr. TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 13.05.2019, n. 1065).
3.3. Inoltre, come allegato dal Comune nelle proprie difese,
deve tenersi in considerazione che i mappali dei quali si
controverte sono azzonati a bosco in conformità alle
indicazioni fornite dalla Provincia di Varese nel parere di
compatibilità del PGT con il PTCP.
In tale sede, la
Provincia di Varese ha segnalato la necessità di escludere
dette aree dal Tessuto Urbano Consolidato, mantenendo le
stesse in ambito agricolo, al fine di preservare lo stato
naturale dei luoghi e valorizzare il sistema agricolo
diffuso in zona montana (cfr. docc. 9 e 10 del Comune),
sicché la non irragionevolezza –ed anzi la vincolatività–
della scelta urbanistica compiuta può essere colta anche
sotto questo aspetto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Circa la natura prescrittiva del PTCP
"Le previsioni riguardanti la
tutela del paesaggio provinciale possiedono una efficacia prescrittiva
e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al
novero delle ‘previsioni in materia di tutela dei beni
ambientali e paesaggistici in attuazione dell’art. 77’, di cui alla lett. a)
dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Anche in relazione
alla difesa del territorio, e in particolare per gli aspetti
relativi alla componente idrogeologica, è riconosciuta
efficacia prevalente alle linee di intervento, nonché alle
opere prioritarie di sistemazione e consolidamento stabilite
attraverso il P.T.C.P. (art. 56, comma 1, lett. d), della
legge regionale n. 12 del 2005, che richiama il precedente
art. 18, comma 2, lett. d).
D’altra parte, il riconoscimento
della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte
previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse
dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15
della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di
rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e
paesaggistici e di rispetto dell’assetto idrogeologico del
territorio.
L’individuazione degli ambiti di rilievo
paesaggistico e le linee di intervento in relazione
all’assetto idrogeologico costituiscono oltretutto scelte
che involgono interessi di carattere sovracomunale,
ambientali, paesaggistici e di difesa del territorio, la cui
tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005
–in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della
Costituzione– alla Regione e alle Province.
Questi
interessi sono dunque presi in considerazione dagli
strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali
enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi
di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni.".
---------------
Circa la natura prescrittiva del PTCP, ci si richiama a
quanto già evidenziato da questa Sezione in plurime
occasioni (cfr., da ultimo, sentenza 12.08.2020, n.
1568, ma anche sentenze 18.05.2020, n. 841; 16.03.2020, n. 489; 30.06.2017, n. 1474; 15.12.2017, n.
2394), e confermato pure dal Consiglio di Stato (Sez. IV, 10.09.2019, n. 6124;
02.09.2019, n. 6050; 19.11.2018, n. 6483), “le previsioni riguardanti la
tutela del paesaggio provinciale possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente
riconducibili al novero delle ‘previsioni in materia di
tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione
dell’articolo 77’, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma
2, della legge regionale n. 12 del 2005; anche in relazione
alla difesa del territorio, e in particolare per gli aspetti
relativi alla componente idrogeologica, è riconosciuta
efficacia prevalente alle linee di intervento, nonché alle
opere prioritarie di sistemazione e consolidamento stabilite
attraverso il P.T.C.P. (art. 56, comma 1, lett. d), della
legge regionale n. 12 del 2005, che richiama il precedente
art. 18, comma 2, lett. d).
D’altra parte, il riconoscimento
della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte
previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse
dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15
della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di
rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e
paesaggistici e di rispetto dell’assetto idrogeologico del
territorio (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 08.10.2014, n. 2423).
L’individuazione degli ambiti di rilievo
paesaggistico e le linee di intervento in relazione
all’assetto idrogeologico costituiscono oltretutto scelte
che involgono interessi di carattere sovracomunale,
ambientali, paesaggistici e di difesa del territorio, la cui
tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005
–in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della
Costituzione– alla Regione e alle Province. Questi
interessi sono dunque presi in considerazione dagli
strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali
enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi
di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020,
n. 379; TAR Lombardia, Milano, II, 16.03.2020, n. 489;
05.04.2017, n. 798)”.
3.4. Quanto sinora evidenziato, porta al rigetto del motivo
anche sotto il profilo per cui la destinazione prescelta per
l’area sarebbe stata assunta in contraddittorietà con la
vocazione turistica della medesima, tutelata in linea
generale nel piano.
Da un lato, infatti, trattasi di una valutazione di merito
compiuta dall’amministrazione e dunque insindacabile se non
nei limiti già precisati e insussistenti nella fattispecie.
Dall’altro lato, il fatto che nel PGT si dia spazio
allo sviluppo turistico del territorio –quand’anche vero–
non implicherebbe necessariamente che anche all’area della
ricorrente debba essere impressa siffatta destinazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'onere di motivazione
gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno
strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su
zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto
con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che
sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e ‘mirata’.
---------------
E'
consolidato il principio per cui, in sede di formazione dei
piani urbanistici, la valutazione dell'idoneità delle aree a
soddisfare specifici interessi urbanistici rientra nei
limiti dell'esercizio del potere discrezionale
dell'amministrazione, rispetto al quale, a meno che non
siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità,
non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere
per disparità di trattamento basata sulla comparazione con
la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
---------------
3.5. Infine, in ordine agli aspetti motivazionali di cui il
piano sarebbe carente (ovverosia che non sarebbe stato
contemperato con l’interesse pubblico l’interesse a non
“sacrificare” l’edilizia turistica privata), fermo quanto
già sopra osservato circa la possibilità di riforma della
destinazione urbanistica in senso peggiorativo, il Collegio
condivide quanto costantemente ritenuto dalla giurisprudenza
amministrativa, ovverosia che “l'onere di motivazione
gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno
strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su
zone territorialmente circoscritte ledendo legittime
aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto
con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che
sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una
motivazione puntuale e ‘mirata’” (cfr. Cons. Stato n.
2780/2018 cit. e Cons. Stato, Sez. IV, 03.11.2008, n.
5478).
Nel caso di specie, quindi, a fronte dell’insussistenza di
un’aspettativa qualificata, l’amministrazione non era
gravata da un onere di puntuale motivazione –come quella
invece pretesa dalla ricorrente– circa le scelte
urbanistiche effettuate.
4. Con il secondo motivo di ricorso (rubricato sub 3 dalla
ricorrente), si deduce l’illogicità della scelta
dell’amministrazione, che avrebbe azzerato la capacità
edificatoria del compendio della società ricorrente, a
fronte di una destinazione a “zona C di espansione
residenziale” per un’area contigua (mappali 192 e 205) in
precedenza non edificabile.
Il motivo è infondato, non essendo nella fattispecie nemmeno
soddisfatto l’onere di allegazione (tanto meno quello della
prova) dell’identità oggettiva della situazione presa in
considerazione.
Peraltro, indipendentemente dalla classificazione e
delimitazione delle aree in questione, è consolidato il
principio per cui, in sede di formazione dei piani
urbanistici, la valutazione dell'idoneità delle aree a
soddisfare specifici interessi urbanistici rientra nei
limiti dell'esercizio del potere discrezionale
dell'amministrazione, rispetto al quale, a meno che non
siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità,
non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere
per disparità di trattamento basata sulla comparazione con
la destinazione impressa agli immobili adiacenti (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. II, 05.06.2019, n. 3806; TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 17.04.2020, n. 653) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Occorre
qui evidenziare che i poteri di modifica d’ufficio che la regione è
abilitata ad esercitare, in virtù della normativa nazionale (art. 10 RD n.
1150/1942) e di quella regionale, sono riconosciuti al fine di tutelare
superiori interessi che a livello locale potrebbero non trovare adeguata
tutela.
Invero, le esigenze di
tutela del paesaggio (che qui rileva per la questione del Naviglio di Bra) e
della regolazione del consumo di suolo agricolo (che rileva per lo stralcio
dell’area DI2263) abilitano proprio tali facoltà regionali.
Come anche la giurisprudenza ha riconosciuto “L'art. 10, secondo comma,
lett. c), della legge n. 1150/1942 prevede il potere della Regione di
proporre le modifiche d'ufficio al P.R.G. riconosciute indispensabili per
assicurare la tutela del paesaggio, nonché di complessi storici,
monumentali, ambientali ed archeologici.
La giurisprudenza costante afferma
che l'attribuzione ad una data area della destinazione a zona agricola ben
può essere dettata da finalità di tutela ambientale.
Se ne desume che
l'attribuzione ad opera della Regione, in sede di proposta di modifiche
d'ufficio del P.R.G., al terreno di proprietà della ricorrente, della
destinazione a zona agricola sia pienamente riconducibile alla previsione di
cui all'art. 10, secondo comma, lett. c), della legge n. 1150/1942.[…]
secondo la costante giurisprudenza, le modifiche finalizzate alla tutela
dell'ambiente e del paesaggio, essendo, per l'appunto, distintamente
previste dalla lett. c) del secondo comma dell'art. 10 cit., non
soggiacciono al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali
posto dalla prima parte del secondo comma del medesimo art. 10”.
Anche considerando la circostanza che la legge regionale attribuisce al
contraddittorio con il Comune maggiore peso rispetto alla normativa
nazionale, questo non muta le considerazioni di principio svolte dalla
giurisprudenza in ordine alle finalità di tutela degli interessi superiori
succitati.
Proprio tale necessità giustifica l’esistenza stessa di una
autonoma fase di approvazione regionale nell’ambito di un unitario
procedimento di adozione del piano regolatore comunale.
---------------
4.
Con il terzo, il quarto ed il settimo motivo del primo
ricorso (quest’ultimo corrispondente al terzo del ricorso RG n. 1212/2014),
che vengono trattati congiuntamente in quanto connessi oggettivamente anche
se il primo con riferimento alla questione del Naviglio ed il secondo allo
stralcio dell’area DI2263, la ricorrente lamenta sostanzialmente la
violazione degli art. 15 e 17 della LR n. 56/1977, nella misura in cui la
Regione avrebbe utilizzato i poteri di modifica ex officio in sede di
approvazione del PRGC oltre i casi strettamente consentiti dalla legge.
In
particolare l’art. 15 (nella formulazione applicata al procedimento, quindi
antecedente alla riforma del 2013) consentiva le modifiche d’ufficio in tre
tipologie di casi:
a) per la correzione di meri errori materiali (“Con
l'atto di approvazione la Giunta regionale può apportare d'ufficio al Piano
Regolatore Generale modifiche riguardanti correzioni di errori, chiarimenti
su singole prescrizioni e adeguamenti a norma di legge” – art. 15, comma
11);
b) in caso di modifiche non sostanziali (“Nell'ambito dell'attività
istruttoria, il Presidente della Giunta regionale, o l'Assessore delegato,
acquisito ove del caso il parere della Commissione Tecnica Urbanistica, può
richiedere al Comune modifiche che non mutino le caratteristiche essenziali
quantitative e strutturali del Piano e i suoi criteri di impostazione, ed in
particolare, nel rispetto di tali caratteristiche e criteri, modifiche che
riguardino:
a) l'adeguamento alle disposizioni dei piani di settore, dei
piani sovracomunali e delle loro varianti;
b) la razionale organizzazione e
realizzazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato o della
Regione, anche ai fini dell'eventuale coordinamento con i Comuni contermini;
c) la tutela dell'ambiente e del paesaggio, dei beni culturali ed ambientali
nonché di specifiche aree classificate come di elevata fertilità;
d)
l'osservanza degli standard.
Le richieste di modifica di cui al precedente
comma sono comunicate, dal Presidente della Giunta regionale o
dall'Assessore delegato, al Comune che, entro 60 giorni, assume le proprie
determinazioni con deliberazione del consiglio comunale, da trasmettersi
alla Giunta regionale entro 15 giorni dall'apposizione del visto di
esecutività. Il ricevimento delle richieste di modifica vincola il Comune
alla immediata salvaguardia delle osservazioni formulate dalla Regione. Ove
il termine per l'assunzione della delibera comunale anzidetta decorra
inutilmente, le modifiche sono introdotte d'ufficio nel Piano Regolatore
dalla Giunta regionale" – art. 15, comma 12 e 13);
c) in caso di modifiche
parziali (“Le proposte di modifica che, su parere della Commissione Tecnica
Urbanistica, mutino parzialmente le caratteristiche del Piano Regolatore
sono comunicate dal Presidente della Giunta regionale o dall'Assessore
delegato al Comune che provvede entro 90 giorni dal ricevimento alla
rielaborazione parziale del Piano”- art. 15, comma 14).
A parere della
ricorrente nessuna delle ipotesi contemplate dalla legge si è verificata nel
caso di specie e pertanto tali interventi, per entrambe le modifiche, non
sono legittimi.
Nelle argomentazioni del quarto motivo si aggiunge, altresì, che anche
laddove si ammettesse che la Regione abbia esercitato il potere d’ufficio
previsto all’art. 15, comma 12, lett. c), in ogni caso il relativo esercizio
sarebbe illegittimo poiché: sul piano procedurale, non sarebbe stato
attivato il necessario confronto con il Comune (così violando anche
l’omologa normativa nazionale contenuta all’art. 10 del RD n. 1150/1942),
considerando che l’estensione della fascia a 25m è stata introdotta senza
coinvolgere nuovamente l’ente locale; sul piano sostanziale le ragioni di
carattere paesaggistico non emergono nei fatti e non sono state motivate.
Anche i motivi appena illustrati non convincono.
Richiamando integralmente quanto già detto in ordine alla istruttoria
condotta ed alle motivazioni fornite dalla delibera regionale sulle esigenze
di tutela paesaggistica e quanto si dirà, in seguito, in ordine ai poteri di
“stralcio” (che riguarda l’area DI2263 – quindi il settimo motivo), occorre
qui evidenziare che i poteri di modifica d’ufficio che la regione è
abilitata ad esercitare, in virtù della normativa nazionale (art. 10 RD n.
1150/1942) e di quella regionale, sono riconosciuti al fine di tutelare
superiori interessi che a livello locale potrebbero non trovare adeguata
tutela.
Come si è avuto modo di evidenziare in precedenza, le esigenze di
tutela del paesaggio (che qui rileva per la questione del Naviglio di Bra) e
della regolazione del consumo di suolo agricolo (che rileva per lo stralcio
dell’area DI2263) abilitano proprio tali facoltà regionali.
Come anche la giurisprudenza ha riconosciuto “L'art. 10, secondo comma,
lett. c), della legge n. 1150/1942 prevede il potere della Regione di
proporre le modifiche d'ufficio al P.R.G. riconosciute indispensabili per
assicurare la tutela del paesaggio, nonché di complessi storici,
monumentali, ambientali ed archeologici. La giurisprudenza costante afferma
che l'attribuzione ad una data area della destinazione a zona agricola ben
può essere dettata da finalità di tutela ambientale. Se ne desume che
l'attribuzione ad opera della Regione, in sede di proposta di modifiche
d'ufficio del P.R.G., al terreno di proprietà della ricorrente, della
destinazione a zona agricola sia pienamente riconducibile alla previsione di
cui all'art. 10, secondo comma, lett. c), della legge n. 1150/1942.[…]
secondo la costante giurisprudenza, le modifiche finalizzate alla tutela
dell'ambiente e del paesaggio, essendo, per l'appunto, distintamente
previste dalla lett. c) del secondo comma dell'art. 10 cit., non
soggiacciono al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali
posto dalla prima parte del secondo comma del medesimo art. 10” (TAR
Lombardia Milano Sez. II, 24/11/2006, n. 2487).
Anche considerando la circostanza che la legge regionale attribuisce al
contraddittorio con il Comune maggiore peso rispetto alla normativa
nazionale, questo non muta le considerazioni di principio svolte dalla
giurisprudenza in ordine alle finalità di tutela degli interessi superiori
succitati. Proprio tale necessità giustifica l’esistenza stessa di una
autonoma fase di approvazione regionale nell’ambito di un unitario
procedimento di adozione del piano regolatore comunale.
L’intervento sul
Naviglio di Bra, infatti, non può che essere inquadrato, contrariamente a
quanto sostenuto dalla ricorrente, nel novero delle “potestà della Regione
di apportare modifiche d'ufficio al piano [il che] comporta che il limite
della innovazione sostanziale vale solo per le modifiche facoltative e non
riguarda, al contrario, quelle attinenti alla tutela del paesaggio e
dell'ambiente, le quali pertanto possono anche incidere sulle
caratteristiche essenziali e sui criteri di impostazione del piano” (TAR
Piemonte Torino Sez. II, 14/08/2018, n. 956).
Per tali ordini di ragioni anche questi motivi non possono essere accolti (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 14.09.2020 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza
amministrativa ha da tempo riconosciuto che “in relazione ai poteri di
intervento della Regione sul PRG adottato dal Comune, si osserva che lo
stralcio si differenzia sostanzialmente dalla modifica d'ufficio,
consistendo il primo in una approvazione parziale del PRG e la seconda in
una sovrapposizione definitiva della volontà regionale a quella del Comune.
Nel caso di stralcio la Regione restituisce al Comune l'iniziativa,
invitandolo a rinnovare l'esame della situazione delle aree stralciate e a
formulare nuove proposte, lasciando integro e impregiudicato il potere
comunale di riproporre una nuova disciplina urbanistica, mentre con la
modifica d'ufficio il potere comunale non può più essere in tale sede
esercitato”.
Ed ancora, “con lo
«stralcio», la Regione restituisce al Comune l'iniziativa, mentre con le
«modifiche d'ufficio» sovrappone ultimativamente la propria volontà a quella
del comune, sicché, ai fini dello stralcio, non è necessaria quella
preventiva consultazione del comune, che la legge richiede, invece, rispetto
alle modifiche, né operano i limiti di cui all'art. 10 L. n. 1150/1942
ovvero sussiste un obbligo di ripubblicazione del piano adottato”.
---------------
5.
Con il quinto motivo (che corrisponde al primo del ricorso RG n.
1212/2014) la società lamenta la violazione degli artt. 15 e 17 della LR
56/1977 e difetto di motivazione. Nello specifico si censura la legittimità
dello “stralcio” dell’area DI2263 che sarebbe avvenuto, contrariamente a
quanto sostiene la giurisprudenza, senza motivazione e su parti sostanziali
del piano.
Quest’ultimo profilo, peraltro, aggravato dal fatto che non si
sarebbe tenuto in debita considerazione quanto segnalato dall’Organo Tecnico
Regionale per la VAS (che nella nota prot. 1042/2012, allegata al
provvedimento impugnato, rimarcava la necessità di verificare l’effettivo
bisogno di salvaguardia del consumo di suolo valutando le manifestazioni di
interesse da parte di cittadini ed imprese), alle misure di mitigazione
ambientale proposte ed al fatto che il Comune avesse mantenuto la
destinazione dell’area motivando sulla base del progetto di insediamento
produttivo che la ricorrente aveva prospettato.
Anche questa doglianza non coglie nel segno.
L’amministrazione regionale evidenzia, nella propria memoria, come per
effetto del proprio intervento la destinazione dell’area non venga mutata ma
semplicemente ricondotta alla propria originaria vocazione agricola (come si
legge nell’allegato A della deliberazione impugnata).
Convince, pertanto, la ricostruzione di parte resistente secondo cui tale
circostanza esclude la sussistenza di una modifica ex officio, ovvero una
sovrapposizione definitiva della volontà regionale a quella del Comune,
configurandosi, al contrario, una semplice mancata approvazione del piano.
Tale esito, infatti, si configura quale uno dei possibili naturali sbocchi
del procedimento complesso di adozione del PRGC.
La giurisprudenza
amministrativa ha da tempo riconosciuto che “in relazione ai poteri di
intervento della Regione sul PRG adottato dal Comune, si osserva che lo
stralcio si differenzia sostanzialmente dalla modifica d'ufficio,
consistendo il primo in una approvazione parziale del PRG e la seconda in
una sovrapposizione definitiva della volontà regionale a quella del Comune.
Nel caso di stralcio la Regione restituisce al Comune l'iniziativa,
invitandolo a rinnovare l'esame della situazione delle aree stralciate e a
formulare nuove proposte, lasciando integro e impregiudicato il potere
comunale di riproporre una nuova disciplina urbanistica, mentre con la
modifica d'ufficio il potere comunale non può più essere in tale sede
esercitato” (Cons. Stato Sez. IV, 17/09/2013, n. 4614).
Ed ancora, “con lo
«stralcio», la Regione restituisce al Comune l'iniziativa, mentre con le
«modifiche d'ufficio» sovrappone ultimativamente la propria volontà a quella
del comune, sicché, ai fini dello stralcio, non è necessaria quella
preventiva consultazione del comune, che la legge richiede, invece, rispetto
alle modifiche (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 07.09.2006, n.
5203), né operano i limiti di cui all'art. 10 L. n. 1150/1942 ovvero
sussiste un obbligo di ripubblicazione del piano adottato (Consiglio Stato,
sez. IV, 03.02.2006, n. 400)” (TAR Campania-Napoli Sez. II Sent.,
16/06/2009, n. 3292).
Occorre infine evidenziare che la mancata parziale approvazione del Piano,
quale fisiologica facoltà regionale, nel caso di specie, attiene ad un’area
circoscritta e non stravolge le scelte complessive del Comune.
Lo “stralcio” realizzato, infatti, possiede i requisiti minimi individuati
dalla prevalente giurisprudenza: è circoscritto ad aree specifiche ed è
supportato da valida motivazione.
Come parte resistente evidenzia lo stralcio, oltre a riguardare un’area ben
individuata, incide su una porzione irrisoria del complessivo territorio
comunale dedicato ad attività produttiva (si tratta di una superficie di
poco più di 50.000 mq a fronte di circa 3 milioni di mq).
Per quanto attiene alla motivazione, l’allegato “A” alla delibera regionale,
anche mediante il rinvio alla relazione redatta dal Settore Progettazione,
Assistenza e Copianificazione (posteriore alle controdeduzioni comunali),
contiene una serie di dettagliate indicazioni in ordine alle caratteristiche
che giustificano il mantenimento della destinazione agricola per l’area. Gli
argomenti spaziano dalle ragioni paesaggistiche all’eccessivo
dimensionamento delle zone per attività economiche (a fronte di aree libere
residue nel PRG); dalle criticità riscontrate nella delimitazione dell’area
stessa (che, in sede di controdeduzioni, sarebbe stata definita unendo due
preesistenti zone, tanto da essere inquadrabile come una sorta di “variante
in itinere”) alla disponibilità, in capo alla ricorrente, di aree
alternative per l’edificazione.
La Regione, inoltre, evidenzia come lo
stralcio consenta l’allineamento del PRG al PTR vigente ed, in particolare,
all’art. 31 di quest’ultimo (che reca la disciplina del “Dimensionamento”,
prevedendo che “La pianificazione locale, al fine di contenere il consumo di
suolo rispetta le seguenti direttive:
a) i nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali possono
prevedersi solo quando sia dimostrata l’inesistenza di alternative di riuso
e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.
In particolare è da dimostrarsi l’effettiva domanda previa valutazione del
patrimonio edilizio esistente e non utilizzato, di quello sotto-utilizzato e
di quello da recuperare;[…]
c) quando le aree di nuovo insediamento risultino alle estreme propaggini
dell’area urbana, esse sono da localizzare ed organizzare in modo coerente
con i caratteri delle reti stradali e tecnologiche e concorrere, con le loro
morfologie compositive e le loro tipologie, alla risoluzione delle
situazioni di frangia e di rapporto col territorio aperto evitando fratture,
anche formali, con il contesto urbano. Nella scelta delle tipologie del
nuovo edificato sono da privilegiare quelle legate al luogo ed alla
tradizione locale;…”).
Tali considerazioni, inoltre, non contraddicono quanto indicato dall’OTR per
la VAS che raccomandava di considerare le reali esigenze di preservazione
dei fondi agricoli anche in relazione alle manifestazioni di interesse
espresse da cittadini ed imprese (allegato “B” alla delibera impugnata).
L’Amministrazione comunale, nelle proprie memorie, ha infatti evidenziato
come nelle proprie controdeduzioni abbia effettivamente considerato la
proposta della Società ricorrente di allocare unità produttive all’interno
dell’area oggetto di stralcio. Questo, però, non toglie che le opposte
esigenze manifestate dalla Regione valgano a giustificare il potere di
approvazione parziale effettivamente esercitato, considerato che tale
facoltà non è soggetta a vincoli conformativi derivanti dalla diversa
proposta comunale formulata in sede di controdeduzioni.
Considerando la natura giuridica dello “stralcio” ed i connotati che
lo stesso ha assunto nel caso di specie in ordine all’individuazione
dell’area ed alle motivazioni che lo sorreggono, anche questo ulteriore
motivo non risulta fondato
(TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 14.09.2020 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Giusta la giurisprudenza dominante:
- “Le scelte di
politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l'Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, se non per la loro manifesta illogicità,
contraddittorietà o insussistenza dei presupposti";
ciò, al fine
d'evitare "un indebito sconfinamento (del G.A.) nel cd.
<merito amministrativo>"; [.. omissis ..]
- "Le scelte pianificatorie operate dall'Amministrazione costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà
irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione
alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare;
le
stesse, dunque, quando si concentrano nella destinazione di
singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano
stesso e non sono sindacabili, salvo che non risultino
incoerenti con l'impostazione di fondo dell'intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le
caratteristiche oggettive del territorio;
si sottraggono
invece ai principi di cui sopra solo le particolari
situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni, quali l'esistenza di una
convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa
dell'obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un
giudicato di annullamento di diniego di concessione, la
decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione".
---------------
Prima di esaminare le censure con le quali parte ricorrente
lamenta la specifica destinazione della zona impressa sulle
particelle di sua proprietà a seguito dell’approvazione del
PUC, occorre richiamare la giurisprudenza dominante,
condivisa dal Collegio alla luce della quale “Le scelte di
politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di
pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia
discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di
intervento sul proprio territorio circa la destinazione di
singole aree, in funzione delle concrete possibilità
operative che solo l'Amministrazione è in grado di accertare
e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, se non per la loro manifesta illogicità,
contraddittorietà o insussistenza dei presupposti" (TAR
Basilicata, Sez. I, 21/12/2017, n. 792); ciò, al fine
d'evitare "un indebito sconfinamento (del G.A.) nel cd.
<merito amministrativo>" (Consiglio di Stato, Sez. IV,
11/10/2017, n. 4707); [.. omissis ..] "Le scelte pianificatorie operate dall'Amministrazione costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà
irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione
alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare; le
stesse, dunque, quando si concentrano nella destinazione di
singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano
stesso e non sono sindacabili, salvo che non risultino
incoerenti con l'impostazione di fondo dell'intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le
caratteristiche oggettive del territorio; si sottraggono
invece ai principi di cui sopra solo le particolari
situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni, quali l'esistenza di una
convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa
dell'obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un
giudicato di annullamento di diniego di concessione, la
decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione" (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
02/01/2018, n. 2); - per
tutte, TAR Campania, Salerno, Sez. II, 21.05.2018, n.
760.
Al riguardo, premesso che nel caso di specie, la modifica
della destinazione delle particelle di proprietà di parte
ricorrente è avvenuta a seguito della conseguente modifica
della limitrofa particella concernente un bene confiscato,
come ammesso dalla stessa parte ricorrente, non appare
illogica e irragionevole, né in contrasto con la
legislazione vigente, la scelta dell’amministrazione di
destinare a zona F2 l’area sulla quale insiste un bene
confiscato, atta a soddisfare l’esigenza di servizi di
infrastrutture e, quindi, conseguentemente riclassificare
quella di parte ricorrente in ES-Agricola di salvaguardia
periurbana, in quanto posta lateralmente al bene confiscato,
come emerge dalla planimetria prodotta in giudizio dalla
stessa parte ricorrente.
A quanto sopra deve aggiungersi che la valutazione dei beni
confiscati esula dal profilo urbanistico e che le censure
dedotte da parte ricorrente con il terzo motivo di ricorso e
quanto rappresentato in merito nella memoria depositata per
l’udienza di discussione mirino più alla valutazione sociale
del territorio che a quello urbanistica.
Inoltre nella fattispecie per cui è causa non sussistono
particolari situazioni d’affidamento del privato
all'attribuzione, all'area di proprietà, di una diversa e
più favorevole destinazione urbanistica (secondo
l'esemplificazione, contenuta nella massima sopra citata,
“quali l'esistenza di una convenzione di lottizzazione o di
una sentenza dichiarativa dell'obbligo di stipulare la
convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di
diniego di concessione, la decadenza di un vincolo
preordinato all'espropriazione”).
Tali situazioni d'affidamento qualificato non possono farsi
discendere, nello specifico, dalla diversa destinazione
d’uso, assegnata, allo stesso lotto, nella prima versione
del P.U.C. (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 06.03.2019,
n. 375 cit.) a seguito dell’accoglimento della sua istanza,
prodotta nella fase partecipativa del piano preliminare, né
parte ricorrente ha rappresentato quale fosse la precedente
destinazione nel PRG approvato con DPGR n. 9624 del 17.11.1983, richiamato nella delibera di approvazione del PUC oggetto di impugnazione e, pertanto, non è dato
comprendere come la tipizzazione dell’area del PUC approvato
abbia inciso su quella del previgente PRG.
Inoltre, come condivisibilmente sostenuto dal Comune
resistente, non può assumere rilevanza quanto evidenziato
dalla ricorrente in merito ad una pregressa lottizzazione
risalente a quaranta anni addietro. Peraltro parte
ricorrente ha prodotto in giudizio soltanto la concessione
n. 51 risalente al 1978 concernente la realizzazione di
infrastrutture preordinate alla definizione di lotti
edificabili ma non ha dato prova che all’attualità sussista
una delle sopra richiamate situazioni d’affidamento e si è
limitata ad una mera affermazione in merito ad una
preesistente urbanizzazione dell’area, senza tuttavia
fornire adeguata prova al riguardo.
Pertanto devi ritenersi che il vizio procedimentale dedotto
non determini l’illegittimità della delibera di approvazione
del PUC sia in quanto, come detto, nel caso di specie non si
è ravvisata la necessità della ripubblicazione del piano,
sia perché, comunque, l’integrazione del segmento
procedimentale ritenuto inficiato ed inciso dall’eventuale
pronuncia annullatoria non porterebbe ad una diversa
considerazione delle specifiche scelte urbanistiche (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 17.02.2020 n. 728 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’Associazione ricorrente, costituita
nell’anno 1955 e riconosciuta con il D.P.R.
n. 1111 del 1958, si prefigge, tra l’altro,
lo scopo di tutelare il “carattere
ambientale delle città, specialmente in
rapporto allo sviluppo dell’urbanistica
moderna”, avviando tutte le
iniziative idonee a “promuovere azioni per
la tutela, la conservazione e la
valorizzazione dei beni culturali, del
paesaggio urbano, rurale e naturale, dei
monumenti, dei centri storici e della
qualità della vita”.
Sicché, la ricorrente è legittimata ad agire in
giudizio quale Associazione riconosciuta ai
sensi degli artt. 13 e 18, comma 5, della
legge n. 349/1986, e in tale veste può
contestare in giudizio anche gli atti di
pianificazione urbanistica funzionali a
definire e contemperare tutti gli interessi
presenti sul territorio qualora, come nel
caso di specie, si deduca che incidano
negativamente sugli interessi ambientali.
Ciò risulta condiviso da ampia
giurisprudenza, che ha sottolineato come la
tutela degli interessi ambientali può anche
estrinsecarsi attraverso l’impugnazione di
atti amministrativi generali di valenza
urbanistica e di natura pianificatoria e
programmatoria, qualora incidenti
negativamente sui citati profili ambientali,
in ragione della loro strumentalità rispetto
alla corretta valutazione delle ricadute sul
paesaggio e sull’ambiente degli interventi
programmati.
Del resto, secondo i più recenti approdi
giurisprudenziali, il territorio deve essere
considerato non più solo come uno spazio
topografico suscettibile di occupazione
edificatoria, ma va ritenuto una risorsa
complessa che incarna molteplici vocazioni
di tipo ambientale, culturale, produttiva,
storica, ecc..
La stessa giurisprudenza amministrativa ha,
a più riprese, confermato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, in quanto
l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono
essere intesi, sul piano giuridico, solo
come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
---------------
Quanto all’eccepita carenza di
interesse, va evidenziato che le istanze di
cui la ricorrente è istituzionalmente
portatrice –essendo iscritta, come già
sottolineato in precedenza, nell’elenco
delle associazioni che possono intervenire
nei giudizi per danno ambientale e ricorrere
in sede di giurisdizione amministrativa per
l’annullamento di atti illegittimi (artt. 13
e 18, comma 5, della legge n. 349/1986)– oltre a trovare un fondamento normativo,
vanno rapportate anche alla tipologia di
censure dedotte, visto che l’interesse deve
essere ritenuto certamente sussistente nel
caso in cui si eccepisca in via diretta la
lesione del bene ambiente o si contesti
l’attività pianificatoria in relazione alle
sue ricadute sul complessivo sviluppo
dell’ambito territoriale interessato.
Va specificato, nondimeno, che
l’ammissibilità del ricorso, sebbene
riconosciuta in via generale, deve poi
essere verificata partitamente in rapporto
alle singole censure, considerato che
soltanto quelle attraverso le quali si
assume in via diretta la lesione del bene
ambiente o dell’assetto urbanistico sono
suscettibili di esame da parte del Giudice,
mentre per quelle che attengono ad aspetti
solo indirettamente e occasionalmente
collegati all’interesse perseguito
dall’Associazione ricorrente non è ammesso
alcun sindacato giurisdizionale in questa
sede, tenuto conto che l’essere al cospetto
di interessi diffusi non può condurre ad
obliterare la natura soggettiva del giudizio
amministrativo.
Diversamente operando, attraverso l’astratta
legittimazione di un soggetto giuridico, non
associata ad un interesse concreto e
attuale, si perverrebbe ad un giudizio di
tipo oggettivo.
---------------
3. Ancora in via preliminare, va scrutinata
l’eccezione, formulata da tutte le difese
delle parti resistenti, di inammissibilità,
totale o parziale del ricorso, per difetto
di legittimazione attiva e/o per carenza di
interesse dell’Associazione ricorrente.
3.1. L’eccezione è infondata.
L’Associazione ricorrente, costituita
nell’anno 1955 e riconosciuta con il D.P.R.
n. 1111 del 1958, si prefigge, tra l’altro,
lo scopo di tutelare il “carattere
ambientale delle città, specialmente in
rapporto allo sviluppo dell’urbanistica
moderna” (art. 3, dell’Atto costitutivo:
all. 5 al ricorso), avviando tutte le
iniziative idonee a “promuovere azioni per
la tutela, la conservazione e la
valorizzazione dei beni culturali, del
paesaggio urbano, rurale e naturale, dei
monumenti, dei centri storici e della
qualità della vita” (art. 3 dello Statuto:
all. 6 al ricorso).
La ricorrente è legittimata ad agire in
giudizio quale Associazione riconosciuta ai
sensi degli artt. 13 e 18, comma 5, della
legge n. 349 del 1986, e in tale veste può
contestare in giudizio anche gli atti di
pianificazione urbanistica funzionali a
definire e contemperare tutti gli interessi
presenti sul territorio qualora, come nel
caso di specie, si deduca che incidano
negativamente sugli interessi ambientali
(TAR Veneto, II, 18.01.2017, n. 50).
Ciò risulta condiviso da ampia
giurisprudenza, che ha sottolineato come la
tutela degli interessi ambientali può anche
estrinsecarsi attraverso l’impugnazione di
atti amministrativi generali di valenza
urbanistica e di natura pianificatoria e
programmatoria, qualora incidenti
negativamente sui citati profili ambientali,
in ragione della loro strumentalità rispetto
alla corretta valutazione delle ricadute sul
paesaggio e sull’ambiente degli interventi
programmati (Consiglio di Stato, V, 24.05.2018, n. 3109; IV, 14.04.2011, n.
2329; TAR Veneto, II, 18.01.2017, n.
50).
Del resto, secondo i più recenti approdi
giurisprudenziali, il territorio deve essere
considerato non più solo come uno spazio
topografico suscettibile di occupazione
edificatoria, ma va ritenuto una risorsa
complessa che incarna molteplici vocazioni
di tipo ambientale, culturale, produttiva,
storica, ecc. (Corte costituzionale,
sentenza n. 179 del 16.07.2019).
La stessa giurisprudenza amministrativa ha,
a più riprese, confermato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, in quanto
l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono
essere intesi, sul piano giuridico, solo
come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n.
2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; 19.02.2015, n.
839; TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1896; 17.04.2019, n. 868; 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n.
1534).
3.2. Quanto all’eccepita carenza di
interesse, va evidenziato che le istanze di
cui la ricorrente è istituzionalmente
portatrice –essendo iscritta, come già
sottolineato in precedenza, nell’elenco
delle associazioni che possono intervenire
nei giudizi per danno ambientale e ricorrere
in sede di giurisdizione amministrativa per
l’annullamento di atti illegittimi (artt. 13
e 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986)– oltre a trovare un fondamento normativo,
vanno rapportate anche alla tipologia di
censure dedotte, visto che l’interesse deve
essere ritenuto certamente sussistente nel
caso in cui si eccepisca in via diretta la
lesione del bene ambiente o si contesti
l’attività pianificatoria in relazione alle
sue ricadute sul complessivo sviluppo
dell’ambito territoriale interessato (cfr.
TAR Campania, Salerno, II, 25.07.2019, n. 1420).
3.3. Va specificato, nondimeno, che
l’ammissibilità del ricorso, sebbene
riconosciuta in via generale, deve poi
essere verificata partitamente in rapporto
alle singole censure, considerato che
soltanto quelle attraverso le quali si
assume in via diretta la lesione del bene
ambiente o dell’assetto urbanistico sono
suscettibili di esame da parte del Giudice,
mentre per quelle che attengono ad aspetti
solo indirettamente e occasionalmente
collegati all’interesse perseguito
dall’Associazione ricorrente non è ammesso
alcun sindacato giurisdizionale in questa
sede, tenuto conto che l’essere al cospetto
di interessi diffusi non può condurre ad
obliterare la natura soggettiva del giudizio
amministrativo.
Diversamente operando,
attraverso l’astratta legittimazione di un
soggetto giuridico, non associata ad un
interesse concreto e attuale, si perverrebbe
ad un giudizio di tipo oggettivo (TAR
Lombardia, Milano, III, 21.02.2017, n.
436; cfr. anche Consiglio di Stato, V, 01.04.2014, n. 1572).
3.4. Da ciò discende l’ammissibilità, in via
generale, del ricorso proposto
dall’Associazione ricorrente, con la
specificazione legata alla verifica della
stessa in rapporto ad ogni singola censura
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.11.2019 n. 2500 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
URBANISTICA: L’art. 34 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo
unico degli Enti locali) nel definire e
disciplinare gli accordi di programma non
impedisce affatto che vi partecipino
soggetti privati, ma richiede soltanto che
si tratti di interventi preordinati alla
tutela di un interesse pubblico e involgenti
la competenza di più Amministrazioni
statali, locali o regionali, o di altri
soggetti pubblici.
La partecipazione dei privati ad un accordo
di programma, fermo restando il necessario e
doveroso perseguimento dell’interesse
pubblico, deve ritenersi ammissibile sulla
scorta di diverse ragioni, tutte finalizzate
a rendere lo strumento convenzionale, oltre
che duttile, anche efficace.
In primo luogo, la
partecipazione del privato non può essere
esclusa a priori nell’esercizio di attività
di carattere pubblicistico o di natura autoritativa,
visto che l’art. 11 della legge n. 241 del
1990, consentendo alla singola
amministrazione di stipulare accordi
integrativi o sostitutivi di provvedimenti,
non può non applicarsi anche laddove si è al
cospetto di una pluralità di amministrazioni
coinvolte.
L’applicazione in
senso riduttivo dell’art. 34 citato, ossia
la previsione di una riserva di
partecipazione all’accordo soltanto alle
Amministrazioni pubbliche, creerebbe delle
problematiche nei casi in cui debbono essere
coinvolti anche soggetti privati a parziale
o totale controllo pubblico, magari
costituiti appositamente per attuare accordi
di partenariato pubblico-privato. Gli
accordi di programma sarebbero altresì
impediti nei casi in cui per la loro
attuazione fosse necessario l’intervento del
privato che, come nel caso de quo, è
titolare di una posizione o di diritti che
sono un presupposto di fattibilità
dell’accordo.
Infine, la pretermissione del
privato dall’accordo, seppure fosse
superabile ricorrendo a strumenti di tipo
ablatorio o similari, renderebbe impossibile
la previsione di oneri contrattuali a suo
carico, con la conseguente assenza di
garanzie in favore degli enti pubblici
coinvolti: si pensi agli obblighi di
bonifica di un sito inquinato e alle opere
di urbanizzazione poste a carico dei privati
coinvolti nell’attuazione di programmi di
rilievo pubblicistico (come è successo nella
specie, essendosi il privato impegnato a
corrispondere un contributo straordinario
aggiuntivo rispetto all’importo degli oneri
e dello standard dovuto, pari a un milione
di euro, e si è impegnato in attività di
bonifica).
Nemmeno appare violato il disposto di cui
all’art. 6 della legge regionale n. 2 del
2003, visto che lo stesso al comma 12, nel
regolamentare gli accordi di programma
promossi da enti diversi dalla Regione,
stabilisce anche la parte di disciplina che
si può applicare ai predetti accordi,
escludendosi perciò in tali frangenti una
sua applicazione integrale.
Appare, peraltro, evidente che la scelta
delle aree su cui effettuare gli interventi,
oltre che dei progetti da realizzare, come
accade in relazione a tutti i procedimenti
di pianificazione territoriale, rientra
nella piena discrezionalità
dell’Amministrazione e risulta insindacabile
da parte del giudice amministrativo (“le
scelte riguardanti la classificazione dei
suoli sono sorrette da ampia discrezionalità
e in tale ambito la posizione dei privati
risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in
quanto scelte di merito non sindacabili dal
giudice amministrativo”).
---------------
6. Con la seconda censura si assume la violazione
dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267 del 2000, in
quanto la partecipazione all’Accordo di
Programma sarebbe stata estesa
illegittimamente anche a soggetti privati,
mentre ne sarebbero stati esclusi soggetti
pubblici direttamente interessati, come la
Città metropolitana; l’Accordo non sarebbe
conforme nemmeno al disposto dell’art. 6
della legge regionale n. 2 del 2003, vista
la mancata osservanza del procedimento ivi
disciplinato e il coinvolgimento del tutto
strumentale di soggetti privati, finalizzato
al perseguimento di interessi estranei a
quelli pubblici.
6.1. La doglianza è infondata.
L’art. 34 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo
unico degli Enti locali) nel definire e
disciplinare gli accordi di programma non
impedisce affatto che vi partecipino
soggetti privati, ma richiede soltanto che
si tratti di interventi preordinati alla
tutela di un interesse pubblico e involgenti
la competenza di più Amministrazioni
statali, locali o regionali, o di altri
soggetti pubblici.
La partecipazione dei privati ad un accordo
di programma, fermo restando il necessario e
doveroso perseguimento dell’interesse
pubblico, certamente sussistente nella
vicenda de qua, deve ritenersi ammissibile
sulla scorta di diverse ragioni, tutte
finalizzate a rendere lo strumento
convenzionale, oltre che duttile, anche
efficace (Consiglio di Stato, IV, 29.07.2008, n. 3757; TAR Piemonte, II, 16.05.2018, n. 604).
In primo luogo, la
partecipazione del privato non può essere
esclusa a priori nell’esercizio di attività
di carattere pubblicistico o di natura autoritativa, visto che l’art. 11 della
legge n. 241 del 1990, consentendo alla
singola amministrazione di stipulare accordi
integrativi o sostitutivi di provvedimenti,
non può non applicarsi anche laddove si è al
cospetto di una pluralità di amministrazioni
coinvolte (cfr. Cass. civ., SS.UU., 07.01.2016, n. 64).
L’applicazione in
senso riduttivo dell’art. 34 citato, ossia
la previsione di una riserva di
partecipazione all’accordo soltanto alle
Amministrazioni pubbliche, creerebbe delle
problematiche nei casi in cui debbono essere
coinvolti anche soggetti privati a parziale
o totale controllo pubblico, magari
costituiti appositamente per attuare accordi
di partenariato pubblico-privato. Gli
accordi di programma sarebbero altresì
impediti nei casi in cui per la loro
attuazione fosse necessario l’intervento del
privato che, come nel caso de quo, è
titolare di una posizione o di diritti che
sono un presupposto di fattibilità
dell’accordo.
Infine, la pretermissione del
privato dall’accordo, seppure fosse
superabile ricorrendo a strumenti di tipo
ablatorio o similari, renderebbe impossibile
la previsione di oneri contrattuali a suo
carico, con la conseguente assenza di
garanzie in favore degli enti pubblici
coinvolti: si pensi agli obblighi di
bonifica di un sito inquinato e alle opere
di urbanizzazione poste a carico dei privati
coinvolti nell’attuazione di programmi di
rilievo pubblicistico (come è successo nella
specie, essendosi il privato impegnato a
corrispondere un contributo straordinario
aggiuntivo rispetto all’importo degli oneri
e dello standard dovuto, pari a un milione
di euro, e si è impegnato in attività di
bonifica).
Nemmeno appare violato il disposto di cui
all’art. 6 della legge regionale n. 2 del
2003, visto che lo stesso al comma 12, nel
regolamentare gli accordi di programma
promossi da enti diversi dalla Regione,
stabilisce anche la parte di disciplina che
si può applicare ai predetti accordi,
escludendosi perciò in tali frangenti una
sua applicazione integrale.
Una volta accertata, in via generale, la
legittimità della partecipazione dei privati
all’accordo di programma, va anche chiarito
che nella fattispecie de qua il
coinvolgimento di alcuni soggetti privati si
giustifica con la circostanza che questi
ultimi sono proprietari di aree direttamente
coinvolte nell’attuazione dell’accordo di
programma, in assenza delle quali, tale
accordo non avrebbe potuto essere attuato
efficacemente, venendo meno l’oggetto
principale che ha indotto le Amministrazioni
pubbliche a dare avvio ad un tale
procedimento; in particolare Sa.
risultava proprietaria di un compendio
immobiliare, sito in Via ... n. 1,
facente parte della Zona Speciale Farini –
Unità di intervento Farini – Valtellina
dell’Accordo di Programma (all. 1S e 1G del
Comune), che risulta strategico in quanto
collega il comparto con la zona Garibaldi,
il quartiere Isola ed il Cimitero
Monumentale. Ciò rende ragionevole la
determinazione delle Amministrazioni in
ordine al coinvolgimento dei privati –peraltro avvenuta formalmente soltanto il 29.05.2017– nella redazione e
nell’approvazione dell’accordo.
Appare, peraltro, evidente che la scelta
delle aree su cui effettuare gli interventi,
oltre che dei progetti da realizzare, come
accade in relazione a tutti i procedimenti
di pianificazione territoriale, rientra
nella piena discrezionalità
dell’Amministrazione e risulta insindacabile
da parte del giudice amministrativo (“le
scelte riguardanti la classificazione dei
suoli sono sorrette da ampia discrezionalità
e in tale ambito la posizione dei privati
risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in
quanto scelte di merito non sindacabili dal
giudice amministrativo”: cfr. Consiglio di
Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR
Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n.
1895; 04.04.2019, n. 751).
6.2. Da quanto evidenziato discende il
rigetto anche del suesposto motivo di
ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.11.2019 n. 2500 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte
riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei
privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste,
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo, nel caso non sussistenti.
Difatti, lo strumento urbanistico previgente classificava
l’area in parte in zona omogenea F (attrezzature pubbliche)
ed in parte in zona omogenea E (agro-silvo-pastorale).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la
destinazione di un’area a verde agricolo non implica
necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e
immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con
le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la
necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di
garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali
necessaria a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano.
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto,
evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica
devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed
ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere
conto delle esigenze legate alla tutela di interessi
costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
----------------
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità
edificatorie del comparto di proprietà dei ricorrenti,
rispetto alle previsioni contenute nel Piano adottato, deve
richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in
materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega
l’interesse dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in
sede giurisdizionale.
---------------
Le scelte di
pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale
ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice
amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale
riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale costituiscono
scelte di merito, che non possono essere sindacate dal
giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che
non è configurabile il vizio di eccesso di potere per
disparità di trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili adiacenti.
---------------
2. Con il primo motivo si assume l’illegittimità
della destinazione agricola impressa all’area di proprietà
dei ricorrenti, essendo la stessa assolutamente immotivata e
priva di un adeguato supporto istruttorio; del resto, in
sede di adozione del Piano sarebbero state ben individuate
le caratteristiche dell’area e la Provincia, attraverso il
parere di compatibilità con il P.T.C.P., non avrebbe imposto
affatto una modifica della destinazione dell’area rispetto
al Piano adottato; inoltre, vi sarebbe una disparità di
trattamento rispetto ad altri comparti che sarebbero stati
resi edificabili, seguendo un procedimento inverso rispetto
a quello che ha riguardato i terreni dei ricorrenti.
2.1. La doglianza è infondata.
La motivazione, posta a supporto della destinazione agricola
impressa al comparto in cui è situata l’area di proprietà
dei ricorrenti, con riguardo al Piano approvato in via
definitiva, specifica che «si prende atto
dell’appartenenza [dell’area] al sistema
paesistico-ambientale e della prevalente valenza paesistica.
Anche in considerazione della presenza di antenne di
telecomunicazione si riconduce l’area ad ambito agricolo»
(all. 1 al ricorso, P13); una tale motivazione trova il
presupposto nella prescrizione della Provincia, che assume
come l’area RCC18 riportata «nella tavola quadro
strutturale 3 – sistema rurale paesistico ambientale, è
classificata tra gli ambiti a prevalente valenza paesistica
da sottoporre a tutela di cui all’art. 60 delle NdA del
P.T.C.P. (ambito C2) ed inoltre si chiede di valutare la
previsione in relazione anche all’adiacente area della
antenne presenti in Valcava» (all. 10 al ricorso).
Il citato art. 60 delle N.d.A. del P.T.C.P. (all. 9 al
ricorso) dispone che, per gli ambiti a prevalente valenza
paesistica di interesse provinciale (C2), gli strumenti di
pianificazione generale possano consentire limitate
utilizzazioni di aree contigue ai tessuti edificati, per
ospitare il soddisfacimento dei fabbisogni insediativi
strettamente commisurati alla domanda endogena, oltre al
compimento delle opere necessarie per la realizzazione di
infrastrutture di rete dei servizi di pubblico interesse
(punti 5 e 7); in tal modo si evidenzia l’eccezionalità
dell’utilizzo a fini edificatori delle predette aree, con
ciò giustificando la scelta del Comune di preservare il
contesto, quale affermazione della regola generale contenuta
nella disposizione sopra menzionata.
Il Comune, quindi, anche per riscontrare l’osservazione
provinciale –sebbene formulata in modo non prescrittivo– ha
ritenuto di azzonare l’ambito come agricolo, modificando la
destinazione impressa allo stesso in sede di adozione.
Anche in considerazione del contenuto del parere di
compatibilità provinciale, in precedenza richiamato e posto
alla base del recepimento dell’osservazione, va sottolineato
come le valutazioni effettuate dal Comune appaiono
pienamente ragionevoli e assolutamente giustificate e
coerenti con i presupposti di fatto e le risultanze
istruttorie.
Del resto, secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte
riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei
privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste,
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV,
12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019,
n. 751; 27.02.2017, n. 451).
Difatti, lo strumento urbanistico previgente classificava
l’area in parte in zona omogenea F (attrezzature pubbliche)
ed in parte in zona omogenea E (agro-silvo-pastorale).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la
destinazione di un’area a verde agricolo non implica
necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e
immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con
le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la
necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di
garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali
necessaria a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, Consiglio di
Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR
Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2017, n.
451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto,
evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica
devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed
ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere
conto delle esigenze legate alla tutela di interessi
costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio
di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n.
821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II,
22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità
edificatorie del comparto di proprietà dei ricorrenti,
rispetto alle previsioni contenute nel Piano adottato, deve
richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in
materia urbanistica, non opera il principio del divieto di
reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega
l’interesse dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in
sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566;
15.12.2017, n. 2393).
2.2. Ulteriormente, la diversa collocazione della proprietà
dei ricorrenti rispetto a quelle di altri soggetti, seppure
poste tra loro in rapporto di prossimità, giustifica
certamente una differente classificazione urbanistica delle
stesse, anche in conseguenza della disomogeneità degli
interventi da effettuarsi nei vari comparti edificatori e in
ragione della loro consistenza.
Pertanto, in assenza di omogeneità delle zone poste in
comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non
è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una
parità di trattamento, tanto meno in relazione all’assetto
urbanistico del territorio, dove l’Amministrazione dispone
della più ampia discrezionalità, non rilevando affatto
l’ampiezza dei lotti interessati dalle differenti
previsioni.
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto
espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili
dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti:
a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle
autorità preposte alla pianificazione territoriale
costituiscono scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che
non è configurabile il vizio di eccesso di potere per
disparità di trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili adiacenti (TAR
Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2018, n.
567; si veda pure Consiglio di Stato, IV, 16.01.2012, n.
119).
2.3. Pertanto, la suesposta censura va respinta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Aderendo all’indirizzo della Corte
costituzionale, va ribadito che sono estranei allo schema
ablatorio-espropriativo, con le connesse garanzie
costituzionali, i vincoli che importano una destinazione
realizzabile ad iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, come nel caso de quo, che non comportino
l’espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa
pubblica.
---------------
4. Con la terza doglianza si deduce l’illegittimità
delle previsioni pianificatorie che attraverso la
destinazione dell’area ad uso pubblico avrebbero
sostanzialmente dato luogo ad uno svuotamento della capacità
edificatoria del lotto e quindi posto in essere un’attività
di tipo ablatorio, senza alcuna motivazione e senza alcun
ristoro.
4.1. La doglianza è infondata.
La zonizzazione impressa all’area dei ricorrenti non ha
determinato affatto conseguenze di natura ablatoria, atteso
che dall’esame del Piano dei Servizi emerge l’attribuzione «a
tutte le aree standard da acquisire alla proprietà pubblica,
e/o da destinare ad interesse pubblico, non comprese in
Piani Attuativi, un indice volumetrico “bonus” da utilizzare
negli ambiti residenziali di trasformazione o negli ambiti
urbani consolidati in ragione di 0,25 mc/mq [mentre] nel
caso in cui sulle aree di cui al punto 1 l’intervento sia
realizzato da parte dei privati in regime di convenzione per
l’uso pubblico, decade l’utilizzabilità del “bonus” ivi
definito» (all. 19 al ricorso, pag. 4). Ciò sottolinea
come gli interventi prospettati siano realizzabili anche ad
iniziativa privata, sebbene previa stipula di una
convenzione con l’Ente pubblico.
Pertanto, aderendo all’indirizzo della Corte costituzionale,
va ribadito che sono estranei allo schema
ablatorio-espropriativo, con le connesse garanzie
costituzionali, i vincoli che importano una destinazione
realizzabile ad iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, come nel caso de quo, che non
comportino l’espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica (Corte costituzionale, sentenza
20.05.1999, n. 179; TAR Lombardia, Milano, II, 03.12.2018,
n. 2724; 27.02.2018, n. 566; TAR Piemonte, II, 29.01.2016,
n. 133).
4.2. Ciò determina il rigetto anche della sopraesposta
doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Allorché nelle more del giudizio di
impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga
altro strumento, completamente sostitutivo del precedente,
più nessun interesse a discutere sul precedente strumento
urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia
riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti
un’eventuale pronuncia sul primo atto “inutiliter data”.
---------------
2. Sempre in via preliminare, va dichiarata l’improcedibilità
del ricorso R.G. n. 228/2008, in quanto proposto avverso una
Variante al P.R.G. approvata nel 2007, che risulta essere
stata superata con l’approvazione del P.G.T. nel 2012, a sua
volta impugnato con il ricorso R.G. n. 122/2013; inoltre,
all’impugnazione del Regolamento comunale di igiene, vigente
nel 2008, non ha fatto seguito l’impugnazione da parte dei
ricorrenti delle modifiche allo stesso apportate negli anni
2010 e 2011 (cfr. all. 11 del Comune).
Pertanto, secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa
dal Collegio, «allorché nelle more del giudizio di
impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga
altro strumento, completamente sostitutivo del precedente,
più nessun interesse a discutere sul precedente strumento
urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia
riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti
un’eventuale pronuncia sul primo atto “inutiliter data”»
(TAR Lombardia, Milano, II, 30.07.2018, n. 1877; 02.05.2018, n. 1191; altresì Consiglio di Stato, IV,
03.06.2010, n. 3538).
2.1. Di conseguenza, il ricorso R.G. n. 228/2008 va
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.08.2018 n. 1945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha
evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica
devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed
ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare
l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto
l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di
pianificazione, non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, così
offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul
proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo
ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di
pianificazione territoriale ben può tenere conto delle
esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli contemplati
dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta
all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i
predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali
quelli della produzione o delle attività antropiche più in
generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in
via assoluta.
In ogni caso va ribadito che le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da ampia
discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati
risulta recessiva rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste,
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato dei privati ad una specifica destinazione del
suolo, nel caso non sussistenti.
---------------
In materia urbanistica non opera il principio
del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte che relega
l’interesse dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede
giurisdizionale.
L’eccepito difetto di motivazione della scelta pianificatoria posta in essere dal Comune, oltre ad apparire
in fatto infondato, risulta smentito anche dal consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione
dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del
territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel
procedimento di formazione dello strumento medesimo, con
conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò
competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a
quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione
illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione delle singole
aree.
Pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad
esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse,
essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto
con i principi ispiratori del piano”.
---------------
5.2. I ricorrenti poi, in sede di presentazione delle
osservazioni, hanno lamentato l’illegittima destinazione
dell’area di loro proprietà, in cui è situato l’allevamento
suinicolo, in parte ad ambito di non trasformazione
urbanistica, in parte ad ambito agricolo di valenza
ambientale e in parte ad ambito di trasformazione a verde a
valenza paesistica ambientale, piuttosto che il
riconoscimento della più confacente destinazione ad ambiti
agricoli produttivi.
Va chiarito peraltro che la
destinazione impressa con il P.G.T. non ha avuto alcun
impatto sulla consistenza dell’allevamento suinicolo già
legittimamente insediato, ma è finalizzata ad impedire
soltanto una sua espansione futura.
Le ragioni poste alla base della scelta pianificatoria
comunale sono da ricercare nelle previsioni del P.T.C.P. di
Lodi che hanno inserito l’area de qua in un Ambito Agricolo
di Interesse Paesaggistico; al fine di garantire
l’omogeneità del predetto contesto il Comune ha ritenuto di
non poter riconoscere la destinazione ad ambito agricolo
produttivo dei terreni di proprietà dei ricorrenti (cfr.
doc. 13 al ricorso, allegato “F”, punto 33).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato
che all’interno della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed
ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare
l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio
di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto
l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di
pianificazione, non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di proprietà, così
offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul
proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo
ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di
pianificazione territoriale ben può tenere conto delle
esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli contemplati
dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta
all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i
predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali
quelli della produzione o delle attività antropiche più in
generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in
via assoluta (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012,
n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015,
n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 18.06.2018, n.
1534).
In ogni caso va ribadito che le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da ampia
discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati
risulta recessiva rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non
sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste,
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato dei privati ad una specifica destinazione del
suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
Del resto, gli specifici rilievi formulati dai ricorrenti,
oltre ad impingere nel merito delle scelte
dell’Amministrazione, non si fondano su elementi obiettivi
in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente
irragionevolezza delle determinazioni comunali in relazione
ai dati fattuali posti alla base delle stesse, soprattutto
avuto riguardo alla decisione di conservare l’omogeneità di
un Ambito con rilevanza paesaggistica, già individuato a
livello di pianificazione provinciale.
Oltretutto, in materia urbanistica, non opera il principio
del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale
materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte che relega
l’interesse dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede
giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n.
566; 15.12.2017, n. 2393).
5.3. L’eccepito difetto di motivazione della scelta
pianificatoria posta in essere dal Comune, oltre ad apparire
in fatto infondato, risulta smentito anche dal consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione
dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del
territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel
procedimento di formazione dello strumento medesimo, con
conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò
competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a
quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione
illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione delle singole
aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad
esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse,
essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto
con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia,
Milano, II, 20.06.2017, n. 1371; 30.03.2017, n. 761;
altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317).
5.4. Ciò determina il rigetto delle predette censure e,
quindi, dell’intero ricorso R.G. n. 122/2013 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.08.2018 n. 1945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal
Collegio, nelle controversie relative all’impugnazione di
strumenti urbanistici generali non sono ravvisabili soggetti
controinteressati.
Invero, la funzione esclusiva del
piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato
assetto del territorio comunale, prescindendo dal
considerare le posizioni dei titolari di diritti reali,
anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli
svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione.
Ciò anche in considerazione del fatto che laddove venisse
annullato l’atto di pianificazione generale, ne
discenderebbe l’automatica caducazione dei Piani di settore
o attuativi contemplati dal predetto strumento generale.
---------------
1.1. In primo luogo deve essere esaminata l’eccezione di
inammissibilità del ricorso per mancata notifica dello
stesso ad almeno un controinteressato, fondata sull’avvenuta
impugnazione di specifiche previsioni relative ad alcuni
ambiti A.T.E. (Ambito di trasformazione esterna), che
avrebbe reso necessaria l’evocazione in giudizio anche dei
soggetti beneficiari di tali Piani attuativi.
1.2. L’eccezione è infondata.
Secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal
Collegio, nelle controversie relative all’impugnazione di
strumenti urbanistici generali non sono ravvisabili soggetti
controinteressati (Consiglio di Stato, V, 04.09.2013,
n. 4411; IV, 05.03.2013, n. 1344; TAR Basilicata, I, 17.07.2017, n. 503).
Invero, la funzione esclusiva del
piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato
assetto del territorio comunale, prescindendo dal
considerare le posizioni dei titolari di diritti reali,
anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli
svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione.
Ciò anche in considerazione del fatto che laddove venisse
annullato l’atto di pianificazione generale, ne
discenderebbe l’automatica caducazione dei Piani di settore
o attuativi contemplati dal predetto strumento generale.
Pertanto, la prima eccezione deve essere respinta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza ha affermato che i motivi di
ricorso non devono essere necessariamente rubricati in modo
puntuale, né devono essere espressi con formulazione
giuridica assolutamente rigorosa, bastando che siano esposti
con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di
prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a
supporto della domanda finale, come altresì chiarito
dall’art. 40 del cod. proc. amm. nel quale si richiede
l’esposizione “dei motivi specifici su cui si fonda il
ricorso”.
---------------
1.3. Con una ulteriore eccezione viene dedotta la
nullità del ricorso per genericità delle censure, in quanto
non ancorate a dati concreti e idonei a fondare la domanda
attorea.
1.4. Anche la predetta eccezione è infondata.
Dalla lettura del ricorso si ricavano perfettamente sia il
contenuto della domanda che le ragioni fattuali e giuridiche
poste a fondamento della stessa; è poi una questione
attinente al merito del gravame quella relativa alla
fondatezza o meno delle pretese ivi formulate e alla
compiuta ed esaustiva dimostrazione degli elementi posti
alla base delle stesse.
La giurisprudenza ha affermato, difatti, che i motivi di
ricorso non devono essere necessariamente rubricati in modo
puntuale, né devono essere espressi con formulazione
giuridica assolutamente rigorosa, bastando che siano esposti
con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di
prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a
supporto della domanda finale, come altresì chiarito
dall’art. 40 del cod. proc. amm. nel quale si richiede
l’esposizione “dei motivi specifici su cui si fonda il
ricorso” (cfr. Consiglio di Stato, III, 25.10.2016, n.
4463; VI, 09.07.2012, n. 4006).
Ne discende, pertanto, il rigetto anche della suesposta
eccezione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale, va premesso che la mancata impugnazione
della delibera di approvazione di un piano urbanistico non
determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso la
delibera comunale di adozione del medesimo, poiché
l’annullamento di quest’ultima esplica effetti caducanti e
non meramente vizianti sul successivo provvedimento di
approvazione, nella parte in cui conferma le previsioni
contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Ne discende perciò che anche l’avvenuta successiva
approvazione dei Piani di settore o attuativi di quello
generale non determina, nemmeno parzialmente, l’improcedibilità
del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in
ragione del rapporto di presupposizione dell’atto
pianificatorio generale rispetto a quello attuativo e del
suo effetto caducante e non meramente viziante.
---------------
1.5. Con un’ultima eccezione si assume l’improcedibilità
del ricorso nella parte in cui è rivolta all’attuazione
dell’ambito A.T.E. 10, essendo intervenuta nel corso del
giudizio la sua approvazione con atto del Consiglio
comunale, non oggetto di specifica impugnazione.
1.6. L’eccezione è infondata.
In linea generale, va premesso che la mancata impugnazione
della delibera di approvazione di un piano urbanistico non
determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso la
delibera comunale di adozione del medesimo, poiché
l’annullamento di quest’ultima esplica effetti caducanti e
non meramente vizianti sul successivo provvedimento di
approvazione, nella parte in cui conferma le previsioni
contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa
(ex multis, TAR Piemonte, II, 10.01.2017, n. 42).
Ne discende perciò che anche l’avvenuta successiva
approvazione dei Piani di settore o attuativi di quello
generale non determina, nemmeno parzialmente, l’improcedibilità
del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in
ragione del rapporto di presupposizione dell’atto
pianificatorio generale rispetto a quello attuativo e del
suo effetto caducante e non meramente viziante.
Quindi, anche la predetta eccezione va respinta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In termini generali, osserva il Collegio che:
a) la necessità di fare riferimento ad una nozione ampia e
funzionalizzata del concetto di “governo del territorio” è
stata a più riprese affermata dalla Sezione, anche di
recente, e costituisce indirizzo dal quale il Collegio non
intende discostarsi:
a1) invero, “il potere di pianificazione
urbanistica del territorio -la cui attribuzione e
conformazione normativa è costituzionalmente conferita ex
art. 117 comma 3, Cost.alla potestà legislativa concorrente
dello Stato e delle Regioni ed il cui esercizio è
normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori
livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune,- non è
limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone
del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità
e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere
di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione
ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina
coordinata della edificazione dei suoli -e, al massimo, ai
tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo
definiti-, ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo
delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della
comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico
rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di
rispetto e di positiva attuazione di valori
costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive
dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della
"disciplina urbanistica e dei suoi scopi" -art. 1-, non solo
nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche
nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della
Repubblica"; in definitiva, l'urbanistica, ed il correlativo
esercizio del potere di pianificazione, non possono essere
intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento
delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma
devono essere ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.”): la nozione
ampia di “governo del territorio”, comportando la potestà
legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata,
sulla potestà amministrativa dei comuni in subiecta materia;
b) come è noto, nel sistema giuridico italiano all’ente
Comune è tradizionalmente affidata la funzione
amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla
nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma III, della Costituzione) che esso esercita, di regola
attraverso una duplice direttrice:
b1) invero, “in tema di disposizioni
dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti
urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano
regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento
generale individuato dalla normativa statale e regionale,
occorre differenziare tra le prescrizioni che in via
immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della
porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le
norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a
soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre
regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio
dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme
tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio
e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze;
la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati
usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali
ecc.: “.
Con più specifica aderenza alla
tematica oggetto di esame, il Collegio non intende decampare
dai principi di recente affermati dalla decisione della
Sezione n. 2026/2017 (peraltro resa con riferimento
all’insediamento di una struttura di vendita in un comune
della regione Liguria) nell’ambito della quale si è
affermato che “oggetto della
presente controversia è la verifica della compatibilità dei
limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica
con i principi in materia di liberalizzazione del mercato
dei servizi sanciti dalla direttiva 123/2006/CE e dai
provvedimenti legislativi che vi hanno dato attuazione.
La premessa di fondo è che la disciplina comunitaria della
liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto
come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad
esercitare sempre e comunque l'attività economica, dovendo,
anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere,
demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione
urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli
produttivi e commerciali.
La questione, pertanto, involge tipicamente un giudizio
sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte
dall'autorità comunale rispetto alle effettive esigenze di
tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto
del territorio; esigenze che, per l'appunto, devono essere
sempre riconducibili a motivi imperativi di interesse
generale e non fondate su ragioni meramente economiche e
commerciali, che si pongano quale ostacolo o limitazione al
libero esercizio dell'attività di impresa che non deve
comunque svolgersi in contrasto con l'utilità sociale (in
argomento da ultimo, proprio in materia di apertura di
strutture di vendita e di rapporti fra la direttiva
12.12.2006 n. 2006/123/CE, c.d. Bolkestein, v. Corte cost.,
25.02.2016, n. 39; Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1860;
13.01.2014, n. 70).
Alla stregua dei superiori principi, la sintesi che ne
può discendere è la seguente:
a) è consentito ai comuni di operare scelte di pianificazione al
fine di garantire un corretto insediamento delle strutture
di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi
all'ambiente urbano;
b) le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, infatti,
rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto
del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli
esercizi. La diversità degli interessi pubblici tutelati
impedisce di attribuire in astratto prevalenza, alle norme
in materia commerciale rispetto al piano urbanistico;
c) di regola, la anticoncorrenzialità della disposizione preclusiva
ricorre allorché essa si sostanzi in valutazioni estrinseche
di natura prettamente economica o commerciale (rectius: tali
valutazioni costituiscono indici univoci di anticoncorrenzialità).
---------------
3. Così risolte le problematiche di natura pregiudiziale, ed accertato che
non esistono ostacoli alla possibilità di pervenire alla
decisione di merito, può adesso passarsi alla disamina delle
(censure contenute nell’appello.
3.1. Osserva in proposito il Collegio, che:
a) la necessità di fare riferimento ad una nozione ampia e
funzionalizzata del concetto di “governo del territorio” è
stata a più riprese affermata dalla Sezione, anche di
recente, e costituisce indirizzo dal quale il Collegio non
intende discostarsi (tra le tante: Consiglio di Stato, sez. IV, 22/02/2017, n. 821 “il potere di pianificazione
urbanistica del territorio -la cui attribuzione e
conformazione normativa è costituzionalmente conferita ex
art. 117 comma 3, Cost.alla potestà legislativa concorrente
dello Stato e delle Regioni ed il cui esercizio è
normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori
livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune,- non è
limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone
del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità
e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere
di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione
ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina
coordinata della edificazione dei suoli -e, al massimo, ai
tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo
definiti-, ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo
delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della
comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico
rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di
rispetto e di positiva attuazione di valori
costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive
dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della
"disciplina urbanistica e dei suoi scopi" -art. 1-, non solo
nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche
nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della
Repubblica"; in definitiva, l'urbanistica, ed il correlativo
esercizio del potere di pianificazione, non possono essere
intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento
delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma
devono essere ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.”): la nozione
ampia di “governo del territorio”, comportando la potestà
legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata,
sulla potestà amministrativa dei comuni in subiecta materia;
b) come è noto, nel sistema giuridico italiano all’ente
Comune è tradizionalmente affidata la funzione
amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla
nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma III, della Costituzione) che esso esercita, di regola
attraverso una duplice direttrice (tra le tante Cons. Stato
Sez. VI, 30.06.2011, n. 3888 “in tema di disposizioni
dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti
urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano
regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento
generale individuato dalla normativa statale e regionale,
occorre differenziare tra le prescrizioni che in via
immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della
porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le
norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a
soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre
regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio
dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme
tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio
e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze;
la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati
usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali
ecc.: “).
3.2. Se questo è il quadro generale, occorre avvertire che
la giurisprudenza si è a più riprese interrogata sulla
“tenuta” e sulla complessiva compatibilità di tali principi
con le numerose innovazioni legislative (talune anche
conseguenti a determinazioni comunitarie) sopravvenute medio tempore, che hanno dettato discipline “particolari” con
riferimento a variegate tipologie di insediamenti (esempio:
quelli dedicati alla produzione di energia da fonti
rinnovabili, le strutture di vendita etc.).
3.2.1. Con più specifica aderenza alla tematica oggetto di
esame, il Collegio non intende decampare dai principi di
recente affermati dalla decisione della Sezione n. 2026 del
2017 (peraltro resa con riferimento all’insediamento di una
struttura di vendita in un comune della regione Liguria)
nell’ambito della quale si è affermato che “oggetto della
presente controversia è la verifica della compatibilità dei
limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica
con i principi in materia di liberalizzazione del mercato
dei servizi sanciti dalla direttiva 123/2006/CE e dai
provvedimenti legislativi che vi hanno dato attuazione.
La premessa di fondo è che la disciplina comunitaria della
liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto
come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad
esercitare sempre e comunque l'attività economica, dovendo,
anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere,
demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione
urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli
produttivi e commerciali.
La questione, pertanto, involge tipicamente un giudizio
sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte
dall'autorità comunale rispetto alle effettive esigenze di
tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto
del territorio (cfr. Corte giustizia UE, sez. IV, 26.11.2015, n. 345; sez. II, 24.03.2011, n. 400);
esigenze che, per l'appunto, devono essere sempre
riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e
non fondate su ragioni meramente economiche e commerciali,
che si pongano quale ostacolo o limitazione al libero
esercizio dell'attività di impresa che non deve comunque
svolgersi in contrasto con l'utilità sociale (in argomento
da ultimo, proprio in materia di apertura di strutture di
vendita e di rapporti fra la direttiva 12.12.2006 n.
2006/123/CE, c.d. Bolkestein, v. Corte cost., 25.02.2016, n. 39; Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1860;
13.01.2014, n. 70).
7.1.3. Nel caso di specie, dalla piana lettura degli atti
impugnati -ed in particolare di quelli contestati con il
terzo atto di motivi aggiunti (la determina dirigenziale
finale del 09.04.2015, conforme alla delibera di
Consiglio comunale del 26.02.2015 ed al decisivo
parere dell'Ufficio urbanistica in data 09.02.2015)- è
dato evincere che l'amministrazione comunale ha posto a base
del diniego di procedibilità sei autonome ragioni, tutte
incentrate proprio sui motivi imperativi di interesse
generale presi in considerazione dall'art. 31, co. 2, d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito dalla l. 22.12.2011,
n. 214, concernenti la tutela dell'ambiente, ivi incluso
l'ambiente urbano.
A ciò l'amministrazione comunale si determinava, peraltro,
anche in esecuzione -come dalla stessa puntualmente
ricordato- della circolare 13.03.2013 (prot. n.
PG/2013/42712) della Regione Liguria, volta a stabilire i
principi cardine da osservare nella nuova programmazione
commerciale ed urbanistica, approvata con deliberazione di
Consiglio regionale n. 31/2012, tra cui spiccano:
a) quello
di previamente verificare se nel vigente strumento
urbanistico (PUC o PRG o PdF) siano già individuate le aree
compatibili con l'insediamento delle gradi strutture di
vendita o attività ad esse assimilate (come i parchi
commerciali);
b) quello di consentire l'insediamento di
quelle strutture che, sole, insistono nelle aree, zone o
edifici che abbiano una specifica destinazione a ciò
deputata.
Avuto, pertanto, riguardo alla specifica ed oggettivamente
apprezzabile ragione ostativa opposta dall'amministrazione
locale (l'avere già previsto, nell'ambito del territorio
comunale, in rapporto al tessuto urbano ed insediativo,
altra area deputata ad ospitare le dette strutture di
vendita), non può che concludersi nel senso della
compatibilità delle criticate limitazioni urbanistiche e
programmatorie rispetto agli obiettivi di tutela del
territorio e dell'ambiente, ivi compreso quello urbano, nel
perseguimento di esigenze attinenti a motivi imperativi di
pubblico interesse (il corretto uso del territorio, il
bilanciamento del carico urbanistico, la preservazione dal
consumo esasperato di suolo, la valorizzazione del bacino di
utenza), prescindendo del tutto, la decisione impugnata, da
valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o
commerciale.”.
3.3. Alla stregua dei superiori principi, la sintesi che ne
può discendere è la seguente:
a) è consentito ai comuni di operare scelte di pianificazione al
fine di garantire un corretto insediamento delle strutture
di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi
all'ambiente urbano;
b) le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, infatti,
rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto
del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli
esercizi. La diversità degli interessi pubblici tutelati
impedisce di attribuire in astratto prevalenza, alle norme
in materia commerciale rispetto al piano urbanistico (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2017, n. 2699 Cons.
Stato, sez. VI, 10.04.2012, n. 2060);
c) di regola, la anticoncorrenzialità della disposizione preclusiva
ricorre allorché essa si sostanzi in valutazioni estrinseche
di natura prettamente economica o commerciale (rectius: tali
valutazioni costituiscono indici univoci di anticoncorrenzialità) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.06.2018 n. 3314 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Invero, “in base al principio della successione nel
tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano
Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute
sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del
vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del
tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione
urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha
proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio
alle sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità
delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio,
le nuove previsioni del Piano Regolatore:
- hanno un carattere di assoluta prevalenza,
- non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore
di una "ultrattività" del precedente PRG;
- si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica
norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le
quali non possono comunque conservare alcuna efficacia”.
---------------
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, “le
scelte in ordine alla destinazione urbanistica, in specie se
espresse in sede di emanazione di nuovo strumento
urbanistico, o sua variante generale, costituiscono
valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una
particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai
criteri e principi generali che ispirano il piano, salva
l'esigenza di motivazione puntuale in relazione a situazioni
soggettive di affidamento qualificato del privato in ordine
a una precipua destinazione, come rivenienti da precedenti
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato,
giudicati di annullamento di diniego di permesso di
costruire o di silenzio rifiuto su una domanda di permesso
di costruire, oppure qualora sia impressa destinazione
agricola a area limitata, interclusa da fondi edificati in
modo non abusivo”.
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa
del privato alla salvaguardia della precedente tipizzazione
come zona edificabile dei suoli di sua pertinenza e/o
all'ottenimento di una tipizzazione più gradita è cedevole
rispetto all'esercizio della potestà pianificatoria
finalizzata alla corretta e razionale disciplina urbanistica
del territorio comunale e che trattandosi di scelte
discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree,
queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle
che si possono evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano
stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al
P.R.G..
---------------
4.2 - Quanto al denunciato vizio di eccesso di potere per
difetto di motivazione e travisamento dei presupposti, giova
evidenziare che –per espressa ammissione di parte
ricorrente- “risponde a loro precipuo interesse
preservare il regime edificatorio rinveniente dalle
previsioni del previgente pdf, per come fatte rivivere dalla
sentenza n. 1651/10 di annullamento del PRG del 15/02/2005”.
Tale “reviviscenza” non è, tuttavia, fondatamente
invocabile dai ricorrenti, se non in termini di interesse di
mero fatto.
Ed invero, “in base al principio della successione nel
tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano
Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute
sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del
vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del
tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione
urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha
proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio
alle sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità
delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio,
le nuove previsioni del Piano Regolatore:
-- hanno un carattere di assoluta prevalenza,
-- non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore
di una "ultrattività" del precedente PRG;
-- si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica
norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le
quali non possono comunque conservare alcuna efficacia” (Cons.
Stato, sez. IV, 09.02.2012, n. 693)” - Tar Lombardia
sez. IV, sent. 11/07/2014 n. 1842.
La illegittimità della tipizzazione B1 derivante dalla
statuizione di questo TAR (sentenza n. 1651/2010) se obbliga
l’A.C. a “ritipizzare” l’area, non determina,
altresì, in via automatica l’applicazione della previgente
tipizzazione. E ciò a tacere del fatto che il previgente pdf
risalente all’anno 1966 non tiene conto del vincolo
archeologico apposto soltanto nel 1996, di talché
l’auspicata tipizzazione (comportante un IFF di 5 mc/mq)
sarebbe del tutto sganciata dall’attuale stato di fatto e di
diritto e dei suoli.
4.2.1 - Va inoltre osservato che secondo un pacifico
orientamento giurisprudenziale, “le scelte in ordine alla
destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di
emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante
generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali
che non richiedono una particolare motivazione al di là di
quella ricavabile dai criteri e principi generali che
ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale
in relazione a situazioni soggettive di affidamento
qualificato del privato in ordine a una precipua
destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di
annullamento di diniego di permesso di costruire o di
silenzio rifiuto su una domanda di permesso di costruire,
oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
(cfr., ex multis, cfr. TAR Basilicata, n. 747 del
07.07.2016, C.d.S., sezione IV, 04.10.2013, n. 4917; id.
sez. IV, 07.11.2012, n. 5665; id. 16.11.2011, n. 6049; id.
09.12.2010, n. 8682, 22.06.2006, n. 3880, 14.10.2005, n.
5716)”.
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa
del privato alla salvaguardia della precedente tipizzazione
come zona edificabile dei suoli di sua pertinenza e/o
all'ottenimento di una tipizzazione più gradita è cedevole
rispetto all'esercizio della potestà pianificatoria
finalizzata alla corretta e razionale disciplina urbanistica
del territorio comunale e che trattandosi di scelte
discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree,
queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle
che si possono evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano
stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al
P.R.G. (TAR Friuli-Venezia Giulia, 07/10/2014, n. 488; TAR
Trento, 21/02/2012, n. 57, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
sent. n. 3321/2016).
Conclusivamente va affermato che non esiste nell’ordinamento
giuridico italiano un principio di stabilità delle
previsioni urbanistiche (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 07.12.2017 n. 1262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per
costante giurisprudenza, le osservazioni successive
all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in
funzione di interessi generali e non individuali.
---------------
La giurisprudenza amministrativa ha più volte evidenziato
che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere
necessariamente all’esigenza di promuovere specifiche
attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un
uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta
a sottrarre parti del territorio comunale a nuove
edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio
delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella
quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a
compensare gli effetti dell’espansione urbana.
---------------
3. Con il primo motivo del ricorso introduttivo del
giudizio, riproposto con il ricorso per motivi aggiunti,
viene dedotta violazione dell’art. 9 della Legge n.
1150/1942, poiché il Comune non si è limitato a respingere
l’osservazione del ricorrente, ma ha impresso all’area una
nuova e definitiva destinazione (zona TRP) rispetto a quella
impressa in sede di adozione (zona V) e che riproponeva il
vincolo preesistente da quasi vent’anni per la realizzazione
di un parco urbano. Di conseguenza il PRG avrebbe dovuto
essere ripubblicato affinché il ricorrente potesse
presentare osservazioni contro la nuova destinazione
urbanistica.
La censura è infondata.
Sul punto va ricordato che, secondo l’indirizzo ormai
prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la
ripubblicazione del piano risulta essere necessaria solo nel
caso vi sia stata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 14.04.2016 n. 1516; Sez. IV,
12.03.2009 n. 1477; id. 05.11.2003 n. 7782; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 13.04.2017 n. 856; id. 25.05.2012 n. 1440;
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.01.2017 n. 29; TAR
Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1839; id. 12.12.2016 n. 1768;
TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 11.11.2014 nn. 2771-2275; TAR
Veneto, Sez. II, 22.05.2013 n. 728; TAR Marche, 16.07.2010
n. 3114; id. 30.06.2010 n. 2818; id. 04.05.2010 n. 212).
Nel caso specifico la modifica della zonizzazione ha
riguardato una modesta porzione di mq. 48.792 rispetto ad un
territorio comunale che si sviluppa su kmq. 17,53 (come
emerge dalle informazioni statistiche desumibili attraverso
Internet), cioè meno dello 0,3% (ovvero il 3 per mille) di
quest’ultimo.
Risulta poi dubbio che la modifica da zona V (zona a parco e
verde pubblico attrezzato) a zona TRP (Territorio rurale di
valore paesaggistico-ambientale) costituisca un mutamento
essenziale, poiché trattasi di zone che hanno in comune la
salvaguardia delle aree verdi, ancorché una finalizzata
all’uso pubblico e l’altra all’uso privato.
Va comunque osservato che, per costante giurisprudenza, le
osservazioni successive all’adozione costituiscono meri
apporti collaborativi, in funzione di interessi generali e
non individuali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.12.2014 n.
6386; id. 01.07.2014 n. 3294; 10.06.2014 n. 2973; 18.11.2013 n.
5453; 09.03.2011 n. 1503; 26.10.2012 n. 5492; 12.05.2010 n.
2842).
Il ricorrente ha fornito il proprio apporto collaborativo
attraverso la proposta preliminare di riassetto dell’intera
zona e poi con formali osservazioni al piano adottato. Tali
osservazioni, tra l’altro, contestavano l’illegittimità
della reiterazione di vincoli scaduti senza un adeguato
indennizzo; profilo al quale l’Amministrazione si è adeguata
eliminando il vincolo, con obiettiva e doverosa necessità di
imprimere all’area una diversa destinazione libera da
vincoli preordinati all’esproprio.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte
evidenziato che la destinazione agricola del suolo non deve
rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere
specifiche attività di coltivazione, e quindi essere
funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno,
potendo essere volta a sottrarre parti del territorio
comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai
cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori naturalistici e
ambientali necessaria a compensare gli effetti
dell’espansione urbana (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
16.12.2016 n. 5334; id. 12.05.2016 n. 1917; 16.11.2011 n.
6049; 27.07.2011 n. 4505; 13.10.2010 n. 7478; 27.07.2010 n.
4920).
L’implicito rigetto della proposta preliminare di riassetto
della zona e l’originaria classificazione a zona V (zona a
parco e verde pubblico attrezzato), rendono evidente la
volontà dell’Amministrazione Comunale di non destinare
questa porzione di territorio allo sviluppo urbano, per cui
non si intravede quale ulteriore apporto collaborativo
avrebbe potuto fornire il ricorrente dopo la ripubblicazione
del piano e le osservazioni contro la nuova classificazione
a zona TRP, al fine di ottenere una destinazione urbanistica
diversa, ma sempre compatibile con dette esigenze
pianificatorie (TAR Marche,
sentenza 17.05.2017 n. 368 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La mancata approvazione del P.G.T. nei termini indicati dall’art. 13
della legge regionale n. 12/2005, diversamente da quanto
sostenuto in ricorso, non determina la caducazione degli
atti precedentemente adottati ma l’inefficacia degli stessi.
La ratio della norma, dunque, in considerazione del concetto
stesso di inefficacia (che è ben diverso da quello di caducazione), non pare essere quella di imporre comunque, in
caso di sforamento dei termini, la reiterazione dell’intera
procedura pianificatoria, ma unicamente quella di evitare la
presenza di piani adottati che producano effetti attraverso
misure di salvaguardia senza però che l’assetto urbanistico
del territorio sia stato stabilmente assicurato tramite la
definitiva approvazione del Piano.
---------------
Le censure di cui al primo motivo di ricorso, relativo
alla violazione dei termini di cui all’art. 13, comma 7,
della legge regionale n. 12/2005, non possono essere
condivise.
Si osserva, in linea generale e preliminare, che la mancata
approvazione del P.G.T. nei termini indicati dall’art. 13
della legge regionale n. 12/2005, diversamente da quanto
sostenuto in ricorso, non determina la caducazione degli
atti precedentemente adottati ma l’inefficacia degli stessi.
La ratio della norma, dunque, in considerazione del concetto
stesso di inefficacia (che è ben diverso da quello di caducazione), non pare essere quella di imporre comunque, in
caso di sforamento dei termini, la reiterazione dell’intera
procedura pianificatoria, ma unicamente quella di evitare la
presenza di piani adottati che producano effetti attraverso
misure di salvaguardia senza però che l’assetto urbanistico
del territorio sia stato stabilmente assicurato tramite la
definitiva approvazione del Piano.
Sotto distinto profilo, è necessario poi prendere atto della
indubbia particolarità procedimentale che ha caratterizzato
la vicenda per cui è causa.
Invero, l’avvenuto ritiro del P.G.T. approvato (ma senza pubblicazione del relativo avviso
e, quindi, non efficace), ha determinato l’innesto di un
segmento procedimentale differente ed ulteriore il quale,
prevedendo la rinnovazione della valutazione delle
osservazioni già presentate e la riapertura dei termini di
presentazione di eventuali ulteriori osservazioni, ha
comportato uno slittamento dei tempi (ove si consideri il
primo termine di presentazione delle osservazioni). Tale
rinnovata attività di valutazione delle osservazioni (quelle
originarie e quelle nuove) e la conseguente definitiva
approvazione del Piano si sono svolte, peraltro, nel
rispetto dei termini di legge, con riferimento, ovviamente,
a quelli indicati ex novo nell’atto di ritiro e, sotto tale
profilo, nessun vizio inficia gli atti impugnati.
Infine, si deve ulteriormente rilevare che l’Amministrazione
comunale resistente, attraverso il procedimento censurato,
ha comunque garantito la piena ed effettiva partecipazione
procedimentale degli interessati, valutando tutte le
osservazioni pervenute; per quanto riguarda, in particolare,
la specifica posizione della società ricorrente, con
comunicazione prot. n. 36360 del 22.10.2012, effettuata ai
sensi degli artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990,
l’Amministrazione comunale aveva reso noto alla ricorrente
stessa che, tra le altre, erano state depositate
osservazioni al P.G.T. adottato relative a previsioni
urbanistiche su aree riconducibili alla proprietà della
medesima, comunicando la possibilità di prendere visione
degli atti e produrre memorie scritte e documenti,
possibilità sfruttata dalla ricorrente che provvedeva a
produrre note difensive; la società ricorrente ha, quindi,
potuto interloquire con l’Amministrazione comunale,
evidenziando le proprie ragioni nell’ambito di un modulo
partecipativo sostanzialmente rispettato.
Non pare, dunque, che la posizione della ricorrente sia
stata lesa sotto questo specifico profilo (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2017 n. 29 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Occorre considerare
che gli atti impugnati sono, come visto, legittimi e che il
giudice amministrativo può riconoscere il risarcimento del
danno causato al privato dal comportamento inoperoso
dell'Amministrazione solo quando sia stata accertata la
spettanza del c.d. bene della vita, atteggiandosi così il
riconoscimento del diritto del ricorrente al bene della vita
come presupposto indispensabile per configurare una condanna
al risarcimento del relativo danno.
D’altro canto, l'approvazione del piano attuativo non è atto
dovuto, ancorché esso risulti conforme al regolamento
urbanistico al momento vigente, essendo l'approvazione
medesima sempre espressione di potere discrezionale
dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale; ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti
attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità,
ma non di formale coincidenza.
---------------
9. Con la quinta
censura i ricorrenti deducono che il Comune di Lucca
sarebbe responsabile sia del ritardo nella conclusione della
procedura di approvazione del piano attuativo, ritardo che
avrebbe cagionato la decadenza della previsione urbanistica
ex art. 55 della L.R. n. 1/2005, sia dello stravolgimento
della variante del regolamento urbanistico adottata; gli
esponenti evidenziano che l’Amministrazione responsabile del
ritardo ha causato la sopravvenienza di una normativa
urbanistica preclusiva dell’intervento oggetto della domanda
del privato: secondo i deducenti, il decorso infruttuoso del
termine del procedimento costituisce indice presuntivo di
colpa, l’affidamento del privato sulla certezza dei tempi
dell’azione amministrativa è di per sé meritevole di tutela
ed il danno è costituito dalla procurata impossibilità di
realizzare le opere progettate, cui corrisponde una perdita
patrimoniale di euro 6.104.000.
Sotto altro profilo, gli istanti lamentano che la vicenda,
mettendo in forse per anni il futuro dei loro beni e delle
loro aziende, li avrebbe cagionato una malattia a livello
psichico rilevante quale danno esistenziale.
I suddetti rilievi non sono condivisibili.
L’originaria documentazione allegata alla proposta di piano
attuativo presentata dai deducenti era incompleta, come
dimostrano le richieste istruttorie della Conferenze dei
Servizi e della Regione.
I ricorrenti hanno presentato nuovi elaborati in data
20.06.2008, cui hanno fatto seguito i pareri positivi, in
data 10.10.2008 e 19.12.2008, della competente
Circoscrizione (chiamata a pronunciarsi in quanto titolare
di funzioni consultive su argomenti di specifico interesse
della circoscrizione e su provvedimenti di competenza
dell’Amministrazione comunale aventi carattere generale, in
forza del regolamento dei consigli di circoscrizione) e
della Commissione urbanistica.
Di conseguenza, assumendo come dies a quo la data
dell’ultimo parere acquisito, il procedimento di
approvazione del piano attuativo avrebbe dovuto concludersi
prima del venir meno dell’efficacia del regolamento
urbanistico (cioè prima del 14.04.2009) alla luce del tenore
letterale dell’art. 22 della legge n. 136/1999, secondo cui
l’approvazione, da parte dei consigli comunali, dei piani
attuativi di iniziativa privata deve intervenire entro il
termine di 90 giorni a decorrere dalla presentazione
dell’istanza corredata dei prescritti elaborati o, qualora
siano necessari, dalla acquisizione dei pareri o nulla osta.
Occorre tuttavia considerare che gli atti impugnati sono
come visto legittimi e che il giudice amministrativo può
riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal
comportamento inoperoso dell'Amministrazione solo quando sia
stata accertata la spettanza del c.d. bene della vita,
atteggiandosi così il riconoscimento del diritto del
ricorrente al bene della vita come presupposto
indispensabile per configurare una condanna al risarcimento
del relativo danno (Consiglio di Stato, IV, 07.03.2013, n.
1406; idem, 28.05.2013, n. 2899; TAR Lazio Roma, III,
19.07.2013, n. 7386; TAR Liguria, I, 02.07.2013, n. 985).
D’altro canto, l'approvazione del piano attuativo non è atto
dovuto, ancorché esso risulti conforme al regolamento
urbanistico al momento vigente, essendo l'approvazione
medesima sempre espressione di potere discrezionale
dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale; ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti
attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità,
ma non di formale coincidenza (Cons. Stato, IV, 12.03.2013,
n. 1479; TAR Lombardia, Brescia, I, 12.01.2016, n. 23; TAR
Puglia, Bari, III, 12.03.2015, n. 403).
Tali conclusioni valgono in particolar modo nel caso di
specie, in cui da un lato rilevavano, già nel 2008,
prima dell’adozione del richiamato piano attuativo,
problematiche connesse allo sforamento, da parte delle
previsioni del regolamento urbanistico all’epoca vigente,
delle quantità edificatorie indicate nel piano strutturale,
con particolare riferimento, tra le altre, all’UTOE n. 4 di
interesse dei ricorrenti (pagina 3 della relazione
illustrativa allegata alla delibera di approvazione della
variante straordinaria), dall’altro sono emersi
profili di collisione tra il regolamento urbanistico e il
PIT, come è dimostrato dal tenore delle osservazioni
presentate dalla Regione (che sono state poi recepite dal
Consiglio Comunale anche nel senso di stralciare, in sede di
definitiva approvazione della contestata variante, la
previsione del piano attuativo di interesse dei ricorrenti),
talché non può ritenersi accertata la spettanza del bene
della vita cui aspiravano i ricorrenti.
Del resto, la sensibilizzazione verso aspetti di
sostenibilità ambientale valorizzati in norme regionali
aveva indotto il Consiglio Comunale ad introdurre già in
fase di adozione della variante straordinaria, in relazione
al piano attuativo proposto dalla ricorrente, prescrizioni
di misure di mitigazione ambientale vincolanti ai fini della
definitiva approvazione del piano stesso (si veda l’art.
129.4 delle NTA della variante adottata, costituente il
documento n. 6 depositato in giudizio dal Comune).
Infine, non può trovare applicazione l’art. 2-bis della
legge n. 241/1990 invocato dai ricorrenti, trattandosi di
norma entrata in vigore il 04.07.2009, vale a dire dopo la
lamentata inosservanza del termine di conclusione del
procedimento di approvazione del piano attuativo.
Per tali ragioni non può essere accolta la richiesta
risarcitoria, la cui quantificazione è stata ragguagliata
dai deducenti alla differenza tra volume edificabile
derivante dalla variante approvata e volume edificabile
derivante dal piano attuativo adottato ma non approvato
(danno subito come minor volume edificabile)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La c.d. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una
servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del
proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar
vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con
carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un
proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”,
indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento
venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo
anima.
---------------
Con il primo motivo i ricorrenti -in relazione alla
circostanza che l’area in questione avrebbe dovuto essere
ceduta dai proprietari al Comune in forza del P.L. del 1957-
rilevano che del tutto illegittimamente ad una mancata
acquisizione del terreno da parte dell’Amministrazione si è
aggiunta la trasformazione dell'area edificabile, sostenendo
che l’Amministrazione comunale quindi si è privata di beni
che ben potrebbe pretendere e che comunque sino ad ora ha
usato a beneficio della collettività.
La censura è fondata.
La difesa dell’Amministrazione ha evidenziato come, a causa
del gran tempo trascorso, nessuno dei tecnici comunali era a
conoscenza del fatto che l'area era stata in passato
promessa in cessione al Comune, sicché trattarono
l'osservazione presentata dalle sigg.re Po. come tutte
quelle di analogo tenore: accolsero parzialmente
l'osservazione, riclassificando solo la metà dell'area come
ZB5 e pretendendo in cambio la cessione della restante metà.
Abilmente la difesa del Comune rileva che l’obbligazione
risultava prescritta per decorso del termine di adempimento
(10+10 anni), ma tale circostanza non può avere rilevanza
dirimente.
Un conto è l’impossibilità di ottenere oggi la cessione
dell’area in forza della convenzione del 1957/1964 altra
questione è quella –che sola qui viene in rilievo– della
possibilità di accogliere una osservazione infondata in
punto di fatto e di diritto.
In punto di fatto, perché le controinteressate hanno taciuto
al Comune che l’area era rimasta in loro proprietà
nonostante la convenzione di lottizzazione del 1964 ne
prevedesse espressamente la cessione al Comune.
In punto di diritto, perché hanno affermato, nel proporre
l’osservazione (v. doc. n. 7 del Comune), che l’area era
stata gravata da vincolo espropriativo da tempo decaduto
mentre veniva in rilievo una destinazione a verde pubblico
avente caratteristiche di vincolo a carattere non già
espropriativo ma conformativo (cfr. l’univo indirizzo della
giurisprudenza sul punto: ex multis di recente Consiglio di
Stato, sez. IV, 09.12.2015, n. 5582: La destinazione ad
attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data
dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non
comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è
funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale).
Non v’è motivo per non credere alla tesi della buona fede
dei tecnici comunali (anche se la mancata acquisizione
connota di negligenza e inefficienza l’agere complessivo
dell’Amministrazione comunale negli anni decorsi) Peraltro
va osservato che si era in presenza di area avente de iure e
de facto destinazione di verde attrezzato. Né vale sostenere
che analoghe richieste sono state accolte.
I ricorrenti hanno affermato (allegato fotografie (doc. n. 6
del deposito del 20.12.2010) che sull’area in questione sono
state poste dal Comune attrezzature sportive, porte per il
calcio e recinzione, circostanza non smentita dalla
Amministrazione comunale da ritenersi quindi comprovato ex
art. 64, c. 2 c.p.a.
In tale contesto l’affermazione della difesa comunale
secondo cui “Ben lungi dall'essere viziato da sviamento di
potere, il comportamento del Comune di Panna è invece del
tutto rispondente al pubblico interesse ed ai principi di
equità che devono informare l'agire della Pubblica
Amministrazione”, in quanto “il diritto a pretendere la
cessione si era ormai da decenni prescritto e non
sussisteva, pertanto, alcuna ragione per trattare
diversamente i proprietari di quell'area destinata a verde
dai proprietari delle altre aree, situate nella stessa zona,
che sono state riclassificate in cambio della cessione del
50% della superficie”, astrattamente condivisibile si
infrange contro la sussistenza nella fattispecie di un
obbligo di cessione non eseguito e del concreto e duraturo
utilizzo –senza alcuna opposizione delle formali
proprietarie- dell’uso pubblico dell’area a verde
attrezzato.
Del resto non vi è affatto analogia fra un area
astrattamente classificata a verde ma rimasta in possesso
dei proprietari (quale deve ritenersi, in mancanza di alcuna
prova fornita dall’amministrazione al riguardo quella di cui
all’osservazione n. 527), e quella qui in contestazione che
era oggetto di pattuizione di cessione e che è da lustri
dedicata all’uso pubblico.
Va soggiunto –anticipando quanto si verrà ad esporre
trattando del secondo motivo- che, ove fosse stata posta in
essere la ripubblicazione del piano dopo l’accoglimento
dell’osservazione, i diretti interessati (gli attuali
ricorrenti così come i cittadini utenti del parco ai quali è
riferimento a pag. 6 della memoria del Comune) avrebbero
potuto proporre osservazioni al riguardo. In tal modo
l’amministrazione sarebbe venuta a conoscenza della reale
situazione dell’area ed avrebbe potuto assumere a ragion
veduto e non su un falso presupposto le proprie
determinazioni pianificatorie.
In ogni caso il Comune ben avrebbe potuto instaurare un
giudizio per fare valere comunque l’usucapione a seguito del
possesso ultraventennale dell’area.
Non va esclusa neppure
la possibilità del verificarsi della fattispecie della c.d.
dicatio ad patriam, che, quale modo di costituzione di una
servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del
proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar
vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con
carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un
proprio bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”,
indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento
venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo
anima (cfr. ex multis Cassazione civile, sez. I,
11/03/2016, n. 4851) (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ogni scelta pianificatoria è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità
solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta
illogicità ed evidente travisamento dei fatti.
---------------
27. Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II,
27.05.2014, n. 1355) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.06.2015 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La legge regolatrice del contenuto del PTCP, se consente senza dubbio alla provincia di fissare limiti all’attività edilizia, mediante l’individuazione di aree e zone non edificabili (ponendo quindi a carico dei comuni un obbligo di non fare, vale a dire un divieto di consentire un’attività di edificazione lesiva di superiori valori di tutela ambientale), non ammette però che la provincia possa addossare ai comuni specifici obblighi positivi di fare, vale a dire –nel caso di specie– di reperire standard anche in misura eventualmente superiore a quella risultante dagli strumenti urbanistici comunali.
Neppure le norme della legge della Regione Lombardia
n. 12/2005, che disciplinano il contenuto del PGT e gli oneri di urbanizzazione, consentono di riconoscere alle amministrazioni provinciali le prerogative di cui sopra; al contrario, l’unico esplicito obbligo positivo da osservarsi in caso di costruzione su suolo libero è quello dell’art. 43, comma 2-bis, della citata legge regionale, sulla maggiorazione del contributo di costruzione in caso di interventi che sottraggono superfici agricole allo stato di fatto (norma, quest’ultima, che manifesta l’evidente volontà del legislatore regionale di contenere il consumo di suolo; tale finalità non può però –in mancanza di una superiore previsione di legge– giustificare l’imposizione ai comuni da parte della provincia di reperimento di maggiori standard per scopi di mitigazione ambientale e riforestazione).
---------------
63. Con il
settimo e l’ottavo motivo, vengono censurati gli art. 31 e 46 della norme tecniche di attuazione (NTA) del PTCP, i quali impongono il reperimento di standard aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9 della legge-regionale n. 12 del 2005 in caso di trasformazione delle aree. 64. In proposito è opportuno premettere che al ricorrere di particolari condizioni previste dall’art. 31 delle NTA del PTCP, sulle arre inserite nella rete verde di ricomposizione paesaggistica sono ammessi interventi edilizi. Tuttavia, come riferito dai ricorrenti, in base alle norme impugnate, tali interventi sono subordinati al reperimento di standard aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla vigente normativa. 65. Ciò premesso si deve rilevare che previsioni come quelle contenute negli artt. 31 e 46 delle NTA finiscono per imporre ai comuni il reperimento di standard, fra l’altro espressamente definiti come non monetizzabili, per i quali la pianificazione provinciale fissa in maniera precisa la misura e la destinazione (riqualificazione ambientale e forestazione). 66. Tali standard provinciali si aggiungono a quelli previsti dai PGT e –in assenza di una diversa previsione– potrebbero anche superare quelli minimi inderogabili previsti dal d.m. n. 1444 del 1968 (a tale proposito, si ricordi il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che impone un onere di motivazione specifica in caso di superamento degli standard minimi; cfr. fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sezione II, 21.10.2009, n. 4787). 67. La previsione di piano provinciale sull’obbligo di reperimento di standard comunali appare lesiva del principio di legalità dell’azione amministrativa, non esistendo alcuna norma di legge che attribuisca alla provincia una simile prerogativa. 68. In particolare, la legge regolatrice del contenuto del PTCP, se consente senza dubbio alla provincia di fissare limiti all’attività edilizia, mediante l’individuazione di aree e zone non edificabili (ponendo quindi a carico dei comuni un obbligo di non fare, vale a dire un divieto di consentire un’attività di edificazione lesiva di superiori valori di tutela ambientale), non ammette però che la provincia possa addossare ai comuni specifici obblighi positivi di fare, vale a dire –nel caso di specie– di reperire standard anche in misura eventualmente superiore a quella risultante dagli strumenti urbanistici comunali. 69. Si badi che le aree a standard, così come reperite, implicano un incremento del patrimonio immobiliare dei comuni, con inevitabile aumento dei costi di gestione e manutenzione, che resterebbero in capo ai comuni stessi. 70. Neppure le norme della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 che disciplinano il contenuto del PGT e gli oneri di urbanizzazione consentono di riconoscere alle amministrazioni provinciali le prerogative di cui sopra; al contrario, l’unico esplicito obbligo positivo da osservarsi in caso di costruzione su suolo libero è quello dell’art. 43, comma 2-bis, della citata legge regionale, sulla maggiorazione del contributo di costruzione in caso di interventi che sottraggono superfici agricole allo stato di fatto (norma, quest’ultima, che manifesta l’evidente volontà del legislatore regionale di contenere il consumo di suolo; tale finalità non può però –in mancanza di una superiore previsione di legge– giustificare l’imposizione ai comuni da parte della provincia di reperimento di maggiori standard per scopi di mitigazione ambientale e riforestazione). 71. In conclusione, la pretesa provinciale appare violare l’art. 23 della Costituzione che, come noto, impone la riserva di legge per gli obblighi di prestazione personale o patrimoniale, oltre il già ricordato principio di legalità dell’azione amministrativa e quello della tipicità degli atti amministrativi (sulla rilevanza di tali principi, anche in sede di pianificazione urbanistica, si veda la recente pronuncia del TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.07.2014, n. 1972). 72. Per queste ragioni, gli art 31 e 46 delle NTA devono essere annullati in parte qua (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.06.2015 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla possibilità, o meno, del PTCP di introdurre una disciplina peggiorativa rispetto a
quella dettata dal piano di governo del territorio (PGT).
Il PTCP approvato dalla Provincia, con riguardo alle aree di
proprietà delle ricorrenti, ha introdotto una disciplina peggiorativa
rispetto a quella dettata dal piano di governo del territorio (PGT) del
Comune. Quest’ultimo le colloca invero in un ambito di trasformazione e,
quindi, le classifica come aree in cui l’edificazione è ammessa.
Ciò premesso, va osservato che, ovviamente, le province non sono vincolate
dai previgenti PGT approvati dai comuni; sicché è sempre ammessa la
possibilità per i PTCP di introdurre una disciplina peggiorativa.
Va ancora osservato che, in linea generale, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, non sussiste ipotesi di affidamento
qualificato in capo al proprietario della singola area che veda introdurre,
da parte dello strumento di pianificazione sopravvenuto, prescrizioni meno
favorevoli rispetto a quelle previgenti. Va difatti considerato affidamento
generico quello alla non reformatio in peius della previgente disciplina.
La giurisprudenza ha però rilevato che, in alcune ipotesi, tale qualificato
affidamento sussiste. Una di queste ipotesi ricorre proprio nel caso in cui
il piano sopravvenuto, emanato da una regione o da un ente infraregionale,
introduca disposizioni discordanti con gli strumenti urbanistici comunali
vigenti.
Tuttavia, anche in tali ipotesi non è necessaria l’introduzione di norme di
salvaguardia, essendo invece sufficiente che l’ente sovracomunale assolva ad
un onere motivazionale aggravato, indicando le puntuali ragioni che l’hanno
indotto a disattendere le norme del piano urbanistico.
---------------
25. Con il secondo motivo, le ricorrenti censurano la norma di
salvaguardia contenuta nel citato art. 31 della NdP che, come detto,
sancisce il divieto di realizzare nuove edificazioni sulle aree inserite
nella rete verde di ricomposizione paesaggistica. Tale norma fa salve le
contrastanti previsioni contenute negli strumenti urbanistici vigenti al
momento di adozione del PTCP.
La disposizione, a dire delle parti, sarebbe irrazionale e, soprattutto,
contraria all’art. 17, comma 10, della legge della Regione Lombardia n. 12
del 2005, laddove fa riferimento al momento d’adozione del piano
provinciale, posto che fino alla pubblicazione della delibera di
approvazione, il PTCP è privo di qualsiasi efficacia.
26. Anche questa doglianza non può trovare condivisione per le ragioni di
seguito esposte.
27. Il PTCP approvato dalla Provincia di Monza e Brianza, con riguardo alle
aree di proprietà delle ricorrenti, ha introdotto una disciplina
peggiorativa rispetto a quella dettata dal piano di governo del territorio (PGT)
del Comune di Camparada. Quest’ultimo le colloca invero in un ambito di
trasformazione e, quindi, le classifica come aree in cui l’edificazione è
ammessa.
28. Ciò premesso, va osservato che, ovviamente, le province non sono
vincolate dai previgenti PGT approvati dai comuni; sicché è sempre ammessa
la possibilità per i PTCP di introdurre una disciplina peggiorativa.
29. Va ancora osservato che, in linea generale, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, non sussiste ipotesi di affidamento
qualificato in capo al proprietario della singola area che veda introdurre,
da parte dello strumento di pianificazione sopravvenuto, prescrizioni meno
favorevoli rispetto a quelle previgenti. Va difatti considerato affidamento
generico quello alla non reformatio in peius della previgente
disciplina (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2005, n. 719; id.
26.05.2003 n. 2827).
30. La giurisprudenza ha però rilevato che, in alcune ipotesi, tale
qualificato affidamento sussiste. Una di queste ipotesi ricorre proprio nel
caso in cui il piano sopravvenuto, emanato da una regione o da un ente
infraregionale, introduca disposizioni discordanti con gli strumenti
urbanistici comunali vigenti (cfr. TAR Lombardia-Milano, sez. II,
24.07.1995, n. 986).
31. Tuttavia, anche in tali ipotesi non è necessaria l’introduzione di norme
di salvaguardia, essendo invece sufficiente che l’ente sovracomunale assolva
ad un onere motivazionale aggravato, indicando le puntuali ragioni che
l’hanno indotto a disattendere le norme del piano urbanistico (cfr. ancora
TAR Lombardia Milano sent. n. 986 del 1995 cit.).
32. Nel caso di specie risulta dagli atti che l’estensione delle aree da
inserire nella rete verde di ricomposizione paesaggistica è stata dettata
dalla necessità di recepire le indicazioni fornite dalla Giunta regionale in
sede di espressione del parere di conformità sul PTCP, reso ai sensi
dell’art. 17, comma 7, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.
33. Ritiene il Collegio che tale argomentazione costituisca di per sé
ragione, oltre che congrua, sufficientemente dettagliata, tale quindi da
soddisfare i requisiti sopra indicati.
34. Difatti, al di là di ogni disquisizione circa la vincolatività o meno
delle prescrizioni impartite dalla Regione in sede di parere di conformità,
va rilevato che la particolare natura degli interessi sottesi a tali
prescrizioni (tutela dell’ambiente e del paesaggio), rende ragionevole ed
opportuna la decisione di adeguarsi ad esso.
35. Ne consegue che la Provincia avrebbe potuto, sulla base di tale
motivazione, introdurre una disciplina peggiorativa non mitigata da alcuna
norma di salvaguardia.
36. Non può quindi essere censurata la disposizione di cui all’art. 31 delle
NdP, giacché questa, come dimostrato, costituisce comunque una ulteriore
forma di garanzia non strettamente dovuta che non si può considerare
irrazionale ed arbitraria solo perché individua, quale momento rilevante ai
fini della salvezza delle disposizioni previgenti, quello di adozione del
PTCP.
37. Va per queste ragioni ribadita l’infondatezza del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.09.2014 n. 2405 - tratto da e link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Secondo l’orientamento consolidato della
giurisprudenza, le scelte effettuate dall'Amministrazione in
sede di pianificazione urbanistica costituiscono
apprezzamento di merito, sottratte al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità.
Esse, inoltre, quando si
concretano nella destinazione di singole aree, non
necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano,
essendo necessaria una motivazione specifica soltanto in
presenza di un <<affidamento qualificato>> del privato (cfr.
a proposito delle situazioni ritenute meritevoli di
particolare tutela, in quanto caratterizzate da un
affidamento «qualificato»: TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2011, n. 1950, che elenca i casi di:
a) superamento
degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con
l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione
dell'affidamento qualificato del privato derivante da
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione;
c) modificazione in zona
agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la
quale vanta una generica aspettativa alla conservazione
della precedente previsione urbanistica, onde conseguire un
utilizzo, nella sua prospettiva, più proficuo dell'area in
questione.
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga
rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione
delle osservazioni al piano da parte dei privati; queste,
infatti, sono semplici apporti collaborativi offerti dai
cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
---------------
XIV. Con il terzo motivo si deduce, poi, la
violazione di legge e l’eccesso di potere per difetto di
motivazione della deliberazione di approvazione del piano,
trattandosi di modifica di destinazione edificatoria
impressa da tempo risalente.
XV. Il motivo è infondato.
XVI. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza
(cfr. ex multis, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd.,
19.03.2012, n. 307; Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1222, id. 13.02.2009, n. 811; id. 13.03.2008, n. 1095), le scelte effettuate dall'Amministrazione in
sede di pianificazione urbanistica costituiscono
apprezzamento di merito, sottratte al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità.
Esse, inoltre, quando si
concretano nella destinazione di singole aree, non
necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano,
essendo necessaria una motivazione specifica soltanto in
presenza di un <<affidamento qualificato>> del privato (cfr.
a proposito delle situazioni ritenute meritevoli di
particolare tutela, in quanto caratterizzate da un
affidamento «qualificato»: TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2011, n. 1950, che elenca i casi di:
a) superamento
degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con
l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione
dell'affidamento qualificato del privato derivante da
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione;
c) modificazione in zona
agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la
quale vanta una generica aspettativa alla conservazione
della precedente previsione urbanistica, onde conseguire un
utilizzo, nella sua prospettiva, più proficuo dell'area in
questione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 22.12.1999 n.
24; Sez. IV, 25.07.2001 n. 4077; TAR Catania, sez. I,
13.02.2012 n. 386; TAR Salerno, 17.12.2002,
n. 2358).
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga
rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione
delle osservazioni al piano da parte dei privati; queste,
infatti, sono semplici apporti collaborativi offerti dai
cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 11.10.2007, n. 5357; id. 30.06.2004, n.
4804; TAR Campania Salerno, sez. I, 08.01.2010, n.
15).
Nel caso di specie, la deliberazione impugnata richiama la
relazione di controdeduzione alle osservazioni presentate
nell’interesse della ricorrente, ove si fa esplicito
riferimento alla volontà dell’ente locale di convergere con
la raccomandazione della Provincia di Como, pure richiamata,
sullo stralcio del comparto P2 dagli ambiti di
trasformazione (cfr. pag. 6 della Relazione di
controdeduzioni, All. A alla d.C.C. n. 5/2010), e tanto è
sufficiente a garantire il rispetto dell’obbligo di
motivazione succitato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 23.03.2024 |
P.R.G./P.G.T. oppure
Piano Attuativo:
quando è necessario procedere alla ripubblicazione (dopo
l'adozione e prima dell'approvazione)? |
In estrema sintesi, le modifiche al Piano
Regolatore Generale (PRG)/Piano di Governo del Territorio (P.G.T.)
possono essere suddivise in diverse categorie, tra cui le
modifiche “facoltative”,
le modifiche “concordate”
e le modifiche “obbligatorie”.
Segnatamente:
●
modifiche “facoltative”
consistenti in innovazioni non sostanziali al PRG/PGT. Ad
esempio, potrebbero coinvolgere dettagli minori o aggiustamenti
che non alterano in modo significativo la pianificazione urbana.
Se queste modifiche superano i limiti stabiliti dalle linee
guida del piano, il Comune è obbligato a ripubblicare il PRG/PGT
per informare gli interessati;
●
modifiche “concordate”
conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al Piano
e accettate dal Comune. Anche per le modifiche concordate, se
superano i limiti delle linee guida del piano, è richiesta la
ripubblicazione del PRG/PGT;
●
modifiche “obbligatorie”
in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP),
la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi. Tuttavia, non è necessaria la
ripubblicazione del PRG/PGT per queste modifiche, poiché il loro
carattere dovuto rende superfluo l’apporto collaborativo del
privato.
Quindi, la ripubblicazione del PRG/PGT è richiesta per le modifiche
"facoltative"
e "concordate"
(sempre che queste modifiche superino i limiti stabiliti dalle
linee guida del piano), ma non per quelle "obbligatorie".
Questo assicura che le scelte pianificatorie siano coerenti e
rispettino gli standard stabiliti a livello regionale e
comunale. |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA:
Il Collegio ritiene di dare continuità all’indirizzo
esegetico già espresso dalla Sezione che, mutatis
mutandis, ha ritenuto applicabile a fattispecie di tenore
analogo a quella in esame il consolidato orientamento
interpretativo secondo cui «la necessità di ripubblicazione
del piano "viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono [...]".
In altri termini, "[...] la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione [...]
Rileva infine il
Collegio che debba escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree [...] in
altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui
le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree"».
---------------
6.5- Con il quarto motivo di ricorso, i deducenti
sostengono che l’Amministrazione, in fase di approvazione,
avrebbe apportato sostanziali modifiche al piano adottato
senza previamente sottoporle ai privati interessati, con
illegittima compromissione delle relative garanzie
partecipative.
Le argomentazioni difensive non risultano
condivisibili.
Va premesso in punto di fatto che, nel caso di specie, le
modifiche lamentate rispetto al piano in regime di adozione
riguardano:
i) l’abbassamento del livello di tutela (id est,
da tre a due) per il terreno “A- interno”;
ii)
l’introduzione di non meglio precisate “prescrizioni e
limitazioni prima non previste” per il terreno “B-costiero”
che, salva la nuova numerazione attribuita al relativo
paesaggio, viene mantenuto all’interno del livello di Tutela
“3”.
Ciò posto, il Collegio ritiene di dare continuità
all’indirizzo esegetico già espresso dalla Sezione con la
recente sentenza del 02/11/2023, n. 3263 che, mutatis
mutandis, ha ritenuto applicabile a fattispecie di tenore
analogo a quella in esame il consolidato orientamento
interpretativo secondo cui «la necessità di ripubblicazione
del piano "viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono [...]"; in altri termini, "[...] la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione [...] Rileva infine il
Collegio che debba escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree [...] in
altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui
le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree" (cfr., ex plurimis, Cons.
Stato, sez. IV, 06.12.2022, n. 10662)».
Nel caso di specie, come già evidenziato, le modifiche
lamentate non implicano uno stravolgimento generale dei
criteri di elaborazione del piano ma rappresentano,
piuttosto, un’operazione di “messa a punto” della disciplina
d’uso di specifici e circoscritti territori (peraltro, con
esiti più vantaggiosi per i deducenti, quanto meno con
riferimento al terreno “A- interno”) in seguito all’esame
delle osservazioni presentate dai privati interessati,
correlandosi direttamente al contenuto di queste ultime. Ne
consegue che nessuna ripubblicazione del piano andava
effettuata (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 05.03.2024 n. 879 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Obbligo
di ripubblicazione del Piano Urbanistico.
Deve rilevarsi come
l’art. 13, comma 9, della l.r. n. 12 del
2005 escluda la necessità di nuova
pubblicazione in caso di approvazione di “…
controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e
regionali …”, non essendo prevista la
concessione di nuovi termini per la
presentazione di ulteriori osservazioni.
Del resto, non può essere rinvenuto un
rapporto di rigida correlazione tra le
osservazioni recepite e i pareri acquisiti,
da un lato, e la possibilità di
modificare il Piano di governo adottato,
dall’altro, perché questo
significherebbe privare il pianificatore
della discrezionalità che gli appartiene
sino all’esito del procedimento e anteporre
–o quantomeno equiparare– l’interesse
privato al godimento più lucrativo della
propria area con quello pubblico della
pianificazione. L’interesse principale
nell’esercizio del potere di pianificazione
–sia in sede di adozione sia in sede di
approvazione– resta quello, pubblico, di
garantire la funzionalità complessiva delle
scelte di governo del territorio.
A conferma di ciò, si pensi al fatto che le
osservazioni dei privati sono ritenute
costantemente in giurisprudenza come dei
“meri apporti procedimentali”, sulle quali
l’Amministrazione si può pronunciare anche
accorpandole per ambiti omogenei e senza
effettuare una controdeduzione puntuale.
...
Nemmeno sussiste un obbligo di
ripubblicazione del piano urbanistico, se
non a fronte di modifiche che comportano una
rielaborazione complessiva dello strumento
di pianificazione territoriale, ovvero
laddove si apportino mutamenti così
rilevanti da determinare un cambiamento
radicale delle caratteristiche essenziali
del Piano e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione.
Ciò è confermato dalla possibilità di
introdurre modifiche d’ufficio in sede di
approvazione del Piano che si distinguono in
- modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto
delle previsioni del Piano territoriale di
coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse
dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali e
archeologici, l’adozione di standard
urbanistici minimi), in
- modifiche
“facoltative” (consistenti in innovazioni
non sostanziali) e
- modifiche “concordate”
(conseguenti all’accoglimento di
osservazioni presentate al Piano e accettate
dal Comune).
È evidente che, in tale classificazione, le
modifiche facoltative sono quelle a cui
l’Amministrazione si determina d’ufficio, al
fine di mantenere –anche per l’effetto di
ulteriori modifiche apportate al Piano–
l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra
l’altro, il consumo di suolo nei limiti di
legge.
Tale conclusione è stata ribadita a più
riprese anche dal Giudice d’appello, che ha
sottolineato come «l’eventualità che le
previsioni del piano urbanistico comunale (o
di altro strumento urbanistico) subiscano,
in sede di approvazione definitiva, delle
modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano (o nello strumento) adottato, è un
effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto,
contempla, all’atto dell’approvazione
definitiva, la possibilità di cambiamenti in
conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute.
Pertanto, soltanto laddove chi ha interesse
dimostri che le modifiche introdotte
incidono sulle caratteristiche essenziali
dello strumento stesso e sui suoi criteri di
impostazione, si rende necessario riprendere
da capo il relativo procedimento di
formazione; l’eventuale necessità di
“ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare
radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in
giurisprudenza quello secondo cui si rende
necessaria la ripubblicazione del piano solo
quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi
sia stata una “rielaborazione complessiva”
del piano stesso, e cioè un “mutamento delle
sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che presiedono alla sua impostazione”,
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in
cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso
sulla destinazione di singole aree o gruppi
di aree».
---------------
SENTENZA
... per l’annullamento
- della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del
14.12.2019, n. 52, pubblicata in data
22.04.2020, nelle sole parti in cui,
(i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte
dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio,
ha assoggettato l’area di proprietà delle
parti ricorrenti al regime di cui al neo
introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A.
del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse
paesaggistico”, nelle quali è esclusa la
possibilità di nuova edificazione, e
(ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del
P.d.R., a mente del quale nelle “aree
agricole di tipo produttivo” “la
nuova edificazione a destinazione agricola
potrà intervenire qualora (…) l’avente
titolo disponga di una superficie di
proprietà, contermine all’edificio di
prevista realizzazione, non inferiore a
10.000 mq”.
...
3.3. Quanto all’eccepita violazione del
procedimento pianificatorio, discendente
dall’avvenuto azzonamento peggiorativo
dell’area di proprietà dell’Azienda agricola
soltanto in fase di approvazione dello
strumento urbanistico e in seguito
all’accoglimento delle osservazioni proposte
da un soggetto terzo, senza consentire agli
interessati di presentare le proprie
osservazioni a margine di una tale scelta,
deve rilevarsi come l’art. 13, comma 9,
della legge regionale n. 12 del 2005 escluda
la necessità di nuova pubblicazione in caso
di approvazione di “… controdeduzioni
alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”,
non essendo prevista la concessione di nuovi
termini per la presentazione di ulteriori
osservazioni (cfr. TAR Lombardia, Milano, II,
23.07.2020, n. 1433; II, 23.09.2016, n.
1700).
Del resto, non può essere rinvenuto un
rapporto di rigida correlazione tra le
osservazioni recepite e i pareri acquisiti,
da un lato, e la possibilità di
modificare il Piano di governo adottato,
dall’altro, perché questo
significherebbe privare il pianificatore
della discrezionalità che gli appartiene
sino all’esito del procedimento e anteporre
–o quantomeno equiparare– l’interesse
privato al godimento più lucrativo della
propria area con quello pubblico della
pianificazione. L’interesse principale
nell’esercizio del potere di pianificazione
–sia in sede di adozione sia in sede di
approvazione– resta quello, pubblico, di
garantire la funzionalità complessiva delle
scelte di governo del territorio (TAR
Lombardia, Milano, II, 26.09.2022, n. 2053).
A conferma di ciò, si pensi al fatto che le
osservazioni dei privati sono ritenute
costantemente in giurisprudenza come dei “meri
apporti procedimentali”, sulle quali
l’Amministrazione si può pronunciare anche
accorpandole per ambiti omogenei e senza
effettuare una controdeduzione puntuale (cfr.
TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n.
423).
Nemmeno sussiste un obbligo di
ripubblicazione del piano urbanistico, se
non a fronte di modifiche che comportano una
rielaborazione complessiva dello strumento
di pianificazione territoriale, ovvero
laddove si apportino mutamenti così
rilevanti da determinare un cambiamento
radicale delle caratteristiche essenziali
del Piano e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione.
Ciò è confermato dalla possibilità di
introdurre modifiche d’ufficio in sede di
approvazione del Piano che si distinguono in
modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto
delle previsioni del Piano territoriale di
coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse
dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali e
archeologici, l’adozione di standard
urbanistici minimi), in modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali)
e modifiche “concordate” (conseguenti
all’accoglimento di osservazioni presentate
al Piano e accettate dal Comune).
È evidente che, in tale classificazione, le
modifiche facoltative sono quelle a cui
l’Amministrazione si determina d’ufficio, al
fine di mantenere –anche per l’effetto di
ulteriori modifiche apportate al Piano–
l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra
l’altro, il consumo di suolo nei limiti di
legge (TAR Lombardia, Milano, II,
26.09.2022, n. 2053; anche, II, 06.07.2021,
n. 1656).
Tale conclusione è stata ribadita a più
riprese anche dal Giudice d’appello, che ha
sottolineato come «l’eventualità che le
previsioni del piano urbanistico comunale (o
di altro strumento urbanistico) subiscano,
in sede di approvazione definitiva, delle
modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano (o nello strumento) adottato, è un
effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto,
contempla, all’atto dell’approvazione
definitiva, la possibilità di cambiamenti in
conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto
laddove chi ha interesse dimostri che le
modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento
stesso e sui suoi criteri di impostazione,
si rende necessario riprendere da capo il
relativo procedimento di formazione;
l’eventuale necessità di “ripubblicazione”
sorge solo a seguito di apporto di
innovazioni tali da mutare radicalmente
l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in
giurisprudenza quello secondo cui si rende
necessaria la ripubblicazione del piano solo
quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi
sia stata una “rielaborazione complessiva”
del piano stesso, e cioè un “mutamento delle
sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che presiedono alla sua impostazione” (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944;
21.09.2011, n. 5343, 26.04.2006 n. 2297,
31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n. 5492),
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in
cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso
sulla destinazione di singole aree o gruppi
di aree (Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020,
n. 7027; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769)»
(Consiglio di Stato, IV, 28.03.2023, n.
3168; anche, IV, 02.01.2023, n. 21).
Pertanto, nessuna illegittimità può essere
rinvenuta sotto il richiamato profilo nel
procedimento pianificatorio posto in essere
dal Comune di Lurate Caccivio.
3.4. Alla stregua delle suesposte
considerazioni, la scrutinata censura deve
essere respinta.
4. L’infondatezza della esaminata doglianza
rende ultroneo l’esame del primo motivo di
ricorso –con il quale è stato contestato il
limite minimo di superficie imposto per
poter realizzare interventi edificatori in
zona agricola–, poiché al cospetto di un
divieto (di edificazione) fondato su una
pluralità di motivazioni, idonea ciascuna,
singolarmente intesa, a fondarne la
legittimità, l’accertata immunità da vizi di
quella in precedenza scrutinata determina la
reiezione del ricorso (cfr. Consiglio di
Stato, VI, 08.09.2021, n. 6235; 11.08.2021,
n. 5847; VI, 31.03.2021, n. 2687; TAR
Lombardia, Milano, II, 09.12.2021, n. 2763)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.02.2024 n. 492 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento
giurisprudenziale, in caso di modifiche sostanziali da
parte della regione, il comune interessato, con apposita
deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione
del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere
una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale,
il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere
introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione
del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le
modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e
dell’ambiente, che pertanto possono mutare le
caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del
piano.
Del
resto costituisce altresì un principio consolidato che, in
materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del
piano urbanistico comunale subiscano, in sede di
approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle
contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in
giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che
la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale
obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo
l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che,
modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150,
ha ampliato i poteri dell'autorità competente
all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro
certi limiti e a certe condizioni, di introdurre
direttamente talune modifiche con lo stesso atto di
approvazione— va riconosciuta la legittimità
dell’approvazione «a stralcio con raccomandazioni».
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello
strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per
assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione
regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche
che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità
regionale».
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di
approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti
innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione
degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione
del piano».
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in
relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di
piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente
la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del
c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a
restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a
rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a
formulare nuove proposte».
In linea con tale indirizzo interpretativo, il Consiglio di
Stato ha chiarito che
“proprio con specifico riferimento all’obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e
- modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione ha, infine, evidenziato, in continuità con i
propri precedenti, “la necessità di ripubblicazione del
piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono”.
---------------
Con un ulteriore sub motivo di appello la parte
appellante lamenta la illegittimità degli atti di
approvazione del PUC in quanto, specie nel passaggio della
fase tra la adozione (delibera 52/2011) e la approvazione
definitiva (delibera 43/2012), il Progetto Norma di Via
Budapest avrebbe subito modifiche rilevanti, come
emergerebbe dal raffronto dei relativi elaborati (docc. 22 e
37), ragione per cui il Piano avrebbe dovuto essere
sottoposto a nuova pubblicazione, nuove osservazioni e nuova
verifica di coerenza regionale, ovverosia all’intero iter di
riapprovazione.
Il motivo non è fondato.
Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento
giurisprudenziale (cfr. Suprema Corte di Cassazione, Sez. II,
09.06.1993, n. 6442), in caso di modifiche sostanziali da
parte della regione, il comune interessato, con apposita
deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione
del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere
una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale,
il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere
introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione
del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le
modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e
dell’ambiente, che pertanto possono mutare le
caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del
piano. (C. Stato, sez. IV, 30.09.2002, n. 4984).
Del
resto costituisce altresì un principio consolidato che, in
materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del
piano urbanistico comunale subiscano, in sede di
approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle
contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in
giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che
la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id.,
31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492),
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV,
04.12.2013, n. 5769).
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo
l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che,
modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150,
ha ampliato i poteri dell'autorità competente
all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro
certi limiti e a certe condizioni, di introdurre
direttamente talune modifiche con lo stesso atto di
approvazione— va riconosciuta la legittimità
dell’approvazione «a stralcio con raccomandazioni» (cfr. C.
Stato, sez. IV, 06.04.1999, n. 524).
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello
strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per
assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione
regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche
che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità
regionale» (cfr. C. Stato, sez. IV: 17.09.2013, n.
4614).
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di
approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti
innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione
degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione
del piano» (C. Stato, sez. III, 24.03.2009, n. 617/09).
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in
relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di
piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente
la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del
c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a
restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a
rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a
formulare nuove proposte» (cfr. C. Stato, sez. IV, 06.09.2005, n. 4563).
In linea con tale indirizzo interpretativo, Consiglio di
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839 ha chiarito che
“proprio con specifico riferimento all’obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione (sez. IV, 19.11.2018, n. 6484) ha, infine, evidenziato, in continuità con i
propri precedenti, “la necessità di ripubblicazione del
piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n.
1477; id., 25.11.2003, n. 7782) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.02.2024 n. 1028 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Pur prescindendo dalla natura meramente
programmatica della fase preliminare, la configurazione di
una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata
intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui
procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre
maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del
contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile,
secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti.
Deve infatti “escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”; così come deve
escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
8.3. Per mera completezza di motivazione, deve peraltro
osservarsi che, anche a prescindere dalla sua
inammissibilità per tardività, la censura è comunque
infondata.
La continuità tra le linee programmatiche indicate nella
determinazione, più volte citata, n. -OMISSIS-/2014 oggetto
della consultazione pubblica del 2017, e il PUC oggetto di
adozione è stata evidenziata, con riscontro documentale ed
argomentazione logica immune da censure di irragionevolezza,
nella relazione al piano predisposta dalla professionista
incaricata, nella quale si rappresenta che la fase di
predisposizione delle nuove tavole del PUC da trasmettere
all’Ente per la nuova adozione è stata preceduta dalle
necessarie attività di revisione ed adeguamento degli
elaborati, tenuto conto sia delle indicazioni pervenute
nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti
Competenti in materia ambientale (attività preservata dalla
Commissione Straordinaria), sia delle prescrizioni contenute
nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento
Territoriale della Città Metropolitana di Napoli adottato,
ferma restando invece tutta l’attività propedeutica,
comprendente gli indirizzi programmatici, il preliminare di
piano, la fase di ascolto e di raccolta contributi, nonché i
pareri preventivi dei soggetti competenti in materia
ambientale; atti, questi ultimi, che, come ribadito dalla
determinazione n. -OMISSIS-/2019, restavano confermati (cfr.
in termini Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 7923/2021).
Ciò in coerenza con l’obiettivo della Commissione
straordinaria di restituire alla cittadinanza un piano
urbanistico di piena legalità, epurato da quegli aspetti
patologici conseguenti a ingerenze distorsive in grado di
inficiare le decisioni pianificatorie, le quali, come emerge
dal D.P.R. di scioglimento, erano state circoscritte ad una
fase procedurale ben determinata, culminata con le delibere
di adozione del piano del 2017 da parte del disciolto
Consiglio comunale.
E invero, è in tale fase che, il
precedente progettista, a seguito di pressioni da parte di
diversi consiglieri comunali, mutando indirizzo, aveva
accolto numerose osservazioni di privati, stravolgendo di
fatto il piano adottato e determinando un incremento di
volumetria e di alloggi incoerente con le indicazioni degli
enti sovracomunali.
In tale prospettiva è evidente l’effetto
di elisione delle interferenze criminogene che del tutto
coerentemente e ragionevolmente si è voluto conseguire,
retroagendo ad una fase procedurale in cui, a ben vedere, il
dibattito sull’adottando piano si era svolto in pieno
contraddittorio con tutte le parti interessate, sulla base
di un progetto preliminare legittimamente predisposto in
conformità agli indirizzi e agli obiettivi programmatici
approvati dal consiglio comunale nel 2014, e che del tutto
ragionevolmente la stessa Commissione straordinaria ha
inteso salvaguardare e confermare.
Le superiori considerazioni consentono di superare le
deduzioni censorie articolate dalla parte ricorrente,
essendo al contrario evidente la continuità di indirizzo con
gli obiettivi dichiarati negli atti di programmazione posti
a monte della procedura, così come ribadito dalla
determinazione n. -OMISSIS-/2019, che li ha confermati, pur
rilevando la necessità di calare e riproporzionare i
medesimi obiettivi con l’attualità di un mutato contesto
demografico. In sostanza, in tale contesto la progettista si
è limitata ad effettuare una revisione ed adeguamento degli
elaborati, sulla scorta sia delle indicazioni pervenute
nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti
Competenti in materia Ambientale (attività preservata dalla
Commissione Straordinaria), che delle prescrizioni contenute
nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento
Territoriale della Città Metropolitana di Napoli.
A tanto va anche soggiunto che, pur prescindendo dalla
natura meramente programmatica della fase preliminare, la
configurazione di una vera e propria rinnovazione di un
piano urbanistico -persino nella fase più avanzata
intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui
procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre
maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del
contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile,
secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti;
deve infatti “escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons.
Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484)”; così come deve
escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”; Cons.
Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; cfr. anche,
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 17.02.2020, n.
-OMISSIS-8) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2024 n. 652 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Pur prescindendo dalla natura meramente
programmatica della fase preliminare, la configurazione di
una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata
intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui
procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre
maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del
contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile,
secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti.
Deve infatti “escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”; così come deve
escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
8.3. Per mera completezza di motivazione, deve peraltro
osservarsi che, anche a prescindere dalla sua
inammissibilità per tardività, la censura è comunque
infondata.
La continuità tra le linee programmatiche indicate nella
determinazione, più volte citata, n. 46/2014 oggetto della
consultazione pubblica del 2017, e il PUC oggetto di
adozione è stata evidenziata, con riscontro documentale ed
argomentazione logica immune da censure di irragionevolezza,
nella relazione al piano predisposta dalla professionista
incaricata, nella quale si rappresenta che la fase di
predisposizione delle nuove tavole del PUC da trasmettere
all’Ente per la nuova adozione è stata preceduta dalle
necessarie attività di revisione ed adeguamento degli
elaborati, tenuto conto sia delle indicazioni pervenute
nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti
Competenti in materia ambientale (attività preservata dalla
Commissione Straordinaria), sia delle prescrizioni contenute
nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento
Territoriale della Città Metropolitana di Napoli adottato,
ferma restando invece tutta l’attività propedeutica,
comprendente gli indirizzi programmatici, il preliminare di
piano, la fase di ascolto e di raccolta contributi, nonché i
pareri preventivi dei soggetti competenti in materia
ambientale; atti, questi ultimi, che, come ribadito dalla
determinazione n. 93/2019, restavano confermati (cfr. in
termini Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 7923/2021).
Ciò in coerenza con l’obiettivo della Commissione
straordinaria di restituire alla cittadinanza un piano
urbanistico di piena legalità, epurato da quegli aspetti
patologici conseguenti a ingerenze distorsive in grado di
inficiare le decisioni pianificatorie, le quali, come emerge
dal D.P.R. di scioglimento, erano state circoscritte ad una
fase procedurale ben determinata, culminata con le delibere
di adozione del piano del 2017 da parte del disciolto
Consiglio comunale.
E invero, è in tale fase che, il
precedente progettista, a seguito di pressioni da parte di
diversi consiglieri comunali, mutando indirizzo, aveva
accolto numerose osservazioni di privati, stravolgendo di
fatto il piano adottato e determinando un incremento di
volumetria e di alloggi incoerente con le indicazioni degli
enti sovracomunali.
In tale prospettiva è evidente l’effetto
di elisione delle interferenze criminogene che del tutto
coerentemente e ragionevolmente si è voluto conseguire,
retroagendo ad una fase procedurale in cui, a ben vedere, il
dibattito sull’adottando piano si era svolto in pieno
contraddittorio con tutte le parti interessate, sulla base
di un progetto preliminare legittimamente predisposto in
conformità agli indirizzi e agli obiettivi programmatici
approvati dal consiglio comunale nel 2014, e che del tutto
ragionevolmente la stessa Commissione straordinaria ha
inteso salvaguardare e confermare.
Le superiori considerazioni consentono di superare le
deduzioni censorie articolate dalla parte ricorrente,
essendo al contrario evidente la continuità di indirizzo con
gli obiettivi dichiarati negli atti di programmazione posti
a monte della procedura, così come ribadito dalla
determinazione n. 93/2019, che li ha confermati, pur
rilevando la necessità di calare e riproporzionare i
medesimi obiettivi con l’attualità di un mutato contesto
demografico. In sostanza, in tale contesto la progettista si
è limitata ad effettuare una revisione ed adeguamento degli
elaborati, sulla scorta sia delle indicazioni pervenute
nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti
Competenti in materia Ambientale (attività preservata dalla
Commissione Straordinaria), che delle prescrizioni contenute
nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento
Territoriale della Città Metropolitana di Napoli.
A tanto va anche soggiunto che, pur prescindendo dalla
natura meramente programmatica della fase preliminare, la
configurazione di una vera e propria rinnovazione di un
piano urbanistico -persino nella fase più avanzata
intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui
procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre
maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del
contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile,
secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti;
deve infatti “escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons.
Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484)”; così come deve
escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”; Cons.
Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; cfr. anche,
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 17.02.2020, n.
728) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 08.01.2024 n. 161 - link a
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URBANISTICA:
«… costituisce …
principio consolidato che … l’eventualità che le previsioni
del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di
approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle
contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute.
Pertanto, soltanto laddove si dimostri che le
modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche
essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di
impostazione, si rende necessario riprendere da capo il
relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità
di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di
innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di
Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in
giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la
ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale
obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree».
---------------
8. Non può,
infine, riscuotere favorevole apprezzamento l’ordine di
doglianze incentrato sull’assunto che le integrazioni
apportate al PUC adottato, all’indomani dei rilievi di non
coerenza rispetto al PTCP di Salerno, formulati dalla
Provincia di Salerno con le note del 28.07.2021, prot.
n. 67344, e del 21.03.2022, prot. n. 21383, avrebbero
rivestito portata tale da richiedere la riadozione del PUC a
cura dell’organo giuntale di governo dell’ente locale (cfr.
retro, in narrativa, sub n. 2.h).
Una ipotetica modifica di carattere sostanziale, tale da
innovare profondamente alle linee fondamentali del PUC
adottato, da comportarne una rielaborazione complessiva o un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che presiedono alla sua impostazione, non risulta, infatti,
allegata e dimostrata da parte ricorrente. E trova, anzi,
smentita nel rilievo che quelli elargiti dal Comune di Sant’Egidio
del Monte Albino con le note del 27.01.2022, prot. n.
1471, e del 20.05.2022, prot. n. 7742, in riscontro alle
note provinciali del 28.07.2021, prot. n. 67344, e del
21.03.2022, prot. n. 21383, piuttosto che modifiche
sostanziali, sono “chiarimenti”, “precisazioni” e
“rettifiche”, insuscettibili, come tali, di incidere sul
dimensionamento e/o sulla zonizzazione, e, quindi,
sull’assetto complessivo del PUC adottato.
In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 07.12.2022, n.
10731 ha statuito che: «… costituisce … principio
consolidato che … l’eventualità che le previsioni del piano
urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione
definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto strumento
urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto
dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti
in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni
pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le
modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche
essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di
impostazione, si rende necessario riprendere da capo il
relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità
di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di
innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di
Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato
in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la
ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343; 26.04.2006 n. 2297; 31.01.2005, n.
259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non
sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano
in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; 04.12.2013, n. 5769)» (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.01.2024 n. 26 - link a
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URBANISTICA:
Pur prescindendo dalla natura meramente
programmatica della fase preliminare, la configurazione di
una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata
intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui
procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre
maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del
contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile,
secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti.
Deve infatti “escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”; così come deve
escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
6. Va in primo luogo respinta la censura con cui le ricorrenti lamentano
una pretesa discontinuità tra le linee programmatiche
indicate nella determinazione, più volte citata, n. 46/2014
oggetto della consultazione pubblica del 2017, e il PUC
oggetto di adozione.
Al contrario, infatti, è stata evidenziata, con riscontro
documentale ed argomentazione logica immune da censure di
irragionevolezza, nella relazione al piano predisposta dalla
professionista incaricata, nella quale si rappresenta che la
fase di predisposizione delle nuove tavole del PUC da
trasmettere all’Ente per la nuova adozione è stata preceduta
dalle necessarie attività di revisione ed adeguamento degli
elaborati, tenuto conto sia delle indicazioni pervenute
nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti
Competenti in materia ambientale (attività preservata dalla
Commissione Straordinaria), sia delle prescrizioni contenute
nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento
Territoriale della Città Metropolitana di Napoli adottato,
ferma restando invece tutta l’attività propedeutica,
comprendente gli indirizzi programmatici, il preliminare di
piano, la fase di ascolto e di raccolta contributi, nonché i
pareri preventivi dei soggetti competenti in materia
ambientale; atti, questi ultimi, che, come ribadito dalla
determinazione n. 93/2019, restavano confermati (cfr. in
termini Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 7923/2021).
Ciò in coerenza con l’obiettivo della Commissione
straordinaria di restituire alla cittadinanza un piano
urbanistico di piena legalità, epurato da quegli aspetti
patologici conseguenti a ingerenze distorsive in grado di
inficiare le decisioni pianificatorie, le quali, come emerge
dal D.P.R. di scioglimento, erano state circoscritte ad una
fase procedurale ben determinata, culminata con le delibere
di adozione del piano del 2017 da parte del disciolto
Consiglio comunale.
E invero, è in tale fase che, il
precedente progettista, a seguito di pressioni da parte di
diversi consiglieri comunali, mutando indirizzo, aveva
accolto numerose osservazioni di privati, stravolgendo di
fatto il piano adottato e determinando un incremento di
volumetria e di alloggi incoerente con le indicazioni degli
enti sovracomunali.
In tale prospettiva è evidente l’effetto
di elisione delle interferenze criminogene che del tutto
coerentemente e ragionevolmente si è voluto conseguire,
retroagendo ad una fase procedurale in cui, a ben vedere, il
dibattito sull’adottando piano si era svolto in pieno
contraddittorio con tutte le parti interessate, sulla base
di un progetto preliminare legittimamente predisposto in
conformità agli indirizzi e agli obiettivi programmatici
approvati dal consiglio comunale nel 2014, e che del tutto
ragionevolmente la stessa Commissione straordinaria ha
inteso salvaguardare e confermare.
Le superiori considerazioni consentono di superare le
deduzioni censorie articolate dalla parte ricorrente,
essendo al contrario evidente la continuità di indirizzo con
gli obiettivi dichiarati negli atti di programmazione posti
a monte della procedura, così come ribadito dalla
determinazione n. 93/2019, che li ha confermati, pur
rilevando la necessità di calare e riproporzionare i
medesimi obiettivi con l’attualità di un mutato contesto
demografico.
In sostanza, in tale contesto la progettista si
è limitata ad effettuare una revisione ed adeguamento degli
elaborati, sulla scorta sia delle indicazioni pervenute
nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti
Competenti in materia Ambientale (attività preservata dalla
Commissione Straordinaria), che delle prescrizioni contenute
nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento
Territoriale della Città Metropolitana di Napoli.
A tanto va anche soggiunto che, pur prescindendo dalla
natura meramente programmatica della fase preliminare, la
configurazione di una vera e propria rinnovazione di un
piano urbanistico -persino nella fase più avanzata
intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui
procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre
maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del
contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile,
secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti;
deve infatti “escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons.
Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484)”; così come deve
escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”; Cons.
Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; cfr. anche,
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 17.02.2020, n. 728) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 27.12.2023 n. 7279 - link a
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URBANISTICA:
E' stato chiarito in giurisprudenza che “il
parere regionale, lungi dal costituire espressione delle
facoltà partecipative dei privati, destinati a subire gli
effetti autoritativi e conformativi della programmazione
urbanistica, rappresenta la manifestazione del rapporto di
cooperazione tra Enti titolari di competenze distinte e
concorrenti nel procedimento di formazione degli strumenti
urbanistici.
Con particolare riferimento alla fattispecie in
esame, la competenza consultiva regionale risulta orientata,
nel suo concreto esercizio, a garantire la coerenza delle
previsioni del P.U.C. in itinere con le prescrizioni
inderogabili del P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza
di una idonea disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e
paesistico, potesse pregiudicare le esigenze di
conservazione dei tratti paesaggistici delle aree
interessate, così come recepite dal piano sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a
salvaguardare le previsioni del P.T.C.P. in punto di
caratterizzazione delle aree de quibus che (…) esulano dal
potere di valutazione discrezionale comunale, afferente alla
disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui
definizione è funzionale la partecipazione dei privati”.
È stato infatti precisato che “occorre distinguere tra
- modifiche "obbligatorie", in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi;
- modifiche "facoltative", in quanto
consistenti in innovazioni non sostanziali; e
- modifiche
"concordate", in quanto conseguenti all'accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune.
Mentre per le modifiche "facoltative" e "concordate", ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte
del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie"
tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento regionale (o di altra autorità preposta)
rende superfluo l'apporto collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in
sede regionale e comunale (…)”.
Tanto rende inapplicabile, al caso di specie, il consolidato
indirizzo giurisprudenziale che riconosce la necessità di
ripubblicazione del piano “a seguito di apporto di
innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione dello
strumento urbanistico”, atteso che “è proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi
contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle scelte
pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto
nel procedimento, senza necessità di un azzeramento della
procedura con conseguente nuova pubblicazione del Piano".
---------------
12. Venendo ora allo scrutinio del merito, non ha pregio la
doglianza dedotta con il primo mezzo, con la quale la
ricorrente si duole del fatto che la variante, a seguito
delle integrazioni e modifiche d’ufficio introdotte dalla
Regione in sede consultiva, non sia stata nuovamente
soggetta a pubblicazione, in violazione delle previsioni
della l. n. 1150/1942.
Le citate modifiche d’ufficio, infatti, conseguono alla
valutazione di compatibilità paesaggistica delle nuove
destinazioni operata dal Comitato regionale alla luce delle
previsioni dell’allora vigente P.T.P. n. 9, sicché soccorre
il disposto del comma 2 dell’art. 10 della legge
urbanistica, che esclude dall’obbligo di ripubblicazione “le
modifiche (…) che siano riconosciute indispensabili per
assicurare: (…) c) la tutela del paesaggio e di complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici”.
Sul punto è stato chiarito in giurisprudenza, con
riferimento a fattispecie analoga alla presente, che “il
parere regionale, lungi dal costituire espressione delle
facoltà partecipative dei privati, destinati a subire gli
effetti autoritativi e conformativi della programmazione
urbanistica, rappresenta la manifestazione del rapporto di
cooperazione tra Enti titolari di competenze distinte e
concorrenti nel procedimento di formazione degli strumenti
urbanistici. Con particolare riferimento alla fattispecie in
esame, la competenza consultiva regionale risulta orientata,
nel suo concreto esercizio, a garantire la coerenza delle
previsioni del P.U.C. in itinere con le prescrizioni
inderogabili del P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza
di una idonea disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e
paesistico, potesse pregiudicare le esigenze di
conservazione dei tratti paesaggistici delle aree
interessate, così come recepite dal piano sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a
salvaguardare le previsioni del P.T.C.P. in punto di
caratterizzazione delle aree de quibus che (…) esulano dal
potere di valutazione discrezionale comunale, afferente alla
disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui
definizione è funzionale la partecipazione dei privati” (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027, che esclude
appunto l’obbligo di ripubblicazione del piano alla luce del
“carattere necessitato delle modifiche introdotte dal
Comune”).
È stato infatti precisato che “occorre distinguere tra
modifiche "obbligatorie", in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi; modifiche "facoltative", in quanto
consistenti in innovazioni non sostanziali; e modifiche
"concordate", in quanto conseguenti all'accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune.
Mentre per le modifiche "facoltative" e "concordate", ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte
del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie"
tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento regionale (o di altra autorità preposta)
rende superfluo l'apporto collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in
sede regionale e comunale (…) (cfr., in termini, Cons.
Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944)” (Cons. Stato Sez. IV, 07.12.2022, n. 10731).
Tanto rende inapplicabile, al caso di specie, il consolidato
indirizzo giurisprudenziale che riconosce la necessità di
ripubblicazione del piano “a seguito di apporto di
innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione dello
strumento urbanistico” (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI,
10.07.2023, n. 6754), atteso che “è proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi
contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle scelte
pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto
nel procedimento, senza necessità di un azzeramento della
procedura con conseguente nuova pubblicazione del Piano” (cfr.
Cons. Stato, n. 7027/2020, cit.).
Si aggiunge poi che, contrariamente a quanto dedotto dalla
ricorrente, la delibera CC n. 25/2004 non risulta aver
apportato ulteriori modifiche di grande impatto alla
variante, come anche si desume dalle valutazioni conclusive
formulate dal C.R.p.T. nella seduta n. 72-bis del 21.10.2004, in cui si legge che “la delibera comunale n. 25
contiene una elencazione di intenti, costituisce (…) atto di
indirizzo per la rivisitazione del Piano, attraverso
l’elaborazione di una variante di salvaguardia con l’intento
di attivare procedure già segnalate nel Voto regionale a cui
l’A.C. stessa non ha dato corso nei termini previsti. L’A.C.
si è quindi limitata ad elencare un programma di lavori (…)
evitando di controdedurre, se non in maniera generica, alle
modifiche d’ufficio intervenute con il Voto regionale”.
Peraltro, con particolare riguardo alla posizione della
ricorrente si osserva che le modifiche d’ufficio non hanno
sortito, quale effetto, quello di “introdurre” ex novo una
destinazione urbanistica (agricola) di cui il lotto di
proprietà era privo ab origine, come sembrerebbe adombrare
la Società nella propria memoria di replica (in cui si legge
che “la destinazione agricola è stata introdotta in modo
illogico” e che “in sede di approvazione della Variante
l’area è «divenuta» agricola”), quanto piuttosto quello di
mantenere immutata la destinazione (agricola)
originariamente impressa dal previgente P.R.G., senza dunque
apportare a detrimento della parte alcuno “stravolgimento” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio,
sentenza 09.11.2023 n. 16654 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Giusta il consolidato orientamento interpretativo
formatosi con riferimento alla pianificazione territoriale,
la necessità di ripubblicazione del piano
- “viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono […]”; in altri termini,
- “[…] la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione […] Rileva infine il
Collegio che debba escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree […] in
altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui
le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree”.
---------------
3. Con il secondo motivo sono stati dedotti i vizi di
Violazione e falsa applicazione degli artt. 133 e 134 del
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 e s.m.i.; Violazione e falsa
applicazione del 1357/40 - Violazione degli articoli 1, 3 e
7 della legge 241/1990 - Violazione del giusto procedimento e
del diritto alla partecipazione - Conseguente difetto di
istruttoria e di motivazione, carenza di presupposti.
Per la parte ricorrente, in sintesi, tra il piano
paesaggistico adottato e quello approvato, esiste una
sostanziale e rilevante differenza, determinata
dall'inserimento delle aree “boscate” presenti
nell'Inventario Forestale Regionale all'interno del piano
medesimo e soggette al massimo livello di tutela; tale
sostanziale e rilevante novazione, è avvenuta allorquando la
fase di pubblicazione e raccolta delle osservazioni al piano
adottato si era già conclusa, ai sensi dell'art. 144 del d.lgs. n. 42/2004.
L'Amministrazione procedente, secondo la deducente, avrebbe
dovuto sottoporre a nuova pubblicazione il progetto di piano
paesaggistico ai sensi della richiamata disposizione, dando
modo ai soggetti (pubblici e privati) titolati ad avanzare
nuove osservazioni; ciò avrebbe consentito alla ricorrente
di evidenziare l'assenza di boschi all'interno della
lottizzazione, che l'Amministrazione procedente avrebbe
potuto accertare, mediante rilievo puntuale sui luoghi.
Per la parte ricorrente i provvedimenti impugnati sono
illegittimi per violazione del cit. art. 144 e più in
generale della legge n. 241/1990, posto che la pubblicazione e
le osservazioni hanno interessato un progetto di piano
differente; inoltre, la lesione del diritto alla
partecipazione ha comportato un chiaro difetto
d'istruttoria.
3.1. Il motivo è infondato.
3.1.1. Il Collegio ritiene applicabile alla fattispecie in
esame, mutatis mutandis, il consolidato orientamento
interpretativo formatosi con riferimento alla pianificazione
territoriale, secondo cui la necessità di ripubblicazione
del piano “viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono […]”; in altri termini, “[…] la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione […] Rileva infine il
Collegio che debba escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree […] in
altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui
le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree” (cfr., ex plurimis, Cons.
Stato, sez. IV, 06.12.2022, n. 10662).
Nel caso in esame va escluso che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, essendo state
contestate modifiche che riguardano la disciplina di una
singola area.
3.1.2. E comunque, in relazione al contestato difetto
istruttorio, va osservato che nella sede processuale la
parte ricorrente non ha introdotto elementi significativi
idonei a far emergere l’erroneità o l’inadeguatezza
dell’attività istruttoria posta in essere
dall’Amministrazione resistente (TAR Sicilia-Catania, Sez.
I,
sentenza 02.11.2023 n. 3263 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo consolidata
giurisprudenza, "la necessità di ripubblicazione del
piano viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque
momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi
sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato come “debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini,
l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree".
---------------
6. Con il terzo motivo il ricorrente sostiene che,
per effetto delle modifiche introdotte in accoglimento
dell’osservazione “c 14”, il PATI avrebbe dovuto essere
oggetto di una rinnovata pubblicazione.
6.1. La censura è infondata.
L’osservazione approvata attiene ad una modifica puntuale,
concernente una singola area, inidonea ad alterare i criteri
ispiratori del PATI e tale quindi da non comportare alcun
obbligo di ripubblicazione del piano.
Secondo consolidata
giurisprudenza, anche di questo Tribunale (cfr. ex multis,
TAR Veneto, sez. II, 19.09.2022, n. 1406; id., 08.08.2022, n. 182), "la necessità di ripubblicazione del
piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n.
1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più
recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677)” (cfr.
Cons. St, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato come “debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV,
19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini,
l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017,
n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n.
880)" (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 7027/2020 cit.) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 09.10.2023 n. 1392 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento
giurisprudenziale, in caso di modifiche sostanziali da
parte della regione, il comune interessato, con apposita
deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione
del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere
una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale,
il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere
introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione
del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le
modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e
dell’ambiente, che pertanto possono mutare le
caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del
piano.
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo
l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che,
modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150, ha
ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione
dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a
certe condizioni, di introdurre direttamente talune
modifiche con lo stesso atto di approvazione— va
riconosciuta la legittimità dell’approvazione «a stralcio
con raccomandazioni».
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla
regione è consentito, all'atto di approvazione dello
strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per
assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione
regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche
che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità
regionale».
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di
approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti
innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione
degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione
del piano».
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in
relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di
piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente
la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del
c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a
restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a
rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a
formulare nuove proposte».
Sulle orme di tale indirizzo interpretativo, il Consiglio di
Stato ha
chiarito che “proprio con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e
- modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri
precedenti, “la necessità di ripubblicazione del piano,
dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque
momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi
sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che alla sua impostazione presiedono".
---------------
Con ulteriore sub-censura, Or. assumeva in primo grado la
violazione dell’art. 10, legge n. 1150/1942 (c.d. legge
urbanistica fondamentale), in quanto la delibera della
Giunta regionale n. 913/2011 avrebbe impropriamente
utilizzato lo strumento delle prescrizioni e delle modifiche
d’ufficio previste dall’art. 5, l.reg. n. 9/1980, in
violazione del citato art. 10, l. n. 1150/1942.
In particolare, l’utilizzo delle prescrizioni avrebbe dovuto
comportare, ad avviso di Or., l’instaurazione del sub
procedimento contenzioso con il comune di Genova previsto
dal menzionato art. 10 della c.d. legge urbanistica
fondamentale.
Il motivo è infondato.
In via preliminare, appare utile ricostruire il quadro
normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Ai sensi dell’art. 10, 2° comma, legge n. 1150/1942, le
modifiche che possono essere apportate dalla Regione, in
sede di approvazione del Piano, sono:
- quelle che non comportano innovazione
sostanziali (tali, cioè, da snaturare le caratteristiche
essenziali del piano e i criteri di impostazione di esso);
- quelle conseguenti all’accoglimento di
osservazioni presentate al piano e accettate con
deliberazione del Consiglio comunale;
- quelle che siano riconosciute indispensabili
per assicurare:
○
il rispetto delle previsioni del piano territoriale di
coordinamento;
○
la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli
impianti di interesse dello Stato e della Regione;
○
la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici;
○
l’osservanza degli standards urbanistici (art. 41-quinquies,
commi 6 e 8, legge n. 1150/1942).
Le proposte di modifica —ad eccezione di quelle riguardanti
le osservazioni presentate al piano— devono essere
comunicate al comune, il quale (entro 90 giorni) dovrà
adottare le proprie controdeduzioni con delibera del
Consiglio, che verrà pubblicata nel primo giorno festivo
nell'albo pretorio e trasmessa alla Regione nei successivi
15 giorni.
Tale delibera consiliare non ha effetti esterni e non è
impugnabile autonomamente. Le modifiche proposte sono quindi
decise e introdotte nel piano con l’atto regionale di
approvazione.
Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento
giurisprudenziale (cfr. Suprema Corte di Cassazione, Sez. II,
09.06.1993, n. 6442), in caso di modifiche sostanziali da
parte della regione, il comune interessato, con apposita
deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione
del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere
una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale,
il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere
introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione
del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le
modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e
dell’ambiente, che pertanto possono mutare le
caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del
piano (C. Stato, sez. IV, 30.09.2002, n. 4984).
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo
l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che,
modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150, ha
ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione
dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a
certe condizioni, di introdurre direttamente talune
modifiche con lo stesso atto di approvazione— va
riconosciuta la legittimità dell’approvazione «a stralcio
con raccomandazioni» (cfr. C. Stato, sez. IV,
06.04.1999, n. 524).
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla
regione è consentito, all'atto di approvazione dello
strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per
assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione
regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche
che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità
regionale» (cfr. C. Stato, sez. IV: 17.09.2013, n. 4614).
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di
approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti
innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione
degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione
del piano» (C. Stato, sez. III, 24.03.2009, n. 617/09).
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in
relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di
piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente
la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del
c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a
restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a
rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a
formulare nuove proposte» (cfr. C. Stato, sez. IV,
06.09.2005, n. 4563).
Sulle orme di tale indirizzo interpretativo, Consiglio di
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839 del 14.11.2019 ha
chiarito che “proprio con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione (sez. IV, 19.11.2018, n.
6484) ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri
precedenti, “la necessità di ripubblicazione del piano,
dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque
momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi
sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782)"
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.09.2023 n. 8324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Giusta il consolidato orientamento, “la riapertura della fase
istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e
della conseguente riattivazione dell’interlocuzione coi
soggetti interessati, si rende necessaria soltanto allorché
le modifiche apportate al progetto iniziale nel corso del
procedimento finalizzato alla sua approvazione importino un
sostanziale cambiamento nei suoi criteri ispiratori e nel
suo assetto essenziale, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione, determinando una rielaborazione
complessiva del piano stesso, il che certamente non è avvenuto nel
caso in esame, nel quale la contestata modificazione è
consistita nella sola soppressione dell’iniziativa privata
nella formazione del piano di recupero”.
“Anche di recente la giurisprudenza di questo Consiglio è
tornata a ribadire che una ripubblicazione del piano è
necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche
per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario, anche quando queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree".
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5. Con il quarto motivo di appello (rubricato: Ancora
sulla violazione dell'art. 12 della l.p. 13/1997: la
sentenza di primo grado ha ritenuto legittima la ripetuta
modifica del progetto del piano, nonostante tali modifiche
non siano state né pubblicate, né approvate dalla Giunta
provinciale), gli appellanti sostengono:
- che l'Amministrazione -dopo la presentazione delle
diverse proposte di modifica, delle osservazioni nonché dei
pareri obbligatori dei Comuni- avrebbe ripetutamente
modificato ampie parti del piano senza darne avviso agli
interessati (o almeno a chi aveva presentato osservazioni o
proposte) e senza pubblicare tale nuova bozza, pesantemente
modificata, così come richiesto dall'art. 12 l.p. 13/1997.
Dal verbale della Commissione del 06.11.2014 emergerebbe che
sia le norme di attuazione (volume 1), quanto il rapporto
ambientale (volume 2), contenente le prescrizioni ecologico
-paesaggistiche, sono state modificate dopo la pubblicazione
del progetto del piano e dopo che all'Amministrazione
provinciale erano pervenuti i pareri dei Comuni, nonché le
proposte di modifica e le diverse osservazione; sarebbe
stato inserito ex novo l'art. 9 delle norme di attuazione,
estremamente controverso e bocciato dallo stesso presidente
della Commissione per la natura, il paesaggio e lo sviluppo
del territorio, che vieta tout court, senza la possibilità
di valutazione concreta caso per caso, la realizzazione di
piste da sci ed impianti di risalita sia nelle zone Unesco,
che nelle zone adiacenti (zone "buffer");
- che nel territorio del Comune di Castelrotto si trovano
sia Zone Unesco vere e proprie che le cosiddette zone
"buffer";
- che la Giunta provinciale non avrebbe mai esaminato, né
deliberato tali modifiche;
- che contrariamente a quanto la sentenza di primo grado
erroneamente ritiene, non si tratterebbe di una circostanza
irrilevante e pertanto trascurabile, ma di un diritto
espressamente garantito dall'art. 12. L.p. 13/1997, alla cui
violazione consegue l'illegittimità dei provvedimenti
adottati;
- che sarebbe infondata l’affermazione del TRGA in
riferimento all'omessa approvazione di tali modifiche da
parte la Giunta provinciale, laddove rileva che la loro
approvazione sarebbe avvenuta implicitamente ed "in via
indiretta" mediante l’approvazione sic et simpliciter
dell'intero piano, così come dapprima elaborato dai propri
uffici e poi modificato dalla Commissione, per cui tali
modifiche sarebbero comunque entrate a far parte del piano.
5.1. Le doglianze non hanno pregio.
La sentenza impugnata si
esprime in maniera chiara ed inequivoca sul punto, laddove
statuisce che nella impugnata delibera di approvazione n.
1545/2014 della Giunta provinciale “tali modifiche al
progetto di piano di settore apportate in seguito sono state
citate soltanto in forma generica, sottolineando però che
esse non vanno a modificare le indicazioni strategiche del
piano stesso”. “Altrettanto infondata è la censura secondo
cui il progetto di piano di settore a seguito delle
modifiche apportate avrebbe dovuto essere nuovamente
pubblicato e che il pubblico, in particolare i Comuni, non
sarebbero stati informati delle modifiche. Quest'ultima
argomentazione non corrisponde al vero. Dal verbale n. 29
del 06.11.2014 della Commissione natura, ambiente e sviluppo
del territorio citato in precedenza e dalla delibera di
approvazione della Giunta provinciale n. 1545/2014 emerge
infatti il contrario, ovvero che tutti i Comuni interessati
erano stati informati. Per quanto riguarda l’asserito
obbligo di pubblicazione, dal procedimento amministrativo
descritto all'art. 12 della l.p. n. 13/1997 si evince
chiaramente che la versione definitiva e approvata del piano
di settore può contenere delle modifiche rispetto al
progetto di piano”.
5.2. Il Collegio osserva che, a prescindere dalla
circostanza che gli appellanti non hanno dedotto già nel
ricorso di primo grado che nel territorio del Comune di
Castelrotto si trovano sia Zone Unesco vere e proprie che le
cosiddette zone "buffer", dalle censure mosse non emerge
specificatamente quali modifiche introdotte nel piano di
settore approvato rispetto al progetto di piano avrebbero
rappresentato un tale cambiamento sostanziale del piano, nei
suoi criteri ispiratori, da costituire un mutamento delle
sue caratteristiche essenziali, in grado di alterarne
l’impianto originario.
Ad ogni modo si ritiene corretta e priva di vizi logici la
valutazione effettuata dal Giudice di prime cure, per cui
non vi sono elementi ai fini dell’accoglimento del quarto
motivo di appello, tenuto conto anche del consolidato
orientamento, dal quale il Collegio non vede ragioni di
discostarsi, secondo il quale “la riapertura della fase
istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e
della conseguente riattivazione dell’interlocuzione coi
soggetti interessati, si rende necessaria soltanto allorché
le modifiche apportate al progetto iniziale nel corso del
procedimento finalizzato alla sua approvazione importino un
sostanziale cambiamento nei suoi criteri ispiratori e nel
suo assetto essenziale, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione, determinando una rielaborazione
complessiva del piano stesso (ex aliis, C.d.S., sez. IV, 10.08.2004, n. 5492), il che certamente non è avvenuto nel
caso in esame, nel quale la contestata modificazione è
consistita nella sola soppressione dell’iniziativa privata
nella formazione del piano di recupero” (Consiglio di Stato, Sez. II,
05.06.2019 n. 3806).
“Anche di recente la giurisprudenza di questo Consiglio è
tornata a ribadire che una ripubblicazione del piano è
necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche
per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario, anche quando queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.04.2018, n. 2513)" (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.08.2023 n. 7483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La condivisibile giurisprudenza, anche di questo Tribunale, e dalla quale il Collegio non vede ragione di
discostarsi, ha evidenziato che “la necessità di
ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere
allorché, in un qualunque momento della procedura che porta
alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini,
l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree”.
---------------
Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la mancata
ripubblicazione del Piano a seguito delle modifiche
intervenute per effetto delle osservazioni presentate.
Il motivo è infondato.
La condivisibile giurisprudenza, anche di questo Tribunale (cfr.
TAR Campania, Salerno, Sez. II, 15.11.2021, n.
2248), e dalla quale il Collegio non vede ragione di
discostarsi, ha evidenziato che “la necessità di
ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere
allorché, in un qualunque momento della procedura che porta
alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione
complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n.
1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più
recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677)”
(Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV,
19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini,
l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017,
n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n.
880) (Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027 cit.)”
(TAR Veneto, Sez. II, 08.08.2022, n. 1282).
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie,
risulta all’evidenza che il P.U.C. impugnato, a seguito
delle osservazioni, non necessitava di ripubblicazione
alcuna, dal momento che non è ravvisabile una
“rielaborazione complessiva” dello stesso.
A maggior ragione
ove si consideri che, come emerge dalla relazione depositata
dal Comune, la rielaborazione non ha comportato alcun
mutamento rilevante per il ricorrente, al quale era stata
attribuita una quota di edificazione pari al 0,35 mq/mq
rispetto alla superficie di terreno di sua proprietà
ricadente nell’adottato comparto V1.6, pari a quella che gli
è stata riconosciuta per il terreno inserito nell’approvato
lotto “d” del comparto V1.4, con la conseguenza che gli si è
creato alcun pregiudizio, rimanendo legittimato a sfruttare
tutta la relativa potenzialità edificatoria (TAR
Campania-Salerno, Sez. III,
sentenza 29.06.2023 n. 1587 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
«… costituisce …
principio consolidato che … l’eventualità che le previsioni
del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di
approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle
contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in
giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la
ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale
obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree».
---------------
6. Non può,
infine, riscuotere favorevole apprezzamento l’ordine di
doglianze incentrato sull’assunto che le modifiche
introdotte al PUC adottato, all’indomani dei rilievi di non
coerenza rispetto al PTCP di Salerno, formulati col DPP di
Salerno n. 156 del 16.12.2019, avrebbero rivestito
portata tale, segnatamente sotto il profilo della riduzione
delle aree edificabili, da richiedere la rielaborazione
complessiva del PUC a cura dell’organo giuntale di governo
dell’ente locale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.f).
Una ipotetica modifica di carattere sostanziale, tale da
innovare profondamente alle linee fondamentali del PUC
adottato, da comportarne una rielaborazione complessiva o un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che presiedono alla sua impostazione non risulta, infatti,
allegata e dimostrata da parte ricorrente. E trova, anzi,
smentita nell’espressa attestazione, contenuta nella DCC n.
86 del 28.12.2020, che «il recepimento integrale delle
suddette prescrizioni e condizioni dei vari Enti non
configura una rielaborazione complessiva del Piano, ossia un
mutamento delle caratteristiche essenziali e dei criteri che
hanno determinato la sua elaborazione e che pertanto è da
escludere l’obbligo di ripubblicazione del Piano».
In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 07.12.2022, n.
10731 ha statuito che: «… costituisce … principio
consolidato che … l’eventualità che le previsioni del piano
urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione
definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto strumento
urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto
dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti
in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni
pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le
modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche
essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di
impostazione, si rende necessario riprendere da capo il
relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità
di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di
innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di
Piano stesso. Questo principio è stato variamente declinato
in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la
ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343; 26.04.2006 n. 2297; 31.01.2005, n.
259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non
sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano
in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; 04.12.2013, n. 5769)» (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.06.2023 n. 1580 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed
eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la
giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che essi risultano
strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione
dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività
di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso,
in particolare, la presentazione delle previste
osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve
essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva
modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di
osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche
introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata
dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di
un appesantimento incongruo, se non ad un effetto
paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la
partecipazione non più strumento di collaborazione e
funzionale alla migliore valutazione degli interessi
coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione
procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte
dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti
sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione,
salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il
piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione
complessiva analoga a una nuova adozione.
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre
distinguere tra
- modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e
- modifiche
‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”.
Applicando le coordinate giurisprudenziali sin qui
delineate, si può affermare che se non si deve procedere
alla ripubblicazione allorché le modifiche siano derivate
dal momento di confronto con il pubblico oppure siano da
attribuire all’esercizio del controllo da parte dell’Ente
regionale, a maggior ragione non si deve dare luogo a
ripubblicazione allorché le modifiche o integrazioni al
piano strutturale comunale siano effetto di un obbligo di
conformazione (nella specie al PEE approvato dal Prefetto di
Vibo Valentia).
---------------
18. – Con il ventitreesimo motivo, la ricorrente deduce
la violazione dell’art. 27, comma 7-quater, l.r. n. 19 del
2002 e dei principi generali in materia di ripubblicazione
del PSC, adottato a seguito del Piano Comunale di Emergenza
(PCE), dell’atto di zonizzazione acustica e di zonizzazione
sismica.
In sostanza, secondo la ricorrente avrebbe dovuto procedersi
a una nuova pubblicazione del PSC, in quanto modificato per
integrarvi il PCE, la zonizzazione acustica e la
zonizzazione sismica.
18.1. – In proposito, si rinvia alla sentenza di questo
Tribunale, Sez. II, del 06.12.2021, n. 2241, che,
pronunciata proprio con riferimento al PSC di Vibo Valentia,
ha negato che si dovesse provvedere alla ripubblicazione.
Si è, infatti, precisato che «non era necessario promuovere
nuovamente la partecipazione all’elaborazione del piano
strutturale comunale.
Infatti, con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed
eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la
giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011 n.
3497) ha avuto già modo di chiarire che essi risultano
strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione
dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività
di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso,
in particolare, la presentazione delle previste
osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve
essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva
modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di
osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche
introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata
dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di
un appesantimento incongruo, se non ad un effetto
paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la
partecipazione non più strumento di collaborazione e
funzionale alla migliore valutazione degli interessi
coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione
procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte
dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti
sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione,
salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il
piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione
complessiva analoga a una nuova adozione (Cons. Stato, Sez.
IV, 09.03.2011, n. 1503; Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2014, n. 1241; TAR Lombardia–Milano, Sez. II,
04.10.2016, n. 1803).
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre
distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”
(Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; cfr.,
altresì, TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 10.02.2021,
n. 374).
Applicando le coordinate giurisprudenziali sin qui
delineate, si può affermare che se non si deve procedere
alla ripubblicazione allorché le modifiche siano derivate
dal momento di confronto con il pubblico oppure siano da
attribuire all’esercizio del controllo da parte dell’Ente
regionale, a maggior ragione non si deve dare luogo a
ripubblicazione allorché le modifiche o integrazioni al
piano strutturale comunale siano effetto di un obbligo di
conformazione, nella specie al PEE approvato dal Prefetto di
Vibo Valentia» (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza II,
sentenza 08.05.2023 n. 712 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo un risalente e non superato insegnamento
giurisprudenziale, ribadito anche di recente dalla Sezione,
“l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico
comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in
sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a
quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è
un effetto del tutto connaturale al procedimento di
formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per
l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva,
la possibilità di cambiamenti in conseguenza
dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto,
soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche
introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello
strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si
rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento
di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione”
sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da
mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza
quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione
del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una
“rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale
obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree”.
---------------
42. Con un secondo motivo deduce: Illegittimità per
violazione delle norme sul procedimento amministrativo –
difetto di istruttoria e di motivazione, violazione
dell’articolo 3 della legge n. 241/90 (6° motivo del ricorso
introduttivo).
42.1. Legambiente lamenta che tra la data di adozione e
quella di approvazione del programma integrato sarebbero
intervenute delle modifiche sostanziali alla documentazione
istruttoria di supporto, alterandone la percezione ed
impedendo ai potenziali interessati di presentare
osservazioni sul testo finale, così vanificando le regole
sulla partecipazione al procedimento di approvazione del
piano urbanistico. Le modifiche sarebbero particolarmente
rilevanti per quanto concerne l’impatto
viabilistico dove la rielaborazione dello studio del
traffico evidenzierebbe un incremento significativo dei
flussi (cfr. p. 22 e 23 della memoria del 12.09.2022 di
Legambiente). L’effetto di questi aumenti di traffico (non
noti e resi pubblici in ritardo), sommato all’effetto della
modifica degli spazi di sosta breve, determinerebbe una
alterazione radicale della situazione viabilistica esistente
nei pressi della Stazione ferroviaria e rappresenterebbe un
elemento del tutto nuovo rispetto allo schema viabilistico
delineato in modo carente e lacunoso in fase di adozione.
42.2 Il motivo è infondato.
Il fatto che successivamente alla delibera di adozione del
piano siano stati condotti approfondimenti istruttori per
assicurare un miglior livello di conoscenza delle analisi di
impatto effettivo dell’intervento sui flussi di traffico,
applicando parametri maggiormente cautelativi e considerando
anche la componente dei pedoni e dei ciclisti, non comporta
una violazione dei diritti partecipativi della cittadinanza
atteso che questi approfondimenti non hanno alterato le
linee essenziali dell’intervento, con particolare
riferimento alle opere di viabilità ma anche rispetto agli
ulteriori temi di approfondimento sicché, gli interessati,
già sulla scorta della proposta e dei documenti istruttori
disponibili al momento della formale adozione del piano,
erano nelle condizioni di presentare memorie e documenti su
una proposta ben definita nei suoi caratteri essenziali.
Del resto, il fatto che gli approfondimenti successivi
abbiano evidenziato maggiori percentuali di incremento dei
flussi veicolari trova ampia compensazione nelle
prescrizioni imposte, già in sede di screening sulla
VAS, che prevedevano un monitoraggio ex post
finalizzato anche alla adozione di “eventuali misure
correttive” sicché eventuali osservazioni critiche sul
punto sarebbero comunque state superate dalle prescrizioni a
tal fine già previste.
42.3 Del resto, Legambiente non ha evidenziato come una
tempestiva conoscenza del più approfondito studio del
traffico indotto avrebbe potuto incidere sull’esercizio dei
diritti partecipativi, a fronte di un intervento che già
dalla fase di adozione presentava caratteristiche tali da
determinare oggettivamente un incremento del traffico
veicolare, sebbene sulla base di ipotesi in quella fase
maggiormente prudenziali.
42.3 In via generale occorre poi rilevare che secondo un
risalente e non superato insegnamento giurisprudenziale
ribadito anche di recente dalla Sezione (cfr. Cons. Stato,
IV, 02.01.2023, n. 21) “l’eventualità che le previsioni
del piano urbanistico comunale (o di altro strumento
urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva,
delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o
nello strumento) adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha
interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono
sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e
sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario
riprendere da capo il relativo procedimento di formazione;
l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a
seguito di apporto di innovazioni tali da mutare
radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza
quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione
del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una
“rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343,
26.04.2006 n. 2297, 31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n.
5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV,
13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769)”.
42.4 Applicando i suesposti principi (ribaditi di recente
dalla sezione, con la sentenza del 11.04.2022 n. 2700) al
caso di specie, il Collegio evidenzia che le modifiche
apportate dopo la adozione del PII non possono considerarsi
alla stregua di un “mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che presiedono alla … impostazione”,
né un suo “stravolgimento” o un suo “profondo
mutamento”, tale da comportare l’obbligo di
ripubblicazione del piano ai fini della sua legittimità
(Consiglio di Stato, IV,
sentenza 28.03.2023 n. 3168 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale, va osservato che in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Può parlarsi, in quest’ottica, di rielaborazione complessiva
quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da determinare un
cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
La giurisprudenza, invece, con riferimento ai piani
urbanistici dei Comuni, esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
In altri termini, “l’obbligo de quo non sussiste nel caso in
cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree”.
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali
rispetto alla versione originaria sull’intero territorio,
l’Amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del
PGT prima di procedere alla sua approvazione.
---------------
2.4. Con il terzo motivo si deduce la violazione
dell’obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico,
assumendo che la variante abbia modificato in maniera
talmente sostanziale le aree dei ricorrenti da rendere
necessaria una nuova pubblicazione.
Il motivo è infondato.
2.4.1. In linea generale, va osservato che in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Può parlarsi, in quest’ottica, di rielaborazione complessiva
quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da determinare un
cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”
(cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id.,
23.09.2016, n. 1696).
La giurisprudenza, invece, con riferimento ai piani
urbanistici dei Comuni, esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013,
n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In altri termini, “l’obbligo de quo non sussiste nel caso
in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez.
II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
12.08.2020 n. 1568).
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali
rispetto alla versione originaria sull’intero territorio,
l’Amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del
PGT prima di procedere alla sua approvazione.
2.4.2. Inoltre, nel caso di specie, deve rilevarsi che:
- nelle more dell’approvazione della variante (avvenuta il
13.07.2017), è stata depositata la sentenza del Consiglio di
Stato n. 2921 del 28.06.2016 di definitivo annullamento
delle disposizioni del Documento di Piano incidenti
sull’ambito di cui è causa;
- la Città Metropolitana di Milano, nell’esprimere il parere di
compatibilità sulla variante, aveva chiesto lo stralcio
dell’ambito TR “Golfo Agricolo” e la
riclassificazione dell’area;
- il Comune, nel rispetto del parere della Città Metropolitana, ha
proceduto allo stralcio del comparto dal Documento di Piano
per collocarlo nel Piano dei Servizi, con la creazione
contestuale di una apposita scheda con il relativo indice
edificatorio.
Orbene, l’art. 13 comma 9, della l.r. n. 12/2005 esclude una
nuova pubblicazione del piano in caso di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali.
La modifica in questione, peraltro, oltre ad essere imposta
dall’intervento dell’Autorità Provinciale (ora denominata
Città Metropolitana), riguarda un solo ambito e non ha
certamente una valenza sostanziale, in quanto resta immutata
la destinazione agricola dell’area, che non subisce quindi
alcun mutamento essenziale.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se lo strumento urbanistico impugnato abbia -o meno- subito
una rilevante modifica dopo la sua adozione e, perciò,
avrebbe dovuto essere nuovamente pubblicato per consentire
la presentazione delle osservazioni.
Secondo la consolidata e condivisa
giurisprudenza del Consiglio di Stato:
a) occorre distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in
quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni della pianificazione sovraordinata, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali), e
- modifiche
“concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale (o dell’ente competente in
materia) rende superfluo l’apporto collaborativo del
privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie
operate in sede regionale e comunale;
b) l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico
comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in
sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a
quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è
un effetto del tutto connaturale al procedimento di
formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per
l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva,
la possibilità di cambiamenti in conseguenza
dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto,
soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche
introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello
strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si
rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento
di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione”
sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da
mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza
quello secondo cui
- si rende necessaria la ripubblicazione
del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una
“rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”,
- mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
---------------
7.5. Con il secondo motivo (sostanzialmente
ripreso con il secondo motivo di appello), gli interessati
deducono che solo in sede di approvazione del regolamento è
stata prevista una fascia di inedificabilità assoluta
nell’area comprendente i terreni di loro proprietà. Lo
strumento urbanistico impugnato avrebbe quindi subito una
rilevante modifica dopo la sua adozione e, perciò, avrebbe
dovuto essere nuovamente pubblicato per consentire la
presentazione delle osservazioni.
7.5.1. Il motivo in esame è infondato.
7.5.2. Secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza del
Consiglio di Stato:
a) occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in
quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni della pianificazione sovraordinata, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali), e modifiche
“concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal comune). Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale (o dell’ente competente in
materia) rende superfluo l’apporto collaborativo del
privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie
operate in sede regionale e comunale (cfr. Cons. Stato, sez.
iv, 13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 11.11.2020, n.
6944);
b) l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico
comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in
sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a
quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è
un effetto del tutto connaturale al procedimento di
formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per
l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva,
la possibilità di cambiamenti in conseguenza
dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto,
soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche
introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello
strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si
rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento
di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione”
sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da
mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza
quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione
del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una
“rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343, 26.04.2006 n. 2297, 31.01.2005, n.
259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non
sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano
in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
7.5.3. Applicando i suesposti principi (ribaditi di recente
dalla sezione, con la sentenza del 11.04.2022 n. 2700)
al caso di specie, il Collegio evidenzia che la modifica
dedotta dall’appellante non può considerarsi un “mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che
presiedono alla … impostazione” del regolamento adottato, né
un suo “stravolgimento” o un suo “profondo mutamento”, tale
da comportare l’obbligo di ripubblicazione del piano ai
fini della sua legittimità (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.01.2023 n. 21 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per consolidata giurisprudenza, occorre
distinguere tra
- modifiche “obbligatorie”, in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi;
- modifiche “facoltative”, in quanto
consistenti in innovazioni non sostanziali; e
- modifiche
“concordate”, in quanto conseguenti all’accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune.
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte
del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie”
tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale (o di altra autorità preposta)
rende superfluo l’apporto collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in
sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato
nella fattispecie in esame.
Del resto costituisce altresì un principio
consolidato che, in materia urbanistica, l’eventualità che
le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in
sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a
quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in
giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che
la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale
obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
---------------
Con
particolare riferimento al vincolo cimiteriale, pur
prevedendo l’art. 338 del r.d. del 24.07.1934 n.
1265, come modificato dall’art. 28 della legge n. 166 del 01.08.2002, la possibilità del comune di perimetrare, a
determinate condizioni, diversamente la fascia di rispetto
cimiteriale, va evidenziato che ciò costituisce espressione
di una scelta ampiamente discrezionale del Comune, che
evidentemente nel caso di specie non è stata compiuta,
quantomeno con riferimento alle proprietà degli interessati,
né, peraltro, dalla astratta possibilità di una diversa
demarcazione della fascia di rispetto in questione
deriverebbe l’obbligo di ripubblicazione dell’intero piano.
Le censure sviluppate al riguardo, sull’opportunità
di applicare questa diversa perimetrazione, travalicano il
merito delle scelte discrezionali dell’Amministrazione
comunale; pertanto, vanno richiamati i noti e consolidati
orientamenti in ordine all’impossibilità di un sindacato
giurisdizionale nel merito delle scelte urbanistiche, salvi
i soli casi di macroscopica erroneità o irragionevolezza,
che nella specie non ricorrono.
---------------
8. Con il secondo motivo, i proprietari evidenziano
l’erroneità della sentenza di primo grado rilevando la
necessità di una nuova pubblicazione del piano anche in caso
di mero recepimento della fascia di rispetto cimiteriale
previsto dalla legge.
Si rafforza la censura rilevando, poi, che la fascia di
rispetto sarebbe stata tracciata in maniera più ampia in una
determinata direzione e rispetto ad alcuni fondi, mentre per
altre aree sarebbe meno ampia senza che sia possibile
comprenderne il motivo. Parimenti, sarebbe incomprensibile
il motivo per il quale ad alcuni fondi posti in prossimità
del cimitero sarebbe stata assegnata una destinazione più
favorevole, in quanto implicanti maggiori facoltà per il
proprietario, mentre i fondi di proprietà degli interessati
posti ad una maggiore distanza avrebbero ricevuto una
destinazione implicante minori facoltà (ossia, “zona per
servizi collettivi” in luogo di “zona a verde pubblico”):
questa scelta, secondo gli appellanti, “avrebbe meritato la
presentazione di una apposita osservazione”.
Si censura poi l’affermazione della sentenza secondo cui la
fascia di rispetto sarebbe immodificabile, evidenziandosi
che, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 166/2002, sarebbe
possibile per l’amministrazione prevedere la riduzione della
fascia di rispetto. Si evidenzia, in proposito, che nel caso
di specie ricorrerebbe una delle fattispecie in base alle
quali sarebbe possibile la riduzione della fascia di
rispetto, perché tra la proprietà degli interessati
(particella n. 43) e il cimitero è ubicata una strada a
scorrimento veloce e, perciò, ben avrebbe potuto e dovuto,
secondo gli interessati, essere consentita quantomeno
un’interlocuzione in merito.
Gli appellanti censurano, inoltre, il punto della
motivazione relativo all’area, di un chilometro quadrato,
destinata con la proposta a zona “D1 zona P.I.P. di
progetto” e poi trasformata, a seguito delle osservazioni,
in zona “E verde agricolo”, sostenendo che la verifica sulla
sussistenza di differenze che implichino la ripubblicazione
del piano vada effettuata con esclusivo riferimento al
raffronto fra piano adottato e piano da approvare, senza
tenere conto della precedente strumentazione urbanistica.
Si deduce, infine, l’omessa pronuncia del TAR sulle altre
modifiche (consistenti nella fissazione della distanza dai
confini degli edifici pari al 50% dell’altezza dell’edificio
in questione; nella destinazione a “verde pubblico” delle
aree che nel progetto di PUC presentavano la campitura di
“zona omogenea G” con destinazione a “servizi ed impianti di
uso collettivo” e l’indicazione “IC” ad eccezione delle aree
già edificate) intercorse fra l’adozione del Piano e la sua
approvazione.
8.1. Il secondo motivo di appello è infondato.
8.2. In punto di diritto, il Collegio evidenzia che, per
consolidata giurisprudenza, occorre distinguere tra
modifiche “obbligatorie”, in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi; modifiche “facoltative”, in quanto
consistenti in innovazioni non sostanziali; e modifiche
“concordate”, in quanto conseguenti all’accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune.
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte
del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie”
tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale (o di altra autorità preposta)
rende superfluo l’apporto collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in
sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato
nella fattispecie in esame (cfr., in termini, Cons. Stato,
Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944).
8.2.1. Del resto costituisce altresì un principio
consolidato che, in materia urbanistica, l’eventualità che
le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in
sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a
quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto
connaturale al procedimento di formazione del suddetto
strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla,
all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di
cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle
osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l'impostazione di Piano stesso.
8.2.2. Questo principio è stato variamente declinato in
giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni
diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che
la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità
del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento
delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata
una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un
“mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id.,
31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492),
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV,
04.12.2013, n. 5769).
8.3. Applicando i suesposti principi al caso di specie, il
Collegio evidenzia che non risulta allegata e dimostrata una
modifica di carattere sostanziale, tale da innovare
profondamente alle linee fondamentali della variante
generale del Comune, da comportarne “una rielaborazione
complessiva” o un “mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione”.
8.3.1. Con particolare riferimento al vincolo cimiteriale,
pur prevedendo l’art. 338 del r.d. del 24.07.1934 n.
1265, come modificato dall’art. 28 della legge n. 166 del 01.08.2002, la possibilità del comune di perimetrare, a
determinate condizioni, diversamente la fascia di rispetto
cimiteriale, va evidenziato che ciò costituisce espressione
di una scelta ampiamente discrezionale del Comune, che
evidentemente nel caso di specie non è stata compiuta,
quantomeno con riferimento alle proprietà degli interessati,
né, peraltro, dalla astratta possibilità di una diversa
demarcazione della fascia di rispetto in questione
deriverebbe l’obbligo di ripubblicazione dell’intero piano.
8.3.1.1. Le censure sviluppate al riguardo, sull’opportunità
di applicare questa diversa perimetrazione, travalicano il
merito delle scelte discrezionali dell’Amministrazione
comunale; pertanto, vanno richiamati i noti e consolidati
orientamenti in ordine all’impossibilità di un sindacato
giurisdizionale nel merito delle scelte urbanistiche, salvi
i soli casi di macroscopica erroneità o irragionevolezza,
che nella specie non ricorrono (Cons. Stato, Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II,
04.09.2019, n. 6086; Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; Sez. IV,
09.05.2018
n. 2780; sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV,
16.04.2014, n. 1871).
8.3.2. Con riferimento alle altre modifiche, non risulta
dedotta la ragione per la quale le aree di proprietà degli
appellanti verrebbero ad essere incise o pregiudicate da
queste ulteriori modifiche, sicché non risulta dedotto
l’interesse (direttamente riferibile alla parte che agisce
in giudizio) ad una ripubblicazione della variante di piano
in relazione a tali modifiche
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2022 n. 10731 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
E’ consolidato l’orientamento giurisprudenziale proprio con specifico riferimento all’obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell’approvazione.
Invero, “si è puntualizzato che occorre
distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e
- modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, va
richiamato il suddetto orientamento anche laddove afferma
che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque,
viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento
della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia
stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla
sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree; in altri termini,
l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree”.
---------------
Quanto alle osservazioni presentate dalla Regione Toscana e
dalla Provincia di -OMISSIS- e alla pretesa violazione
dell’art. 13 della legge regionale Toscana n. 1/2005, che
avrebbe imposto, in presenza di modifiche facoltative e
sostanziali, la ripubblicazione della variante, vale la pena
sottolineare che, nel caso di specie, le osservazioni della
Regione evidenziavano il contrasto delle previsioni del PN5
(e quindi anche del piano attuativo adottato con delibera
del Commissario Straordinario n. 56/2007) con i valori
paesaggistici dell’area tutelati dal P.I.T. (in particolare
con l’art. 36) e con la scheda relativa all’ambito
paesaggistico n. 14 allegata al P.I.T. medesimo, tanto da
portare la Regione a rappresentare che non sussistevano
elementi a sostegno della riconferma del piano.
L’osservazione regionale è stata accolta dal Comune.
E’ consolidato l’orientamento giurisprudenziale in argomento
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7839 del 14.11.2019), proprio con specifico riferimento all’obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell’approvazione: “si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, va
richiamato il suddetto orientamento anche laddove afferma
che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque,
viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento
della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia
stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla
sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; sez., 25.11.2003, n. 7782; sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento
seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la
quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando
fra la fase di adozione e quella di approvazione siano
intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento
radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV,
19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini,
l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree” (Cons. Stato, sez. IV, n. 7029 del 2020).
Una situazione del genere corrisponde a quella verificatasi
nella specie, senza contare che avverso la conferma delle
previsioni del piano attuativo in questione aveva formulato
alcune osservazioni di natura critica anche la Provincia,
sulla contrapposizione tra quantità insediabili e dotazione
di spazi pubblici, sulla carenza di standard urbanistici
accompagnata anche dalla previsione di delocalizzazione di
porzione degli stessi, su un eccessivo carico urbanistico in
relazione al sistema infrastrutturale esistente.
Ne deriva che, dinanzi a simili osservazioni, la revisione
delle previsioni del PN5 costituiva una scelta obbligata per
il Comune che non comportava il dovere di riadozione della
variante in quanto, secondo quanto già indicato nella
relazione illustrativa allegata alla delibera di
approvazione “le modifiche apportate al piano adottato a
seguito dell’accoglimento delle osservazioni pervenute ed in
particolare modo quella della Regione Toscana e della
Provincia di -OMISSIS- non hanno alterato né comportato una
deviazione alle linee guida e ai contenuti dell’atto
precedentemente adottato, che era (ed è) finalizzato a riallineare il RU al PS impedendo la realizzazione di nuovi
interventi edilizi in contrasto con i dimensionamenti
massimi per UTOE fissati dal PS”.
Come già annotato sopra, è escluso che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.12.2022 n. 10662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza
del Consiglio di Stato, occorre distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
della pianificazione sovraordinata, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali), e
- modifiche
“concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
Muovendo dall’implicito assunto di parte, secondo cui
non si verterebbe, nel caso di specie, in tema di modifiche
“obbligatorie”, il Collegio evidenzia che, in materia
urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano
urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione
definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto strumento
urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto
dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti
in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni
pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò,
principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si
rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a
seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo
l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva”
del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso
in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello
strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi
stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree.
---------------
7.2. Con il secondo motivo di appello, si grava la sentenza
rilevandosi che l’osservazione presentata dall’ufficio
urbanistica ha interessato l’intero territorio comunale e
non, specificamente, l’area della società, sicché il Comune
non poteva decidere sull’area di proprietà della stessa, in
assenza di un’osservazione specificamente presentata dalla
società.
7.2.1. Con il terzo motivo di appello, la società impugna il
capo della sentenza che ha respinto il terzo motivo di
ricorso di primo grado, rilevando che il Tar avrebbe
errato nel non ritenere sostanziale la modifica apportata
dal Comune in sede di approvazione, allorché, modificando le
Tavole di zonizzazione, ne ha ridotto la potenzialità
edificatoria, e dunque necessaria (ai fini della sua
legittimità) la ripubblicazione della variante di piano.
7.3. I motivi di appello sono infondati e, per la loro
disamina, giova esaminare, per prima, la censura articolata
nel terzo motivo.
7.3.1. Il Collegio evidenzia che, secondo la consolidata e
condivisa giurisprudenza del Consiglio di Stato, occorre
distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
della pianificazione sovraordinata, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali), e modifiche
“concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 11.11.2020,
n. 6944).
7.3.2. Muovendo dall’implicito assunto di parte, secondo cui
non si verterebbe, nel caso di specie, in tema di modifiche
“obbligatorie”, il Collegio evidenzia che, in materia
urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano
urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione
definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto strumento
urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto
dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti
in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni
pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse
dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle
caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi
criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da
capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale
necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di
apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente
l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò,
principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si
rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a
seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo
l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva”
del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id., 31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel
caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento
dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei
suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni
di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato,
Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
7.3.3. Applicando i suesposti principi al caso di specie, il
Collegio evidenzia che la rettifica operata dal Comune,
sulla base di un rilievo del suo stesso ufficio tecnico, non
può considerarsi un “mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che presiedono alla … impostazione”
del Piano, né un suo “stravolgimento” o un suo “profondo
mutamento”, tale da comportare l’obbligo di ripubblicazione
del piano ai fini della sua legittimità.
7.3.4. I principi richiamati inducono, altresì, a respingere
la diversa ma connessa censura articolata con il secondo
motivo di appello.
7.3.5. Dai precedenti che hanno approfondito funditus la
problematica della fase partecipativa della presentazione
delle osservazioni agli strumenti urbanistici adottati, si
evince l’infondatezza in diritto della tesi sostenuta
dall’appellante, in quanto in tali pronunce non è mai stata
affermata la sussistenza di un vincolo di corrispondenza
biunivoca ed esclusiva fra la titolarità della proprietà
dell’area e la legittimazione a presentare osservazioni su
quell’area.
7.3.6. La disamina degli articoli 9 e 10 della legge del 17.08.1942 n. 1150 smentisce la tesi sostenuta
dall’interessata, ossia che il Comune non avrebbe potuto
procedere ad una modifica del Piano riguardante il terreno
di sua proprietà sulla base di un’osservazione non proposta
dalla ditta proprietaria (bensì dal servizio tecnico dello
stesso Comune che aveva riscontrato un errore nella
redazione della parte cartografica del Piano), non
contenendo alcun elemento di carattere testuale o, tanto
meno, sistematico che corrobori questa interpretazione della
normativa, de facto sminuente la potestà pianificatoria
dell’Ente, in contrasto con la ratio della normativa stessa.
7.3.7. Il secondo e il terzo motivo di appello
vanno pertanto respinti (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.12.2022 n. 10661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le modifiche allo strumento urbanistico
introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini
specifici della tutela del paesaggio, costituiscono
modifiche “obbligatorie”
(in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni poste –tra gli altri casi, per quanto qui
d’interesse- a tutela del paesaggio) “in conformità a quanto
stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c) della
legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge
regionale n. 56/1980- nell’ambito di un unico procedimento
di formazione progressiva del disegno relativo alla
programmazione generale del territorio”.
Del resto, il potere dell’Autorità regionale di intervento
è, peraltro, riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza
in materia, che afferma che: “Alla regione è consentito,
all'atto di approvazione dello strumento urbanistico,
apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto
di altri strumenti di pianificazione regionali e per la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici”.
Ed ancora: “l'intervento della
Regione nel procedimento di approvazione dello strumento
urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le
fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della
tutela "puntiforme" del bene vincolato, in quanto
espressione di un doveroso presidio del territorio, non
comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano
regolatore generale modificato in conformità alle
indicazioni regionali, né implica altre forme di
coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati.
Va
infatti confermato il principio correttamente posto a base
di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le
modifiche allo strumento urbanistico introdotte d'ufficio
dall'Amministrazione regionale, ai fini specifici della
tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la
necessità per il Comune interessato di riavviare il
procedimento di approvazione dello strumento, con
conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali
modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10,
comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di
un unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio”.
È stato, altresì, riconosciuto che: “le modifiche d'ufficio
al Piano Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e),
della L. n. 1150/1942, sono sempre ammesse ai fini specifici
della tutela del paesaggio e dell'ambiente in coerenza con
l'interesse pubblico, sancito dalla legge, della
salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio
e tale potere della Regione non soggiace al limite
concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto
dalla prima parte della norma citata”.
Ancora, in
via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della
disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della
L. n. 1150 del 1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede
di approvazione del piano regolatore generale, è autorizzata
a introdurre direttamente le modifiche e prescrizioni
inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle
opere e degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela
del paesaggio e di complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici; al rispetto delle ipotesi in cui
è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di
pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché
ai rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza
alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi,
senza necessità di porre in essere una procedura ad hoc di
adeguamento”.
---------------
II – L’appello è infondato.
III - Il Collegio ritiene che la doglianza sia da
disattendere dovendosi confermare il principio affermato più
volte dal Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo
strumento urbanistico introdotte d’ufficio
dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della
tutela del paesaggio, costituiscono modifiche “obbligatorie”
(in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni poste –tra gli altri casi, per quanto qui
d’interesse- a tutela del paesaggio) “in conformità a
quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c)
della legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della
legge regionale n. 56/1980- nell’ambito di un unico
procedimento di formazione progressiva del disegno relativo
alla programmazione generale del territorio (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e 4984)” (Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013, n. 1182).
Del resto, il potere dell’Autorità regionale di intervento
è, peraltro, riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza
in materia, che afferma che: “Alla regione è consentito,
all'atto di approvazione dello strumento urbanistico,
apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto
di altri strumenti di pianificazione regionali e per la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici” (Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2013, n. 4614).
Ed ancora: “l'intervento della
Regione nel procedimento di approvazione dello strumento
urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le
fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della
tutela "puntiforme" del bene vincolato, in quanto
espressione di un doveroso presidio del territorio, non
comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano
regolatore generale modificato in conformità alle
indicazioni regionali, né implica altre forme di
coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati. Va
infatti confermato il principio correttamente posto a base
di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le
modifiche allo strumento urbanistico introdotte d'ufficio
dall'Amministrazione regionale, ai fini specifici della
tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la
necessità per il Comune interessato di riavviare il
procedimento di approvazione dello strumento, con
conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali
modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10,
comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di
un unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio” (Cons.
Stato Sez. II, 14.11.2019, n. 7839).
È stato, altresì, riconosciuto che: “le modifiche d'ufficio
al Piano Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e),
della L. n. 1150/1942, sono sempre ammesse ai fini specifici
della tutela del paesaggio e dell'ambiente in coerenza con
l'interesse pubblico, sancito dalla legge, della
salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio
e tale potere della Regione non soggiace al limite
concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto
dalla prima parte della norma citata” (TAR Sicilia
Palermo Sez. II, 04.11.2019, n. 2535; cfr. conf. Cons.
giust. amm. Sicilia, 18.11.2009, n. 1098).
Ancora, in
via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della
disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della
L. n. 1150 del 1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede
di approvazione del piano regolatore generale, è autorizzata
a introdurre direttamente le modifiche e prescrizioni
inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle
opere e degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela
del paesaggio e di complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici; al rispetto delle ipotesi in cui
è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di
pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché
ai rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza
alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi,
senza necessità di porre in essere una procedura ad hoc di
adeguamento” (Cons. Stato Sez. IV, 01.12.2011, n. 6349) (CGARS,
sentenza 02.12.2022 n. 1244 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piano urbanistico, niente ripubblicazione se il Comune modifica
d'ufficio lo strumento adottato. L'obbligo di ripubblicazione del piano,
afferma il Tar Lombardia, sorge solo a fronte di modifiche che comportano
una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione
territoriale.
La modifica d'ufficio della destinazione urbanistica sul Pgt adottato non
obbliga l'ente alla ripubblicazione del piano prima della sua approvazione
definitiva.
Non ha dubbi il TAR Lombardia-Milano -Sez. II nella recente
sentenza 26.09.2022 n. 2053- nel respingere il ricorso di alcuni
proprietari fondiari che hanno impugnato al Tar la delibera del consiglio
del comune di Milano con cui nel 2019 è stato approvato il nuovo Pgt.
Il motivo della contestazione sta nella diversa decisione del Comune di
classificare nel Pgt approvato le aree dei ricorrenti come "verde urbano di
nuova previsione – pertinenza indiretta", mentre nel Pgt adottato le stesse
aree erano state classificate come "Ambito di rinnovamento urbano (ARU)" e
di "Rigenerazione urbana".
La conseguenza concreta della decisione -come lamentano i ricorrenti- è
stata la perdita «di una certa vocazione edificatoria alle aree medesime».
La decisione è stata presa dal Comune "ex officio", senza cioè alcuna
osservazione pervenuta. Pertanto, i ricorrenti lamentano di non avere avuto
la possibilità di conoscere in alcun modo il cambiamento di orientamento
dell'ente. Contestano pertanto al Comune di aver introdotto la modifica al Pgt adottato senza aver ripubblicato il piano, impedendo di fatto il
contraddittorio. Nel caso della Lombardia, le varie fasi della "costruzione"
del piano sono definite nell'articolo 13 della legge regionale 12/2005.
Preliminarmente, i giudici della seconda Sezione del Tar Lombardia escludono
che possa «essere rinvenuto un rapporto di rigida correlazione tra le
osservazioni recepite e i pareri acquisiti, da un lato, e la possibilità di
modificare il piano di governo adottato, dall'altro lato, perché questo
significherebbe privare il pianificatore della discrezionalità che gli
appartiene sino all'esito del procedimento e anteporre –o quantomeno
equiparare– l'interesse privato al godimento più lucrativo della propria
area con quello pubblico della pianificazione».
Pertanto non può essere
accolta la tesi secondo cui, se nessuno ha presentato osservazioni, il
pianificatore non può apportare modifiche in sede di approvazione del piano.
Infatti, «ne discenderebbe l'impossibilità di apportare modifiche ex officio
al piano, oltre che un onere di puntuale motivazione delle scelte
urbanistiche e un obbligo di costante ripubblicazione a fronte di qualsiasi
modifica al piano adottato, per garantire una costante interlocuzione coi
privati». Invece, ricorda il primo giudice, «l'obbligo di ripubblicazione
del piano urbanistico sorge solo a fronte di modifiche che comportano una
rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale,
vale a dire in caso di mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale
delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione».
Modifiche d'ufficio in sede di approvazione sono pertanto «pienamente
ammissibili».
Conclusione: «il potere pianificatorio tra l'adozione e
l'approvazione dello strumento urbanistico non è vincolato o necessariamente
conformato dalle osservazioni dei privati». Inoltre, «le osservazioni non
costituiscono delle proposte di provvedimento amministrativo che possano
essere solo accettate o respinte, ma non modificate. Esse possono invece
costituire –come accaduto nella fattispecie– l'occasione per un
ripensamento della disciplina urbanistica di un determinato ambito, che
rimane discrezionale, e può quindi assumere anche un contenuto molto diverso
da quello adottato inizialmente e da quello auspicato dai privati.
Quando questo accade e non si dà il caso di una rielaborazione complessiva
dello strumento, non è sempre necessario riaprire l'interlocuzione con i
proprietari, in quanto l'interesse pubblico a una pianificazione equilibrata
che tenga conto di tutti gli aspetti del piano e al rispetto dei tempi di
approvazione dello strumento urbanistico, che non può essere esposto a una
serie, potenzialmente molto estesa e ingovernabile, di continui confronti
con i privati» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 03.10.2022). |
URBANISTICA:
Strumenti urbanistici generali – Ripubblicazione – Obbligo –
Casi in cui sussiste – Individuazione.
Per giurisprudenza costante, si è
affermato che l’obbligo di ripubblicazione del piano
urbanistico sorge solo a fronte di modifiche che comportano
una rielaborazione complessiva dello strumento di
pianificazione territoriale, vale a dire in caso di
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione.
Tale giurisprudenza muove dal presupposto che siano
pienamente ammissibili modifiche d’ufficio al piano in sede
di approvazione e, infatti, distingue tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare
il rispetto delle previsioni del piano territoriale di
coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli
impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e
dei complessi storici, monumentali, ambientali e
archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e
- modifiche “concordate” (conseguenti all'accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
È evidente che, in tale classificazione giurisprudenziale,
le modifiche facoltative sono quelle a cui l’amministrazione
si determina d’ufficio, al fine di mantenere –anche per
l’effetto di ulteriori modifiche apportate al piano–
l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra l’altro, il
consumo di suolo nei limiti di legge.
In altre parole, deve affermarsi che il potere
pianificatorio tra l'adozione e l'approvazione dello
strumento urbanistico non è vincolato o necessariamente
conformato dalle osservazioni dei privati e che le
osservazioni non costituiscono delle proposte di
provvedimento amministrativo che possano essere solo
accettate o respinte, ma non modificate.
Esse possono invece costituire –come accaduto nella
fattispecie– l’occasione per un ripensamento della
disciplina urbanistica di un determinato ambito, che rimane
discrezionale, e può quindi assumere anche un contenuto
molto diverso da quello adottato inizialmente e da quello
auspicato dai privati.
Quando questo accade e non si dà il caso di una
rielaborazione complessiva dello strumento, non è sempre
necessario riaprire l'interlocuzione con i proprietari, in
quanto l'interesse pubblico a una pianificazione equilibrata
che tenga conto di tutti gli aspetti del piano e al rispetto
dei tempi di approvazione dello strumento urbanistico, che
non può essere esposto a una serie, potenzialmente molto
estesa e ingovernabile, di continui confronti con i privati.
---------------
2.1. Con il primo motivo (rubricato: “eccesso di
potere per violazione, falsa, mancata e/o sviata
applicazione dell’art. 13, comma 4, della l.r. 11.5.2005, n.
12 – contraddittorietà - travisamento dei fatti – difetto
assoluto di istruttoria – illogicità - difetto ed erroneità
della motivazione”) i ricorrenti deducono
l’illegittimità in parte qua della delibera di approvazione
del Pgt poiché la modifica della destinazione solo in sede
di approvazione e in conseguenza di un’osservazione altrui
non avrebbe consentito agli odierni ricorrenti di
contraddire, con conseguente violazione delle garanzie
partecipative conferite al privato nel procedimento di
adozione e approvazione dello strumento urbanistico.
Inoltre, nemmeno il terzo avrebbe chiesto una modifica in
tal senso della destinazione della propria area, per cui il
Comune sarebbe andato ultra petitum con la propria
determinazione modificativa, senza che ve ne fosse alcuna
necessità.
Infine, il Comune avrebbe errato nel fare riferimento a una
disparità di trattamento tra le aree, nei fatti non
sussistente.
...
3. Il primo motivo è infondato.
3.1. In punto di fatto, va preliminarmente osservato che,
per stessa ammissione dei ricorrenti (cfr. memoria di
replica, pag. 4), le aree di proprietà non hanno subito una
revisione peggiorativa rispetto alla disciplina previgente
del 2012 ove, seppur soggette a pianificazione attuativa,
erano classificate come aree a pertinenza indiretta ed era
alle stesse attribuito il medesimo indice di edificabilità
attribuito dal piano in questa sede impugnato. Solo a una
residua porzione –di cui non è specificata la consistenza in
quanto non specificata dalle parti ricorrente– dei mappali
195 e 201 era invece assegnato un indice di edificabilità
superiore.
3.2. Nel merito, i ricorrenti richiamano la sentenza di
questo TAR n. 50 dell’11.01.2022, quale precedente in
termini che dovrebbe condurre all’accoglimento del ricorso.
Al di là dell’assenza di vincolatività per il giudice di un
precedente, il Collegio non ritiene tuttavia applicabile
alla fattispecie la sentenza in esame, poiché basata su un
caso diverso, nel quale l’area dei ricorrenti aveva subito
una modifica peggiorativa rispetto alla disciplina
previgente e che si risolve in un difetto di istruttoria che
non è parimenti trasponibile nella presente fattispecie.
3.3. La previsione di cui all’art. 13 della L.r. n. 12/2005
delinea un procedimento articolato in varie fasi:
i) avvio del procedimento con termine per le osservazioni (co. 2);
ii) acquisizione del parere delle parti sociali ed economiche (co.
3);
iii) adozione del Piano (co. 4);
iv) fase di presentazione delle osservazioni (co. 4);
v) acquisizione dei pareri da parte degli Enti competenti (co. 5,
co. 5-bis, co. 6);
vi) fase di approvazione con inserimento negli atti “modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”
nonché all’adeguamento imposto dai pareri degli Enti (co. 7,
co. 7-bis, co. 8, co. 9);
vii) fase di deposito e pubblicazione nel sito informatico
dell’amministrazione comunale;
viii) fase di pubblicazione dell’avviso sul Burl. (co. 10).
Come ha già osservato questo TAR, anche nella citata
sentenza n. 50/2022, “il complesso procedimento delineato
dal legislatore regionale non risponde solo ad esigenze di
ordinato incedere dell’iter amministrativo ma è, al
contrario, funzionale alla realizzazione dei vari interessi
involti dalla procedura e sottoposti alla valutazione
comunale”.
Nell’ambito di questo complesso procedimento, infatti,
vengono acquisiti i pareri delle parti sociali ed economiche
–ai fini della “costruzione” del piano e dunque
dell’adozione delle scelte di utilizzo del suolo– e,
successivamente alla pubblicazione del piano adottato, le
osservazioni dei privati e i pareri da parte degli enti
competenti. Solo al termine di tale confronto
l’amministrazione opera le proprie scelte definitive,
eventualmente modificando il “progetto” di governo
del territorio delineato nel piano adottato.
Tuttavia, non può essere rinvenuto un rapporto di rigida
correlazione tra le osservazioni recepite e i pareri
acquisiti, da un lato, e la possibilità di modificare
il piano di governo adottato, dall’altro lato, perché
questo significherebbe privare il pianificatore della
discrezionalità che gli appartiene sino all’esito del
procedimento e anteporre –o quantomeno equiparare–
l’interesse privato al godimento più lucrativo della propria
area con quello pubblico della pianificazione. L’interesse
principale nell’esercizio del potere di pianificazione –sia
in sede di adozione sia in sede di approvazione– resta
quello, pubblico, di garantire la funzionalità complessiva
delle scelte di governo del territorio.
A conferma di ciò, si pensi al fatto che le osservazioni dei
privati sono ritenute costantemente in giurisprudenza come
dei “meri apporti procedimentali”, sulle quali
l’amministrazione si può pronunciare anche accorpandole per
ambiti omogenei e senza effettuare una controdeduzione
puntuale.
Se si accedesse invece alla tesi dei ricorrenti –secondo cui
il fatto che nessuno, per le aree di loro proprietà, abbia
presentato osservazioni al piano adottato privi per ciò
stesso il pianificatore del potere di effettuare modifiche,
in sede di approvazione del piano –ne discenderebbe
l’impossibilità di apportare modifiche ex officio al
piano, oltre che un onere di puntuale motivazione delle
scelte urbanistiche e un obbligo di costante ripubblicazione
a fronte di qualsiasi modifica al piano adottato, per
garantire una costante interlocuzione coi privati.
Invece, per giurisprudenza costante (cfr., ex plurimis,
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.02.2022, n. 220;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027), che il
Collegio condivide, si è affermato che l’obbligo di
ripubblicazione del piano urbanistico sorge solo a fronte di
modifiche che comportano una rielaborazione complessiva
dello strumento di pianificazione territoriale, vale a dire
in caso di mutamenti tali da determinare un cambiamento
radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione.
Tale giurisprudenza muove dal presupposto che siano
pienamente ammissibili modifiche d’ufficio al piano in sede
di approvazione e, infatti, distingue tra modifiche “obbligatorie”
(in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici,
l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate”
(conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate dal Comune). È evidente che, in tale
classificazione giurisprudenziale, le modifiche facoltative
sono quelle a cui l’amministrazione si determina d’ufficio,
al fine di mantenere –anche per l’effetto di ulteriori
modifiche apportate al piano– l’equilibrio complessivo del
medesimo e, tra l’altro, il consumo di suolo nei limiti di
legge.
In altre parole, deve affermarsi che il potere
pianificatorio tra l'adozione e l'approvazione dello
strumento urbanistico non è vincolato o necessariamente
conformato dalle osservazioni dei privati e che le
osservazioni non costituiscono delle proposte di
provvedimento amministrativo che possano essere solo
accettate o respinte, ma non modificate. Esse possono invece
costituire –come accaduto nella fattispecie– l’occasione per
un ripensamento della disciplina urbanistica di un
determinato ambito, che rimane discrezionale, e può quindi
assumere anche un contenuto molto diverso da quello adottato
inizialmente e da quello auspicato dai privati. Quando
questo accade e non si dà il caso di una rielaborazione
complessiva dello strumento, non è sempre necessario
riaprire l'interlocuzione con i proprietari, in quanto
l'interesse pubblico a una pianificazione equilibrata che
tenga conto di tutti gli aspetti del piano e al rispetto dei
tempi di approvazione dello strumento urbanistico, che non
può essere esposto a una serie, potenzialmente molto estesa
e ingovernabile, di continui confronti con i privati.
3.4. Nel caso di specie, la modifica è giustificata da
esigenze del contenimento del consumo di suolo, in relazione
alle quali non si può porre un onere di puntuale motivazione
in sede di controdeduzioni, dovendosi piuttosto fare rinvio
alla relazione del documento di piano.
Peraltro, come osservato dalla difesa comunale, già il Pgt
prevedeva negli ambiti di rinnovamento urbano la presenza in
attraversamento delle stesse di un arco verde di connessione
privilegiata, elemento costitutivo della rete ecologica di
livello comunale. In sede di approvazione, il Comune si è
limitato a rimodulare –in senso evolutivo al fine del
contenimento del consumo di suolo e valorizzando la
necessità di mantenere suoli permeabili– tale scelta.
3.5. Alla luce delle suesposte considerazioni, il primo
motivo deve essere respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2022 n. 2053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ripubblicazione del piano regolatore generale: quando è
obbligatoria, quando è esclusa.
Una recente pronuncia (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.09.2022 n. 1406) ci
dà l’occasione per parlare della ripubblicazione del piano
regolatore generale. Vediamo quindi quando si deve procedere
alla ripubblicazione, quando la ripubblicazione è esclusa,
la ripubblicazione nel caso di modifiche introdotte in sede
di approvazione provinciale o regionale.
Quando si deve procedere alla
ripubblicazione
Secondo un consolidato orientamento [1],
la necessità di ripubblicazione del piano sussiste allorché,
in un qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione (ed in particolare quando ciò avvenga a séguito
dell’accoglimento
delle osservazioni presentate), vi sia stata una sua
rielaborazione complessiva,
cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che alla sua
impostazione presiedono; in altri termini, la necessità di
ripubblicazione si impone
allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione [2].
Quando la ripubblicazione è esclusa La ripubblicazione,
viceversa, deve escludersi, per assenza di una
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree
[3]; in
altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui
le modifiche consistano
in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree [4].
Ad esempio [5],
non è stata ritenuta necessaria la ripubblicazione nel caso
in cui due lotti erano stati, in un primo tempo, inseriti
nel perimetro di un’unica “zona di espansione” a
destinazione “C2-9”, con prescrizione di previa
predisposizione di piano particolareggiato ai fini
dell’edificazione per un solo lotto e individuazione
degli altri due come aree da cedere al Comune per
urbanizzazioni; a seguito di
osservazioni ritualmente presentate dalla società titolare
dei suoli,
l’Amministrazione comunale aveva modificato la predetta
destinazione,
prevedendo, per i due lotti non destinati all’edificazione,
l’inserimento di uno in una zona di completamento “B6” e l’inserimento dell’altro come
zona “G6”,
comprendente aree da cedere al Comune per la realizzazione
di “parco o giardino
pubblico di quartiere”.
Parimenti, la ripubblicazione è stata esclusa:
- in un’ipotesi di modifica riguardante solo le aree a contorno ad
alcune ville storiche disseminate nel territorio comunale
[6];
- nel caso di una modifica consistente nell’accorpamento di due
ambiti, con il mantenimento comunque della previsione di
specifiche capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti
accorpati [7];
- nel caso di reinserimento di una singola strada
[8].
La ripubblicazione in caso di modifiche
introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale
Per quanto concerne l’obbligo di ripubblicazione del piano a
seguito delle modificazioni che possono essere introdotte in
sede di approvazione provinciale o regionale, occorre
distinguere le modifiche obbligatorie (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali ed
archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi ed
in genere l’osservanza
della normativa urbanistico-edilizia) da quelle facoltative
(consistenti in
innovazioni non sostanziali) e da quelle concordate.
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e concordate,
ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da
parte del comune, diversamente, per le modifiche
obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché proprio il
carattere dovuto dell’intervento
provinciale o regionale rende superfluo l’apporto
collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in
sede di adozione ed
approvazione del P.R.G. [9]
Ripubblicazione obbligatoria, un caso
recente
Nella recente
sentenza 19.09.2022 n.
1406, del TAR Veneto - Sez. II, è stata ritenuta
necessaria la ripubblicazione di una variante del piano dopo
che, in un primo tempo, erano stati stipulati ed inseriti
nel piano alcuni accordi pubblico-privati e successivamente
una parte di tali piani erano stati stralciati per evitare
un
eccesso di S.A.U. ed altri ancora venivano sostituiti con
nuovi accordi.
Secondo i giudici, la scelta di “salvare” alcuni accordi
nonostante il superamento di S.A.U. ed il diverso
trattamento riservati ai diversi accordi sono elementi che
individuano un nuovo assetto di valutazione alla base della
variante, con l’ulteriore elemento critico dell’assenza di
adeguata motivazione in merito al suddetto
diverso trattamento.
---------------
[1] Ex multis, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 12.03.2009, n. 1477; sent. 25.11.2003, n. 7782;
recentemente, cfr. sez. IV, sent. 19.11.2018, n. 6484;
TAR Toscana, sez. I, sent. 16.01.2017, n. 38.
[2] Cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent.
26.11.2018, n. 2677.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 19.11.2018, n.
6484; sent. 30.07.2012, n. 4321; sent. 27.12.2011,
n. 6865.
[4] Consiglio di Stato, sez. II, sent. 14.11.2019, n.
7839; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, sent. 08.05.2017,
n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n.
880.
[5] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 27.12.2011, n.
6865.
[6] Consiglio di Stato, sez. II, sent. 14.11.2019, n.
7839.
[7] TAR Lombardia, Milano, sez. IV, sent. 30.06.2021, n.
1596.
[8] TAR Emilia Romagna, Parma, sent. 07.04.2021, n. 90.
[9] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 25.11.2003, n.
7782; sez. VI, sent. 23.09.2009, n. 5671; TAR
Campania, Napoli, sez. I, sent. 11.03.2015, n. 1510; sez. VIII, sent.
07.03.2013, n. 12879; Salerno, sez. I, sent. 08.05.2017, n. 880 (04.10.2022 - tratto da e link
a https://ediltecnico.it). |
URBANISTICA:
La necessità di ripubblicazione del piano <<viene
ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della
procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una
sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree; in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, quand'anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree>.
---------------
2. Nel merito.
Il Collegio ritiene di esaminare il motivo di più agevole e
rapido scrutinio che determina l'accoglimento del ricorso,
con assorbimento degli altri motivi, in ossequio ai principi
della "ragione più liquida", di economia processuale
e di sinteticità della motivazione. (in tal senso, Cons.
Stato, sez. III, 06.05.2021, n. 3534; sez. VI, 15.07.2019,
n. 4971; sez. IV, 27.08.2019, n. 5891).
In particolare, occorre rammentare l’insegnamento secondo il
quale la necessità di ripubblicazione del piano <<viene
ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della
procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una
sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono (Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009,
n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente
Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra);
in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in
cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia,
sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I,
08.05.2017, n. 880).
Il che è quanto accaduto nel caso di specie, che ha
riguardato, come già precisato, le aree a contorno di ville
storiche disseminate nel territorio comunale>>
(Consiglio di Stato sez. II, 14/11/2019, n. 7839).
Nel caso di specie, il provvedimento di approvazione, nella
misura in cui ha comunque portato alla stipula di alcuni
accordi pubblico-privati che determinano consumo di suolo
con superamento del limite di S.A.U. valorizzato dal Comune
nel provvedimento di adozione, si è posto in sostanziale
contrasto con una delle linee giustificative fondamentali
che avevano condotto, in sede di adozione, al totale “azzeramento”
degli accordi stipulati con i privati, ovvero annullare
tutti i suddetti accordi in quanto comportanti un consumo di
S.A.U. superiore ai limiti ammessi dagli atti pianificatori.
L’avere, infatti, in sede di approvazione, consentito
comunque la stipula e, quindi, di fatto, il “salvataggio”,
di alcuni di questi accordi, a discapito di altri, pur
comportando i primi un superamento di SAU al di là del
limite precedentemente valorizzato dallo stesso Comune,
viene a determinare, da un lato, un evidente mutamento
strutturale della “variante” così come adottata, e
dall’altro lato, un diverso trattamento tra i diversi
accordi e, quindi, tra i diversi privati che a seguito della
precedente variante avevano maturato un affidamento sulla
realizzazione degli stessi, senza che sulle ragioni della
scelta in ordine a tale diverso trattamento sia stata
fornita adeguata motivazione.
Pertanto, il ricorso deve essere accolto nei limiti e per le
ragioni che precedono, con conseguente annullamento
dell’atto di approvazione impugnato n. 39 del 11.08.2015, il
Comune, per l’effetto, dovendosi rideterminare in conformità
a quanto più sopra esposto (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 19.09.2022
n. 1406 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo consolidata giurisprudenza,
"la necessità di ripubblicazione del piano viene ritenuta
sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura
che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua
rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione”.
Il
Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini,
l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree".
---------------
4. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono i vizi
di violazione dell’art. 18 della L.R. n. 11/2004, e di
eccesso di potere per motivazione apparente, contraddittoria
e perplessa.
Affermano i ricorrenti che il Comune avrebbe dovuto
limitarsi all’esame dell’osservazione pervenuta sulla
“variazione n. 16” e confrontarsi con le controdeduzioni
proposte dagli uffici che ne avevano proposto il rigetto
sotto il profilo tecnico, mentre l’osservazione non viene
richiamata nel dispositivo e le controdeduzioni non vengono
mai formalmente valutate dal consiglio comunale. Da ciò la
violazione dell’art. 18 L.R. 11/2004.
Il Consiglio non si
sarebbe pronunciato sull’osservazione, ma avrebbe rimeditato
le scelte compiute in sede di adozione, riavviando ex novo
la discussione sul tema. Ove si ritenesse legittima la
rimeditazione delle scelte già compiute in sede di adozione,
dovrebbe, altresì, ritenersi necessaria la ripubblicazione
della variante, perché sui suoi contenuti possa svilupparsi
il contraddittorio.
Il motivo non è fondato.
Contrariamente a quanto affermano
le ricorrenti, l’osservazione n. 23 ha costituito oggetto di
puntuale disamina, come emerge dalla lettura del verbale
della deliberazione del 29.03.2019 (cfr. gli stralci
riportati nel punto che precede). Dal suddetto verbale
emerge, inoltre, che il Consiglio comunale è stato reso
pienamente edotto dell’assenza di ragioni ostative di natura
tecnica all’approvazione della variante. La scelta, invece,
è maturata per ragioni di opportunità legate alla ritenuta
assenza di chiare indicazioni sulle prospettive di sviluppo
dell’azienda.
Non emergono elementi per poter affermare la
sussistenza di un obbligo di procedere alla ripubblicazione
del piano. La parte non approvata attiene ad una modifica
puntuale, concernente una singola area, che s’inserisce
all’interno di una serie di altri interventi. Non v’è prova,
quindi, di quell’alterazione dei criteri ispiratori della
variante adottata che sola impone l’obbligo di
ripubblicazione.
Secondo consolidata giurisprudenza,
infatti, "la necessità di ripubblicazione del piano, dunque,
viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento
della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia
stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla
sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr.
anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018,
n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla
giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità
di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677)”
(Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027).
Il
Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba
escludersi che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano, quando, in sede di approvazione,
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV,
19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini,
l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche
consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne
lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017,
n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n.
880)" (Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027 cit.) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 08.08.2022 n. 1282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale, va osservato che in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione
complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare
un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali
rispetto alla versione originaria sull’intero territorio,
l’amministrazione non è tenuta alla ripubblicazione del Pgt prima di procedere all’approvazione.
---------------
5. Con il terzo motivo, si deduce la violazione
dell’obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico,
assumendo che la variante abbia modificato in maniera
talmente sostanziale le aree dei ricorrenti da necessitare
una nuova pubblicazione.
Il motivo è infondato.
5.1. In linea generale, va osservato che in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione
complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare
un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr.,
ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali
rispetto alla versione originaria sull’intero territorio,
l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del
Pgt prima di procedere all’approvazione.
5.2. Inoltre, nel caso di specie, deve rilevarsi come, nelle
more dell’approvazione della variante (avvenuta il
13.07.2017), è stata depositata la sentenza del Consiglio di
Stato n. 2921 del 28.06.2016 di definitivo annullamento delle
disposizioni del documento di piano incidenti sull’ambito di
cui è causa. Inoltre la Città Metropolitana di Milano,
nell’esprimere il parere di compatibilità sulla variante,
aveva chiesto lo stralcio dell’ambito TR Golfo Agricolo e la riclassificazione dell’area.
Il Comune, nel rispetto del
parere della Città Metropolitana, ha proceduto allo stralcio
del comparto dal documento di piano per collocarlo nel piano
dei servizi, con la creazione contestuale di una apposita
scheda con il relativo indice edificatorio. Tale modifica,
imposta dall’intervento dell’Autorità Provinciale (ora
denominata Città Metropolitana), riguarda peraltro un solo
ambito e non ha certamente una valenza sostanziale, in
quanto resta immutata la destinazione agricola dell’area,
che non subisce quindi alcun mutamento essenziale.
L’art. 13, comma 9, della LR n. 12/2005 esclude una nuova
pubblicazione del piano in caso di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede
di approvazione definitiva dello stesso, comporta la
necessità della sua ripubblicazione.
E’ stato osservato che <<… può parlarsi di
rielaborazione complessiva quando "fra la fase di adozione e
quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione".
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in
altri termini, "l'obbligo de quo non sussiste nel caso in
cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree">>.
---------------
4. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
E’ stato osservato che <<… può
parlarsi di rielaborazione complessiva quando "fra la fase
di adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione" (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, "l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree" (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568)>> (TAR Lombardia
Milano, sez. II – 10/02/2021 n. 374, che nella vicenda
esaminata ha riscontrato l’assenza di variazioni diffuse e
radicali rispetto alla versione originaria, e ha pertanto
escluso che l'amministrazione fosse tenuta a ripubblicare lo
strumento urbanistico prima di procedere all’approvazione) (TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II,
sentenza 09.03.2022 n. 248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ripubblicazione
del PGT.
Il TAR Milano ricorda
che:
<<in base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, solo la rielaborazione
complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporta la necessità della sua
ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di
rielaborazione complessiva quando “fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua
impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, la giurisprudenza esclude che si
possa parlare di rielaborazione complessiva
del piano quando in sede di approvazione
vengano introdotte modifiche che riguardano
la disciplina di singole aree o singoli
gruppi di aree; in altri termini,
“l'obbligo de quo non sussiste nel caso in
cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero
incidano in modo intenso sulla destinazione
di singole aree o gruppi di aree”>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.02.2022 n.
220 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
3.1. Con il primo motivo, si deduce
l’illegittimità del Pgt approvato poiché, a
seguito dell’accoglimento delle due
osservazioni riportate in narrativa,
l’impianto del piano sarebbe strato “stravolto”
con riferimento alla frazione di San Bovio,
nella quale vi sarebbe stato un “cospicuo
aumento della volumetria edificabile”.
La censura è infondata.
Anzitutto, sono gli stessi ricorrenti a
delimitare gli effetti dell’accoglimento
delle osservazioni con riguardo a una sola
limitata porzione del territorio (la
frazione San Bovio), dal che si deve già
dedurre che la modifica in questione non ha
comportato una significativa modifica
dell’impianto complessivo del piano.
In secondo luogo, i ricorrenti hanno solo
genericamente affermato che esso
determinerebbe un profondo mutamento dei
criteri e obiettivi posti a base del
documento di piano, senza tuttavia assolvere
all’onere specifico di allegazione
dell’effettiva modifica e delle percentuali
di aumento della superficie edificabile nel
piano approvato rispetto a quello adottato,
sicché l’affermazione si risolve in una mera
petizione di principio.
In altre parole, l’accoglimento delle
osservazioni dei privati non ha determinato
alcuna “modifica sostanziale” allo
strumento urbanistico e si è risolto, in
realtà, in modifiche di dettaglio o puntuali
e comunque limitate, non determinando mai
una rivisitazione complessiva del piano e
degli obiettivi da esso perseguiti.
In base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, solo la rielaborazione
complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporta la necessità della sua
ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di
rielaborazione complessiva quando “fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”
(cfr., ex plurimis, TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id.,
26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n.
1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, la giurisprudenza esclude che si
possa parlare di rielaborazione complessiva
del piano quando in sede di approvazione
vengano introdotte modifiche che riguardano
la disciplina di singole aree o singoli
gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n.
5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n.
6865); in altri termini, “l'obbligo de
quo non sussiste nel caso in cui le
modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero
incidano in modo intenso sulla destinazione
di singole aree o gruppi di aree” (cfr.
Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020
n. 1568).
Nella fattispecie in esame, in assenza di
variazioni diffuse e radicali rispetto alla
versione originaria, pertanto,
l’amministrazione non era tenuta alla
ripubblicazione del Pgt prima di procedere
all’approvazione. |
URBANISTICA:
Il Tribunale richiama costante giurisprudenza
secondo la quale “la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede
di approvazione definitiva dello stesso, comporta la
necessità della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia,
è configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella
di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione”.
Secondo il Tribunale, “nella fattispecie, la
modifica che il Comune ha introdotto nel PGT di cui è causa,
in seguito all’accoglimento di osservazioni di terzi, non si
traduce nella rielaborazione complessiva del piano ma, al
contrario, ha una portata limitata, atteso che si risolve
nell’accorpamento di due ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito
ATA4), al fine di agevolare l’attuazione dell’ambito ARU7,
con il mantenimento comunque della previsione di specifiche
capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti
accorpati”.
Aggiunge, inoltre, il Tribunale che “la giurisprudenza
esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva
del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte
–come nella fattispecie- modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”.
Nella
fattispecie all’attenzione della IV Sezione, “le modifiche
al PGT introdotte in fase di approvazione costituiscono il
risultato dell’accoglimento parziale di osservazioni
presentate da terzi soggetti”, con conseguente applicazione
della previsione di cui all’art. 13, co. 9, della L.r. n.
12/2005, a mente della quale: “la deliberazione del
consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di
cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova
pubblicazione”. Né, conclude il Tribunale, “alcuna
disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per
la presentazione di ulteriori osservazioni”.
La decisione della IV Sezione riguarda più propriamente,
quindi, il tema della ripubblicazione del Piano ed afferma
principi consolidati nella giurisprudenza (anche di questa
Sezione).
Infatti, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato,
“in linea di principio, se la pubblicazione del progetto di
piano regolatore generale prevista dalle diverse e
concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione
delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al
progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è
richiesta di regola per le successive fasi del procedimento,
anche se il piano risulti modificato a seguito
dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche
introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si
tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e
comportare nella sostanza una nuova adozione”.
Il principio che il Consiglio di Stato ricava da “tale
condivisibile regola giurisprudenziale” è quello “per cui,
salve (marginali sotto il profilo statistico e della
concreta esperienza giurisprudenziale […]) ipotesi di
stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione
proposta dal privato avviene con atto modificativo che non
determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e
necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del
medesimo”.
---------------
Nel caso di specie non si tratta di verificare un possibile
stravolgimento del Piano approvato al fine di affermare la
necessità di una nuova pubblicazione quanto, prima ancora,
di accertare la legittimità della decisione tanto sotto il
profilo dell’adeguatezza dell’istruttoria quanto della
violazione delle regole e dei principi che presidiano il
procedimento di approvazione dello strumento urbanistico.
La disamina de qua può prendere le
mosse da alcuni principi affermati in tema di obbligo di
ripubblicazione, utili al fine di comprendere alcuni degli
assi portanti dell’elaborazione giurisprudenziale in
materia.
Il riferimento è, in particolare, alla
giurisprudenza della Sezione che evidenzia come “nessun
argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla
legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 pianamente
prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine
per la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni”
(comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di
controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi
precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)”.
Dello stesso
avviso si mostra il Consiglio di Stato secondo cui “la
modifica del P.R.G. adottato in accoglimento delle
osservazioni non comporta per il comune l’obbligo di
ripubblicazione del progetto di P.R.G. così modificato solo
se, da un lato, tutte le modifiche introdotte derivano
strettamente dal contenuto delle osservazioni presentate dai
privati e favorevolmente vagliate dall’amministrazione e,
d’altro lato, se si tratti di modifiche settoriali ed
esclusivamente incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti
che hanno presentato le corrispondenti osservazioni”.
Il Consiglio di Stato evidenzia la necessità di una stretta derivazione
tra il contenuto delle osservazioni e le modifiche apportate
in fase di approvazione sottolineando anche l’esigenza che
si tratti di interventi incidenti nella sfera giuridica dei
soggetti che presentano le osservazioni.
Simile impostazione
appare in linea con altro arresto del Consiglio di Stato ove
si sottolinea che “la immanenza del potere pianificatorio
comunale non può giustificare lo stravolgimento della regola
procedimentale secondo la quale la sequenza "ordinata" della
approvazione del piano è scandita da una serie di passaggi -adozione, pubblicazione, presentazione delle osservazioni, controdeduzioni, approvazione- che non consente di
"inserire" nuove determinazioni modificative del testo sul
quale si era instaurato il contraddittorio, ben potendo
invece, successivamente, l’amministrazione comunale
intervenire con variante nel modificare il testo originario
ove non rispondente (o non più rispondente) al pubblico
interesse”.
Il Consiglio di Stato enfatizza la differenza
tra la “causa” dell’adozione e quella dell’approvazione
osservando come la prima sia funzionale “ad esporre una
visione innovativa dell’utilizzo del territorio di
competenza” mentre la seconda sia “propedeutica ad
accompagnare gli elementi acquisiti dai privati in vista
dell’iter finale del piano, per favorirne il più corretto
apprezzamento da parte dell’autorità regionale all’atto
dell’approvazione”; in questa seconda fase non vi è quell’ampia
discrezionalità che connota il momento di adozione che
rischia di porsi in contrasto “con la tipicità normativamente scansionata per i singoli momenti
dell'attività di pianificazione urbanistica (adozione,
pubblicazione, presentazione delle osservazioni,
controdeduzioni, approvazione), con ogni connessa ulteriore
conseguenza in ordine al vulnus degli interessi tutelati dai
passaggi procedimentali già intervenuti”.
Né, secondo il
Consiglio di Stato, può opporsi il carattere permanente del
potere pianificatorio che legittima, piuttosto, lo strumento
della variante.
Muovendo dai principi affermati dal Consiglio di Stato
il Collegio osserva come la previsione di cui all’art. 13
della L.r. n. 12/2005 delinei un procedimento articolato in
varie fasi:
i) avvio del procedimento con termine per le osservazioni (co. 2);
ii) acquisizione del parere delle parti sociali ed economiche (co.
3);
iii) adozione del Piano (co. 4);
iv) fase di presentazione delle osservazioni (co. 4);
v) acquisizione dei pareri da parte degli Enti competenti (co. 5,
co. 5-bis, co. 6);
vi) fase di approvazione con inserimento negli atti “modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”
nonché all’adeguamento imposto dai pareri degli Enti (co. 7,
co. 7-bis, co. 8, co. 9);
vii) fase di deposito e pubblicazione nel sito informatico
dell’amministrazione comunale;
viii) fase di pubblicazione dell’avviso sul b.u.r.l. (co. 10).
Il complesso procedimento delineato dal legislatore
regionale non risponde solo ad esigenze di ordinato incedere
dell’iter amministrativo ma è, al contrario, funzionale alla
realizzazione dei vari interessi involti dalla procedura e
sottoposti alla valutazione comunale.
Infatti, l’avvio del
procedimento è volto a garantire la ricezione di prime
osservazioni; del pari, il parere delle parti sociali ed
economiche serve ad acquisire contributi necessari nella
fase di “costruzione” del Piano. E’ proprio in questa fase,
del resto, che l’Amministrazione effettua gli
approfondimenti istruttori –ivi compresa la v.a.s.–
necessari per la “corretta disamina e verifica della
situazione di fatto correlata alle esigenze che
l’Amministrazione intende perseguire” che la Sezione
definisce il primum movens di ogni valutazione
discrezionale.
Solo al termine di questa fase il
Comune procede all’adozione del Piano con cui espone le
scelte di utilizzo del suolo. Ed è, quindi, solo conosciuti
gli assi portarti della decisione e le concrete scelte
adottate che si schiude la successiva fase di contributo
degli interessati mediante lo strumento delle osservazioni
nonché l’acquisizione dei pareri da parte degli Enti.
Una
ulteriore fase che, come evidente, risulta, quindi,
strumentale alla condivisione delle scelte pianificatorie,
all’acquisizione di contributi dei privati titolari delle
aree su cui tali scelte incidono nonché alla ricezione degli
avvisi degli Enti coinvolti. E’ solo al termine di tale
confronto che l’Amministrazione opera le proprie scelte
definitive modificando il “progetto” di governo del
territorio delineato nel Piano adottato, in ragione delle
osservazioni condivise e dei rilievi degli Enti. Si tratta,
quindi, di un procedimento articolato in cui ogni fase
realizza, come anticipato, precipue esigenze ritenute
meritevoli di considerazione da parte del legislatore
regionale.
---------------
... per l'annullamento:
- della Delibera di Consiglio comunale di Milano n. 34 del
14.10.2019, avente ad oggetto “Controdeduzioni alle
osservazioni e approvazione definitiva del nuovo Documento
di Piano, della variante del Piano dei Servizi, comprensivo
del Piano per le Attrezzature Religiose, e della variante
del Piano delle Regole, costituenti il Piano di Governo del
Territorio, ai sensi dell'art. 13 della l.r. 11.03.2005 n.
12 e s.m.i.”, di approvazione degli atti costituenti il
Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano,
divenuto efficace in data 05.02.2020, a seguito della
pubblicazione dell'avviso di approvazione definitiva sul
B.U.R.L. Serie Avvisi e Concorsi n. 6;
...
3.1. Con il primo motivo (rubricato: “Violazione e
falsa applicazione dell’art. 13 l.r. n. 12/2005. Violazione
artt. 3 e 97 Cost. Violazione del principio di tipicità.
Violazione e falsa 9 applicazione del principio di non
discriminazione. Eccesso di potere per difetto di
istruttoria e di motivazione, difetto dei presupposti,
illogicità, arbitrarietà. Sviamento di potere”) la
ricorrente deduce l’illegittimità in parte qua della
scelta urbanistica in quanto non conseguente a rilievi di
Enti sovraordinati o all’accoglimento di osservazioni
presentate dalla parte proprietaria ma derivante da una
nuova decisione conseguente al sostanziale rigetto
dell’osservazione di Pe. s.r.l. con conseguente violazione
delle regole che governano il procedimento di adozione e
approvazione dello strumento urbanistico comunale.
3.2. Con il secondo motivo (rubricato: “Violazione
e falsa applicazione dell’art. 13 l.r. n. 12/2005.
Violazione art. 9 l. n. 1150/1942. Violazione artt. 3, 42 e
97 Cost. Violazione art. 1 l. n. 241/1990 in relazione al
principio di non discriminazione. Eccesso di potere per
difetto di istruttoria e per sviamento”)
la ricorrente evidenzia come la situazione stigmatizzata nel
primo motivo comporti, altresì, la violazione delle garanzie
partecipative conferite al privato nel procedimento di
adozione ed approvazione dello strumento urbanistico.
...
6. Entrando in medias res il Collegio ritiene di
poter esaminare congiuntamente i primi due motivi di ricorso
in quanto strettamente connessi avendo ad oggetto le
ritenute violazioni delle regole procedimentali e dei
principi dettati dalla L.r. n. 12/2005 per l’adozione ed
approvazione dello strumento urbanistico comunale.
6.1. Il punto di abbrivo della disamina è costituito dalla
sentenza n. 1596/2021 sulla quale si incentra l’attenzione
sia del Comune in memoria difensiva che della ricorrente in
sede di replica.
6.1.1. La decisione dalla IV Sezione del Tribunale riguarda,
invero, una censura con la quale si lamenta l’illegittimità
di una “modifica del PGT, introdotta in accoglimento
parziale di osservazioni presentate da terzi” senza
“ripubblicazione del PGT stesso nella parte modificata”.
Secondo la parte ricorrente di tale giudizio, “il Comune,
omettendo tale adempimento, avrebbe leso il diritto dei
proprietari di presentare osservazioni allo strumento
urbanistico”.
6.1.2. La decisione della IV Sezione è, quindi, calibrata
sul tema relativo all’obbligo di ripubblicazione del P.G.T.
Sul punto, il Tribunale richiama costante giurisprudenza
secondo la quale “la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede
di approvazione definitiva dello stesso, comporta la
necessità della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia,
è configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella
di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n.
2393/2017)”.
Secondo il Tribunale, “nella fattispecie, la
modifica che il Comune ha introdotto nel PGT di cui è causa,
in seguito all’accoglimento di osservazioni di terzi, non si
traduce nella rielaborazione complessiva del piano ma, al
contrario, ha una portata limitata, atteso che si risolve
nell’accorpamento di due ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito
ATA4), al fine di agevolare l’attuazione dell’ambito ARU7,
con il mantenimento comunque della previsione di specifiche
capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti
accorpati”.
Aggiunge, inoltre, il Tribunale che “la giurisprudenza
esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva
del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte
–come nella fattispecie- modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
C.d.S., Sez. IV, n. 5769/2013; C.d.S., Sez. IV, n.
4321/2012; C.d.S., Sez. IV, n. 6865/2011)”.
Nella
fattispecie all’attenzione della IV Sezione, “le modifiche
al PGT introdotte in fase di approvazione costituiscono il
risultato dell’accoglimento parziale di osservazioni
presentate da terzi soggetti”, con conseguente applicazione
della previsione di cui all’art. 13, co. 9, della L.r. n.
12/2005, a mente della quale: “la deliberazione del
consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di
cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova
pubblicazione”. Né, conclude il Tribunale, “alcuna
disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per
la presentazione di ulteriori osservazioni (v. TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, n. 564/2018; cfr. anche TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, n. 2393/2017; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 1700/2016)”.
6.1.3. La decisione della IV Sezione riguarda più
propriamente, quindi, il tema della ripubblicazione del
Piano ed afferma principi consolidati nella giurisprudenza
(anche di questa Sezione).
Infatti, secondo la
giurisprudenza del Consiglio di Stato, “in linea di
principio, se la pubblicazione del progetto di piano
regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti
leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle
osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto
di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di
regola per le successive fasi del procedimento, anche se il
piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di
alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di
approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche
tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una
nuova adozione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n.
1503).
Il principio che il Consiglio di Stato ricava da
“tale condivisibile regola giurisprudenziale” è quello “per
cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della
concreta esperienza giurisprudenziale […]) ipotesi di
stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione
proposta dal privato avviene con atto modificativo che non
determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e
necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del
medesimo” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1241;
nella giurisprudenza della Sezione, cfr.: TAR per la
Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 26.11.2021, n. 2622; Id.,
12.11.2020, n. 2139; Id., 16.12.2019, n. 2676).
6.1.4. Nel caso di specie non si tratta, tuttavia, di
verificare un possibile stravolgimento del Piano approvato
al fine di affermare la necessità di una nuova pubblicazione
quanto, prima ancora, di accertare la legittimità della
decisione tanto sotto il profilo dell’adeguatezza
dell’istruttoria quanto della violazione delle regole e dei
principi che presidiano il procedimento di approvazione
dello strumento urbanistico. Una verifica che, invero,
presenta connotati particolari attesa la peculiarità della
vicenda all’attenzione del Collegio con conseguente non
sovrapponibilità della presente fattispecie a quella oggetto
della sentenza della IV Sezione supra richiamata.
6.2. La disamina appena indicata può, comunque, prendere le
mosse da alcuni principi affermati in tema di obbligo di
ripubblicazione, utili al fine di comprendere alcuni degli
assi portanti dell’elaborazione giurisprudenziale in
materia.
Il riferimento è, in particolare, alla
giurisprudenza della Sezione che evidenzia come “nessun
argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla
legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 pianamente
prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine
per la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni”
(comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di
controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi
precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)”
(TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
07.06.2017, n. 1281; Id., 12.11.2020, n. 2139).
Dello stesso
avviso si mostra il Consiglio di Stato secondo cui “la
modifica del P.R.G. adottato in accoglimento delle
osservazioni non comporta per il comune l’obbligo di
ripubblicazione del progetto di P.R.G. così modificato solo
se, da un lato, tutte le modifiche introdotte derivano
strettamente dal contenuto delle osservazioni presentate dai
privati e favorevolmente vagliate dall’amministrazione e,
d’altro lato, se si tratti di modifiche settoriali ed
esclusivamente incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti
che hanno presentato le corrispondenti osservazioni”
(Consiglio di Stato, Sez. III, 28.04.2009, n. 950; cfr.,
inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
12.11.2020, n. 2139).
6.3. La decisione del Consiglio di Stato da ultimo
richiamata evidenzia la necessità di una stretta derivazione
tra il contenuto delle osservazioni e le modifiche apportate
in fase di approvazione sottolineando anche l’esigenza che
si tratti di interventi incidenti nella sfera giuridica dei
soggetti che presentano le osservazioni.
Simile impostazione
appare in linea con altro arresto del Consiglio di Stato ove
si sottolinea che “la immanenza del potere pianificatorio
comunale non può giustificare lo stravolgimento della regola
procedimentale secondo la quale la sequenza "ordinata" della
approvazione del piano è scandita da una serie di passaggi -adozione, pubblicazione, presentazione delle osservazioni, controdeduzioni, approvazione- che non consente di
"inserire" nuove determinazioni modificative del testo sul
quale si era instaurato il contraddittorio, ben potendo
invece, successivamente, l’amministrazione comunale
intervenire con variante nel modificare il testo originario
ove non rispondente (o non più rispondente) al pubblico
interesse”.
Il Consiglio di Stato enfatizza la differenza
tra la “causa” dell’adozione e quella dell’approvazione
osservando come la prima sia funzionale “ad esporre una
visione innovativa dell’utilizzo del territorio di
competenza” mentre la seconda sia “propedeutica ad
accompagnare gli elementi acquisiti dai privati in vista
dell’iter finale del piano, per favorirne il più corretto
apprezzamento da parte dell’autorità regionale all’atto
dell’approvazione”; in questa seconda fase non vi è quell’ampia
discrezionalità che connota il momento di adozione che
rischia di porsi in contrasto “con la tipicità normativamente scansionata per i singoli momenti
dell'attività di pianificazione urbanistica (adozione,
pubblicazione, presentazione delle osservazioni,
controdeduzioni, approvazione), con ogni connessa ulteriore
conseguenza in ordine al vulnus degli interessi tutelati dai
passaggi procedimentali già intervenuti”.
Né, secondo il
Consiglio di Stato, può opporsi il carattere permanente del
potere pianificatorio che legittima, piuttosto, lo strumento
della variante (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.03.2013, n.
1740; Id., Sez. IV, 22.12.2014, n. 6337).
6.4. Muovendo dai principi affermati dal Consiglio di Stato
il Collegio osserva come la previsione di cui all’art. 13
della L.r. n. 12/2005 delinei un procedimento articolato in
varie fasi:
i) avvio del procedimento con termine per le osservazioni (co. 2);
ii) acquisizione del parere delle parti sociali ed economiche (co.
3);
iii) adozione del Piano (co. 4);
iv) fase di presentazione delle osservazioni (co. 4);
v) acquisizione dei pareri da parte degli Enti competenti (co. 5,
co. 5-bis, co. 6);
vi) fase di approvazione con inserimento negli atti “modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni”
nonché all’adeguamento imposto dai pareri degli Enti (co. 7,
co. 7-bis, co. 8, co. 9);
vii) fase di deposito e pubblicazione nel sito informatico
dell’amministrazione comunale;
viii) fase di pubblicazione dell’avviso sul b.u.r.l. (co. 10).
6.5. Il complesso procedimento delineato dal legislatore
regionale non risponde solo ad esigenze di ordinato incedere
dell’iter amministrativo ma è, al contrario, funzionale alla
realizzazione dei vari interessi involti dalla procedura e
sottoposti alla valutazione comunale.
Infatti, l’avvio del
procedimento è volto a garantire la ricezione di prime
osservazioni; del pari, il parere delle parti sociali ed
economiche serve ad acquisire contributi necessari nella
fase di “costruzione” del Piano. E’ proprio in questa fase,
del resto, che l’Amministrazione effettua gli
approfondimenti istruttori –ivi compresa la v.a.s.–
necessari per la “corretta disamina e verifica della
situazione di fatto correlata alle esigenze che
l’Amministrazione intende perseguire” che la Sezione
definisce il primum movens di ogni valutazione discrezionale
(TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
26.11.2021, n. 2622).
Solo al termine di questa fase il
Comune procede all’adozione del Piano con cui espone le
scelte di utilizzo del suolo. Ed è, quindi, solo conosciuti
gli assi portarti della decisione e le concrete scelte
adottate che si schiude la successiva fase di contributo
degli interessati mediante lo strumento delle osservazioni
nonché l’acquisizione dei pareri da parte degli Enti.
Una
ulteriore fase che, come evidente, risulta, quindi,
strumentale alla condivisione delle scelte pianificatorie,
all’acquisizione di contributi dei privati titolari delle
aree su cui tali scelte incidono nonché alla ricezione degli
avvisi degli Enti coinvolti. E’ solo al termine di tale
confronto che l’Amministrazione opera le proprie scelte
definitive modificando il “progetto” di governo del
territorio delineato nel Piano adottato, in ragione delle
osservazioni condivise e dei rilievi degli Enti. Si tratta,
quindi, di un procedimento articolato in cui ogni fase
realizza, come anticipato, precipue esigenze ritenute
meritevoli di considerazione da parte del legislatore
regionale.
6.6. Operate tali premesse il Collegio osserva come la
fattispecie alla propria attenzione presenta dei tratti di
peculiarità che rendono fondate le censure di parte
ricorrente nella parte in cui lamenta la violazione dei
principi sottesi alla pianificazione.
Deve, infatti,
considerarsi come la scelta operata nel Piano adottato non
sia, come spiegato, un mera ipotesi ma, al contrario, sia
sorretta da analitiche valutazioni istruttorie (tra cui la v.a.s. che, secondo l’art. 4, co. 2, della L.r. n. 12/2005,
è, comunque, effettuata durante la fase preparatoria del
piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o
all'avvio della relativa procedura di approvazione) che
servono ad una compiuta disamina della situazione fattuale
nella direzione che l’Amministrazione intende imprimere
all’uso del proprio territorio.
Nel caso di specie la scelta
di inserire gran parte dell’area dalla ricorrente negli a.r.u. non può, quindi, che ritenersi la conseguenza di una
valutazione istruttoria mediante la quale si verifica la
portata delle scelte che il Comune intende compiere.
Rispetto alla scelta adottata l’Amministrazione opera un
evidente riesame in fase di approvazione pur senza che vi
sia una specifica osservazione da parte dell’interessata né
un rilievo da parte di un Ente sovraordinato. Lo fa
esaminando l’osservazione di un soggetto terzo che non si
sostanzia, però, nella richiesta di modifica della decisione
concernente l’area di Sant’Ilario che costituisce solo il
termine di paragone per ottenere una miglior disciplina
(omologa a quella di Sant’Ilario) rispetto a quella impressa
dal Piano adottato alla propria di area. L’Amministrazione
comunale disattende tale richiesta lasciando la destinazione
dell’area del terzo immutata ed allineando a questa l’area
di Sant’Ilario. In sostanza, il Comune non muta la
disciplina relativa all’area di chi presenta le osservazioni
ma di un soggetto terzo.
6.7. Ora, pur volendo ipotizzare la correttezza del
ragionamento comunale nella parte in cui predica la non
necessità di una stretta coincidenza (anche in termini
soggettivi) tra osservazioni dei privati e modifiche
conseguenti alle stesse deve, comunque, ritenersi che simile
ricostruzione abbia senso solo qualora la modificazione
indotta dal riesame stimolato dall’osservazione abbia
comunque un forte supporto istruttorio e motivazionale.
In
sostanza, simili modificazioni potrebbero in astratto
predicarsi a condizione che la scelta approvata abbia un
sostegno nell’istruttoria condotta nella fase preparatoria
del Piano e tale aspetto sia, altresì, chiaramente
esplicitato dal Comune. Diversamente opinando, non tanto le
scansioni procedimentali ma proprio le esigenze che le
stesse realizzano e che sono sopra descritte verrebbero
deprivate del rilievo che la legislazione regionale vi
conferisce.
6.8. Nel caso di specie, la modifica viene giustificata
invocando le certamente legittime esigenze di limitazione
del consumo del suolo ma simile affermazione non si
confronta in modo puntuale con la diversa scelta operata dal
Piano adottato non spiegando, quindi, le ragioni per le
quali il perseguimento di tale obiettivo debba passare
attraverso una sostanziale rivisitazione di una concreta
scelta già effettuata e, comunque, conforme alla storia
urbanistica dell’area.
6.9. In secondo luogo, l’Amministrazione invoca l’esigenza
di evitare una disparità di trattamento tra l’area di Sant’Ilario
e quella del terzo che presenta l’osservazione. Ma, invero,
mutuando una efficace definizione del Conseil d’Etat, “Il
diritto urbanistico potrebbe essere definito in maniera un
po’ provocatoria come il diritto delle violazioni legali
alla proprietà fondiaria”.
Lo scopo dell’urbanistica è
quello di impedire un uso assoluto del diritto di proprietà
che non contemperi le ulteriori esigenze di natura sociale,
ambientale o paesaggistica che legittimamente possono
ricondursi alla formula dell’art. 42, co. 2, Cost. In
sostanza, spetta alle Amministrazioni deputate alla
regolazione degli assetti urbanistici operare limitazioni
all’uso assoluto del diritto di proprietà al fine di
contemperare tale diritto con gli ulteriori interessi
involti.
A tali valutazioni possono ricondursi anche le
differenziazioni nel trattamento dei vari diritti di
proprietà relativi ad un determinato ambito territoriale ove
sussistano ragioni di divergente regolamentazione.
Non può,
quindi, predicarsi la necessità di un trattamento uniforme
che, al contrario, priverebbe gli strumenti urbanistici
della possibilità di differenziare i regimi in ragione delle
divergenze sostanziali tra le aree.
Nel caso di specie, poi,
quella esigenza di uniformità non tiene conto della
differenza tra le aree interne al PA8 che, come evidenziato
in precedenza, non sono tutte soggette al medesimo regime;
al contrario, l’edificazione è incentrata sui suoli della
ricorrente. Pertanto, il generico riferimento all’intero PA8
non può ritenersi idoneo a legittimare questo diaframma tra
la scelta adottata e la scelta approvata in assenza di una
osservazione dell’interessata.
6.10. In considerazione di quanto esposto i primi due motivi
di ricorso devono accogliersi in quanto fondati per le
ragioni sin qui spiegate con conseguente annullamento in
parte qua degli atti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.01.2022 n. 50 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed
eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la
giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che essi risultano
strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione
dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività
di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso,
in particolare, la presentazione delle previste
osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve
essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva
modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di
osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche
introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata
dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di
un appesantimento incongruo, se non ad un effetto
paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la
partecipazione non più strumento di collaborazione e
funzionale alla migliore valutazione degli interessi
coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione
procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte
dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti
sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione,
salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il
piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione
complessiva analoga a una nuova adozione.
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre
distinguere tra
- modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e
- modifiche
‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”.
---------------
9. – Le varie questioni poste da parte ricorrente con i primi
tre motivi di ricorso ruotano intorno alla valenza del Piano
di Emergenza Esterno, approvato –con riferimento allo
stabilimento di Me.Pe. S.r.l.– dal Prefetto di Vibo Valentia in data
08.02.2018.
Giova, per intanto, premettere che la previsione impugnata
non vieta tout court l’esercizio di attività economiche
entro le linee di danno, né pone un vincolo di inedificabilità sull’area, ma si limita a prevedere il
divieto di “attività configurabili a elevato affollamento o
ricettività”.
Si tratta, dunque, di una norma precauzionale, volta,
evidentemente, ad agevolare le operazioni di soccorso ed
eventuale evacuazione in caso di incidente.
9.1. – Ebbene, l’esame degli artt. 21 e 22 d.lgs. n. 105 del
2015 non lascia dubbi sul fatto che il Comune di Vibo
Valentia fosse vincolato a recepire nel Piano Strutturale
Comunale le prescrizioni contenute nel PEE.
Il citato art. 21, infatti, attribuisce al PEE lo scopo, tra
l’altro, di controllare e circoscrivere gli incidenti in
modo da minimizzarne gli effetti e limitarne i danni per la
salute umana, per l'ambiente e per i beni; di mettere in
atto le misure necessarie per proteggere la salute umana e
l'ambiente dalle conseguenze di incidenti rilevanti, in
particolare mediante la cooperazione rafforzata negli
interventi di soccorso con l'organizzazione di protezione
civile.
Il PEE è adottato dal il Prefetto, d'intesa con le regioni e
con gli Enti locali interessati, sentito il CTR e previa
consultazione della popolazione.
L’art. 22, comma 9, poi, stabilisce che gli strumenti di
pianificazione territoriale e urbanistica recepiscono gli
elementi pertinenti del piano di emergenza esterna. A tal
fine, le autorità competenti in materia di pianificazione
territoriale e urbanistica acquisiscono tali elementi dal
Prefetto.
9.2. – In sostanza, la modifica dell’art. 27 del Regolamento
Edilizio e Urbanistico, censurato da parte ricorrente, non
rappresenta una reale scelta di pianificazione, ma
costituisce il vincolato recepimento, nel piano strutturale
comunale, delle prescrizioni contenute nel PEE.
Tale considerazione disinnesca, come è evidente, i primi tre
motivi di ricorso.
9.3. – Innanzitutto, non era necessario promuovere
nuovamente la partecipazione all’elaborazione del piano
strutturale comunale.
Infatti, con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed
eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la
giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011 n.
3497) ha avuto già modo di chiarire che essi risultano
strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione
dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività
di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso,
in particolare, la presentazione delle previste
osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve
essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva
modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di
osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche
introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata
dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di
un appesantimento incongruo, se non ad un effetto
paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la
partecipazione non più strumento di collaborazione e
funzionale alla migliore valutazione degli interessi
coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione
procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte
dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti
sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione,
salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il
piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione
complessiva analoga a una nuova adozione (Cons. Stato, Sez.
IV, 09.03.2011, n. 1503; Cons. Stato, Sez. IV., 13.03.2014, n. 1241; TAR Lombardia–Milano, Sez. II,
04.10.2016, n. 1803).
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre
distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”
(Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; cfr.,
altresì, TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 10.02.2021,
n. 374).
Applicando le coordinate giurisprudenziali sin qui
delineate, si può affermare che, se non si deve procedere
alla ripubblicazione allorché le modifiche siano derivate
dal momento di confronto con il pubblico oppure siano da
attribuire all’esercizio del controllo da parte dell’Ente
regionale, a maggior ragione non si deve dare luogo a
ripubblicazione allorché le modifiche o integrazioni al
piano strutturale comunale siano effetto di un obbligo di
conformazione, nella specie al PEE approvato dal Prefetto di
Vibo Valentia (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.12.2021 n. 2241 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Come già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato
rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle
modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di
approvazione del P.T.C.P. di ..., la scala provinciale
impone di considerare irrilevanti, ai fini della
ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino
singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle
modifiche, intervenute in sede di approvazione, che
investano settori circoscritti del territorio provinciale.
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella
fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di
osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento
delle indicazioni della Giunta regionale.
In tali casi può
trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della
legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il
procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo
strumento urbanistico generale comunale, può essere
analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di
pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La
ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in
caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni
e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali
…”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di
concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori
osservazioni.
---------------
In ordine, poi, al deteriore trattamento rispetto al Piano
adottato, nel caso di specie pare applicabile, a fortiori,
l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la
quale, in materia urbanistica, non opera il principio del
divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega
l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento)
della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale.
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dai
ricorrenti attengano al merito delle scelte
dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista
rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non
può trovare ingresso in questa sede.
---------------
5. Con la quinta censura si assume il peggioramento
della disciplina pianificatoria nella fase di approvazione
rispetto a quella di adozione, non seguito dalla
ripubblicazione del Piano e dalla possibilità per i
cittadini di intervenire nuovamente nel procedimento per
presentare le proprie osservazioni.
5.1. La doglianza non è fondata.
Come già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato
rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle
modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di
approvazione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza, la scala
provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della
ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino
singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle
modifiche, intervenute in sede di approvazione, che
investano settori circoscritti del territorio provinciale
(Consiglio di Stato, IV, 19.11.2018, nn. 6483 e 6484;
TAR Lombardia, Milano, II, 19.06.2015, n. 1432).
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella
fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di
osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento
delle indicazioni della Giunta regionale. In tali casi può
trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della
legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il
procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo
strumento urbanistico generale comunale, può essere
analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di
pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La
ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in
caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni
e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali
…”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di
concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori
osservazioni (TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n.
1433; 23.09.2016, n. 1700).
Peraltro, come già evidenziato nella sentenza di questa
Sezione 05.04.2017, n. 798, la Provincia di Monza e della Brianza ha chiarito che la superficie della Rete verde di
ricomposizione paesaggistica ha subito nel suo complesso un
incremento di circa il 16% (passando da 102 a poco più di
118 Kmq) da considerare assolutamente fisiologico e non in
grado di stravolgere le linee portanti del Piano; tale dato
non è stato contestato o messo in dubbio dai ricorrenti (TAR
Lombardia, Milano, II, 16.03.2020, n. 489).
In ordine, poi, al deteriore trattamento rispetto al Piano
adottato, nel caso di specie pare applicabile, a fortiori,
l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la
quale, in materia urbanistica, non opera il principio del
divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega
l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento)
della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV,
24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 14.12.2020, n. 2492;
07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018,
n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dai
ricorrenti attengano al merito delle scelte
dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista
rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non
può trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 10.12.2019, n.
2636; 20.08.2019, n. 1896).
5.2. Anche tale motivo va dunque respinto (TAR Lombardia-Milano, II,
sentenza 06.07.2021 n. 1656 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio,
la rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia, è
configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella
di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione.
Nella fattispecie, la modifica che il Comune ha introdotto
nel PGT di cui è causa, in seguito all’accoglimento di
osservazioni di terzi, non si traduce nella rielaborazione
complessiva del piano ma, al contrario, ha una portata
limitata, atteso che si risolve nell’accorpamento di due
ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito ATA4), al fine di agevolare
l’attuazione dell’ambito ARU7, con il mantenimento comunque
della previsione di specifiche capacità edificatorie per
ciascuno dei due ambiti accorpati.
La giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte –come nella fattispecie-
modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree.
E del resto, siccome nella vicenda di cui è causa, come
rilevato sopra, le modifiche al PGT introdotte in fase di
approvazione costituiscono il risultato dell’accoglimento
parziale di osservazioni presentate da terzi soggetti, trova
applicazione l’art. 13, comma 9, della l.r. n. 12/2005, a
tenore del quale “la deliberazione del consiglio comunale di
controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi
precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”. Né alcuna
disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per
la presentazione di ulteriori osservazioni.
---------------
2.1. Con il primo motivo la ricorrente deduce che la
modifica del PGT, introdotta in accoglimento parziale di
osservazioni presentate da terzi (il sig. Str. e la sig.ra
Ca.), avrebbe dovuto comportare la ripubblicazione del PGT
stesso nella parte modificata. Il Comune, omettendo tale
adempimento, avrebbe leso il diritto dei proprietari di
presentare osservazioni allo strumento urbanistico.
2.1.1. La censura non persuade.
Secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia, è
configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella
di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n.
2393/2017).
Nella fattispecie, la modifica che il Comune ha introdotto
nel PGT di cui è causa, in seguito all’accoglimento di
osservazioni di terzi, non si traduce nella rielaborazione
complessiva del piano ma, al contrario, ha una portata
limitata, atteso che si risolve nell’accorpamento di due
ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito ATA4), al fine di agevolare
l’attuazione dell’ambito ARU7, con il mantenimento comunque
della previsione di specifiche capacità edificatorie per
ciascuno dei due ambiti accorpati.
La giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte –come nella fattispecie-
modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 5769/2013;
C.d.S., Sez. IV, n. 4321/2012; C.d.S., Sez. IV, n.
6865/2011).
E del resto, siccome nella vicenda di cui è causa, come
rilevato sopra, le modifiche al PGT introdotte in fase di
approvazione costituiscono il risultato dell’accoglimento
parziale di osservazioni presentate da terzi soggetti, trova
applicazione l’art. 13, comma 9, della l.r. n. 12/2005, a
tenore del quale “la deliberazione del consiglio comunale
di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi
precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”. Né
alcuna disposizione di legge impone di concedere nuovi
termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (v.
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 564/2018; cfr. anche TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, n. 2393/2017; TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, n. 1700/2016).
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 30.06.2021 n. 1596 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla scorta di consolidato orientamento
giurisprudenziale, deve ritenersi che solo la rielaborazione
complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale,
avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso,
comporta la necessità della sua ripubblicazione: non è dato
ravvisare tale rielaborazione quando in sede di approvazione
vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree, quand’anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in
modo intenso sulla relativa destinazione.
---------------
Ritenuto che, salvo ogni ulteriore approfondimento nella sede di
merito anche in ragione della molteplicità delle questioni
in esame, il ricorso, allo stato della cognizione sommaria
propria della fase cautelare, non appare sostenuto da
apprezzabili prospettive di accoglimento;
Osservato, in particolare, che sulla scorta di consolidato
orientamento giurisprudenziale deve ritenersi che solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione: non è dato ravvisare tale
rielaborazione quando in sede di approvazione vengano
introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole
aree o singoli gruppi di aree, quand’anche queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla relativa destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; Tar Lombardia, Milano, Sez.
II, 02.02.2021, nr. 374; Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id.,
04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865) (TAR
Veneto, Sez. II,
ordinanza 28.05.2021 n. 234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può
parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase
di adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
Deve essere respinta anche la seconda doglianza, con la quale
l’esponente lamenta il difetto di partecipazione e di
motivazione dell’atto pianificatorio.
Sotto il primo profilo va evidenziato che “in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione. Va però osservato che può
parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase
di adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).” (TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 10.02.2021, n. 374).
Si tratta di un’ipotesi non riscontrabile nel caso di
specie, atteso che per quanto riguarda i Tessuti storici
l’amministrazione in fase di approvazione della variante ha
introdotto previsioni che vanno a specificare e
puntualizzare la disciplina già recata dal testo adottato
dal Consiglio comunale e non comportano una rivisitazione
complessiva del piano o degli obiettivi ivi perseguiti.
Né la censura può essere accolta sotto il profilo del
lamentato difetto di motivazione.
Va evidenziato al riguardo, preliminarmente, che la
ripartizione degli edifici in cinque classi, secondo le loro
specifiche caratteristiche, non risulta –in relazione alle
doglianze sollevate- aver arrecato uno specifico
pregiudizio all’esponente, atteso che la previsione di cui
lo stesso si lamenta, riferita ai limiti del sopralzo degli
edifici, trova applicazione per tutti gli immobili del
quartiere Chiusure, a prescindere dalla categoria di
appartenenza. Sicché in relazione al vizio dedotto il
ricorrente difetta di interesse (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.05.2021 n. 484 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ripubblicazione
del piano urbanistico.
Il TAR Milano precisa
che la pronuncia sulle osservazioni allo
strumento urbanistico adottato da parte
dell’organo consiliare o l’accoglimento di
pareri di enti sovraordinati non impone una
nuova pubblicazione, salvo che vengano
assunte modifiche tali da stravolgere il
piano e da comportare, nella sostanza, una
rielaborazione complessiva analoga a una
nuova adozione; può parlarsi di
stravolgimento o rielaborazione complessiva
del piano quando fra la fase di adozione e
quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento
radicale delle caratteristiche essenziali
del piano e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione.
Aggiunge poi il TAR che la ripubblicazione
del piano è considerata non necessaria
quando il Comune provvede al recepimento di
prescrizioni obbligatorie di enti
sovraordinati; al riguardo occorre
distinguere tra modifiche “obbligatorie”,
modifiche “facoltative” e modifiche
“concordate”; mentre per le modifiche
“facoltative” e “concordate”, ove superino
il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della
ripubblicazione da parte del Comune,
diversamente, per le modifiche
“obbligatorie” tale obbligo non sorge,
poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo
l’apporto collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte
pianificatorie operate in sede regionale e
comunale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.05.2021 n. 1267 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
6. Con il primo motivo di ricorso
(VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE
DELL’ARTICOLO 13 DELLA L.R. 12/2005. ECCESSO
DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA. VIZIO
DI PROCEDURA) la società lamenta
l’illegittimità del P.G.T. poiché questo non
è stato oggetto di ripubblicazione all’esito
dello stralcio dell’ambito ATR1.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. Innanzitutto, come già osservato dalla
giurisprudenza della Sezione (TAR Milano, Sez. II,
07.06.2017, n. 1281; Id., 12.11.2020, n. 2139), l’onere di
ripubblicazione del P.G.T. non è desumibile
dalla l.r. Lombardia 12/2005, la quale
all’art. 13 per converso prevede che «entro
novanta giorni dalla scadenza del termine
per la presentazione delle osservazioni, a
pena di inefficacia degli atti assunti, il
Consiglio comunale decide sulle stesse,
apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all’eventuale accoglimento delle
osservazioni» (comma 7), precisando che «la
deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali o
regionali di cui ai commi precedenti non è
soggetta a nuova pubblicazione» (comma 9).
Più in generale, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che la pronuncia sulle
osservazioni al piano adottato da parte
dell’organo consiliare o l’accoglimento di
pareri di enti sovraordinati non impone una
nuova pubblicazione, salvo che vengano
assunte modifiche tali da stravolgere il
piano e da comportare, nella sostanza, una
rielaborazione complessiva analoga a una
nuova adozione (Cons. Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503; Id., 13.03.2014, n.
1241; TAR Milano, Sez. II, 04.10.2016, n. 1803).
Va al contempo osservato che
può parlarsi di stravolgimento o
rielaborazione complessiva del piano quando
«fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti
tali da determinare un cambiamento radicale
delle caratteristiche essenziali del piano e
dei criteri che presiedono alla sua
impostazione» (cfr., ex plurimis, TAR
Milano, Sez. II, 23.09.2016, n. 1696; Id., 26.11.2018, n. 2677; Id., 12.08.2020 n. 1568; Id., 10.02.2021,
n. 374).
Con specifico riferimento ai piani
urbanistici dei Comuni, tale rielaborazione
complessiva non può ravvisarsi in modifiche
che «consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato
l’impianto originario, quand’anche queste
siano numerose sul piano quantitativo ovvero
incidano in modo intenso sulla destinazione
di singole aree o gruppi di aree» (Cons.
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839;
TAR Milano, Sez. II, 12.08.2020 n.
1568).
A ciò si aggiunga che la ripubblicazione del
piano è considerata non necessaria quando il
Comune provvede al recepimento di
prescrizioni obbligatorie di enti
sovraordinati.
In tal senso, il Consiglio di
Stato ha osservato che «occorre distinguere
tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto
delle previsioni del piano territoriale di
coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse
dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali e
archeologici, l’adozione di standard
urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali)
e modifiche ‘concordate’ (conseguenti
all’accoglimento di osservazioni presentate
al piano ed accettate dal Comune). Mentre
per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’,
ove superino il limite di rispetto dei
canoni guida del piano adottato, sussiste
l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche
‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge,
poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo
l’apporto collaborativo del privato,
superato e ricompreso nelle scelte
pianificatorie operate in sede regionale e
comunale» (Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; cfr., altresì, TAR Milano, Sez. II, 10.02.2021, n. 374). |
URBANISTICA:
Il Collegio rileva che per quanto concerne
l’asserito obbligo di ripubblicazione dello strumento
urbanistico generale nel presente caso lo stesso non
sussiste in quanto tale obbligo nasce solo in caso di
modifiche profonde dello stesso strumento urbanistico, come
statuito da condivisibile giurisprudenza secondo cui “una
ripubblicazione del piano è necessaria solo in caso di
modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree”.
---------------
2.1. - Col primo motivo di ricorso, i ricorrenti
deducono l’illegittimità degli atti impugnati in quanto gli
stessi sarebbero in contrasto con l’art. 32, comma 5, della
Legge regionale n. 20/2000, atteso che tali provvedimenti
hanno modificato le scelte originariamente compiute in sede
di adozione dello strumento urbanistico e, dunque, il Comune
“di questa sua decisione deve dare pubblica notizia,
provvedendo alla ripubblicazione del piano modificato. Il
che, peraltro, è stato deciso anche con la deliberazione di
che trattasi (si veda a pag. 11 della motivazione), con
riferimento ad un’area modificata nella sua destinazione con
la variante adottata; ma con una decisione censurata da questo Tar, che ha obbligato la Amministrazione Com.le a
rimotivare ancora la sua scelta….Stessa scelta, dunque,
avrebbe dovuto essere compiuta con riguardo alla nuova ed
innovativa previsione viabilistica, alla fine assunta.”.
2.2. - Il motivo è infondato.
Parte ricorrente, in apertura del ricorso, ricostruisce
l’iter pianificatorio svolto dal Comune di Parma con
riferimento alla strada di che trattasi.
In particolare, viene evidenziato nel ricorso che la strada
di nuova progettazione era già prevista nel PSC previgente,
risalente al 2006/2007, come strada urbana di collegamento
locale di tipologia F1, e, dunque, sempre come strada
esistente solo in progetto.
Con l’adozione della variante generale al PSC, la sopra
menzionata strada veniva eliminata per poi essere
reintrodotta in sede di esame delle osservazioni; in
particolare, vista l’osservazione d’ufficio, che ha
evidenziato l’opportunità di “valutare con il Servizio
Viabilità i tracciati delle viabilità esistenti e apportare,
ove necessario, adeguati correttivi”, è stato deciso di
modificare e riportare “in coerenza lo stato delle
previsioni viabilistiche non effettivamente attuate ad oggi”
e, dunque, in sede di approvazione finale della Variante
Generale, con la delibera del Consiglio Comunale di Parma n.
53 del 22.07.2019, di cui in epigrafe, è stata
introdotta nuovamente la strada di che trattasi, collegante
Via Europa con Strada Mezzo Moletolo, con la sua
trasformazione da strada urbana locale (tipologia F1) in
strada di categoria D.
Preso atto di tale sequenza di atti, i ricorrenti deducono
quale primo motivo di illegittimità, come detto sopra,
l’avvenuta mancata ripubblicazione del piano modificato
secondo le modalità previste dall’art. 32 della Legge
regionale n. 20/2000.
A tal riguardo, il Collegio osserva, innanzitutto, in punto
di fatto, che la strada di progetto in questione non è mai
stata eliminata dagli strumenti urbanistici vigenti, atteso
che la stessa risulta eliminata dal PSC adottato, ma non dal
PSC vigente e, soprattutto, risulta presente nella variante
generale al PSC come approvata, dove la strada viene
reintrodotta, e, dunque, in conclusione, la strada di che
trattasi risulta essere stata sempre presente negli
strumenti pianificatori vigenti.
Ciò premesso, il Collegio rileva che per quanto concerne
l’asserito obbligo di ripubblicazione dello strumento
urbanistico generale nel presente caso lo stesso non
sussiste in quanto tale obbligo nasce solo in caso di
modifiche profonde dello stesso strumento urbanistico, come
statuito da condivisibile giurisprudenza secondo cui “una
ripubblicazione del piano è necessaria solo in caso di
modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree” (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza n. 3806/2019).
Atteso il carattere di modifica minima del presente caso
(reinserimento di una singola strada) non sussisteva,
dunque, l’invocato obbligo di ripubblicazione della Variante
Generale al PSC (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 07.04.2021 n. 90 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Come
già osservato da questa Sezione con riguardo
al mancato rinnovato coinvolgimento degli
interessati in seguito alle modifiche
introdotte tra la fase di adozione e quella
di approvazione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza,
la scala provinciale impone di considerare
irrilevanti, ai fini della ripubblicazione,
non solo le modifiche che riguardino singole
aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle
modifiche, intervenute in sede di
approvazione, che investano settori
circoscritti del territorio provinciale.
Inoltre, va evidenziato come le
innovazioni introdotte nella fase di
approvazione sono il risultato
dell’accoglimento di osservazioni presentate
da altri soggetti e del recepimento delle
indicazioni della Giunta regionale.
In tali
casi può trovare applicazione la norma
dell’art. 13, co. 9, della l.r.
n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il
procedimento di approvazione del P.G.T.,
vale a dire lo strumento urbanistico
generale comunale, può essere analogicamente
applicata anche al P.T.C.P., quale atto di
pianificazione generale in ambito però
sovracomunale. La ridetta norma esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di
approvazione di “controdeduzioni alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali”.
Va, infine, osservato che nessuna
disposizione impone di concedere nuovi
termini per la presentazione di ulteriori
osservazioni.
---------------
13. Con la
sesta doglianza si assume il
peggioramento della disciplina pianificatoria nella fase di approvazione
rispetto a quella di adozione, non seguito
dalla ripubblicazione del Piano e dalla
possibilità per i cittadini di intervenire
nuovamente nel procedimento per presentare
le proprie osservazioni.
13.1. La doglianza non è fondata.
13.2. Come già osservato da questa Sezione
con riguardo al mancato rinnovato
coinvolgimento degli interessati in seguito
alle modifiche introdotte tra la fase di
adozione e quella di approvazione del
P.T.C.P. di Monza e della Brianza, la scala
provinciale impone di considerare
irrilevanti, ai fini della ripubblicazione,
non solo le modifiche che riguardino singole
aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle
modifiche, intervenute in sede di
approvazione, che investano settori
circoscritti del territorio provinciale
(TAR Lombardia, Milano, II, 19.06.2015, n.
1432).
Inoltre, va evidenziato come le
innovazioni introdotte nella fase di
approvazione sono il risultato
dell’accoglimento di osservazioni presentate
da altri soggetti e del recepimento delle
indicazioni della Giunta regionale. In tali
casi può trovare applicazione la norma
dell’art. 13, co. 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il
procedimento di approvazione del P.G.T.,
vale a dire lo strumento urbanistico
generale comunale, può essere analogicamente
applicata anche al P.T.C.P., quale atto di
pianificazione generale in ambito però
sovracomunale. La ridetta norma esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di
approvazione di “controdeduzioni alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali”.
Va,
infine, osservato che nessuna disposizione
impone di concedere nuovi termini per la
presentazione di ulteriori osservazioni
(TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 23.09.2016, n. 1700).
13.3. Peraltro, come già evidenziato nella
sentenza di questa Sezione 05.04.2017, n.
798, la Provincia di Monza e della Brianza
chiarisce che la superficie della Rete verde
subisce nel suo complesso un incremento di
circa il 16% (passando da 102 a poco più di
118 Kmq) da considerare assolutamente
fisiologico e non in grado di stravolgere le
linee portanti del Piano; tale dato non è
stato contestato o messo in dubbio dalla
ricorrente (TAR Lombardia, Milano, II,
16.03.2020, n. 489)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.04.2021 n. 877 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione
complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare
un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse
e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto,
l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del
PGT, prima di procedere all’approvazione.
A ciò si aggiunga che la ripubblicazione del piano non si
rendeva necessaria anche per l’ulteriore considerazione
dell’obbligatorietà del recepimento di talune delle indicazioni contenute nei pareri
degli enti sovracomunali.
Invero, “proprio con specifico riferimento all'obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell'approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
‘concordate’ (conseguenti all'accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e
comunale”.
---------------
4. Con il secondo motivo, le ricorrenti deducono che, a
seguito del recepimento dei pareri degli enti sovracomunali,
sarebbe stato necessario provvedere alla ripubblicazione
della variante, in ragione della numerosità e varietà degli
“aggiustamenti, integrazioni e modifiche” intervenuti, che
“finiscono per incidere in modo sostanziale sulla Variante
approvata e su alcuni degli obiettivi con la stessa
perseguiti”.
Il motivo è infondato.
Tutte le prescrizioni recepite in sede di approvazione della
variante che le ricorrenti indicano quali “modifiche
sostanziali” allo strumento urbanistico si risolvono, in
realtà, in modifiche di dettaglio o puntuali e comunque
limitate, non determinando mai una rivisitazione complessiva
del piano e degli obiettivi da esso perseguiti: ciò vale con
riguardo alla prescrizione (della ATS) che sia richiesto,
per l’utilizzo di aree dismesse, di documentare il rispetto
delle procedure di caratterizzazione; lo stesso dicasi in
riferimento alle prescrizioni di ARPA per minimizzare gli
effetti negativi sull’ambiente, tutte puntuali, senza che
sia scalfito l’impianto complessivo del piano; allo stesso
modo, la Regione Lombardia ha fornito indicazioni di
dettaglio per gli ambiti di trasformazione; parimenti,
l’ente Parco Lombardo Valle del Ticino ha richiesto
l’indicazione nelle tavole di piano di vincoli esistenti ex lege e si è trattato, in sostanza, di un recepimento
obbligatorio.
Con riferimento al parere della Città
Metropolitana di Milano, poi, le ricorrenti hanno solo
genericamente affermato che esso determinerebbe una profonda
modificazione dei criteri e obiettivi posti a base della
variante, senza tuttavia assolvere all’onere specifico di
allegazione dell’effettiva modifica, sicché l’affermazione
si risolve in una mera petizione di principio.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione
complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare
un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr.,
ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse
e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto,
l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del
PGT, prima di procedere all’approvazione.
A ciò si aggiunga che la ripubblicazione del piano non si
rendeva necessaria anche per l’ulteriore considerazione
dell’obbligatorietà –di cui si è detto sopra– del recepimento di talune delle indicazioni contenute nei pareri
(cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019,
n. 7839: “proprio con specifico riferimento all'obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell'approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
‘concordate’ (conseguenti all'accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre per le
modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e
comunale”) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.02.2021 n. 374 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Come già osservato da questa Sezione con
riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento
degli interessati in seguito alle modifiche
introdotte tra la fase di adozione e quella
di approvazione del P.T.C.P. di ..., la
scala provinciale impone di considerare
irrilevanti, ai fini della ripubblicazione,
non solo le modifiche che riguardino singole
aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle
modifiche, intervenute in sede di
approvazione, che investano settori
circoscritti del territorio provinciale.
Inoltre, va evidenziato come
le innovazioni introdotte nella fase di
approvazione sono il risultato
dell’accoglimento di osservazioni presentate
da altri soggetti e del recepimento delle
indicazioni della Giunta regionale.
In tali
casi può trovare applicazione la norma
dell’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il
procedimento di approvazione del P.G.T.,
vale a dire lo strumento urbanistico
generale comunale, può essere analogicamente
applicata anche al P.T.C.P., quale atto di
pianificazione generale in ambito però
sovracomunale. La ridetta norma esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di
approvazione di “… controdeduzioni alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”.
Va, infine, osservato che nessuna
disposizione impone di concedere nuovi
termini per la presentazione di ulteriori
osservazioni.
---------------
7. Con la sesta doglianza si assume
il peggioramento della disciplina
pianificatoria nella fase di approvazione
rispetto a quella di adozione, non seguito
dalla ripubblicazione del Piano e dalla
possibilità per i cittadini di intervenire
nuovamente nel procedimento per presentare
le proprie osservazioni.
7.1. La doglianza non è fondata.
Come già osservato da questa Sezione con
riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento
degli interessati in seguito alle modifiche
introdotte tra la fase di adozione e quella
di approvazione del P.T.C.P. di Monza e
della Brianza, la scala provinciale impone
di considerare irrilevanti, ai fini della
ripubblicazione, non solo le modifiche che
riguardino singole aree o gruppi di aree ma
anche tutte quelle modifiche, intervenute in
sede di approvazione, che investano settori
circoscritti del territorio provinciale
(TAR Lombardia, Milano, II, 19.06.2015, n. 1432).
Inoltre, va evidenziato come
le innovazioni introdotte nella fase di
approvazione sono il risultato
dell’accoglimento di osservazioni presentate
da altri soggetti e del recepimento delle
indicazioni della Giunta regionale. In tali
casi può trovare applicazione la norma
dell’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il
procedimento di approvazione del P.G.T.,
vale a dire lo strumento urbanistico
generale comunale, può essere analogicamente
applicata anche al P.T.C.P., quale atto di
pianificazione generale in ambito però
sovracomunale. La ridetta norma esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di
approvazione di “… controdeduzioni alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”.
Va,
infine, osservato che nessuna disposizione
impone di concedere nuovi termini per la
presentazione di ulteriori osservazioni
(TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 23.09.2016, n. 1700).
Peraltro, come già evidenziato nella
sentenza di questa Sezione 05.04.2017, n.
798, la Provincia di Monza e della Brianza
ha chiarito che la superficie della Rete
verde ha subito nel suo complesso un
incremento di circa il 16% (passando da 102
a poco più di 118 Kmq) da considerare
assolutamente fisiologico e non in grado di
stravolgere le linee portanti del Piano;
tale dato non è stato contestato o messo in
dubbio dalla ricorrente (TAR Lombardia,
Milano, II, 16.03.2020, n. 489).
7.2. Anche tale doglianza va dunque respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.12.2020 n. 2492 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Giusta il consolidato orientamento
giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede
di approvazione definitiva dello stesso, comporta la
necessità della sua ripubblicazione.
Va osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva
quando “fra la fase di adozione e
quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
5. Con il terzo motivo (rubricato sub 4 dalla ricorrente),
da un lato si afferma che la destinazione finale dell’area
della ricorrente dovrebbe essere intesa come “attrezzatura
turistica”, sulla base di alcune tavole del PGT (già meglio
indicate in narrativa) che colliderebbero con il documento
di Piano, nonché con il certificato di destinazione
urbanistica e ulteriori tavole del PGT; dall’altro lato, si
lamenta che sia stata omessa una ripubblicazione del PGT
adottato dopo che è stata assunta la nuova decisione di
azzonamento dell’area.
Quanto alle tavole di PGT da cui risulterebbe una diversa
destinazione, al di là del fatto che non è formulata una
specifica censura sotto questo profilo, ritiene il Collegio
che non sussista alcuna incertezza in ordine alla
destinazione boschiva impressa all’area, avuto riguardo al
certificato di destinazione urbanistica e al fatto che le
tavole indicate dalla ricorrente non riportano i confini
catastali delle aree, sicché l’ambiguità ipotizzata non è
nemmeno riscontrabile.
Quanto alla necessità di ripubblicazione del piano, il
Collegio richiama, condividendolo, il consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui solo la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità
della sua ripubblicazione. Va osservato che può parlarsi di
rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e
quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 26.11.2018, n.
2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non
sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in
variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato
l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul
piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839).
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse
e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto,
l’ente non era tenuto alla ripubblicazione del PGT, prima di
procedere all’approvazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
“Proprio con specifico riferimento all’obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre
distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l’adozione di standard
urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e
- modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”,
ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da
parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie”
tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, “la
necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene
ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della
procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una
sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono. Si tratta di orientamento seguito
anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale
la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
Ebbene, deve osservarsi in primo luogo che assume carattere
dirimente il disposto dell’art. 40, comma 4, lett. a), l.r.
n. 36/1997.
Secondo la norma menzionata, infatti, "acquisite le
osservazioni in ordine all’adottato progetto definitivo di
P.U.C. “limitatamente agli aspetti che costituiscono
sviluppo e completamento del progetto preliminare”, il
P.U.C. si intende approvato con la deliberazione con la
quale: a) il Consiglio comunale, entro sessanta giorni dalla
scadenza del termine di cui al comma 2, decide sulle
osservazioni presentate, fermo restando che le modifiche
apportate al P.U.C. in conseguenza del loro accoglimento non
comportano la necessità di procedere alla ripubblicazione
degli atti”.
La disposizione richiamata, infatti, è univoca nel disporre
che le modifiche eventualmente apportate al P.U.C. dal
Comune, a seguito del recepimento delle osservazioni sul
progetto definitivo (cui il TAR assimila il parere regionale
di cui alla d.G.R. n. 179/2008), non impongono la nuova
pubblicazione del Piano: ciò, evidentemente, in ossequio ad
evidenti esigenze di economia procedimentale, determinandosi
altrimenti, per effetto della presentazione “a catena”
di osservazioni e del loro accoglimento, la rinnovata e
ripetuta esigenza di riaprire la fase partecipativa.
Inoltre, come si è visto, il TAR propone una equiparazione
del parere regionale alle osservazioni dei privati,
affermando che, quando l’osservazione accolta non promani
dal suo promotore, si renda necessario attivare un nuovo
segmento partecipativo nei confronti dei proprietari
interessati.
Deve tuttavia osservarsi che il parere regionale, lungi dal
costituire espressione delle facoltà partecipative dei
privati, destinati a subire gli effetti autoritativi e
conformativi della programmazione urbanistica, rappresenta
la manifestazione del rapporto di cooperazione tra Enti
titolari di competenze distinte e concorrenti nel
procedimento di formazione degli strumenti urbanistici.
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame, la
competenza consultiva regionale risulta orientata, nel suo
concreto esercizio, a garantire la coerenza delle previsioni
del P.U.C. in itinere con le prescrizioni inderogabili del
P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza di una idonea
disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e paesistico
potesse pregiudicare le esigenze di conservazione dei tratti
paesaggistici delle aree interessate, così come recepite dal
piano sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a
salvaguardare le previsioni dettate dal P.T.C.P. in punto di
caratterizzazione delle aree de quibus che,
indipendentemente dalla loro riconducibilità –sostenuta
dalla Regione– alla richiamata previsione di cui all’art.
39, comma 7, l.r. n. 36/1997, esulano dal potere di
valutazione discrezionale comunale, afferente alla
disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui
definizione è funzionale la partecipazione dei privati.
Il carattere necessitato delle modifiche introdotte dal
Comune, in sede di recepimento delle prescrizioni di cui
alla d.G.R. n. 179/2008, induce quindi a fare applicazione
alla fattispecie in esame del principio giurisprudenziale
secondo cui (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7839 del
14.11.2019) “proprio con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in
quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici,
l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate”
(conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”,
ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da
parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie”
tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, va
richiamato il suddetto orientamento anche laddove afferma
che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque,
viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento
della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia
stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla
sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
12.03.2009, n. 1477; sez., 25.11.2003, n. 7782; sez. IV,
19.11.2018, n. 6484). Si tratta di orientamento seguito
anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale
la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra);
in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in
cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia,
sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I,
08.05.2017, n. 880)” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.11.2020 n. 7029 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il carattere necessitato delle modifiche introdotte dal
Comune, in sede di recepimento delle prescrizioni di cui
alla d.G.R. ..., induce quindi a fare applicazione alla
fattispecie in esame del principio giurisprudenziale secondo
cui “proprio con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra
- modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi),
- modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e
- modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, merita
richiamare il suddetto orientamento anche laddove afferma
che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque,
viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento
della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia
stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla
sua impostazione presiedono.
Infatti, la necessità di ripubblicazione si impone
allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da determinare un
cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
Deve adesso esaminarsi il motivo di appello inteso a
censurare la sentenza appellata nella parte in cui ha
accolto la doglianza avente ad oggetto la lamentata mancanza
della fase partecipativa (mediante la ripubblicazione del
progetto definitivo di P.U.C. e la raccolta delle relative
eventuali osservazioni) susseguente all’adeguamento del
progetto definitivo di P.U.C. ai rilievi regionali,
formulati con la d.G.R. n. 179/2008.
La censura è stata accolta dal giudice di primo grado, dopo
aver argomentato la tempestività, sulla base delle seguenti
considerazioni:
“si è chiarito come –in linea di principio– nulla osti a
che la Regione, prima dell’approvazione del puc, si esprima
definitivamente in un unico provvedimento sia in relazione
alle varianti al ptcp ex art. 69, sia in relazione
all’adottato progetto definitivo di puc, con specifico
riguardo alla sua compatibilità con i rilievi e le riserve
già (genericamente) formulati nel parere sul progetto
preliminare ex art. 39.
Sennonché, ove la Regione proceda in
tal modo, riservandosi di introdurre ulteriori prescrizioni
a completamento del parere sul progetto preliminare ed a
scioglimento delle riserve ivi espresse (nel caso di specie,
con la D.G.R. 26.02.2008, n. 179), pur dopo l’adozione del
progetto definitivo di puc (nel caso di specie, avvenuta con
deliberazione C.C. 06.12.2006, n. 71), essa deve nondimeno
obbligatoriamente rispettare la fase partecipativa di cui
all’art. 40 comma 3, che, per essere “effettiva” e
concludente, deve svolgersi sugli elaborati delle norme di
conformità e congruenza redatti “in forma completa”, cioè
definitiva (art. 40, comma 1, lett. a e b), anche –e,
verrebbe da dire, soprattutto- per quanto riguarda le
modifiche pregiudizievoli apportate al progetto preliminare
sulla base dei pareri regionale e provinciale. (…)
Nel caso
di specie, l’accoglimento dei rilievi formulati dalla
Regione con la deliberazione 26.02.2008, n. 179 ha comportato
la limitazione delle possibilità edificatorie ed il
condizionamento ad approvazione di puo regionale, nei
termini dedotti e riportati dalla narrativa in fatto. Al
riguardo, parte ricorrente, proprietaria direttamente incisa
dalle nuove previsioni, non è stata dunque posta in grado di
formulare osservazioni –ex art. 39, comma 3- su una
disciplina urbanistica introdotta a seguito dei rilievi di
un soggetto terzo (la Regione), che ha sicuramente inciso
notevolmente, in senso peggiorativo, sulle aree di
proprietà.
La disposizione di cui all’art. 40, comma 4,
lett. a), laddove prevede che le modifiche apportate al puc
in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni “non
comportano la necessità di procedere alla ripubblicazione
degli atti”, si riferisce con ogni evidenza all’accoglimento
delle osservazioni presentate dai soggetti direttamente
interessati (per i quali, a seguito dell’accoglimento, viene
–per così dire– a cessare la materia del contendere), non
certo alle osservazioni presentate da soggetti “terzi” (e,
tra questi, quelli istituzionali) rispetto ai proprietari
delle aree interessate dalla nuova disciplina. Né vale
sostenere l’inutilità della fase partecipativa, in relazione
al carattere obbligatorio delle prescrizioni introdotte
dalla Regione a tutela del territorio nella sua espressione paesistico-ambientale.
Sia in termini di principio a fronte
della natura delle determinazioni in questione, sia in
termini di dettaglio in quanto è pacifico che le aree di
proprietà delle società ricorrenti non fossero affatto
interessate da variante al ptcp, ed inoltre che la
disciplina delle zone ammettesse gli interventi paventati.
Si tratta di una valutazione di merito circa l’an ed il
quantum di nuova edificazione compatibile con il carattere
sparso dell’insediamento, di carattere eminentemente
discrezionale (e dunque non vincolata, ancorché vincolante
per i piani sottordinati), sicché non può trovare
applicazione la sanatoria giurisprudenziale ex art.
21-octies, comma 2, L. n. 241/1990”.
Osserva la Regione appellante, in vista della riforma in
parte qua della sentenza appellata, che le modifiche
apportate dal Comune successivamente alla fase di
pubblicità-partecipazione non necessitavano, per espressa
disposizione dell’art. 40, comma 4, lett. a), di ulteriore
pubblicazione in funzione partecipativa.
Deduce altresì che essa, con la d.G.R. n. 179/2008, ha
dettato le indicazioni prescrittive per gli aspetti
paesistico-ambientali, che ai sensi dell’art. 39, comma 7,
l.r. n. 36/1997, così come vigente ratione temporis, hanno
carattere vincolante (“Il parere espresso dalla Regione a
norma del comma 4 ha carattere vincolante con esclusivo
riferimento alle indicazioni prescrittive del P.T.R. di cui
all’articolo 13, comma 1, lettere b) e c)”).
Rileva altresì che, con il parere sul progetto preliminare
di P.U.C., era stato posto in evidenza che la disciplina
urbanistica proposta, per l’assenza di specifiche regole di
intervento, potesse comportare concentrazioni insediative
tali da superare i limiti posti dal Piano paesistico,
determinando un impegno edificatorio di carattere diffuso e
uniforme in contrasto con le possibilità di intervento
consentite dal regime di mantenimento degli esistenti
insediamenti sparsi (ISMA).
Ebbene, deve osservarsi in primo luogo che assume carattere
dirimente il disposto dell’art. 40, comma 4, lett. a), l.r.
n. 36/1997.
Secondo la disposizione menzionata, infatti, acquisite le
osservazioni in ordine all’adottato progetto definitivo di
P.U.C. “limitatamente agli aspetti che costituiscono
sviluppo e completamento del progetto preliminare”, il P.U.C. si intende approvato con la deliberazione con la
quale: "a) il Consiglio comunale, entro sessanta giorni dalla
scadenza del termine di cui al comma 2, decide sulle
osservazioni presentate, fermo restando che le modifiche
apportate al P.U.C. in conseguenza del loro accoglimento non
comportano la necessità di procedere alla ripubblicazione
degli atti”.
La disposizione richiamata, infatti, è univoca nel disporre
che le modifiche eventualmente apportate al P.U.C. dal
Comune, a seguito del recepimento delle osservazioni sul
progetto definitivo (cui il TAR assimila il parere regionale
di cui alla d.G.R. n. 179/2008), non impongono la nuova
pubblicazione del Piano: ciò, evidentemente, in ossequio ad
evidenti esigenze di economia procedimentale, determinandosi
altrimenti, per effetto della presentazione “a catena” di
osservazioni e del loro accoglimento, la rinnovata e
ripetuta esigenza di riaprire la fase partecipativa.
Inoltre, come si è visto, il TAR propone una equiparazione
del parere regionale alle osservazioni dei privati,
affermando che, quando l’osservazione accolta non promani
dal suo promotore, si renda necessario attivare un nuovo
segmento partecipativo nei confronti dei proprietari
interessati.
Deve tuttavia osservarsi che il parere regionale, lungi dal
costituire espressione delle facoltà partecipative dei
privati, destinati a subire gli effetti autoritativi e
conformativi della programmazione urbanistica, rappresenta
la manifestazione del rapporto di cooperazione tra Enti
titolari di competenze distinte e concorrenti nel
procedimento di formazione degli strumenti urbanistici.
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame, la
competenza consultiva regionale risulta orientata, nel suo
concreto esercizio, a garantire la coerenza delle previsioni
del P.U.C. in itinere con le prescrizioni inderogabili del
P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza di una idonea
disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e paesistico,
concernente le aree afferenti al comparto agricolo, potesse
pregiudicare le esigenze di conservazione dei tratti
paesaggistici delle stesse, così come recepite dal piano
sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a
salvaguardare le prescrizioni dettate dal P.T.C.P. in punto
di caratterizzazione delle aree de quibus come di
insediamento sparso che, indipendentemente dalla loro
riconducibilità –sostenuta dalla Regione– alla richiamata
previsione di cui all’art. 39, comma 7, l.r. n. 36/1997,
esulano dal potere di valutazione discrezionale comunale,
afferente alla disciplina di carattere strettamente
urbanistico, alla cui definizione è funzionale la
partecipazione dei privati.
Il carattere necessitato delle modifiche introdotte dal
Comune, in sede di recepimento delle prescrizioni di cui
alla d.G.R. n. 179/2008, induce quindi a fare applicazione
alla fattispecie in esame del principio giurisprudenziale
secondo cui (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7839 del
14.11.2019) “proprio con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che
occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche
“concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni
presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le
modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il
limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato,
sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del
Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale
obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, merita
richiamare il suddetto orientamento anche laddove afferma
che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque,
viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento
della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia
stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento
delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla
sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr.
anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018,
n. 6484).
Infatti, la necessità di ripubblicazione si impone
allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da determinare un
cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa
parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in
sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che
riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di
aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel
caso in cui le modifiche consistano in variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”.
Ebbene, tale situazione corrisponde proprio a quella
verificatasi nella specie, in quanto le prescrizioni
limitative censurate incidono appunto sulle aree agricole,
senza determinare alcun “cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione”.
Né, infine, varrebbe osservare che le prescrizioni regionali
hanno contenuto discrezionale, non derivando da un puntuale
contrasto dello strumento urbanistico comunale rispetto al
P.T.C.P., in quando il citato orientamento evidenzia che “è
proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale
nei suoi contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle
scelte pianificatorie originarie del Comune, ovviamente
coinvolto nel procedimento, senza necessità di un
azzeramento della procedura con conseguente nuova
pubblicazione del Piano” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.11.2020 n. 6944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Giusta
consolidata giurisprudenza in materia, “Alla regione è
consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare
modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di
pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici”.
Invero, “l'intervento della Regione nel procedimento di approvazione
dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le
fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della tutela "puntiforme"
del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del
territorio, non comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano
regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né
implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati
interessati.
Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce
risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento
urbanistico introdotte d'ufficio dall'Amministrazione regionale, ai fini
specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la
necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di
approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso,
inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10,
comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di un unico
procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla
programmazione generale del territorio”.
È stato altresì riconosciuto che “le modifiche d'ufficio al Piano
Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e), della L. n. 1150/1942,
sono sempre ammesse ai fini specifici della tutela del paesaggio e
dell'ambiente in coerenza con l'interesse pubblico, sancito dalla legge,
della salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio e tale
potere della Regione non soggiace al limite concernente il divieto di
innovazioni sostanziali posto dalla prima parte della norma citata”.
Ancora, in via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della
disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della L. n. 1150 del
1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede di approvazione del piano
regolatore generale, è autorizzata a introdurre direttamente le modifiche e
prescrizioni inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle opere e
degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela del paesaggio e di
complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici; al rispetto
delle ipotesi in cui è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di
pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché ai rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza
alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi, senza necessità
di porre in essere una procedura ad hoc di adeguamento”.
---------------
3. Quanto al ricorso RG n. 767/2014, con il primo ed il secondo
motivo, che vengono trattati insieme per ragioni di connessione
oggettiva, la ricorrente lamenta la violazione degli art. 15, 17, 29 e 30
della LRP n. 56/1977, nonché dell’art. 96 del RD n. 523/1904 e dell’art. 133
del RD n. 368/1904, degli artt. 142 e ss. del D.Lgs. n. 42/2004 e dell’art. 3
della L. n. 241/1990, oltre che eccesso di potere per carenza di istruttoria
e difetto di motivazione.
In sostanza l’apposizione della fascia di rispetto di 25 m, voluta dalla
Regione e recepita dal Comune, non trova fondamento normativo nelle
disposizioni che disciplinano la materia.
L’art. 29 della LRP n. 56/1977 (così
come modificata nel 2013), nel normare le fasce di rispetto di sponde dei
laghi, dei fiumi, dei torrenti, dei canali e dei rii prevede: al comma 1
lett. c), la fascia di 25 m “dal piede esterno degli argini maestri, per
fiumi, torrenti e canali arginati, ad esclusione dei canali che
costituiscono rete di consorzio irriguo o mera rete funzionale
all'irrigazione, i quali non generano la fascia di cui al presente comma,
fatta salva la dimostrata presenza di condizioni di pericolosità
geomorfologica e idraulica” ed al comma 4 che le imposizioni delle fasce
suddette “non si applicano negli abitati esistenti, e comunque
nell'ambito della loro perimetrazione, se difesi da adeguate opere di
protezione”.
Parte ricorrente, pertanto sostiene che: il Naviglio di Bra, essendo un
canale irriguo (gestito da Consorzio irriguo), non poteva soggiacere a tali
limiti e in nessun documento istruttorio si fa parola di situazioni di
particolare pericolosità geomorfologica ed idraulica; il canale, almeno
nella parte di interesse della ricorrente, attraversa il centro abitato del
capoluogo e, pertanto, cadrebbe nella previsione di cui al comma 4 dell’art.
29; tale articolo, infine, attiene alla sicurezza geomorfologica, al pari
dell’art. 96 del RD n. 523/1904 e dell’art. 133 del RD n. 368/1904 (che
prevedono fasce di 10 m. dai corsi d’acqua e che residualmente avrebbero
dovuto trovare applicazione).
In ogni caso tale normativa nulla ha a che fare con le motivazioni
paesaggistiche che, invece, la Regione (ed il Comune in fase di recepimento)
ha addotto per introdurre la fascia di rispetto più rigorosa. Peraltro
l’art. 142 del D.Lgs. n. 42/2004, che contiene la disciplina delle aree
tutelate ex lege per ragioni paesaggistiche, contempla fasce di
rispetto (per 150 m.) ma solo per corsi d’acqua diversi da quelli in
argomento (peraltro la documentazione tecnica comunale, in particolare
l’elaborato R1 alla Variante di revisione generale, non lo contempla tra le
norme applicabili al Naviglio di Bra).
La ricorrente evidenzia, infine, che, nel tratto urbano interessato da tale
vincolo, sussistono costruzioni poste a meno di 10 m. (incluse quelle di
proprietà della ricorrente). Peraltro le NTA approvate dal Comune, all’art.
61, non recherebbero neanche la motivazione con riferimento alle esigenze di
natura paesaggistica (avendo la Regione, in sede di approvazione, stralciato
la nota che vi faceva riferimento): da qui la carenza di motivazione.
Le censure non sono condivisibili ed il motivo non è fondato.
La Regione Piemonte, nelle proprie memorie difensive, evidenzia come il
Naviglio di Bra:
a) per il suo tratto cittadino costituisca l’unico ricettore acque di
pioggia che scolano dalla collina a Nord di via Brizio-Viale della
Costituzione ed il suo regime idraulico abbia un forte impatto sulla
capacità di smaltimento delle acque che interessano la zona Nord del centro
abitato e la frazione Bandito di Bra;
b) per il resto evidenzia come lo stesso canale fosse segnalato come zona di
interesse storico e paesaggistico sin dalle relazioni preliminari alla
variante al PRGC (il Settore Urbanistico Territoriale di Cuneo, esaminando
la pratica, segnalava che “[…] Il predetto Naviglio, con le relative aree
di relazione visiva tra insediamento e contesto, risultava segnalato dal
Piano Paesaggistico Regionale, adottato dalla Giunta regionale nel 2009
(vigente all’epoca dei fatti), come sistema irriguo costituente elemento del
patrimonio rurale storico (articoli 25 e 31 delle N.T.A. del P.P.R.). La
presenza dei vincoli di inedificabilità, ex art. 29 della LUR, così come
definiti e confermati dalla Variante 2006, assumeva un ruolo importante ai
fini della tutela del paesaggio agrario, in particolare nelle aree
periferiche al capoluogo e nella pianura pollentina (paesaggio fluviale
dello Stura e del Tanaro); inoltre, nello stesso capoluogo, il Naviglio
esercitava anche una funzione di separazione tra i settori urbani a
destinazione residenziale e gli ambiti a destinazione terziario/produttiva
che si riteneva necessario preservare”).
Il Piano Paesaggistico Regionale all’epoca vigente (adottato con DGR
53-11975 del 04.08.2009), tra le componenti e le unità di paesaggio,
individuava i sistemi irrigui di rilevanza storico culturale inserendoli tra
i beni del Patrimonio rurale storico (art. 25) e tra quelli a valenza
percettivo–identitaria (relazioni visive tra insediamento e contesto – Art.
31), tra i quali era inserito anche il naviglio di Bra. L’Ufficio regionale,
nella propria relazione, proponeva pertanto di “ripristinare,
indipendentemente dai disposti degli artt. 29 e 30 della L.R. 56/1977, ma
per motivazioni di carattere paesaggistico-ambientale, la previsione di
fasce di rispetto spondale con profondità di m. 25 per lato lungo il
Naviglio di Bra […] a N/O del capoluogo, nel tratto situato tra Strada del
Falchetto e la Tangenziale ovest […]”.
L’azione della Regione, pertanto, non può dirsi affetta né da difetto di
istruttoria né da carenza di motivazione. Gli atti citati nella
pianificazione e nella deliberazione regionale, infatti, evidenziano da un
lato come la decisione di applicare le fasce di rispetto più restrittive
prenda le mosse da un’istruttoria compiuta sin dalle fasi preliminari
dell’approvazione del PRGC e, dall’altro, prescinda dal ristretto ambito
applicativo delle norme in materia di sicurezza idraulica ed operi in
coerenza con le previsioni del Piano Paesaggistico Regionale all’epoca
vigente (adottando misure di salvaguardia che, peraltro, se sacrificano le
possibilità di allineamento delle edificazioni esistenti con quelle che
eventualmente dovessero vedere la luce nel rispetto dei nuovi limiti, non
minano il complesso degli interessi della ricorrente non riducendone la
capacità edificatoria complessiva).
Che la Regione abbia questo tipo di potere di intervento è, peraltro,
riconosciuto da consolidata giurisprudenza in materia. “Alla regione è
consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare
modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di
pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (C. Stato, sez. IV,
17.09.2013, n. 4614).
Ed ancora: “l'intervento della Regione nel procedimento di approvazione
dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le
fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della tutela "puntiforme"
del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del
territorio, non comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano
regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né
implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati
interessati.
Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce
risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento
urbanistico introdotte d'ufficio dall'Amministrazione regionale, ai fini
specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la
necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di
approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso,
inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10,
comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di un unico
procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla
programmazione generale del territorio” (Cons. Stato Sez. II, 14/11/2019, n.
7839).
È stato altresì riconosciuto che “le modifiche d'ufficio al Piano
Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e), della L. n. 1150/1942,
sono sempre ammesse ai fini specifici della tutela del paesaggio e
dell'ambiente in coerenza con l'interesse pubblico, sancito dalla legge,
della salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio e tale
potere della Regione non soggiace al limite concernente il divieto di
innovazioni sostanziali posto dalla prima parte della norma citata” (TAR
Sicilia Palermo Sez. II, 04/11/2019, n. 2535; cfr. conf. Cons. giust. amm.
Sicilia, sent. 18/11/2009, n. 1098, TAR Lombardia Milano Sez. II Sent.,
24/11/2006, n. 2487, TAR Lombardia Sez. II, 14/09/2005, n. 3630).
Ancora, in via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della
disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della L. n. 1150 del
1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede di approvazione del piano
regolatore generale, è autorizzata a introdurre direttamente le modifiche e
prescrizioni inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle opere e
degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela del paesaggio e di
complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici; al rispetto
delle ipotesi in cui è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di
pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché ai rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza
alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi, senza necessità
di porre in essere una procedura ad hoc di adeguamento” (Cons. Stato Sez. IV
Sent., 01/12/2011, n. 6349, conforme TAR Puglia Lecce Sez. I, 31/07/2006, n.
4071).
In considerazione, pertanto, del corretto assolvimento degli obblighi
istruttori e motivazionali e dell’esercizio di un potere pacificamente
riconosciuto, i primi due motivi di ricorso non sono fondati
(TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 14.09.2020 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’eventualità che le previsioni del piano
urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione
definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel
piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al
procedimento di formazione del suddetto strumento
urbanistico, che per l'appunto contempla, all'atto
dell'approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti
in conseguenza dell'accoglimento delle osservazioni
pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le
modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche
essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di
impostazione, si rende necessario riprendere da capo il
relativo procedimento di formazione;
l’eventuale necessità di “ripubblicazione” del Piano, come
la giurisprudenza riconosce, sorge solo a seguito di apporto
di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di
Piano.
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello
secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano
solo quando, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni
presentate dopo l'adozione, vi sia stata una “rielaborazione
complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle
sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono
alla sua impostazione”.
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del Piano adottato; solo nell'ipotesi in cui vi
sia stata una “rielaborazione complessivamente innovativa”
del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione
è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione,
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
---------------
I motivi sono infondati.
Lo scrutinio delle censure formulate da parte ricorrente non
può prescindere dal preliminare richiamo dei principi
elaborati dalla dominante giurisprudenza in materia di
pianificazione.
In particolare la condivisibile giurisprudenza ha ritenuto
che l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico
comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva,
delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano
adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento
di formazione del suddetto strumento urbanistico, che per
l'appunto contempla, all'atto dell'approvazione definitiva,
la possibilità di cambiamenti in conseguenza
dell'accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto,
soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte
incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento
stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende
necessario riprendere da capo il relativo procedimento di
formazione (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 06.03.2019,
n. 375, TAR Sardegna, Sez. II, 22.01.2013, n. 45);
l’eventuale necessità di “ripubblicazione” del Piano, come
la giurisprudenza riconosce (TAR Valle d'Aosta n. 61 del
27.10.2017, TRGA Trento 05.05.2015, n. 182,
Consiglio di Stato, sez. IV, 26.02.2013, n. 1182),
sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da
mutare radicalmente l'impostazione di Piano (TAR
Sardegna, Cagliari, Sez. II, 24.07.2019, n. 672).
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello
secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano
solo quando, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni
presentate dopo l'adozione, vi sia stata una “rielaborazione
complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle
sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono
alla sua impostazione” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id.,
31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492).
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del Piano adottato; solo nell'ipotesi in cui vi
sia stata una “rielaborazione complessivamente innovativa”
del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione
(TAR Campania, Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510 e sez. VIII,
07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la
procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non
sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano
in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l'impianto originario, quand’anche queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(TAR Valle d'Aosta, Sez. I, 27.10.2017, n. 61,
Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame il
Collegio osserva che, se è pur vero che l’osservazione
contrassegnata con il n. 48 nella nota prot. n. 1967 del 21.02.2017 risulta qualificata quale osservazione
espressamente presentata dal servizio tecnico, e in quanto
tale deve ritenersi irrituale e atipica, è altrettanto vero
che essa, contrariamente a quanto sostenuto da parte
ricorrente, non è frutto di una proposta effettuata solo dal
RUP, risultando in atti che le 14 osservazioni sono state
comunque sottoposte alla valutazione del Responsabile
Tecnico del Piano (R.T.P.), cui la nota prot. n. 6435 del 15.07.2016, contenente le medesime osservazioni, è stata
inviata a mezzo PEC; R.T.P. che, come espressamente
rappresentato nella suddetta nota prot. n. 1967 del 21.02.2017 (punto n. 3 dell’ultimo periodo a pag. 4), ha
supportato il RUP nella fase istruttoria, supporto
“concretizzatosi nell’elaborazione condivisione della fase
istruttoria finalizzata all’analisi e alla valutazione delle
osservazioni pervenute.”.
Deve, quindi, ritenersi che il RUP si sia limitato ad una
mera proposta, poi oggetto di valutazione ed approvazione,
unitamente alle altre osservazioni, da parte della Giunta
Comunale con la deliberazione n. 24 del 23.02.2017 poi
recepite con la definitiva approvazione PUC dal Consiglio
Comunale con la Deliberazione n. 5 del 29.01.2019.
Alla luce di quanto sopra esposto ed alla luce delle sopra
richiamata giurisprudenza, deve evidenziarsi che parte
ricorrente con il quarto motivo di ricorso si è limitata ad
affermare apoditticamente che le 14 osservazioni proposte
dall’Ufficio Tecnico di cui all’osservazione contrassegnata
con il n. 48 della nota prot. n. 1967 del 21.02.2017,
aventi ripercussioni sul suolo di sua proprietà in quanto
confinante su un bene confiscato, avrebbero stravolto il
Piano adottato.
Pertanto, non ha provato, come era suo
onere, che le proposte di modificazione formulate dal RUP
(espressione della compagine politica che è succeduta a
quella che ha adottato il PUC), che la G.C. e il C.C. hanno
poi approvato in via definitiva, abbiano determinato
modifiche che attengono all'impostazione generale del PUC e
che, in quanto tali, avrebbero richiesto una nuova
pubblicazione al fine di garantire la partecipazione dei
privati e, pertanto, della stessa ricorrente; quest’ultima
si è infatti limitata a contestare nel merito la scelta
dell’amministrazione unicamente in riferimento alla modifica
della destinazione di zona di parte dei suoli di sua
proprietà.
Né dalla documentazione prodotta in giudizio ed in
particolare dalla nota contenente le 14 osservazioni
proposte dal RUP, il Collegio può evincere che le suddette
modifiche incidano sull’impostazione generale del PUC (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 17.02.2020 n. 728 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La quaestio iuris va anzitutto esaminata alla
luce dell'orientamento giurisprudenziale che è costante nel
ritenere necessaria la ripubblicazione del Piano allorché,
in un qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva, e
cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che alla sua impostazione presiedono.
Al riguardo, “… devesi escludere che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”.
Inoltre, <<con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell'approvazione, che occorre distinguere le
- modifiche "obbligatorie" (in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali e archeologici, l'adozione di standards
urbanistici minimi) da
- quelle "facoltative" (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e da
- quelle "concordate" (conseguenti all'accoglimento di
osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre, infatti, per le modifiche "facoltative" e "concordate",
ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da
parte del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie"
non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in
esame>>.
---------------
2. Il secondo motivo, con il quale l’esponente si
duole dell’omessa ripubblicazione del Piano, non è passibile
di positivo scrutinio.
2.1 La quaestio iuris va anzitutto esaminata alla
luce dell'orientamento giurisprudenziale che è costante nel
ritenere necessaria la ripubblicazione del Piano allorché,
in un qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva, e
cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. TAR
Veneto, sez. I – 08/04/2019 n. 421, che richiama i
precedenti dell’organo di appello; Consiglio di Stato, sez.
IV – 19/11/2018 n. 6484, che ha richiamato l’indirizzo per
il quale si “… esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”).
2.2 Le modifiche introdotte dal Comune sono consequenziali
(e limitate) all’apposizione del vincolo diretto e
indiretto, che non ha determinato sensibili alterazioni
delle linee fondamentali dello strumento attuativo.
Nello specifico, la superficie lorda di pavimento è rimasta
invariata (cfr. controdeduzione all’osservazione n. 1) e
come sostenuto dalla stessa ricorrente nell’esposizione in
fatto si registra una risistemazione degli standard, con
monetizzazione del verde pubblico e riduzione dei parcheggi
previsti.
Peraltro, dal raffronto tra la planimetria generale dei 2
progetti, adottato e approvato (doc. 17 e 18 Comune)
traspare –quale unica innovazione– il mantenimento della
Cascina secondo le indicazioni della Soprintendenza, mentre
la restante conformazione del Piano permane sostanzialmente
inalterata.
2.3 Non va sottaciuto altresì il consolidato orientamento
per cui <<con specifico riferimento all’obbligo di
ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che
possono essere introdotte dalla Regione al momento
dell'approvazione, che occorre distinguere le modifiche "obbligatorie"
(in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici,
l'adozione di standards urbanistici minimi) da quelle "facoltative"
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle "concordate"
(conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate dal Comune). Mentre, infatti, per le
modifiche "facoltative" e "concordate", ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte
del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie"
non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.>>
(TAR Piemonte, sez. I – 13/07/2018 n. 871, che richiama
Consiglio di Stato, sez. IV – 15/04/2013 n. 2029).
La fattispecie è sussumibile nell’alveo delle modifiche “obbligatorie”,
non soggette a ripubblicazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 05.12.2019 n. 1027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
URBANISTICA: Rielaborazione
di uno strumento urbanistico.
Da un esame testuale dell'art. 34,
comma 5, del dlgs 267/2000 si ricava che la mancata ratifica
del Consiglio comunale, nei successivi
trenta giorni, dell’adesione del Sindaco
all’Accordo (di Programma) determina l’inefficacia di quest’ultima (si utilizza l’espressione “a
pena di decadenza”), intendendosi
sottolineare come nessun effetto –ossia la
variazione degli strumenti urbanistici–
possa determinarsi in ragione di tale
mancata ratifica consiliare. La
disposizione, invece, non si occupa affatto
della perdurante efficacia o validità degli
atti prodromici all’adesione
(sottoscrizione) del Sindaco e alla delibera
consiliare di ratifica, unici atti che
perdono la loro efficacia e non possono più
essere “recuperati”.
Il regime giuridico
degli atti endoprocedimentali va ricondotto
alle regole che riguardano l’attività
amministrative in generale, e quella
pianificatoria in particolare. Nel caso in
cui l’atto finale sia invalido o inefficace
per ragioni non riconducibili ad atti
presupposti, questi ultimi restano
pienamente validi o efficaci e anzi, per
ragioni legate all’economicità e alla
tempestività dell’azione amministrativa,
devono essere, se possibile, conservati al
fine di consentire all’Amministrazione di
concludere in maniera finalmente corretta il
procedimento avviato e non portato a termine
legittimamente.
Del resto, diversamente opinando, si
imporrebbe, in ipotesi, la riedizione di una
serie di attività e di procedimenti che
potrebbero rivelarsi quali meri doppioni,
puramente ripetitivi, di quelli già
effettuati, che riporterebbero gli stessi
esiti di quelli in precedenza già svolti.
Nel
caso in cui il potere di adottare quel
determinato atto permanga in capo ad un
determinato organo (o soggetto) sarà quest’ultimo,
attraverso una valutazione di opportunità, a
stabilire se, intendendo riattivare il
procedimento non concluso regolarmente o
interrottosi anzitempo, avvalersi dei
risultati e degli approdi cui è giunta
l’attività istruttoria in precedenza
effettuata, al limite aggiornandola e
adeguandola rispetto alle esigenze
sopravvenute.
----------------
Con riguardo alla necessità di
una ripubblicazione del Piano Urbanistico, legata ad un
asserito stravolgimento di quest’ultimo in
fase di approvazione, va sottolineato che,
sebbene, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento
di pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporti la necessità della sua
ripubblicazione, va tuttavia osservato che
ricorre una tale ipotesi allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua
impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, si esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano,
quando, in sede di approvazione, vengano
introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi
di aree e quando tali modifiche discendono
dall’accoglimento di osservazioni formulate
dalle parti intervenute che non incidano in
modo intenso sulla destinazione impressa in
fase di adozione.
---------------
4. Passando all’esame del merito del
ricorso, lo stesso non è meritevole di
accoglimento.
5. Con la prima censura si assume
l’illegittimità dell’Accordo di programma
sottoscritto dalle parti resistenti, in
quanto il procedimento di approvazione dello
stesso, avviato nel luglio del 2007 e
riavviato nel novembre del 2016, dopo una
prima battuta d’arresto, sarebbe viziato per
inefficacia degli atti presupposti, poiché
la mancata positiva conclusione
dell’originario procedimento, dovuta alla
non approvazione dello stesso da parte del
Consiglio comunale di Milano, avrebbe reso
necessaria una integrale rinnovazione della
procedura, con il riconoscimento di una
nuova fase partecipativa e di pubblicità,
non potendosi tenere ferme le risultanze in
precedenza acquisite, siccome travolte e
rese inefficaci dalla mancata approvazione
dell’accordo originario.
5.1. La doglianza, sebbene ammissibile, è
infondata nel merito.
Va premesso, riprendendo quanto già
specificato nella parte in fatto, che il
Sindaco del Comune di Milano, in data 27.07.2007, ha avviato la procedura per la
sottoscrizione di un Accordo di programma
con la Regione Lombardia, la Società
Ferrovie dello Stato Italiane e i soggetti
privati proprietari degli ambiti interessati
all’intervento, finalizzato alla
trasformazione urbanistica, in variante
rispetto alla pianificazione all’epoca in
vigore, delle aree ferroviarie dismesse e in
dismissione, denominate Scalo Farini, Scalo
Romana, Scalo e Stazione di Porta Genova,
Scalo Basso di Lambrate, parte degli Scali
Greco – Breda e Rogoredo ed aree ferroviarie
di San Cristoforo, in correlazione con il
potenziamento del sistema ferroviario in
ambito comunale.
In esecuzione di tale
attività sono stati posti in essere tutti
gli adempimenti prodromici e necessari per
giungere alla sottoscrizione dell’Accordo e
renderlo efficace.
Nel corso della procedura
di approvazione dell’Accordo di Programma,
il Comune di Milano ha avviato e poi
concluso, in data 22.05.2012, il
procedimento di approvazione del P.G.T., le
cui norme transitorie hanno previsto la
prosecuzione del procedimento relativo
all’Accordo di Programma, ivi stabilendosi
che la trasformazione degli ambiti
ferroviari dismessi dovesse avvenire a mezzo
di un accordo di programma unitario.
Tuttavia, successivamente alla validazione,
in data 08.07.2015, da parte della
Conferenza dei Rappresentanti, dell’ipotesi
di accordo predisposta dalla Segreteria
Tecnica, poi sottoscritta da tutte le parti,
il Consiglio comunale non ha provveduto alla
sua ratifica nei termini previsti dall’art.
34, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000,
determinandone la decadenza.
Con le delibere
del Consiglio comunale n. 27 del 07.07.2016 e n. 44 del 14.11.2016, sono
state dettate delle linee di indirizzo in
merito all’Accordo di programma non
concluso, confermando l’interesse alla sua
approvazione; di conseguenza, la Conferenza
dei Rappresentanti ha preso atto di tali
indirizzi ed ha dato mandato alla Segreteria
Tecnica di avviare un’istruttoria
finalizzata alla rivisitazione dell’Accordo
di Programma, in linea con gli obiettivi
definiti all’atto della sua promozione (all.
14a del Comune).
In data 20.06.2017,
dopo la richiesta di adesione da parte del
soggetto privato proprietario delle aree
interessate dall’Accordo, la Conferenza dei
Rappresentanti ha approvato il testo finale
dell’Accordo, poi sottoscritto da tutte le
parti in data 22-23.06.2017 e ratificato
dal Consiglio comunale con la delibera n. 19
del 13.07.2017; da ultimo, l’Accordo è
stato approvato con decreto del Presidente
della Regione Lombardia n. 754 in data 01.08.2017, a seguito di delibera della
Giunta regionale n. 6772 del 22.06.2017.
5.2. Secondo la tesi dell’Associazione
ricorrente, la sottoscrizione dell’Accordo
da parte del Sindaco di Milano in data 08.07.2015, non ratificata dal Consiglio
comunale nei termini previsti dall’art. 34,
comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000,
avrebbe determinato la decadenza degli
effetti dell’Accordo, unitamente
all’inefficacia di tutti gli atti
endoprocedimentali assunti, con la
conseguente impossibilità di conservazione
degli stessi e la necessità di una integrale
riedizione della procedura.
La prospettazione della ricorrente non
appare meritevole di accoglimento.
Da un esame testuale del citato art. 34,
comma 5, si ricava che la mancata ratifica
del Consiglio comunale, nei successivi
trenta giorni, dell’adesione del Sindaco
all’Accordo determina l’inefficacia di
quest’ultima (si utilizza l’espressione “a
pena di decadenza”), intendendosi
sottolineare come nessun effetto –ossia la
variazione degli strumenti urbanistici–
possa determinarsi in ragione di tale
mancata ratifica consiliare. La
disposizione, invece, non si occupa affatto
della perdurante efficacia o validità degli
atti prodromici all’adesione
(sottoscrizione) del Sindaco e alla delibera
consiliare di ratifica, unici atti che
perdono la loro efficacia e non possono più
essere “recuperati”.
Il regime giuridico
degli atti endoprocedimentali va ricondotto
alle regole che riguardano l’attività
amministrative in generale, e quella
pianificatoria in particolare. Nel caso in
cui l’atto finale sia invalido o inefficace
per ragioni non riconducibili ad atti
presupposti, questi ultimi restano
pienamente validi o efficaci e anzi, per
ragioni legate all’economicità e alla
tempestività dell’azione amministrativa,
devono essere, se possibile, conservati al
fine di consentire all’Amministrazione di
concludere in maniera finalmente corretta il
procedimento avviato e non portato a termine
legittimamente (cfr. Consiglio di Stato, IV,
01.07.2013, n. 3542; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2016, n. 5512).
Del resto,
diversamente opinando, si imporrebbe, in
ipotesi, la riedizione di una serie di
attività e di procedimenti che potrebbero
rivelarsi quali meri doppioni, puramente
ripetitivi, di quelli già effettuati, che
riporterebbero gli stessi esiti di quelli in
precedenza già svolti (cfr., con riferimento
ad un accordo di programma in materia
urbanistica, TRGA, Bolzano, 10.02.2017, n. 59; 24.01.2017, n. 30).
Nel
caso in cui il potere di adottare quel
determinato atto permanga in capo ad un
determinato organo (o soggetto) sarà quest’ultimo,
attraverso una valutazione di opportunità, a
stabilire se, intendendo riattivare il
procedimento non concluso regolarmente o
interrottosi anzitempo, avvalersi dei
risultati e degli approdi cui è giunta
l’attività istruttoria in precedenza
effettuata, al limite aggiornandola e
adeguandola rispetto alle esigenze
sopravvenute.
Nella fattispecie oggetto di scrutinio
nessuna delle parti dell’Accordo ha
manifestato una volontà contraria alla
conservazione delle risultanze emerse nella
pregressa fase procedimentale e, in ogni
caso, tali esiti sono stati implementati con
i dovuti aggiornamenti, anche per adeguarli
alle sopravvenute esigenze correlate
all’approvazione del P.G.T., avvenuta nel
2012.
In tal senso va sottolineato che se
rispetto al P.R.G. del 1980, vigente
all’atto della proposta di Accordo di
Programma, risalente all’anno 2007, non vi
era conformità tra i due strumenti, tanto da
risultare necessaria un procedura di
variante al Piano regolatore, al momento del
riavvio del procedimento finalizzato
all’approvazione dell’Accordo, ossia
nell’anno 2016, il P.G.T. vigente, all’art.
31.3 delle Norme di Attuazione del Piano
delle regole ha stabilito che “agli Accordi
di Programma di cui all’art. 34 del D.Lgs.
267/2000 e di cui all’art. 6 della L.R.
2/2003, già vigenti alla data di adozione
del PGT o per i quali, alla stessa data,
siano stati istituiti rispettivamente, la
Conferenza dei rappresentanti, ovvero il
Comitato per l’Accordo di Programma, si
applicano le previsioni pianificatorie
contenute negli Accordi di programma
medesimi sino al loro completamento” (cfr.
all. 15 del Comune).
Ciò risulta confermato
altresì dall’art. 5.1.1.4 delle Norme di
Attuazione del Documento di Piano, secondo
cui “gli Ambiti di Trasformazione ATU Farini
– Lugano, ATU Greco – Breda, ATU Lambrate,
ATU Romana, ATU Rogoredo, ATU Porta Genova e
ATU San Cristoforo si attuano attraverso un
accordo di programma unitario che disciplina
la trasformazione di tutte le aree citate,
associando l’insieme complessivo degli
interventi urbanistici al potenziamento e
alla riqualificazione del sistema
ferroviario milanese e del trasporto
pubblico su ferro, anche mediante il
reimpiego delle plusvalenze derivanti dalla
valorizzazione delle aree” (all. 16 del
Comune).
Trattandosi di Accordo conforme, anzi
attuativo, e non in variante rispetto alle
previsioni urbanistiche vigenti, nessuna
ulteriore fase di partecipazione risultava
obbligatoria, essendo tale requisito
procedurale già soddisfatto in sede di
approvazione dello strumento urbanistico
generale. Pur in assenza di alcun obbligo di
partecipazione, gli Uffici hanno comunque
proceduto a rivalutare le osservazioni
esistenti, integrando e aggiornando le
controdeduzioni alle medesime già formulate
in precedenza (all. 8 al ricorso).
La
limitata portata delle modifiche discendenti
dalla rivalutazione delle osservazioni, non
avendo alterato l’impianto complessivo
dell’Accordo, non determina alcun obbligo di
ripubblicazione dell’atto di pianificazione:
la parte ricorrente, pur assumendo la
sussistenza di significative modifiche –quali “l’estensione del mix funzionale di
destinazioni in ogni Ambito dove è prevista
edificazione (con specifiche percentuali che
tengono conto della vocazione dell’area)”,
la “previsione di quote minime di edilizia
convenzionata e sociale in ogni zona dove è
prevista nuova edificazione”, “la prevista
semplificazione nella procedura di
attuazione degli interventi, anche mediante
l’eliminazione dei comparti urbanistici e
l’attuazione autonoma per ogni Ambito” e la
“mutata perimetrazione di alcune aree”– non
ha supportato tale affermazione con elementi
in grado di dimostrare l’avvenuto
stravolgimento delle linee portanti
dell’Accordo come inizialmente concepito.
In
ogni caso, con riguardo alla necessità di
una ripubblicazione del Piano, legata ad un
asserito stravolgimento di quest’ultimo in
fase di approvazione, va sottolineato che,
sebbene, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento
di pianificazione territoriale, avvenuta in
sede di approvazione definitiva dello
stesso, comporti la necessità della sua
ripubblicazione, va tuttavia osservato che
ricorre una tale ipotesi allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione
(cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei
Comuni, si esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano,
quando, in sede di approvazione, vengano
introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi
di aree e quando tali modifiche discendono
dall’accoglimento di osservazioni formulate
dalle parti intervenute che non incidano in
modo intenso sulla destinazione impressa in
fase di adozione (cfr. Consiglio di Stato,
IV, 08.07.2019, n. 4779; 04.12.2013,
n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865; TAR Lombardia,
Milano, II, 06.05.2019, n. 1021; 17.04.2019, n. 868).
Da ciò discende l’infondatezza della
scrutinata doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.11.2019 n. 2500 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che
la ripubblicazione del piano urbanistico, comunale o
sovracomunale, si impone solo laddove si configuri una
rielaborazione complessiva, tale da incidere sui criteri che
hanno presieduto all’impostazione del medesimo piano.
Né può parlarsi di rielaborazione, laddove le disposizioni
modificative riguardino la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree
---------------
2). Con il motivo sub 2) la ricorrente lamenta la
violazione degli obblighi di trasparenza e pubblicità. In
proposito, la stessa sostiene che sussisteva un obbligo di
ripubblicazione dello strumento urbanistico in presenza di
modifiche apportate al piano abbiano determinato un
mutamento essenziale del suo contenuto.
Anche su questo punto il Collegio non condivide il profilo
di doglianza.
Risulta in atti che :
a). risulta in atti che la delibera di approvazione della IV
Variante è stata pubblicata (cfr., BUR n. 121/2015 e
all’albo pretorio).
b). la possibilità di realizzare chioschi sulla spiaggia è già
stata prevista dalla variante (III variante).
c). la delibera ha rinviato a un futuro regolamento per la
disciplina delle attività economiche;
d). in ogni caso, non sussisteva obbligo di ripubblicazione.
La giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che
la ripubblicazione del piano urbanistico, comunale o
sovracomunale, si impone solo laddove si configuri una
rielaborazione complessiva, tale da incidere sui criteri che
hanno presieduto all’impostazione del medesimo piano. Né può
parlarsi di rielaborazione, laddove le disposizioni
modificative riguardino la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, sez. I, 17.03.2017, n. 671; sez. IV, 12.02.2013, n. 845 e 11.09.2012, n. 4806) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
II,
sentenza 14.11.2019 n. 874 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Necessità della ripubblicazione del PGT.
Il TAR Milano, con riguardo alla
necessità di una ripubblicazione del PGT, legata ad un
asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di
approvazione, sottolinea che, sebbene, in base ad un
consolidato orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità
della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre
una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e
quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche
essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua
impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude
che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano
quando, in sede di approvazione, vengano introdotte
modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree; in tali casi trova applicazione la
norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del
2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso
di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce
della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza,
avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non
risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o
delle sue linee portanti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 868 - massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Con la seconda doglianza si assume che il Piano,
attraverso lo stralcio del RCC18, sarebbe stato modificato e
ciò avrebbe dovuto condurre ad una ripubblicazione dello
stesso, al fine di consentire alla parte interessata di
interloquire sul nuovo assetto urbanistico.
3.1. La doglianza è infondata.
In primo luogo, si deve sottolineare come nessuno
stravolgimento del Piano risulta essere stato posto in
essere, considerato che destinazione a zona agricola della
proprietà dei ricorrenti non ha prodotto effetti così
rilevanti sull’assetto territoriale complessivo, o almeno
ciò non è stato oggetto di inequivoca dimostrazione; in tal
modo è stato altresì garantito un minore consumo di suolo
complessivo.
In ogni caso, con riguardo alla necessità di una
ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito
stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va
sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione
complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale,
avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso,
comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia
osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la
fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR
Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì,
19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude
che si possa parlare di rielaborazione complessiva del
piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte
modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o
singoli gruppi di aree, come avvenuto nella fattispecie
de qua (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n.
5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma
9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di
“… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento
delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Tale
disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della
interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza,
avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non
risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o
delle sue linee portanti (TAR Lombardia, Milano, II,
04.04.2019, n. 751; 26.11.2018, n. 2677).
3.2. Ciò determina il rigetto della predetta censura (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La quaestio iuris va esaminata alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione del piano allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva
del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione.
Ciò posto, ben può escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri
termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le
modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque
ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche
queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano
in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi
di aree.
---------------
2. Con il primo motivo di gravame l’esponente ha lamentato la
violazione degli artt. 8 e 9 l. urbanistica, nonché degli
artt. 42 e segg. l.r. 27.06.1985 n. 61 ed eccesso di
potere.
Parte ricorrente evidenzia che per costante giurisprudenza
amministrativa il PRG deve essere “ripubblicato” in presenza
di proposte di modifica (d’ufficio o non) per consentire ai
privati di formulare le proprie osservazioni. Ancorché la
legge urbanistica regionale non preveda esplicitamente la
“ripubblicazione” delle proposte di modifica al piano
regolatore (prevista specificamente dall’art. 42 l.r.
61/1985 per la “prima adozione”) sarebbe di tutta evidenza
che le finalità garantistiche dell’istituto verrebbero
vanificate se il principio non dovesse applicarsi anche alle
proposte di modifica.
Peraltro, argomenta il ricorrente, nel caso in esame non ci
si troverebbe di fronte a modifiche d’ufficio introdotte
dalla Regione ai sensi dell’art. 45 bensì all’approvazione
del piano con proposte di modifica ai sensi dell’art. 46
l.r. 61/1985. Osserva il ricorrente che le proposte di
modifica formulate dalla Regione interesserebbero numerose
altre aree del territorio comunale (non solo quella di
proprietà del ricorrente), specie nelle frazioni. Inoltre,
la stessa Regione ha avuto cura di precisare che la variante
del PRG non può essere considerata di carattere generale, ma
una serie di varianti parziali: dunque, la necessità di
“ripubblicazione” sarebbe, secondo quanto esposto, ancora
più pregnante.
La circostanza che il Comune non si sia avvalso dei poteri
di controdedurre in ordine alle proposte di modifica non
può, in tesi, risolversi in danno dei privati; la
pubblicazione sarebbe stata comunque necessaria per il
carattere sostanziale delle singole modifiche proposte.
2.1. Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene che la distinzione evocata dal
ricorrente, fra modiche d’ufficio introdotte dalla Regione ex
art. 45 della legge reg. Veneto n. 61/1985 e proposte di
modifica ai sensi del successivo art. 46, risulta inconferente in relazione alla tematica dell’obbligo di
ripubblicazione.
La quaestio iuris va invece esaminata alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione del piano allorché, in un
qualunque momento della procedura che porta alla sua
approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva
del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; Cons. Stato sez. IV, 25.11.2003, n.
7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza
di prime cure, secondo la quale la necessità di
ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione: cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677.
Ciò posto, ben può escludersi che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cit.
Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484); in altri
termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le
modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque
ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche
queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano
in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi
di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I,
08.05.2017, n. 880).
Nel caso in esame il ricorrente ha in particolare lamentato
(cfr. pag. 8 del ricorso) che le proposte di modifica
formulate dalla Regione interesserebbero numerose altre aree
del territorio comunale (e non solo quella di proprietà del
ricorrente) e (cfr. pag. 8 delle memorie depositate in data
15.06.2018 e 15.02.2019) che le modifiche non
sarebbero limitate al rigetto dell’osservazione del
ricorrente volta ad ottenere una seppur modesta estensione
dell’area residenziale individuata dal Comune, ma hanno
comportato la completa eliminazione della destinazione
residenziale, riclassificando l’area del ricorrente come
“zona A centro storico”.
Non risultando comprovata una rielaborazione complessiva del
piano stesso, id est un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione presiedono, il motivo è privo di base (TAR
Veneto, Sez. I,
sentenza 08.04.2019 n. 421 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Necessità
di ripubblicazione del PGT.
Secondo il prevalente
orientamento giurisprudenziale, è necessaria
la ripubblicazione del piano solo
nell’ipotesi di rielaborazione complessiva,
cioè quando “fra la fase di adozione e
quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento
radicale delle caratteristiche essenziali
del piano e dei criteri che presiedono alla
sua impostazione”.
Invero, non si configura una rielaborazione
complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengono introdotte modifiche
che riguardano la disciplina di singole aree
o singoli gruppi di aree.
Nel caso concreto, il cambiamento della
destinazione discende dal recepimento del
parere della Provincia di compatibilità del
PGT con il PTCP, per cui la ripubblicazione
è espressamente esclusa dall’invocato art 13
della L.R. 12/2005, che al comma 9, così
recita “la deliberazione del consiglio
comunale di controdeduzione alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui
ai commi precedenti non è soggetta a nuova
pubblicazione”.
---------------
1) Il presente ricorso è stato proposto
avverso gli atti di pianificazione, a
seguito dei quali alcune delle aree di
proprietà del Sig. Da.Si., ubicate nel
Comune di Clivio, in via ..., sono state
classificate come zona agricola e boschiva,
passando dalla pregressa destinazione che le
classificava in parte zona residenziale da
consolidare con ambiti sottoposti a piano
esecutivo.
Come emerge dalla ricostruzione in fatto, la
modifica è stata introdotta in sede di
approvazione, a seguito del recepimento del
parere della provincia di Varese; nel piano
adottato l’area era stata invece inserita in
ambito AT8 con destinazione residenziale.
2) Nel primo motivo parte ricorrente
lamenta la violazione delle norme in materia
di partecipazione, in particolare della
disciplina di cui all’art. 13 e segg. L.R.
12/2005 (punto 1.1 del ricorso), nonché il
difetto di motivazione e di istruttoria
(punto 1.2.).
2.1 Quanto al primo profilo, sostiene
il ricorrente che la trasformazione della
destinazione delle aree sarebbe avvenuta in
maniera unilaterale, senza una nuova
pubblicazione del piano, precludendo in tal
modo la possibilità di presentare nuove
osservazioni.
Il motivo non è fondato.
Secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale, è necessaria la
ripubblicazione del piano solo nell’ipotesi
di rielaborazione complessiva, cioè quando “fra
la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione”
(cfr., TAR Milano, (Lombardia), sez. II,
23/09/2016, n. 1696 e TAR Toscana, I,
17.11.2011, n. 1736).
Non si configura una rielaborazione
complessiva del piano quando in sede di
approvazione vengono introdotte modifiche
che riguardano la disciplina di singole aree
o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012,
n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
Nel caso concreto il ricorrente non solo non
indica con precisione quali modifiche
abbiano determinato uno stravolgimento del
Piano, da cui discenderebbe l'obbligo di
ripubblicazione, ma si limita a rilevare che
la destinazione della propria area è mutata.
Tra l’altro il cambiamento della
destinazione discende dal recepimento del
parere della Provincia di compatibilità del
PGT con il PTCP, per cui la ripubblicazione
è espressamente esclusa dall’invocato art 13
della L.R. 12/2005, che al comma 9, così
recita “la deliberazione del consiglio
comunale di controdeduzione alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui
ai commi precedenti non è soggetta a nuova
pubblicazione” (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 16.11.2018 n. 2593 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sebbene, in base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede
di approvazione definitiva dello stesso, comporti la
necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato
che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del Piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma
9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di
“… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”. Va, poi, osservato
che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini
per la presentazione di ulteriori osservazioni.
---------------
4. Passando all’esame del merito del ricorso R.G. n.
122/2013, lo stesso è infondato.
5. Con le tre doglianze di ricorso, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume
l’illegittima approvazione del P.G.T. in considerazione
delle rilevanti modificazioni intervenute nel corso del
procedimento, che avrebbero imposto la ripubblicazione del
Piano adottato, unitamente alla penalizzazione riservata
all’attività di allevamento suinicolo svolta dai ricorrenti,
attraverso una modificazione della destinazione urbanistica
che non avrebbe tenuto conto delle preesistenze, legate alla
vocazione storica del compendio, denominato “Podere Grande
Foreste”, sito in località Triulza.
5.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
Quanto alla necessità di una ripubblicazione del Piano,
legata ad un asserito stravolgimento dello stesso in fase di
approvazione, va sottolineato, in primo luogo, che i
ricorrenti non hanno dimostrato né l’entità (al di là della
mera indicazione dei numeri delle osservazioni accolte e
respinte), né l’impatto dei mutamenti, tali da richiedere il
predetto obbligo di ripubblicazione.
Inoltre, sebbene, in base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno
strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede
di approvazione definitiva dello stesso, comporti la
necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato
che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di
adozione e quella di approvazione siano intervenuti
mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del Piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR
Lombardia, Milano, II, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la
giurisprudenza esclude che si possa parlare di
rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di
approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma
9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la
necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di
“… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”. Va, poi, osservato
che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini
per la presentazione di ulteriori osservazioni (TAR
Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 564; 15.12.2017, n.
2393) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.08.2018 n. 1945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il Collegio deve rammentare che la possibilità di
introdurre d’ufficio modifiche al piano regolatore generale,
da parte della Autorità preposta alla approvazione
definitiva di esso, era ed è ancor oggi previsto, in via
generale, dall’art. 10 della L. 1150/1942.
La ricordata norma, nella
interpretazione che ne dà la giurisprudenza, comporta che
l’Autorità competente per la approvazione dello strumento
urbanistico generale –nel caso di specie ed all’epoca dei
fatti: la Regione– può introdurre d’ufficio tutte le
modifiche indicate alle lett. a), b), c) e d), dell’art. 10
comma 2, L. 1150/1942, a prescindere dalla portata di esse e
dalla loro idoneità ad alterare le caratteristiche generali
ed i criteri di impostazione del Piano.
Tali modifiche, tra l’altro, non abbisognano di una
particolare e diffusa motivazione.
E’ stato inoltre affermato “con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, che occorre distinguere le
modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standards urbanistici minimi) da quelle “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle “concordate”
(conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate dal Comune).
Mentre, infatti, per le modifiche “facoltative” e “concordate”,
ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da
parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie”
non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
---------------
12. Il ricorso non può essere accolto.
13. In via preliminare e di diritto il Collegio deve
rammentare che la possibilità di introdurre d’ufficio
modifiche al piano regolatore generale, da parte della
Autorità preposta alla approvazione definitiva di esso, era
ed è ancor oggi previsto, in via generale, dall’art. 10
della L. 1150/1942, il quale, ai comma 2, 3 e 4, stabilisce
quanto segue: “Con lo stesso decreto di approvazione
possono essere apportate al piano, su parere del Consiglio
superiore dei lavori pubblici e sentito il Comune, le
modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, tali
cioè da mutare le caratteristiche essenziali del piano
stesso ed i criteri di impostazione, le modifiche
conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate con deliberazione del Consiglio comunale,
nonché quelle che siano riconosciute indispensabili per
assicurare:
a) il rispetto delle previsioni del piano territoriale di
coordinamento a norma dell'articolo 6, secondo comma;
b) la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli
impianti di interesse dello Stato;
c) la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici;
d) l'osservanza dei limiti di cui agli articoli 41-quinquies, sesto
e ottavo comma e 41-sexies della presente legge.
Le modifiche di cui alla lettera c) sono approvate sentito
il Ministro per la pubblica istruzione, che può anche
dettare prescrizioni particolari per singoli immobili di
interesse storico-artistico. Le proposte di modifica, di cui
al secondo comma, ad eccezione di quelle riguardanti le
osservazioni presentate al piano, sono comunicate al Comune,
il quale entro novanta giorni adotta le proprie
controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale
che, previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è
trasmessa al Ministero dei lavori pubblici nei successivi
quindici giorni”.
13.1. La ricordata norma nella interpretazione che ne dà la
giurisprudenza comporta che l’Autorità competente per la
approvazione dello strumento urbanistico generale –nel caso
di specie ed all’epoca dei fatti: la Regione– può introdurre
d’ufficio tutte le modifiche indicate alle lett. a), b), c)
e d), dell’art. 10 comma 2, L. 1150/1942, a prescindere
dalla portata di esse e dalla loro idoneità ad alterare le
caratteristiche generali ed i criteri di impostazione del
Piano (sul punto si vedano, ad esempio, le pronunce del
Consiglio di Stato sez. IV, 19/01/2000, n. 245 e sez. IV,
19/07/2004, n. 5207; sez. IV, 30/09/2002, n. 4984).
Tali modifiche, tra l’altro, non abbisognano di una
particolare e diffusa motivazione (Consiglio di Stato, sez.
IV, 19/01/2000, n. 245; TAR Roma, (Lazio), sez. II,
07/01/2010, n. 80).
E’ stato inoltre affermato “con specifico riferimento
all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al
momento dell’approvazione, che occorre distinguere le
modifiche “obbligatorie” (in quanto
indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni
del piano territoriale di coordinamento, la razionale
sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello
Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici,
monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di
standards urbanistici minimi) da quelle “facoltative”
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle “concordate”
(conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al
piano ed accettate dal Comune).
Mentre, infatti, per le modifiche “facoltative” e “concordate”,
ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del
piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da
parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie”
non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto
collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle
scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale,
come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.”
(C.d.S. Sez. IV n. 2029 del 15.04.2013) (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 13.07.2018 n. 871 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Modifiche al PGT in sede di accoglimento delle osservazioni
e obblighi di ripubblicazione del PGT.
Pur interpretando restrittivamente il
disposto di cui all’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005, che esclude la necessità di nuova
pubblicazione in caso di approvazione di controdeduzioni
alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni
provinciali e regionali, laddove ci si trovi, in sede di
approvazione, al cospetto di una rielaborazione complessiva
del piano, discendente dall’introduzione di modifiche non
riguardanti la disciplina di singole aree o singoli gruppi
di aree, ma riferibili all’intero territorio comunale,
risulta necessario procedere ad una ripubblicazione dello
stesso al fine di consentire ai soggetti pregiudicati dalle
modifiche e anche agli Enti sovraordinati di poter fornire
il loro rinnovato apporto procedimentale.
---------------
Lo stravolgimento delle linee portanti del Piano avrebbe
reso necessaria anche la reiterazione del procedimento di
V.A.S. (valutazione ambientale strategica).
Difatti, considerato che la finalità della predetta
valutazione ambientale è quella di stabilire l’impatto
sull’ambiente di piani e programmi, l’obbligo di ripetere la
V.A.S. si rende necessario allorquando si prospettano
modificazioni, apportate allo strumento adottato, tali da
determinare un maggior impatto sull’ambiente delle scelte di
Piano, trattandosi di misure destinate a rendere meno
efficace la tutela ambientale prevista nel Piano
originariamente adottato.
---------------
4. Con la seconda doglianza si assume l’illegittimità
del P.G.T., in quanto il numero di osservazioni accolte
avrebbe snaturato le originarie linee guida poste alle base
dello stesso e avrebbe di conseguenza richiesto la
rinnovazione della fase di pubblicazione e l’effettuazione
di un nuovo procedimento di valutazione ambientale
strategica (V.A.S.).
4.1. La doglianza è fondata.
Le parti ricorrenti hanno affermato –rinviando all’allegato
X alla delibera di approvazione del P.G.T. (all. 4 al
ricorso)– che in sede di esame delle osservazioni e
controdeduzioni sono state accolte numerose osservazioni (63
su 161 totali) che hanno determinato un aumento del consumo
di suolo e del carico insediativo, con una sensibile
riduzione degli spazi a servizi previsti dal Piano dei
Servizi (oltre 9.300 mq). Tale circostanza non è stata
efficacemente smentita dalla difesa comunale e quindi, anche
ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., la stessa
può essere posta a fondamento della decisione.
Tra le osservazioni accolte vi è anche quella che ha
stabilito l’equiparazione dell’attività agricola alle altre
attività produttive, attraverso una modifica dell’art. 29,
comma 1, delle N.t.A. del Piano delle Regole, che tuttavia
appare in contrasto con l’art. 59, comma 1, della legge
regionale n. 12 del 2005 che consente, nelle aree destinate
all’agricoltura, esclusivamente la presenza di “opere
realizzate in funzione della conduzione del fondo e
destinate alle residenze dell’imprenditore agricolo e dei
dipendenti dell’azienda, nonché alle attrezzature e
infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento
delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile”
e non anche di interventi costruttivi correlati a funzioni
differenti rispetto a quelle legate allo svolgimento di
attività di natura agricola. Sempre in sede di esame delle
osservazioni è stata accolta anche la richiesta di
eliminazione del divieto di insediare i nuovi allevamenti
zootecnici a meno di cento metri dagli edifici extra
agricoli o dalle strutture agrituristiche (art. 29, comma 6,
delle N.t.A. del Piano delle Regole), con gravi
ripercussioni sull’igiene e la qualità degli insediamenti di
natura residenziale.
Tali penetranti modifiche dei principi ispiratori e delle
linee portanti del Piano adottato avrebbero imposto la
ripubblicazione dello stesso, atteso che le modifiche
introdotte hanno comportato uno stravolgimento dello
strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi
stessi criteri ispiratori, che ne hanno alterato l’impianto
originario (cfr. Consiglio di Stato, IV, 14.03.2018, n.
1614); del resto, pur interpretando restrittivamente il
disposto di cui all’art. 13, comma 9, della legge regionale
n. 12 del 2005, che esclude la necessità di nuova
pubblicazione in caso di approvazione di “…
controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”, laddove ci si
trovi, in sede di approvazione, al cospetto di una
rielaborazione complessiva del Piano, discendente
dall’introduzione di modifiche non riguardanti la disciplina
di singole aree o singoli gruppi di aree, ma riferibili
all’intero territorio comunale, risulta necessario procedere
ad una ripubblicazione dello stesso al fine di consentire ai
soggetti pregiudicati dalle modifiche e anche agli Enti
sovraordinati di poter fornire il loro rinnovato apporto
procedimentale (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n.
5769; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 564).
4.2. Lo stravolgimento delle linee portanti del Piano
avrebbe reso necessaria anche la reiterazione del
procedimento di V.A.S. (valutazione ambientale strategica).
Difatti, considerato che la finalità della predetta
valutazione ambientale è quella di stabilire l’impatto
sull’ambiente di piani e programmi, l’obbligo di ripetere la
V.A.S. si rende necessario allorquando si prospettano
modificazioni, apportate allo strumento adottato, tali da
determinare un maggior impatto sull’ambiente delle scelte di
Piano, trattandosi di misure destinate a rendere meno
efficace la tutela ambientale prevista nel Piano
originariamente adottato (cfr. TAR Lombardia, Milano, II,
04.10.2016, n. 1808; più in generale, sull’obbligo di
effettuare la V.A.S. anche in caso di varianti agli
strumenti urbanistici, Corte costituzionale, sentenza n. 197
dell’11.07.2014).
Certamente nella fattispecie de qua le osservazioni
accolte successivamente all’adozione del Piano hanno
incrementato in misura significativa il carico urbanistico e
in generale il peso insediativo degli interventi edilizi,
determinando un peggioramento delle condizioni ambientali
complessive in tutto il territorio comunale, peraltro
classificato quale zona di preservazione e salvaguardia
ambientale.
4.3. Pertanto, anche la seconda censura di ricorso
deve essere accolta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'iter di formazione dei piani regolatori deve essere
interpretato alla luce del principio generale del "non aggravamento"
che discende dalla legge 07.08.1990, n. 241.
Più specificamente, una ripubblicazione del piano regolatore
generale è necessaria solo in caso di modifiche che
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato,
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche
quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero
incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree
o gruppi di aree; ciò
che nella specie non è dato riscontrare, perché
dall’accoglimento dell’osservazione dell’u.t.c. è discesa
una variazione solo marginale del piano.
---------------
6. La C.E.A. ha interposto appello avverso la sentenza n.
493/2017 formulando assieme anche una domanda cautelare, con
la quale ne ha chiesto la sospensione dell’efficacia
esecutiva assieme a quella del provvedimento impugnato in
primo grado.
7. La società ha denunciato gli asseriti errori della
sentenza gravata con sei motivi di doglianza:
a) l’art. 13 delle N.T.A. al P.R.G., recante la disciplina
urbanistica degli immobili ricompresi nella zona di
completamento B1, non conterrebbe alcun riferimento a un
vincolo di facciata, previsto per la sola zona A2 dall’art.
10, e più specificamente:
I) la tesi comunale, secondo
cui il vincolo discenderebbe dall’accoglimento
dell’osservazione n. 79/11, proposta nel corso della
procedura di approvazione del P.R.G., non sarebbe
sostenibile, in quanto la modifica non sarebbe mai stata
trasfusa all’interno delle N.T.A., come approvate e
pubblicate;
II) il P.R.G. modificato non
sarebbe stato ripubblicato, laddove, pronunziandosi proprio
in tema di normativa urbanistica pugliese, questo Consiglio
di Stato avrebbe ricompreso nell’obbligo di ripubblicazione
le modifiche concordate (cioè conseguenti a osservazioni
presentate al piano adottato e accettate dall’ente) quando
superino -come sarebbe nel caso di specie- il limite di
rispetto dei canoni guida dello strumento urbanistico in
itinere e la stessa Regione Puglia, in sede di approvazione
definitiva del P.R.G., avrebbe chiesto l’adozione di testi e
planimetrie coordinati con la delibera integrativa, ponendo
un obbligo mai ottemperato;
III) non varrebbe il
riferimento al “tratto/striscia continua in neretto”
contenuta nella tavola 6 del piano, in quanto, per costante
giurisprudenza, le prescrizioni normative, in caso di
contrasto, dovrebbero prevalere sulle indicazioni grafiche
del piano regolatore;
b) sull’immobile non sussisterebbe il vincolo che impedirebbe
l’intervento a norma dell’art. 6 del piano casa, mancando
l’apposizione da parte dell’autorità statale o regionale; lo
stesso P.R.G. si limiterebbe a introdurre una prescrizione
urbanistico-edilizia, riferita a una sola delle facciate
dell’immobile (quella su via Lettieri) e intesa a
disciplinare in concreto l’attività di edificazione;
c) la delibera n. 2 del 27.01.2012 del commissario
straordinario, assunta con i poteri del Consiglio comunale,
che ha introdotto all’art. 13 delle N.T.A. una deroga alle
altezze stabilite dal P.R.G. e consentito interventi di
demolizione e ricostruzione ex lege n. 14/2009, sarebbe
efficace per tutto il tessuto edilizio della zona B1;
ritenendone esclusi gli edifici ricompresi all’interno della
striscia continua di cui alla tavola 6 del P.R.G. e
interessati al divieto di modifica di facciata, il Tribunale
territoriale avrebbe compiuto una sorta di interpretatio
abrogans; negando il permesso, il Comune avrebbe
arbitrariamente trasformato una prescrizione riguardante la
sola facciata, pienamente rispettata dal progettista, in un
vincolo panoramico sull’intero immobile, mentre gli artt. 10
e 13 delle N.T.A. -diversamente da quanto detto nel
provvedimento impugnato- non imporrebbero nessun vincolo
relativo allo skyline;
d) sarebbe tempestiva la censura del combinato disposto degli artt.
10 e 13 delle N.T.A., prescrizioni di natura regolamentare
suscettibili di essere impugnate insieme con l’atto
applicativo; la diretta imposizione del c.d. vincolo di
facciata esorbiterebbe dai poteri comunali e sarebbe viziata
da difetto di istruttoria e di motivazione;
e) nessuna disposizione delle N.T.A. contemplerebbe la previa
redazione di un piano particolareggiato per gli interventi
da eseguirsi nel tessuto edilizio delle zone B1;
f) in mancanza di un vero e proprio vincolo, si sarebbe formato il
silenzio-assenso ex art. 20, comma 8, t.u.; questo non
potrebbe essere impedito dalla eventuale insussistenza dei
presupposti per l’accoglimento della domanda, fermo restando
l’eventuale esercizio, nel rispetto delle condizioni di
legge, dei poteri di autotutela dell’Amministrazione.
...
12. Il primo motivo -con cui la C.E.A. contesta la
sussistenza in zona B1, in cui si trova l’immobile oggetto
dell’intervento, del c.d. vincolo di facciata- costituisce
il nucleo essenziale del gravame.
12.1. Il motivo si colloca al limite della inammissibilità
per contrasto con il divieto di venire contra factum
proprium, posto che l’appello, come prima il ricorso
introduttivo del precedente grado di giudizio, omette
totalmente di considerare che la relazione tecnica
descrittiva, allegata alla richiesta del permesso di
costruire, dichiarava che “il prospetto su via M. Lettieri è
interessato da vincolo di facciata come attestato dalla
ATTESTAZIONE URBANISTICA n. 7393 del 05.03.2013” e che in
data 04.09.2015 la società ne aveva chiesto
l’eliminazione, riconoscendone con ciò l’esistenza.
12.2. In disparte tale questione, che pure sarebbe dirimente
e rilevabile d’ufficio, il motivo è comunque infondato in
quanto:
a) nel corso del procedimento di approvazione del P.R.G., l’ufficio
tecnico comunale ha segnalato la discrasia data da ciò, che
mentre la tavola n. 6 indicava con una “striscia continua”
gli edifici, ricadenti sia nella zona A2 che in quella B1,
vincolati al mantenimento delle facciate negli aspetti
architettonici e coloristici, salva motivata variazione in
sede di piano particolareggiato, la relativa disciplina era
poi richiamata solo per le prime dall’art. 10 delle N.T.A.,
non anche per le seconde dall’art. 13 (osservazione n. 79/11
del 31.03.1990);
b) l’osservazione è stata accolta dal commissario ad acta con
deliberazione n. 1 del 25.01.1991;
c) il P.R.G., con tale osservazione fra le altre, è stato approvato
dalla Regione con le delibere di Giunta n. 250 del 10.03.1993 e, in via definitiva, n. 3515 del 20.06.1994;
d) tale ultima delibera ha espressamente rinviato alla fase
attuativa del piano l’eventuale coordinamento delle
planimetrie, del R.E. e delle N.T.A., considerando tale
adempimento solo ricognitivo e rappresentativo delle
determinazioni regionali e comunque non impeditivo della
definitiva approvazione e attuazione del piano;
e) non vi era alcun obbligo di ripubblicazione del P.R.G. nella sua
versione definitiva, perché tale fase non è conosciuta dalla
pertinente normativa regionale e non può farsi discendere
dall’indirizzo giurisprudenziale, consolidato e del tutto
condivisibile, secondo cui l'iter di formazione dei piani
regolatori deve essere interpretato alla luce del principio
generale del "non aggravamento" che discende dalla legge
07.08.1990, n. 241 (Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010,
n. 4546);
f) più specificamente, una ripubblicazione del piano regolatore
generale è necessaria solo in caso di modifiche che
comportino uno stravolgimento dello strumento adottato,
ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri
ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che
comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche
quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero
incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree
o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 17.11.1984 n.
865; sez. IV, 05.09.2003 n. 4984; sez. IV, 27.12.2011 n. 6865; sez. IV 30.07.2012, n. 4321; sez. IV,
04.12.2013, n. 5769; va nello stesso senso sez. IV, 10.03.2008, n. 1516, citata dalla società appellante); ciò
che nella specie non è dato riscontrare, perché
dall’accoglimento dell’osservazione dell’u.t.c. è discesa
una variazione solo marginale del piano;
g) la delibera di Giunta n. 3515/1994 ha avuto peraltro adeguata
pubblicità con la pubblicazione sul B.U.R.;
h) ricostruita la vicenda nei termini sopra esposti, non vi è alcun
contrasto, ma semmai corretta integrazione, fra prescrizioni
normative e indicazioni grafiche del piano;
i) in definitiva, operando con le legittime modalità di cui si è
detto, l’Amministrazione ha proceduto a una
microzonizzazione, cioè all’individuazione di una sottozona
con caratteristiche peculiari nell’ambito di quelle
previamente individuate, a tal fine uniformemente
disciplinata; il che le è consentito (Cons. Stato, sez. IV,
29.02.2016, n. 846) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.04.2018 n. 2513 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Circa la necessità,
o meno, di una ripubblicazione del PUG dopo l’approvazione.
Quanto all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte in sede di
approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le
- modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi ed in genere l'osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da
- quelle facoltative (consistenti in
innovazioni non sostanziali) e da
- quelle concordate.
Mentre,
infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte
del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non
sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento provinciale o regionale rende superfluo
l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso
nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed
approvazione del P.R.G.".
...
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del piano adottato.
In altre parole, solo nell'ipotesi
in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono
è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione,
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
---------------
5 - Passando,
invece, allo scrutinio del primo motivo di ricorso
(incentrato sulla violazione del principio di partecipazione
ex art. 11 l.r. 20/2001), si osserva in primo luogo che
dalla piana lettura del verbale della conferenza di servizi
seguita alla attestazione di non compatibilità con il DRAG
(doc. 1 prod. Comune del 13/10/2017 e doc. 2 prod. ric. del
05/10/2017), emerge che l’AP.TAP-14 di via Moscatelli è
un’area sottoposta a vincolo archeologico la cui specificità
giustifica la previsione di una disciplina autonoma rispetto
a quella degli altri AP.TAP e segnatamente, tenuto conto
dell’accoglimento dell’osservazione n. 57, il riconoscimento
di un “ristoro volumetrico” pari a 3mc/mq invece di
0,4 mc/mq (previsto in generale dall’A.C. nel verbale della
conferenza di servizi del 02.09.2013 con riferimento ai
contesti AP.AS/R).
Dal verbale non si ricava, contrariamente a quanto affermato
dai ricorrenti, nessuna espressa previsione relativa alla
possibilità di edificazione in situ che non
risulterebbe “riprodotta” in sede di approvazione. Di
conseguenza, non pertinenti rispetto alla fattispecie
risultano il contestato complessivo mutamento, ad opera del
PUG approvato, della portata delle determinazioni assunte in
conferenza di servizi e la dedotta necessità di una
ripubblicazione del PUG dopo l’approvazione (cfr. pag. 10
dell’atto introduttivo), considerato che:
- “quanto all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte in sede di
approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le
modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi ed in genere l'osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da quelle
facoltative (consistenti in
innovazioni non sostanziali) e da quelle concordate.
Mentre,
infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte
del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non
sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento provinciale o regionale rende superfluo
l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso
nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed
approvazione del P.R.G." (Cons. St., sez. IV, 25.11.2003 n.
7782; id., sez. VI, 23.09.2009 n. 5671; TAR Napoli, sez. I,
11.03.2015 n. 1510, id. sez. VIII, 07.03.2013 n. 12879);
- “un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del piano adottato (TAR Campania Napoli, sez.
I, 11.03.2015, n. 1510); in altre parole, solo nell'ipotesi
in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono
(TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 07.03.2013, n. 1287) è
necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione,
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (Consiglio di Stato, sez. IV,
04.12.2013, n. 5769)” (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
n. 29 del 09.01.2017).
Nessuna delle condizioni comportanti l’obbligo di
ripubblicazione del piano si è in concreto verificata nel
caso di specie (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 07.12.2017 n. 1262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza
quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione
del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una
<rielaborazione complessiva> del piano stesso, e cioè un
<mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione>.
In particolare il CdS ha affermato che “la massima
partecipazione dei cittadini è assicurata in tutte le fasi procedimentali e costituirebbe un indebito appesantimento
della procedura prevedere un nuovo incombente riposante
nella ripubblicazione (e conseguente riapertura della fase
di presentazione delle osservazioni, etc.) laddove la legge
medesima non l’abbia affatto previsto”.
Invero, un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del Piano adottato; solo nell’ipotesi in cui vi
sia stata una <rielaborazione complessivamente innovativa>
del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione è
necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione,
mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
---------------
La tesi non può essere condivisa.
L’iter di formazione dello strumento urbanistico è stato
concepito dal legislatore regionale (con la LR 11/1998) in
modo “frammentato” e “complesso” fra più enti (Comune e
Regione), cioè con la collaborazione ed il coordinamento fra
diverse competenze settoriali.
Le norme (in particolare l’articolo 15) hanno assegnato
specifiche e diversificate competenze ai due enti.
Competenze che implicano l’espletamento di attività
istruttorie autonome, di diverso livello specialistico, con
l’ausilio di plurime strutture regionali, nonché della
generale Conferenza di pianificazione in un contesto di
“globale” analisi degli interessi.
Il tutto finalizzato alla redazione di un provvedimento
“complesso” e articolato, alla conclusione dello svolgimento
di segmenti procedimentali distinti, in modo da consentire
la valutazione complessiva degli interessi generali che
debbono essere analizzati e valutati “a livello sovracomunale”, in quanto, coinvolgenti una serie di aspetti
direttamente connessi alla pianificazione nei suoi diversi
aspetti (urbanizzazione, viabilità, valorizzazione,……),
necessariamente da coordinare.
La funzione fondamentale, e di base, è stata attribuita al
Consiglio comunale, il quale, con la redazione iniziale
della “bozza” (nel caso di specie risalente al 2013),
manifesta l’impulso e attiva il procedimento regionale di
verifica, definendone i contenuti principali.
Alla luce dei (primi) suggerimenti regionali il Comune
provvede alla redazione della variante di Piano, che viene
pubblicata (questa è pubblicazione obbligatoria) per
l’acquisizione delle osservazioni da parte dei cittadini.
Il Comune dopo aver analizzato le osservazioni (con
decisioni diversificate), ed apportato eventuali
modifiche,“adotta” il testo del piano-variante, testo che
non richiede nuova ripubblicazione, salvo che con le
modifiche inserite a seguito dalle osservazioni siano state
apportate variazioni sostanziali.
Il testo definitivo adottato viene trasmesso alla Regione
per l’effettuazione, nel dettaglio, delle analisi di
competenza, con l’ausilio della Conferenza di
Pianificazione, come prevede espressamente l’articolo 15
della legge regionale 11/1998.
Nel caso di specie la Regione ha svolto il procedimento di
propria competenza, approfondendo la verifica delle
previsioni comunali, analizzando la pluralità di profili
coinvolti, addivenendo alla propria proposta.
Dunque nell’ambito del rapporto Regione-Comune l’articolo 15
della legge regionale 11/1998, al comma 12, offre alla
Giunta regionale la triplice possibilità, in quanto:
“La Giunta regionale, sulla scorta delle valutazioni
conclusive operate dalla Conferenza di pianificazione e
sentite le valutazioni del Sindaco del Comune interessato,
con propria deliberazione:
a) approva la variante sostanziale;
b) non approva la variante sostanziale;
c) propone al Comune delle modificazioni.”
E nel caso di specie la Giunta regionale aveva condiviso le
richieste formulate dalla Conferenza di pianificazione,
stilando le <proposte di modificazione da sottoporre al
Comune> ai fini dell’approvazione della variante sostanziale
generale al PRG deliberate 18.03.2016 con deliberazione
362.
Per quanto qui interessa (aree di proprietà dei ricorrenti)
la proposta di variazione è stata così articolata:
* lo stralcio dell’area Cc001 (posta a monte della strada,) con
soppressione delle relative capacità edificatorie e con
attribuzione della destinazione agricola E;
* la modifica dell’area Cd003 a Ce (posta a valle della strada);
* l’introduzione di una rotatoria che fraziona i terreni dei
ricorrenti (e con previsione di esproprio).
Il Comune, a fronte delle modifiche regionali proposte, era
libero di recepirle o meno.
Posto che la norma sul punto, articolo 15, comma 13, dispone
che:
“Nel caso di proposte di modificazione da parte della Giunta
regionale, il Comune può disporne l'accoglimento, che
comporta l'approvazione definitiva delle varianti
sostanziali, oppure presentare proprie controdeduzioni su
cui la Giunta stessa, sentito il parere della conferenza di
pianificazione, deve pronunciarsi in via definitiva entro
novanta giorni dal loro ricevimento.
La variante sostanziale assume efficacia con la
pubblicazione.”
In sostanza il Comune poteva valutare se far proprie (o
meno) le proposte di modifica indicate dalla Giunta
regionale.
Essendo ammessa, in alternativa, la facoltà, consentita
espressamente dalla legge, di instaurare un nuovo
contraddittorio con la Giunta, con la redazione e
formulazione di nuove controdeduzioni comunali, motivate, in
opposizione alle proposte regionali.
A conclusione dell’articolato procedimento il Consiglio
comunale, con deliberazione 82 dell’08.07.2016, <recepiva
integralmente> le proposte di modificazione avanzate dalla
Giunta regionale, approvando definitivamente la variante di
piano.
Dunque nel caso di specie il Comune ha ritenuto di
<adeguarsi> alle modifiche regionali, motivate, proposte nel
corso dell’articolato procedimento.
Nell’ambito del quale il Comune stesso era stato coinvolto,
essendo prevista la partecipazione alla Conferenza di
pianificazione del Sindaco.
L’ente locale ha aderito alle variazioni suggerite ed
apportate dalla Regione, che erano state poste
all’attenzione del Comune, decidendo di concludere l’iter
procedimentale (senza instaurare ulteriori contraddittorio
con la Regione), provvedendo all’<approvazione> finale e
definitiva dello strumento urbanistico.
Il Piano-variante che è scaturito, a conclusione del
procedimento, rappresenta un provvedimento “complesso”
avente, in sostanza, contenuti elaborati, in parte, a
livello comunale ed, in parte, delineati dalla Regione e
condivisi dall’ente locale.
Le norme regionali prevedono, infatti, un peculiare
sviluppo dell’iter di formazione dello strumento
urbanistico.
E la “pubblicazione” è stata prevista, con l’articolo 15, 8°
comma, LR 11/1998, solo per la versione del piano “adottata”:
“La variante sostanziale <adottata è pubblicata> mediante
deposito in pubblica visione dei relativi atti presso il
Comune interessato per quarantacinque giorni consecutivi;
dell'avvenuta adozione è data tempestiva informazione
tramite comunicato inviato agli organi di informazione a
carattere regionale o locale. Chiunque ha facoltà di
produrre osservazioni, nel pubblico interesse, fino allo
scadere del termine predetto”.
Non è stata stabilita, invece, la necessità di analoga
“ripubblicazione” della versione che risulta “integrata” con
le proposte di modifica regionali (e neppure, peraltro, di
quella adottata a seguito di modifiche apportate per
l’accoglimento di osservazioni dei cittadini).
Al fine di evitare un appesantimento procedimentale ed una
“navetta” persistente e cronicizzata.
Salvo un limite di <peso qualitativo>:
solo qualora le indicazioni regionali implichino una
modifica sostanziale nelle “impostazioni di piano”, allora
sussiste la necessità di “ripubblicare” lo strumento, al
fine di consentire la formulazione di nuove osservazioni da
parte dei privati interessati e coinvolti e dello stesso
ente locale.
Si tenga conto che, analogamente, l’articolo 15, comma 9,
della LR 11/1998 non prevede la “ripubblicazione” in caso di
accoglimento di singole osservazioni dei cittadini che non
determinino modifiche all’impostazione generale del piano.
Così come l’implementazione nelle previsioni, con modifiche
“ordinarie” e limitate, compiuta dalla Regione non impone la
“ripubblicazione” dello strumento urbanistico, salvo che
queste non rivestano carattere di varianti sostanziali.
Il comma 10 dell’articolo 15 prevede l’efficacia della
variante con la pubblicazione della dichiarazione del
segretario comunale che attesta l’avvenuto “accoglimento” da
parte del Consiglio comunale delle <proposte di
modificazione> della Giunta regionale.
Dunque l’impianto legislativo valdostano non ha previsto
l’obbligo di espletamento di una ulteriore, peculiare ed
autonoma fase intra-procedimentale, con “ripubblicazione”
tra adozione e recepimento delle modifiche stimolate dalla
giunta regionale.
L’approvazione-adesione comunale non implicava, dunque, il
previo dovere di procedere ad un ulteriore segmento
partecipativo diretto ad acquisire nuove osservazioni da
parte dei soggetti interessati incisi (dalle variazioni
regionali).
Essenzialmente solo in caso di intervento sostanziale sul
piano-variante è necessaria la ripubblicazione da parte del
Comune del deciso “adeguamento”.
Nel caso di specie le modifiche delle destinazioni impresse
dalla Regione non erano tali da determinare uno
stravolgimento generale del contenuto e dei principi
fondamentali dello strumento urbanistico locale.
Nel caso di specie le modifiche contestate non hanno
determinato un impatto sostanziale e globale sullo strumento
pianificatorio.
In materia si richiamano i precedenti giurisprudenziali Tar
Valle d’Aosta 34 dell’11/07/2016; TRGA – Trento n. 182 del
05/05/2015; Consiglio di Stato sezione IV n. 1241 del
13/03/2014; Tar Lombardia, Brescia, 29 del 09/01/2017, ove si
afferma che "costituisce principio pacifico in giurisprudenza
quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione
del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle
osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una
<rielaborazione complessiva> del piano stesso, e cioè un
<mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione> (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 21.09.2011, n. 5343; id.,
26.04.2006 n. 2297; id., 31.01.2005, n. 259; id.,
10.08.2004, n. 5492)”.
In particolare il CdS ha affermato che “la massima
partecipazione dei cittadini è assicurata in tutte le fasi procedimentali e costituirebbe un indebito appesantimento
della procedura prevedere un nuovo incombente riposante
nella ripubblicazione (e conseguente riapertura della fase
di presentazione delle osservazioni, etc.) laddove la legge
medesima non l’abbia affatto previsto” (così n. 1241/2014).
In quel caso (LR Puglia) è stato ritenuto che “la Conferenza
di Servizi era destinata a <sanare> il disaccordo tra
Regione e Comune e ad evitare la <navetta> discendente della
possibilità che il Comune a propria volta controdeduca alla
Regione: con detta fase si conclude l’iter formativo, e non
v’è luogo ad ulteriori interventi dei privati”.
Dunque il preteso obbligo di ripubblicazione non sussiste.
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del Piano adottato; solo nell’ipotesi in cui vi
sia stata una <rielaborazione complessivamente innovativa>
del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione
(TAR Campania, Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510 e sez. VIII,
07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la
procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non
sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno
stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo
mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano
in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino
inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano
numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo
intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
In conclusione la censura va respinta in quanto le proposte
di modificazione formulate dalla Giunta regionale, recepite
dal Comune, non hanno determinato modifiche che attengono
all’impostazione generale del PRG.
L’accoglimento delle osservazioni (del privato o le
modifiche introdotte in sede di approvazione regionale) non
determinavano la necessità di ripubblicazione.
Oltretutto le proposte della Giunta regionale, recepite con
la deliberazione del Consiglio comunale 82/2016 riaffermano
i contenuti già in precedenza proposti in relazione alla
“bozza” della variante.
E le proposte di modifica non sono qualificabili come
varianti rilevanti, per oggetto il contenuto, e
qualificabili come rientranti nelle ipotesi previste
all’articolo 14, comma 2.
Le variazioni introdotte mirano a conservare la zona
territoriale di tipo E (cioè la destinazione originaria
previgente) al fine di evitare nuove edificazioni, ritenute
incompatibili ad una lettura complessiva degli interessi
sottesi da tutelare (TRGA Valle d'Aosta,
sentenza 27.10.2017 n. 61 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L’obbligo di ripubblicazione del piano riguarda non la
modifica, anche sostanziale, riferita alla singola norma di
attuazione o alla disciplina settoriale di aspetti del
territorio, ma i casi in cui vi sia un sovvertimento dei
criteri di impostazione dello strumento pianificatorio,
ovvero delle sue fondamentali linee di indirizzo.
---------------
E’ ben noto
che la giurisprudenza amministrativa ha più volte precisato
che l’obbligo di rinnovare la pubblicazione ricorre
unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate
dello strumento di pianificazione territoriale comportino lo
stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in
presenza di variazioni che ne lasciano inalterato l'impianto
originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree.
---------------
1. Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
Il Collegio ha già avuto modo di pronunciarsi con plurime
sentenze su analoghi ricorsi dalle cui conclusioni non si
ravvisano motivi per discostarsi (cfr. sentenze n. 945/2017;
n. 1018/2017; n. 1019/2017).
2. Con il primo motivo la ricorrente lamenta che le
modifiche apportate al PIT (Piano di Indirizzo Territoriale)
successivamente alla sua adozione ne avrebbero resa
necessaria la ripubblicazione, quantomeno in parte qua, onde
consentire agli interessati la riproposizione di
osservazioni.
Le modifiche –non obbligatorie, e peggiorative–
riguarderebbero fra l’altro la riscrittura della disciplina
dei beni paesaggistici di cui all’elaborato 8B del PIT con
riferimento alle cave poste al di sopra dei 1.200 metri
s.l.m. per le quali sarebbe prevista la dismissione al
termine del progetto di coltivazione, cui potrebbe seguire
al più la proposta di un piano di recupero e
riqualificazione paesaggistica da realizzarsi in sei anni.
Anche la disciplina dei piani di bacino sarebbe stata
pesantemente rimodulata in sede di approvazione del PIT, il
cui Allegato n. 5 ora prevede che, in assenza dei piani
attuativi di bacino, e comunque entro tre anni, siano
consentiti per una sola volta interventi di ampliamento non
superiori al 30% del volume consentito dalle autorizzazioni
in essere.
I significativi cambiamenti introdotti con la delibera di
approvazione del PIT neppure potrebbero dirsi correlati
all’accoglimento di osservazioni, stante il loro contenuto
deteriore rispetto alla disciplina adottata.
2.1. La censura è infondata.
L’obbligo di ripubblicazione del piano riguarda non la
modifica, anche sostanziale, riferita alla singola norma di
attuazione o alla disciplina settoriale di aspetti del
territorio, ma i casi in cui vi sia un sovvertimento dei
criteri di impostazione dello strumento pianificatorio,
ovvero delle sue fondamentali linee di indirizzo.
Nella fattispecie in esame, i canoni guida del PIT
deliberati in sede di adozione non sono mutati: rilevano,
sia in fase di adozione che in fase di approvazione,
l’originario disegno di tutela paesaggistica e ambientale
delle Alpi Apuane, la finalità di contemperare le esigenze
privatistiche dell’attività di cava con la salvaguardia
ambientale, il riferimento al principio dello sviluppo
sostenibile, un rigido regime di prescrizioni d’uso e
limitazioni.
In fase di approvazione sono stati introdotti
nuovi passaggi procedurali a controllo della compatibilità
paesaggistica, sono state introdotte integrazioni che non
modificano i criteri di impostazione del piano, all’esito di
osservazioni delle imprese interessate o dei Comuni, sono
stati introdotti aspetti innovativi di dettaglio (ad
esempio, la limitazione dei depositi provvisori e il divieto
di realizzare nuove discariche di cava di cui all’Allegato
n. 5, co. 1, lett. b), e co. 6), riconducibili comunque alle
finalità di tutela già perseguite in fase di adozione, sono
state approvate specificazioni di elementi già presenti nel
testo adottato; ma non per questo è venuta meno, nel
passaggio dal momento dell’adozione a quello
dell’approvazione, la continuità dei criteri di fondo del
piano, che sola avrebbe imposto la ripubblicazione (TAR
Toscana, sez. I, n. 944/2017).
2.2. E’ del resto ben noto che la giurisprudenza
amministrativa ha più volte precisato che l’obbligo di
rinnovare la pubblicazione ricorre unicamente qualora le
modifiche facoltative o concordate dello strumento di
pianificazione territoriale comportino lo stravolgimento
dello strumento adottato, e non anche in presenza di
variazioni che ne lasciano inalterato l'impianto originario,
ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione
di singole aree o gruppi di aree (per tutte, cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 847; id., 04.12.2013, n. 5769, e gli altri precedenti ivi richiamati) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 05.10.2017 n. 1157 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo l’indirizzo ormai prevalente nella
giurisprudenza amministrativa, la ripubblicazione del piano
risulta essere necessaria solo nel caso vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso,
e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e
dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno
presieduto e presiedono.
---------------
3. Con il primo motivo del ricorso introduttivo del
giudizio, riproposto con il ricorso per motivi aggiunti,
viene dedotta violazione dell’art. 9 della Legge n.
1150/1942, poiché il Comune non si è limitato a respingere
l’osservazione del ricorrente, ma ha impresso all’area una
nuova e definitiva destinazione (zona TRP) rispetto a quella
impressa in sede di adozione (zona V) e che riproponeva il
vincolo preesistente da quasi vent’anni per la realizzazione
di un parco urbano. Di conseguenza il PRG avrebbe dovuto
essere ripubblicato affinché il ricorrente potesse
presentare osservazioni contro la nuova destinazione
urbanistica.
La censura è infondata.
Sul punto va ricordato che, secondo l’indirizzo ormai
prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la
ripubblicazione del piano risulta essere necessaria solo nel
caso vi sia stata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 14.04.2016 n. 1516; Sez. IV,
12.03.2009 n. 1477; id. 05.11.2003 n. 7782; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 13.04.2017 n. 856; id. 25.05.2012 n. 1440;
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.01.2017 n. 29; TAR
Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1839; id. 12.12.2016 n. 1768;
TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 11.11.2014 nn. 2771-2275; TAR
Veneto, Sez. II, 22.05.2013 n. 728; TAR Marche, 16.07.2010
n. 3114; id. 30.06.2010 n. 2818; id. 04.05.2010 n. 212) (TAR Marche,
sentenza 17.05.2017 n. 368 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nella interpretazione dell’art.
10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato
dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di
delineare il giusto procedimento di perfezionamento di un
piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia
stata una rielaborazione complessivamente innovativa del
piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
---------------
Quanto al primo motivo, è persuasiva la difesa del
Comune di Codogno, il quale ha richiamato la piana
disciplina di cui all’art. 10, comma 4, della legge 1150/1942
(“le proposte di modifica, di cui al secondo comma, ad
eccezione di quelle riguardanti le osservazioni presentate
al piano, sono comunicate al Comune, il quale entro novanta
giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione
del Consiglio comunale, che previa pubblicazione nel primo
giorno festivo, è trasmessa al Ministero dei lavori pubblici
nei successivi quindici giorni”).
Sul punto, va ricordato che “nella interpretazione dell’art.
10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato
dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di
delineare il giusto procedimento di perfezionamento di un
piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia
stata una rielaborazione complessivamente innovativa del
piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
rispettivamente hanno presieduto e presiedono” (cfr., fra le
tante, Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id.,
sez. IV, 25.11.2003, n. 7782; TAR Lombardia–Milano,
25.05.2012, n. 1440).
Un mutamento che, nella specie, non può ritenersi
sostanziato per effetto della mera presentazione di
osservazioni, essendo rimaste ferme le linee generali della
pianificazione (soprattutto, per quel che più interessa, per
l’area controversa) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.04.2017 n. 856 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l’asserito
obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante
ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o
concordate dello strumento urbanistico comportino lo
stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in
presenza di variazioni di dettaglio che ne lasciano
inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere
sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree.
---------------
Con il primo motivo si deduce la violazione del
principio del contraddittorio e del giusto procedimento
giacché, avendo l’amministrazione accolto un’osservazione
comportante la modifica della destinazione urbanistica di
un’area di proprietà di soggetti terzi, la stessa sarebbe
tenuta a fornire idonea comunicazione ai soggetti
proprietari dell'area incisa in maniera diretta dalla
modificazione, mediante ripubblicazione del P.R.G. nella
parte risultata modificata o a darne quanto meno
comunicazione agli interessati, per consentire loro di
presentare memorie e osservazioni di merito.
III.1 L’assunto non può essere condiviso.
Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l’asserito
obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante
ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o
concordate dello strumento urbanistico comportino lo
stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in
presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie,
ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché
possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole
aree o gruppi di aree (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV,
29.02. 2016, n. 847; id., 04.12.2013, n. 5769).
D’altro canto il terreno di proprietà delle ricorrenti era
privo di vocazione edificatoria e, dunque, le interessate
non potevano vantare alcuna aspettativa qualificata in
ordine alla conservazione, in sede di definitiva
approvazione del RU, di una destinazione assunta in via
meramente interinale (e dietro loro espressa richiesta) al
momento dell’adozione dell’atto di pianificazione.
Peraltro, la difesa del Comune ha cura di precisare che
l’osservazione del proprietario confinante ha costituito
solo l’occasione per riesaminare, con completezza di
istruttoria, la situazione idrogeologica dell’area
risultata, all’esito di tali ulteriori indagini, inidonea,
per la sua pericolosità molto elevata, ad ospitare
l’insediamento cui le ricorrenti aspiravano e, quindi,
eventuali memorie e osservazioni di parte non avrebbero
potuto incidere sulla scelta finale compiuta (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 275 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile
solo quando le modifiche introdotte superino il limite di
rispetto dei canoni guida del Piano adottato.
In altre parole, solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso
e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e
dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno
presieduto e presiedono è necessario rinnovare la procedura
con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel
caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento
dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei
suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni
di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree.
---------------
Anche il secondo motivo di ricorso, riconducibile ad un
preteso obbligo di ripubblicazione, non è fondato.
Invero, si osserva che un obbligo di ripubblicazione è
prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino
il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato
(TAR Campania Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510); in
altre parole, solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso
e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e
dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno
presieduto e presiedono (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la procedura con
la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel
caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento
dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei
suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni
di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto
originario, quand’anche queste siano numerose sul piano
quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree (Consiglio di
Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
Ebbene, nel caso in esame, non pare che lo stralcio dell’ATR
PII 7 abbia integrato quella rielaborazione complessiva del
Piano che avrebbe imposto la ripubblicazione dello stesso,
atteso che –come evidenziato dalla stessa difesa del Comune– tale modifica si colloca comunque in continuità con i
principi informatori del P.G.T. adottato in relazione al
contenimento del consumo del suolo.
Quanto alla specifica censura relativa alla comunicazione di
cui agli artt. 7 e seguenti della legge n. 241/1990, non può
che ribadirsi quanto già esposto in relazione al primo
motivo di ricorso, considerato che la ricorrente ha potuto
produrre memorie difensive e, quindi, interloquire
attivamente con l’Amministrazione comunale, non assumendo
specifico rilievo che la partecipazione procedimentale sia
avvenuta in base alle disposizione di cui alla legge sul
procedimento amministrativo piuttosto che in forza delle
previsioni di cui alla legge regionale n. 12/2005. La
censura, pertanto, oltre che infondata, appare anche
strumentale (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2017 n. 29 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nella interpretazione dell'art. 10, l. n. 1150
del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n.
765 del 1967) e nello sforzo di delineare il “giusto
procedimento” di perfezionamento di un piano urbanistico, la
giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la
ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso,
e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e
dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno
presieduto e presiedono.
Non è tale il caso di una modifica
della destinazione impressa a singole aree, comunque
rispondente a finalità già evincibili in sede di adozione
dello strumento urbanistico e che perciò non appare idonea
ad alterare i criteri d'impostazione dell’atto di governo
del territorio, ovvero di una modifica che, come nella
vicenda in esame, non appare di entità tale da configurare
una nuova adozione dello strumento in formazione: “ne consegue, per giurisprudenza
assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo
di riadozione e ripubblicazione della variante, che ricorre
unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate
dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento
dello strumento adottato, e non anche in presenza di
variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano
inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere
sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree”.
---------------
Il ricorso è infondato.
In sede di approvazione del regolamento urbanistico il
Consiglio Comunale ha ridotto l’utilizzabilità dell’area
della ricorrente, recependo le osservazioni del Genio
Civile, secondo cui il Comune avrebbe dovuto estendere gli
studi idraulici ai corsi d’acqua minori. L’approfondimento
istruttorio relativo a quest’ultimi ha portato ad una
variazione delle delimitazioni delle aree allagabili.
Infatti il regolamento urbanistico adottato non recava, come
allegato, la carta di pericolosità idraulica prescritta dal
regolamento regionale n. 26R del 27.04.2007, ma uno studio
circoscritto ai corsi d’acqua principali (Ombrone, Bure,
Brana e Stella).
La diminuita utilizzabilità dei terreni della società
istante è frutto dell’accoglimento delle osservazioni del
Genio Civile e di una più approfondita attività istruttoria,
ad esito della quale, in sede di approvazione del
regolamento urbanistico, il Comune è pervenuto ad una
riduzione della destinazione TP6 in relazione al rischio di
allagamento per Tr 20 e, in minor misura, in relazione al
rischio di allagamento Tr30 (si vedano il documento n. 5
depositato in giudizio dal Comune e la relazione tecnica
commissionata dalla società istante, costituente il
documento n. 4 da essa prodotto in giudizio).
Il provvedimento finale, scaturente da una più rigorosa
istruttoria, risponde quindi ad esigenze di tutela della
sicurezza idrica e di cautela, particolarmente sentite anche
nelle zone pianeggianti del pistoiese, stante la notoria
frequenza di allagamenti causati dall’innalzamento del
livello dei corsi d’acqua conseguente alla concentrazione
delle precipitazioni piovose in ristretti archi temporali.
L’atto impugnato appare quindi giustificato alla luce delle
recepite argomentazioni del Genio Civile ed appare
espressione di valutazioni discrezionali immuni da profili
sintomatici di eccesso di potere in quanto correttamente
ispirate al perseguimento dell’interesse pubblico alla
salvaguardia del territorio dal rischio idraulico.
Tali considerazioni si attagliano anche alla censura,
dedotta nell’unico, articolato motivo di ricorso, riferita
alla violazione della parte del regolamento regionale n. 26
del 2007 che non prevede l’inedificabilità per le aree
classificate come Tr uguale o inferiore a 200 anni. Tale
censura fa seguito alla pagina della relazione tecnica
(allegato n. 4 al ricorso) in cui si sostiene che “la
destinazione TP6 è stata ridotta oltre il limite di edificabilità dovuto alla situazione idraulica”, limite
coincidente con l’area TR30.
A dimostrazione dell’infondatezza anche di tale rilievo il
Collegio osserva quanto segue.
Il predetto regolamento regionale, nell’allegato A,
qualifica a “pericolosità idraulica elevata” le aree
interessate da allagamenti per eventi compresi tra 30 e 200
anni di tempi di ritorno; tale qualificazione trova conferma
nel decreto del Presidente della Giunta regionale n. 53 del
25.10.2011. Orbene, per tali zone i suddetti regolamenti
escludono l’edificabilità qualora non sia prevista la
realizzazione di interventi di messa in sicurezza.
In tale contesto rientra nella discrezionalità dell’Ente
introdurre un regime di inedificabilità o di restrizione
dell’attività edilizia anche per gli spazi Tr200, quale
alternativa alla previsione di opere di messa in sicurezza e
facendo leva sul principio di precauzione.
Peraltro, la relazione tecnica prodotta dalla società
istante (documento n. 4) non appare univocamente calibrata
rispetto al rilievo mosso con il ricorso: da un lato la
suddetta relazione, in base alle cartografie del regolamento
urbanistico approvato, evidenzia che l’utilizzabilità
effettiva della proprietà SPAR è diminuita, rispetto
all’adottato, di una quota pari a circa il 23% (di cui il
18% per rischio di allagamento Tr20 ed il restante 5% per
Tr30), dall’altro evidenzia, richiamando gli estratti delle
cartografie, che la destinazione TP6 (“aree per attrezzature
logistiche”) è stata ridotta oltre il limite di inedificabilità dovuto alla situazione idraulica (cioè oltre
il limite Tr30).
Per quanto riguarda la restante parte del motivo di gravame,
occorre considerare che l’intercorsa modifica non ha
alterato i criteri direttivi o l’impostazione dell’atto di
governo del territorio, in quanto la finalità di tutela
dagli allagamenti era insita già nella zonizzazione del
compendio di interesse della ricorrente introdotta in sede
di adozione, talché non v’è discontinuità tra l’obiettivo
del regolamento urbanistico nella stesura adottata e
l’obiettivo della stesura approvata.
Pertanto non sussisteva, in capo all’Amministrazione, alcun
obbligo di procedere alla ripubblicazione del regolamento
urbanistico, in parte qua, successivamente al recepimento
delle osservazioni del Genio Civile.
Invero, nella interpretazione dell'art. 10, l. n. 1150 del
1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765
del 1967) e nello sforzo di delineare il “giusto
procedimento” di perfezionamento di un piano urbanistico, la
giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la
ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una
rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso,
e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e
dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno
presieduto e presiedono.
Non è tale il caso di una modifica
della destinazione impressa a singole aree, comunque
rispondente a finalità già evincibili in sede di adozione
dello strumento urbanistico e che perciò non appare idonea
ad alterare i criteri d'impostazione dell’atto di governo
del territorio, ovvero di una modifica che, come nella
vicenda in esame, non appare di entità tale da configurare
una nuova adozione dello strumento in formazione (TAR
Lombardia, Milano, II, 25.05.2012, n. 1440; TAR Toscana, I,
03.10.2005, n. 4614): “ne consegue, per giurisprudenza
assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo
di riadozione e ripubblicazione della variante, che ricorre
unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate
dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento
dello strumento adottato, e non anche in presenza di
variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano
inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere
sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree” (TAR Toscana, I, 22.09.2016, n. 1381).
Peraltro, già in sede di adozione emergevano ragguardevoli
limitazioni all’edificabilità e all’utilizzabilità delle
aree intestate alla società istante, per le stesse ragioni
di tutela dal rischio di allagamenti valorizzate, più
compiutamente, in fase di approvazione: tutta la zona era
destinata ad area permeabile e tutto il terreno identificato
dalle particelle 417 e 419 era destinato a vasche di
laminazione (si vedano le osservazioni presentate dalla
ricorrente in riferimento al regolamento urbanistico
adottato –documento n. 3 depositato in giudizio dal
Comune-).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 22.12.2016 n. 1839 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La ripubblicazione del piano regolatore adottato
dal Comune è necessaria, a seguito dell'accoglimento delle
osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui
sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano
alla sua impostazione, e d’altro canto le modificazioni
introdotte dalla Regione, a mente dell'art. 10, comma 2, l.
n. 1150 del 1942, o, per quanto riguarda il procedimento
urbanistico comunale disciplinato dalla legislazione
regionale toscana, presentate dalla Regione Toscana nella
forma di autorevoli osservazioni riconosciute indispensabili
per assicurare il rispetto delle previsioni del PIT, ai
sensi della disciplina introdotta dagli artt. 17 e seguenti
della L.R. n. 1/2005, non comportano la necessità per il
Comune interessato di riavviare il procedimento di
approvazione dello strumento urbanistico, con conseguente
ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in
conformità a quanto stabilito dall'art. 10, secondo comma,
lettera c), della legge n. 1150/1942- nell'ambito di un
unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio.
In ogni caso, la ripubblicazione della variante adottata si
rende necessaria solo se le osservazioni accolte superano il
limite del rispetto dei canoni guida del piano adottato. Per giurisprudenza
assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo
di riadozione e ripubblicazione della variante ricorre
qualora le modifiche facoltative o concordate dello
strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello
strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di
dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato
l'impianto originario, ancorché possano incidere
sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree.
---------------
La circostanza che la proposta di
piano attuativo presentata dai ricorrenti non sia mai stata
approvata impedisce di ritenere perfezionata, in capo ai
ricorrenti medesimi, una situazione di affidamento
qualificato, tale da imporre al Comune oneri motivazionali
particolarmente stringenti, che possono quindi reputarsi
soddisfatti dalla palesata esigenza di evitare difformità
tra il PIT e il regolamento urbanistico: solo lo strumento
attuativo approvato e convenzionato fonda un affidamento
qualificato in capo al suo titolare.
---------------
Con il primo motivo gli istanti deducono che il Comune,
avendo modificato radicalmente il regolamento urbanistico
adottato, avrebbe dovuto provvedere ad una nuova adozione,
con conseguente ripubblicazione e possibilità di presentare
nuove osservazioni.
La censura non è condivisibile.
Gli obiettivi della contestata variante straordinaria erano,
fin dall’inizio, molteplici: rilevava infatti l’esigenza di
allineare le previsioni del regolamento urbanistico, nelle
singole UTOE, al piano strutturale, ma anche la finalità di
assicurare il rispetto dei limiti di compatibilità
prefissati dal P.I.T. e dal P.T.C. e di minimizzare e
contenere gli effetti negativi derivanti dall’attuazione
delle previsioni urbanistiche contenute nel regolamento
urbanistico rimaste ancora inattuate (pagina 11 della
relazione illustrativa annessa alla variante adottata:
documento n. 5-bis depositato in giudizio dal Comune).
La principale declinazione di tali obiettivi era costituita
dalla prevista limitazione dell’attività edificatoria, in
quanto era emerso, per quasi tutte le UTOE, soprattutto per
le funzioni residenziali, un livello di urbanizzazione
superiore alle previsioni di piano strutturale: dalla pagina
13 della relazione allegata alla delibera di adozione della
variante risulta, ai fini del rispetto delle previsioni
delle capacità insediative stabilite dal piano strutturale,
l’introduzione di un divieto di nuova edificazione con
destinazione residenziale, commerciale e artigianale in
molte UTOE, ma non nell’UTOE n. 4, inclusiva della proprietà
dei ricorrenti, anche se la verifica della capacità
edificatoria effettuata nel primo semestre del 2008 aveva
evidenziato “lo sforamento delle quantità edificatorie con
particolare riferimento alle UTOE 3a, 3b, 4, 6b, 7b e 8d”
(pagina 3 della relazione descrittiva annessa alla delibera
di approvazione, costituente il documento n. 15-ter
depositato in giudizio dal Comune), e quindi anche in
relazione all’UTOE di interesse degli esponenti (UTOE n. 4).
Ad avviso del Collegio il più rigoroso limite di
edificabilità introdotto in sede di approvazione della
variante da un lato non appare dissonante rispetto alle già
palesate esigenze di contenimento dell’attività edilizia, dall’altro è conseguente all’accoglimento delle osservazioni
della Regione e della Provincia (documenti n. 8 e 10
depositati in giudizio dal Comune di Lucca). Ciò in quanto
già al momento dell’adozione della variante si rendeva
necessario tenere conto, in particolare, dell’art. 36 del PIT approvato dal Consiglio Regionale in data 24.07.2007, il
quale tutela le porzioni di territorio rurale che segnano
discontinuità all’interno del tessuto urbano della piana o
che sono connotate da elementi strutturali del paesaggio
storico della piana (pagina 2 dell’osservazione regionale), cosicché occorreva valutare i limiti di sostenibilità degli
interventi di trasformazione urbanistica decaduti e
conformare ciascuna UTOE alla disciplina paesaggistica del
PIT (pagina 6 dell’osservazione della Provincia), limiti che
del resto erano già stati prefigurati dall’Ente in fase di
adozione, essendosi assunto come criterio guida non solo il
piano strutturale ma anche il PIT.
Occorre precisare che la ripubblicazione del piano
regolatore adottato dal Comune è necessaria, a seguito
dell'accoglimento delle osservazioni presentate dai privati,
solo nel caso in cui sia stata effettuata una rielaborazione
complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che presiedevano alla sua impostazione (Cons. Stato, IV,
12.03.2009, n. 1477), e d’altro canto le modificazioni
introdotte dalla Regione, a mente dell'art. 10, comma 2, l.
n. 1150 del 1942, o, per quanto riguarda il procedimento
urbanistico comunale disciplinato dalla legislazione
regionale toscana, presentate dalla Regione Toscana nella
forma di autorevoli osservazioni riconosciute indispensabili
per assicurare il rispetto delle previsioni del PIT, ai
sensi della disciplina introdotta dagli artt. 17 e seguenti
della L.R. n. 1/2005, non comportano la necessità per il
Comune interessato di riavviare il procedimento di
approvazione dello strumento urbanistico, con conseguente
ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, secondo
comma, lettera c), della legge n. 1150/1942- nell'ambito di
un unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio (Cons.
Stato, IV, 15.04.2013, n. 2029).
In ogni caso, la ripubblicazione della variante adottata si
rende necessaria solo se le osservazioni accolte superano il
limite del rispetto dei canoni guida del piano adottato (Cons.
Stato, sez. IV, 31.01.2005, n. 259). Per giurisprudenza
assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo
di riadozione e ripubblicazione della variante ricorre
qualora le modifiche facoltative o concordate dello
strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello
strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di
dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato
l'impianto originario, ancorché possano incidere
sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di
aree (TAR Toscana, I, 22.09.2016, n. 1381).
Tale impostazione non è superata o modificata dalla
legislazione urbanistica regionale toscana (L.R. n. 1/2005,
applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame).
5. Sotto altro profilo, la circostanza che la proposta di
piano attuativo presentata dai ricorrenti non sia mai stata
approvata impedisce di ritenere perfezionata, in capo ai
ricorrenti medesimi, una situazione di affidamento
qualificato, tale da imporre al Comune oneri motivazionali
particolarmente stringenti, che possono quindi reputarsi
soddisfatti dalla palesata esigenza di evitare difformità
tra il PIT e il regolamento urbanistico: solo lo strumento
attuativo approvato e convenzionato fonda un affidamento
qualificato in capo al suo titolare (TAR Toscana, I,
29.02.2016, n. 369; idem, 01.03.2010, n. 575) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ripubblicazione di un Piano Regolatore Generale in caso di
accoglimento delle osservazioni.
In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10
della legge 17.08.1942, n. 1150) lo strumento
urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la
fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state
introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema
procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte
del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei
privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni
presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione
degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato
affermato
che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle
osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda
deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si
fa discendere una modifica immediata del testo del piano
stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova
pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori
osservazioni".
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni
può non implicare volontà di modifica immediata del piano
regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta
di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non
occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il
testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello
adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad
essere modificato.
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di
modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano
adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova
adozione che necessita di pubblicazione.
...
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo
giurisprudenziale secondo il
quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in
itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal
proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a
questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano
stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le
proprie osservazioni.
Invero, le
osservazioni presentate dai privati nei confronti di un
piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire
che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso
assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo
che l'amministrazione si determini correttamente e
compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di
buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere
all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa
assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a
consentire ai soggetti interessati di concorrere e di
collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla
formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle
ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente
modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto
essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua
approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase
istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e
della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i
soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto
principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba
riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche
nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che
l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari
delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione
della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad
edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione
giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli
abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a
verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza. Che il
mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica
sostanziale non può essere messo in dubbio.
Invero, “se
importante è senza dubbio la destinazione di zona (non
oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle
singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica
utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun
dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più
generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale
modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione
dello strumento urbanistico.”.
---------------
Con il secondo motivo si lamenta la mancata
ripubblicazione della variante a seguito dell’accoglimento
dell’osservazione n. 535, che ha comportato la modifica di
destinazione dell'area, così eliminando la fase di
partecipazione dei cittadini interessati. Inoltre i
ricorrenti stigmatizzano la prassi di introdurre –mediante
la proposizione delle osservazioni- vere e proprie
richieste/proposte del privato, che non abbiano attinenza
con le scelte effettuate dall'amministrazione in sede di
adozione del piano, che produce l'effetto di eliminare
completamente ogni trasparenza nella assunzione delle
decisioni di pianificazione.
La censura è fondata.
La resistente e la controintereessata richiamano il
consolidato orientamento giurisprudenziale in forza del
quale “sono ammissibili modifiche di strumenti adottati a
seguito della presentazione di osservazioni, senza bisogno
di procedere alla nuova pubblicazione del progetto, purché
le modifiche apportate non comportino sostanziali
innovazioni o deviazioni dei criteri connotanti il piano
adottato", sostenendo che la modifica di classificazione di
un'area di dimensioni assai modeste, con la restante parte
conservata alla destinazione originaria (e con la cessione
al Comune di tale restante parte, ad ulteriore garanzia che
l'area rimarrà verde pubblico attrezzato) non configura
affatto una sostanziale innovazione o deviazione dai criteri
che connotano il piano.
La fattispecie in esame non è però configurabile in detti
termini.
In via generale va –con un maggiore approfondimento rispetto
alla stringata massima di cui sopra– va rilevato quanto
segue.
In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10
della legge 17.08.1942, n. 1150), lo strumento
urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la
fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state
introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema
procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte
del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei
privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni
presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione
degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato
affermato (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.04.2006, n. 2297)
che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle
osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda
deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si
fa discendere una modifica immediata del testo del piano
stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova
pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori
osservazioni" (cfr. ex plurimis, Consiglio di stato, sez. IV,
n. 4980 del 05.04.2003; sez. IV, 20.11.2000, n.
6178).
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni
può non implicare volontà di modifica immediata del piano
regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta
di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non
occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il
testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello
adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad
essere modificato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 20.02.1998, n. 301).
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di
modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano
adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova
adozione che necessita di pubblicazione (cfr. Consiglio di
stato, sez. IV, n. 4980 del 05.09.2003; sez. IV, 20.11.2000, n. 6178; sez. IV, 20.02.1998, n. 301 cit.; 27.03.1995, n. 206).
Va posto in luce che, per effetto della legislazione
regionale concorrente, il suddetto schema in molte Regioni è
stato modificato prevedendosi l’approvazione del piano
regolatore da parte dello stesso Comune con delibera del
Consiglio comunale. Tale è la situazione nella Regione
Emilia Romagna per effetto della disciplina introdotta con
la legge regionale 24.03.2000 n. 20 (per il RUE si veda l’art. 33 ).
E’ evidente che in tale differente quadro, in cui tutte le
scelte sono ricondotte al solo livello comunale la suddetta
impostazione giurisprudenziale deve essere letta ed
applicata con maggiore rigore, soprattutto nella tutela
delle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari di
consistenti modifiche della posizione della loro proprietà
per l’effetto di accoglimento di osservazioni di soggetti
terzi.
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo
giurisprudenziale (cfr. TRGA Trento 24.07.2008 n. 191,
28.02.2008, n. 53, 05.03.2004, n. 91 e 12.07.2005, n. 204,
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 06.12.2007, n. 1395, TAR
Toscana, sez. I, 03.10.2005, n. 4614, TAR Lombardia-Brescia
03.06.2003, n. 826; Consiglio di Stato, Sez. IV,
20.12.2000, n. 6178; Sez. IV, 26.09.2001, n. 5038; Sez. IV,
04.03.2002, n. 1197; Sez. IV, 05.09.2003, n. 4977) secondo il
quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in
itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal
proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a
questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano
stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le
proprie osservazioni.
Invero, (cfr. TAR Catania, I, 30.01.2007, n. 179), le
osservazioni presentate dai privati nei confronti di un
piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire
che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso
assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo
che l'amministrazione si determini correttamente e
compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di
buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere
all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa
assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a
consentire ai soggetti interessati di concorrere e di
collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla
formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle
ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente
modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto
essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua
approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase
istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e
della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i
soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto
principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba
riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche
nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che
l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari
delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione
della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad
edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione
giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli
abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a
verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza. Che il
mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica
sostanziale non può essere messo in dubbio (cfr. al riguardo
Cons St., Sez. IV, 08.06.2011 n. 3497, ove si osserva: “se
importante è senza dubbio la destinazione di zona (non
oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle
singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica
utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun
dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più
generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale
modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione
dello strumento urbanistico.”).
Nella memoria di replica la difesa comunale sostiene che la
riclassificazione di una modesta porzione di terreno in una
zona determina una modifica puntuale e del tutto marginale
che non può integrare una stravolgimento delle previsioni
del PSC (che classifica un vasto ambito nella quale la
stessa è ricompresa come Parco urbano e suburbano).
L’argomentazione non convince.
Infatti, se si tiene conto che uno strumento urbanistico (o
una sua variante) contiene una serie di previsioni, per ogni
singola proprietà, che risultano unite in un disegno
programmatorio armonico e funzionale al raggiungimento di
determinati obiettivi, va rilevato che non è alla grandezza
o piccolezza dell’area che deve farsi riferimento ma alla
congruenza o meno della modificazione della disciplina del
singolo ambito proprietario rispetto ai criteri generali.
In altri termini, se il piano persegue l’obiettivo della
riduzione del consumo di suolo o di mantenimento delle aree
a verde il mutamento radicale (da inedificabile ad
edificabile) costituisce una modifica radicale, sovvertendo
completamente il tipo di utilizzo dell’area.
L’accoglimento delle prime due doglianze riveste carattere
assorbente sicché il Collegio è dispensato dalla disamina
delle ulteriori censure (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La ripubblicazione del piano regolatore adottato dal Comune
è necessaria, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni
presentate dai privati, solo nel caso in cui sia stata
effettuata una rielaborazione complessivamente innovativa
del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano
alla sua impostazione.
---------------
11. Con il quarto motivo è stata dedotta l’omessa
ripubblicazione del piano e l’omessa acquisizione dei
prescritti pareri.
Alla luce della giurisprudenza richiamata dal Comune
appellante (Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009, n. 1477) il
motivo è infondato.
“La ripubblicazione del piano regolatore adottato dal Comune
è necessaria, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni
presentate dai privati, solo nel caso in cui sia stata
effettuata una rielaborazione complessivamente innovativa
del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano
alla sua impostazione”.
Nel caso di specie non si è trattato di una rielaborazione
del piano, ma solo dello spostamento di un’unità (il “Li.Ku.”) nella categoria delle unità speciali (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.04.2016 n. 1516 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In
base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
la rielaborazione complessiva di uno strumento di
pianificazione territoriale, avvenuta in sede di
approvazione definitiva dello stesso, comporta la
necessità della sua ripubblicazione. Va però
osservato che può parlarsi di rielaborazione
complessiva quando fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti tali da
determinare un cambiamento radicale delle
caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che
presiedono alla sua impostazione. Con riferimento
ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza
esclude che si possa parlare di rielaborazione
complessiva del piano quando in sede di approvazione
vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
E’ ovvio che i principi appena illustrati devono
essere adattati quando oggetto di sindacato
giurisdizionale non sia lo strumento urbanistico del
comune ma un PTCP della provincia.
La scala provinciale impone di considerare
irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo
le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di
aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in
sede di approvazione, che investano settori
circoscritti del territorio provinciale.
---------------
28. Con il
terzo motivo i ricorrenti sostengono che le rilevanti modifiche apportate al piano in sede di approvazione definitiva, rispetto al contenuto che esso aveva in sede di adozione, avrebbero reso necessaria la sua ripubblicazione. 29. La censura è strettamente connessa a quella contenuta nel
quarto motivo, nel quale gli interessati sostengono che le rilevanti modifiche introdotte avrebbero dovuto comportare la rinnovazione del procedimento di valutazione di impatto ambientale (VAS).
I ricorrenti aggiungono, con riguardo a questo particolare profilo, che la Provincia non avrebbe potuto disattendere i pareri favorevoli rilasciati dalla Regione in sede di VAS; pareri espressi su un’ipotesi di PTCP che non assoggettava le loro aree alla disciplina qui contestata e che, peraltro, erano del tutto conformi a quelli rilasciati dalla stessa Regione sul piano di governo del territorio (PGT) del Comune di Lesmo (il quale, del pari, non introduceva vincoli di inedificabilità sulle aree dei ricorrenti).
Infine, sempre con riferimento alla VAS, viene dedotta la violazione dell’art. 5 della direttiva comunitaria 2001/42/CE, giacché non sarebbero state prospettate, nell’ambito del procedimento, ipotesi alternative all’unica formulata. 30. I motivi sono infondati per le ragioni di seguito esposte. 31. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione. 32. Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr. fra le tante, TAR Toscana, sez. 17.11.2011, n. 1736). 33. Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769; id. 30.07.2012, n. 4321; id. 27.12.2011 n. 6865). 34. E’ ovvio che i principi appena illustrati devono essere adattati quando oggetto di sindacato giurisdizionale non sia lo strumento urbanistico del comune ma un PTCP della provincia. 35. La scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale. 36. Nel caso concreto gli interessati riferiscono di modifiche, intervenute in sede di approvazione del PTCP della Provincia di Monza e Brianza, che riguardano esclusivamente le loro aree e che, in particolare, ne hanno sancito l’inclusione nella rete verde di ricomposizione paesaggistica. 37. Si tratta dunque di interventi che, in sé considerati, non incidono sull’impostazione complessiva del piano e che, quindi, in applicazione dei principi sopra illustrati, non impongono l’obbligo di ripubblicazione. 38. Si può peraltro aggiungere che le innovazioni sono il risultato delle controdeduzioni e del parere espresso sul PTCP adottato dalla Giunta Regionale, ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005. 39. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della stessa legge-regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del PGT, vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al PTCP, quale atto di pianificazione generale in ambito sovra comunale. 40. La norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “…controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni (…) regionali…”. 41. Le argomentazioni sin qui svolte valgono ovviamente anche per ciò che concerne la procedura VAS.
Come rilevato dalla giurisprudenza, tale procedura costituisce non già un procedimento o sub-procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell'espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (cfr. fra le tante TAR Liguria, sez. I, 26.02.2014, n. 359). 42. E’ dunque del tutto naturale che essa segua le sorti del procedimento urbanistico. 43. Va poi osservato che la decisone assunta dal Consiglio Provinciale di ampliare la superficie della rete verde di ricomposizione paesaggistica non si pone in contrasto con le valutazioni espresse in sede di VAS, posto che con tale decisione viene ampliata e non compressa la tutela dei valori ambientali cui la stessa VAS è funzionale. 44. Per quanto riguarda invece la censura che deduce la mancata prospettazione di soluzioni alternative, il Collegio deve osservare che non si vede quale interesse abbiano le parti a rilevare tale omissione, posto che, come visto, le stesse parti lamentano proprio il mancato recepimento, in sede di approvazione del PTCP, dell’unica soluzione esaminata in sede di VAS.
In proposito va richiamato l’orientamento che considera inammissibili le censure che attengono al procedimento VAS qualora il ricorrente ometta di indicare in che modo i vizi dedotti abbiano inciso sulle determinazioni pianificatorie (cfr. TAR Umbria, sez. I, 09.03.2015, 95; TAR Lombardia Milano, sez. II, 27.02.2015, n. 576). 45. Per queste ragioni va ribadita l’infondatezza dei
motivi in esame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.06.2015 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Con riferimento all’obbligo di ripubblicazione
del piano a seguito delle modificazioni che possono essere
introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale,
occorre distinguere le
- modifiche obbligatorie (in
quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici,
l’adozione di standards urbanistici minimi ed in genere
l’osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da
- quelle
facoltative (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e da
- quelle concordate (conseguenti
all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed
accettate dall’amministrazione comunale).
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e
concordate, ove superino il limite di rispetto dei
canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della
ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le
modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché
proprio il carattere dovuto dell’intervento provinciale o
regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del
privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie
operate in sede di adozione ed approvazione del PRG.
---------------
In sede di approvazione di
uno strumento urbanistico, l’approvazione parziale
può dar luogo sia alla modifica d’ufficio di previsioni urbanistiche sia allo
stralcio, strumento privo di tipicità legale ma
diffuso nella prassi amministrativa, cioè a due diverse
evenienze che si distinguono per il fatto che con la prima
l’ente approvante sovrappone definitivamente la propria
volontà a quella del comune, mentre con il secondo
restituisce al comune l’iniziativa, beninteso nei limiti
della parte stralciata.
---------------
2.12 Con riferimento all’obbligo di ripubblicazione del
piano a seguito delle modificazioni che possono essere
introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale,
occorre distinguere le modifiche obbligatorie (in
quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici,
l’adozione di standards urbanistici minimi ed in genere
l’osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da quelle
facoltative (consistenti in innovazioni non
sostanziali) e da quelle concordate (conseguenti
all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed
accettate dall’amministrazione comunale).
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e
concordate, ove superino il limite di rispetto dei
canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della
ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le
modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché
proprio il carattere dovuto dell’intervento provinciale o
regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del
privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie
operate in sede di adozione ed approvazione del PRG
(orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di
Stato, Sez. IV, 26.02.2013 n. 1182).
Ebbene, nel caso specifico si ricade proprio in tale ultima
ipotesi, essendo le modificazioni apportate con la delibera
del Consiglio Provinciale di Napoli n. 103/2006 tutte di
carattere obbligatorio, attinenti ora all’adeguamento agli
standard urbanistici minimi, ora al rispetto della normativa
urbanistica nazionale e regionale vigente, ora al
recepimento di prescrizioni volte alla tutela della salute
pubblica (cfr. pagg. 22 e ss. della relazione tecnica cit.).
Ne discende la non esigibilità della ripubblicazione del
piano regolatore approvato.
2.13 Infine, vale osservare che, in sede di approvazione di
uno strumento urbanistico, l’approvazione parziale
(intervenuta nel caso di specie) può dar luogo sia alla
modifica d’ufficio di previsioni urbanistiche sia allo
stralcio, strumento privo di tipicità legale ma diffuso
nella prassi amministrativa, cioè a due diverse evenienze
che si distinguono per il fatto che con la prima l’ente
approvante sovrappone definitivamente la propria volontà a
quella del comune, mentre con il secondo restituisce al
comune l’iniziativa, beninteso nei limiti della parte
stralciata (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.03.2015 n. 1510 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Rielaborazione complessiva del Piano territoriale di coordinamento
provinciale.
Può considerarsi rielaborazione complessiva del Piano
territoriale di coordinamento provinciale quando fra la fase di adozione e
quella di approvazione, siano intervenuti mutamenti tali da determinare un
cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei
criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza esclude
che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede
di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di
singole aree o singoli gruppi di aree
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 30.09.2014 n. 2405).
---------------
7. Con il primo motivo, le ricorrenti sostengono che le rilevanti
modifiche apportate al piano in sede di approvazione definitiva, rispetto al
contenuto che esso aveva in sede di adozione, avrebbero reso necessaria la
sua ripubblicazione. L’omessa ripubblicazione, oltre ad essere in contrasto
con i principi elaborati in materia dalla giurisprudenza, sarebbe anche
contraria all’art. 17, comma 3, della legge della Regione Lombardia n. 12
del 2005, in quanto lesiva delle prerogative attribuite da tale norma ai
comuni.
8. La censura è strettamente connessa a quella contenuta nel terzo motivo,
nel quale la parte sostiene che le rilevanti modifiche introdotte avrebbero
dovuto comportare la rinnovazione del procedimento di valutazione di impatto
ambientale (VAS).
9. I motivi sono infondati per le ragioni di seguito esposte.
10. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la
rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale,
avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la
necessità della sua ripubblicazione.
11. Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando
fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti
tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali
del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr. fra le
tante, TAR Toscana, sez. 17.11.2011, n. 1736).
12. Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza
esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando
in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la
disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769; id. 30.07.2012, n. 4321; id. 27.12.2011
n. 6865).
13. E’ ovvio che i principi appena illustrati devono essere adattati quando
oggetto di sindacato giurisdizionale non sia lo strumento urbanistico del
comune ma un PTCP della provincia.
14. La scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della
ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi
di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di
approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.
15. Nel caso concreto le interessate riferiscono di modifiche, intervenute
in sede di approvazione del PTCP della Provincia di Monza e della Brianza,
che interessano alcune aree del territorio del Comune di Camparada o,
comunque, porzioni circoscritte del territorio provinciale (cfr. docc. Nn. 5
e 6 delle ricorrenti).
16. Si tratta dunque di interventi che, in sé considerati, non incidono
sull’impostazione complessiva del piano e che, quindi, in applicazione dei
principi sopra illustrati, non impongono l’obbligo di ripubblicazione.
17. Si può peraltro aggiungere che le innovazioni sono il risultato delle
controdeduzioni e del parere espresso sul PTCP adottato dalla Giunta
Regionale, ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005.
18. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9,
della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 che, seppure dettata per
il procedimento di approvazione del PGT, vale a dire lo strumento
urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al
PTCP, quale atto di pianificazione generale in ambito però sovra comunale.
19. La norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di
approvazione di <<…controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento
delle prescrizioni provinciali e regionali…>>.
20. Le argomentazioni sin qui svolte valgono ovviamente anche per ciò che
concerne la procedura VAS.
Come rilevato dalla giurisprudenza, tale procedura costituisce non già un
procedimento o sub-procedimento autonomo rispetto alla procedura di
pianificazione, ma un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi
nell'espressione di un “parere” che riflette la verifica di
sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (cfr. fra le tante
TAR Liguria, sez. I, 26.02.2014, n, 359).
21. E’ dunque del tutto naturale che essa segua le sorti del procedimento
urbanistico.
22. Va poi osservato che la decisone assunta dal Consiglio Provinciale di
ampliare la superficie della rete verdi di ricomposizione paesaggistica non
si pone ovviamente in contrasto con le valutazioni espresse in sede di VAS,
posto che con essa viene ampliata e non compressa la tutela dei valori
ambientali cui la stessa VAS è funzionale.
23. Né si può ritenere che l’iter seguito abbia in qualche modo leso le
prerogative procedimentali dei comuni, giacché questi hanno comunque potuto
far valere le loro ragioni attraverso la proposizione di osservazioni al
PTCP adottato.
24. Per queste ragioni va ribadita l’infondatezza del motivo in esame. |
URBANISTICA: Approvazione del P.U.G., accoglimento osservazioni soggetti interessati e ripubblicazione.
In linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione.
Il principio che da tale condivisibile regola giurisprudenziale può trarsi, infatti, è quello per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo.
La legge regionale non introduce simili obblighi, né gli stessi possono
desumersi induttivamente: comportando gli stessi un enorme aggravio
procedimentale, collidente con i principi generali in tema di agere
amministrativo, una simile opzione eremeneutica dovrebbe essere corroborata
da un referente letterale granitico (nel caso di specie insussistente),
salvo a doversi interrogare della logicità e razionalità di una simile
previsione e sulla rispondenza della medesima al canone di cui all’art. 97
della Costituzione.
La giurisprudenza amministrativa
ha costantemente affermato tale principio “quantitativo” per cui, salve le
ipotesi di stravolgimento, non è necessario il sostanziale riavvio della
procedura ab imis (“nel procedimento di formazione dei piani regolatori
generali, la pubblicazione prevista dall'art. 9, legge 17.08.1942, n.
1150 (e dalle corrispondenti norme regionali), è finalizzata alla
presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al
progetto di piano adottato dal Comune, ma non è richiesta, di regola, per le
successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti
modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o di modifiche
introdotte in sede di approvazione regionale.
Vi sono, però, alcune
eccezioni.
In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni
formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti
a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo
del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed
alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni. In altre ipotesi, la
delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica
immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e
proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla Regione; per cui non occorrerà
nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti
di salvaguardia sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché
destinato ad essere modificato.
Al contrario, se il Comune, controdeducendo
alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano
adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che
necessita di pubblicazione.”).
-------------- 4.2.1. Alla stregua (anche) delle superiori prescrizioni,
oltre che dei principi generali in tema di approvazione dello strumento
urbanistico, il primo versante delle proposte censure appare certamente
privo di consistenza.
Espletati i lavori della conferenza di servizi può affermarsi, al Consiglio
Comunale residua il compito di “adeguare” il PUG.
La disposizione predetta, non pare al Collegio introduca elementi devianti
rispetto alla consolidata regola giurisprudenziale secondo la quale (Cons.
Stato Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503) “in linea di principio, se la
pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle
diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle
osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale
adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi
del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito
dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di
approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere
il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione”.
Il principio che da tale condivisibile regola giurisprudenziale può trarsi,
infatti, è quello per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e
della concreta esperienza giurisprudenziale, oltre che certamente non
ricorrenti nel caso di specie) ipotesi di stravolgimento del piano,
l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto
modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta”
e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo.
La legge regionale non introduce simili obblighi, né gli stessi possono
desumersi induttivamente: comportando gli stessi un enorme aggravio
procedimentale, collidente con i principi generali in tema di agere
amministrativo, una simile opzione eremeneutica dovrebbe essere corroborata
da un referente letterale granitico (nel caso di specie insussistente),
salvo a doversi interrogare della logicità e razionalità di una simile
previsione e sulla rispondenza della medesima al canone di cui all’art. 97
della Costituzione.
La giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato Sez. IV, 26.04.2006, n. 2297)
ha costantemente affermato tale principio “quantitativo” per cui, salve le
ipotesi di stravolgimento, non è necessario il sostanziale riavvio della
procedura ab imis (“nel procedimento di formazione dei piani regolatori
generali, la pubblicazione prevista dall'art. 9, legge 17.08.1942, n.
1150 (e dalle corrispondenti norme regionali), è finalizzata alla
presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al
progetto di piano adottato dal Comune, ma non è richiesta, di regola, per le
successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti
modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o di modifiche
introdotte in sede di approvazione regionale.
Vi sono, però, alcune
eccezioni.
In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni
formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti
a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo
del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed
alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni. In altre ipotesi, la
delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica
immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e
proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla Regione; per cui non occorrerà
nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti
di salvaguardia sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché
destinato ad essere modificato.
Al contrario, se il Comune, controdeducendo
alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano
adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che
necessita di pubblicazione.”).
La doglianza va pertanto disattesa: la circostanza che non vi fossero gli
strumenti sovraordinati in relazione ai quali esercitare il controllo di
compatibilità non appare affatto decisiva: le affermazioni di parte
appellante circa un concreto “stravolgimento” del piano nei termini in cui
lo stesso era stato adottato dal Comune forzano in parte la realtà, ma ciò
che più rileva è che la stessa legge richiamata dall’appellante non prevede
alcun onere di ripubblicazione all’esito della chiusura dei lavori della
Conferenza di servizi e tale obbligo procedimentale non può discendere dalla
disposizione della legge regionale che prevede la “massima partecipazione”
dei cittadini.
Quest’ultima è assicurata in tutte le fasi procedimentali e costituirebbe un
indebito appesantimento della procedura prevedere un nuovo incombente
riposante nella ripubblicazione (e conseguente riapertura della fase di
presentazione delle osservazioni, etc.) laddove la legge medesima non l’abbia
affatto previsto.
La Conferenza di Servizi è destinata a “sanare” il disaccordo tra Regione e
Comune, ma anche ad evitare la “navetta” discendente (come efficacemente
illustrato dalla decisione del Consiglio di Stato prima richiamata) della
possibilità che il comune a propria volta “controdeduca” alla Regione: con
detta fase si conclude l’iter formativo, e non v’è luogo ad ulteriori
interventi dei privati.
Pretendere che il controllo della Regione possa liberamente dispiegarsi
laddove vi fossero strumenti preordinati tesi a limitare il controllo
regionale, e non anche laddove tali strumenti non vi fossero, implica una
interpretatio abrogans dell’ultima parte del citato comma 7 dell’art. 20
della legge regionale pugliese a più riprese richiamata che consente di
espletare il detto controllo avendo come parametro gli (“indirizzi regionali
della programmazione socio-economica e territoriale di cui all'articolo 5
del D.Lgs. n. 267/2000”).
E ciò senza introdurre differenze rispetto alla ipotesi –prevista
nell’incipit del comma medesimo- in cui il controllo si fosse svolto in
relazione al parametro rappresentato dal “il D.R.A.G. e con il P.T.C.P., ove
approvati” ovvero “rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione
territoriale ove esistente”.
Nella unicità del procedimento ivi delineato, in ciascuna delle dette
eventualità, trova condivisione da parte del Collegio, la incontestabile –ed
incontestata per il vero– affermazione del primo giudice secondo la quale
non poteva dubitarsi che il controllo regionale avesse investito parametri
di stretto interesse della regione medesima: né vizio di straripamento
v’era, quindi, ma neppure ragione per ipotizzare, ultra (e probabilmente
contra) legem, un ulteriore incombente procedimentale che, di fatto, avrebbe
riportato indietro in modo drastico l’iter approvativo.
Il principio di pubblicità e partecipazione è un cardine dell’azione
amministrativa; ed è espressamente consacrato nella lex generalis del
procedimento amministrativo, ex lege n. 241/1990: non meno di questi, però,
costituisce modo di agire corretto quello che assicuri la celere definizione
dei procedimenti ed il non appesantimento della fase istruttoria.
La Legge regionale pugliese pare al Collegio abbia sapientemente
contemperato i suddetti –all’apparenza potenzialmente configgenti- principi;
l’azione amministrativa concreta non li ha vulnerati e, peraltro, il
tempestivo deposito dei verbali della conferenza di servizi presso l’Ufficio
tecnico comunale ha consentito (pur senza riaprire la fase procedimentale né
la presentazione di ulteriori osservazioni) di soddisfare l’onere di
tempestiva pubblicità (così consentendo ai privati di tempestivamente
valutare la possibile proposizione di azioni impugnatorie).
Il controllo va espletato rispetto ad altro strumento regionale di
pianificazione territoriale: ma –per espresso dettato di legge- ove
esistente: laddove questo non esista, tuttavia, ciò non può certo
significare che la Regione debba astenervisi, e neppure può comportare
l’incremento di obblighi infraprocedimentali (nuova pubblicazione, etc.) non
previsti ex lege.
Anche detta doglianza, incidentalmente riproposta, va pertanto disattesa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.03.2014 n. 1241 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ripubblicazione dei PRG solo in caso di stravolgimento dello strumento adottato.
In linea di principio, l'iter di formazione dei piani regolatori deve essere interpretato alla luce del principio generale del “non aggravamento” di cui alla L. n. 241 del 1990.
La Sezione, al riguardo, è infatti da tempo orientata nel senso che una
ripubblicazione del piano regolatore generale, è necessaria solo in caso di modifiche che comportano uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste sono numerose sul piano quantitativo ovvero incidono in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.12.2013 n. 5769). |
URBANISTICA:
Ancorché si sia verificato un elevato numero di osservazioni
pervenute e accolte, anche in considerazione delle rilevanti modifiche
inserite su diretta iniziativa degli uffici comunali, non sussite(va) -ai
sensi degli art. 9 e 10, comma 2, della legge 1150/1942- la necessaria
ripubblicazione del PRG adottato. In sintesi, è vero che le modifiche sono state numerose e importanti, ma non è stata stravolta l’impostazione sostanziale del PRG adottato, che è la condizione necessaria perché vi sia l’obbligo di ripubblicazione.
---------------
Sulla procedura di approvazione del PRG 19. Il ricorrente sostiene che a causa dell’elevato numero di osservazioni pervenute e accolte, e in considerazione delle rilevanti modifiche inserite su diretta iniziativa degli uffici comunali, sarebbe stata necessaria ai sensi degli art. 9 e 10, comma 2, della legge 1150/1942 la ripubblicazione del PRG adottato. 20. Sul punto devono essere richiamate le conclusioni di segno opposto a cui è giunto questo TAR in relazione a controversie che riguardavano i medesimi provvedimenti impugnati nel presente giudizio (v. TAR Brescia Sez. I 15.02.2007 n. 170; TAR Brescia Sez. I 19.07.2008 n. 833; TAR Brescia Sez. II 08.06.2011 n. 836). In sintesi, è vero che le modifiche sono state numerose e importanti, ma non è stata stravolta l’impostazione sostanziale del PRG adottato, che è la condizione necessaria perché vi sia l’obbligo di ripubblicazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Quanto alla presunta necessità di ripubblicazione
del piano, va ricordato che, nella interpretazione dell'art.
10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato
dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di
delineare il "giusto procedimento" di perfezionamento di un
piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia
stata una rielaborazione complessivamente innovativa del
piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
Questo non è, tuttavia, il caso di specie, ove si tratta
della modifica della destinazione impressa ad una singola
area (P2), che non appare idonea ad alterare i criteri
d’impostazione del Piano (cfr. TAR Lombardia, sez. II,
sent. 197/2009, per cui: <<…La modifica apportata dal Comune,
in ottemperanza a tale indicazione, non richiedeva una nuova
pubblicazione della variante: è stata, difatti, dettata
dalla necessità di assicurare il rispetto delle finalità di
tutela paesaggistiche oggetto del piano territoriale di
coordinamento provinciale>>).
L’art. 13, co. 9 della legge reg. 12/2005, d’altro canto,
espressamente esclude l’assoggettamento a ripubblicazione
della deliberazione comunale di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali, senza ulteriori
specificazioni.
Anche laddove la modifica fosse da intendersi quale mera
raccomandazione ed avesse, dunque, carattere facoltativo,
non sussisterebbe, comunque, un obbligo di ripubblicazione
del piano, in quanto l’ampliamento dell’ambito boschivo
della rete ecologica in relazione all’area dell’esponente
non comporta una rielaborazione complessiva del piano stesso
o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali, nei
sensi poc’anzi precisati.
---------------
XVII. Con il quarto motivo si deduce la violazione di
legge e l’eccesso di potere, poiché, stante la rilevante
modifica introdotta in sede di controdeduzioni, il piano
doveva essere nuovamente assoggettato a pubblicazione.
XVIII. Il motivo è infondato.
XIX. Quanto alla presunta necessità di ripubblicazione del
piano, va ricordato che, nella interpretazione dell'art. 10
della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art.
3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare
il "giusto procedimento" di perfezionamento di un piano
urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere
necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia
stata una rielaborazione complessivamente innovativa del
piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche
essenziali e dei criteri che alla sua impostazione
rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr., fra le
tante: Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477;
Consiglio Stato, sez. IV, 25.11.2003, n. 7782).
Questo non è, tuttavia, il caso di specie, ove si tratta
della modifica della destinazione impressa ad una singola
area (P2), che non appare idonea ad alterare i criteri
d’impostazione del Piano (cfr. TAR Lombardia, sez. II,
sent. 197/2009, per cui: <<…La modifica apportata dal Comune,
in ottemperanza a tale indicazione, non richiedeva una nuova
pubblicazione della variante: è stata, difatti, dettata
dalla necessità di assicurare il rispetto delle finalità di
tutela paesaggistiche oggetto del piano territoriale di
coordinamento provinciale>>).
L’art. 13, co. 9 della legge reg. 12/2005, d’altro canto,
espressamente esclude l’assoggettamento a ripubblicazione
della deliberazione comunale di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali, senza ulteriori
specificazioni (cfr. Cons. Stato, IV, 09.03.2011 n. 1503;
TAR Lombardia, Milano, II, n. 742/2006).
Anche laddove la modifica fosse da intendersi quale mera
raccomandazione ed avesse, dunque, carattere facoltativo,
non sussisterebbe, comunque, un obbligo di ripubblicazione
del piano, in quanto l’ampliamento dell’ambito boschivo
della rete ecologica in relazione all’area dell’esponente
non comporta una rielaborazione complessiva del piano stesso
o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali, nei
sensi poc’anzi precisati (cfr. Cons. Stato, IV, 15.07.2008, n.
3518; id. 05.03.2008 n. 925; id. 31.01.2005 n. 259) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 28.02.2024 |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 13.12.2023, "Aggiornamento
dei criteri attuativi «Modalità per la pianificazione
comunale» (art. 7 della l.r. 12/2005 «Legge per il governo
del territorio»)" (deliberazione
G.R. 04.12.2023 n. 1504).
---------------
Si leggano anche i correlati:
● allegato 1 (AGGIORNAMENTO
DEI CRITERI ATTUATIVI DELLA LR 12/2005 “MODALITÀ PER LA
PIANIFICAZIONE COMUNALE”)
● allegato 2 (Atto di indirizzo e
coordinamento tecnico per l’attuazione dell’articolo 3 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del
territorio" -
MODALITÀ DI COORDINAMENTO ED INTEGRAZIONE DELLE INFORMAZIONI
PER LO SVILUPPO DEL SISTEMA INFORMATIVO TERRITORIALE
INTEGRATO - S.I.T.)
● allegato 3 [Determinazioni
in merito al Piano di Governo del Territorio dei comuni con
popolazione compresa tra 2.001 e 15.000 abitanti (art. 7, c.
3, LR n. 12/2005) - deliberazione C.R. 01.10.2008 n. 8138)]
● allegato 4 (CRITERI
ED INDIRIZZI PER LA DEFINIZIONE DELLA COMPONENTE GEOLOGICA,
IDROGEOLOGICA E SISMICA DEL PIANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO,
IN ATTUAZIONE DELL’ART. 57 DELLA L.R. 11.03.2005, N. 12 –
TESTO INTEGRALE)
● allegato 5 [Indirizzi
generali per la valutazione di piani e programmi (art. 4,
comma 1, l.r. 11.03.2005, n. 12) - deliberazione C.R.
13.03.2007 n. 351]
● allegato 6 (CRITERI
E PROCEDURE PER L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE IN
MATERIA DI TUTELA DEI BENI PAESAGGISTICI IN ATTUAZIONE DELLA
LEGGE REGIONALE 11.03.2005 N. 12)
- allegato 6-1 (ALLEGATO
A - SCHEMA DI DOMANDA PER AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA -
ELABORATI PER LA PRESENTAZIONE DEI PROGETTI)
- allegato 6-2 (ALLEGATO
B - SCHEDE DEGLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL PAESAGGIO)
- allegato 6-3 (ALLEGATO
C - MODELLI PER PROVVEDIMENTI PAESAGGISTICI (AUTORIZZATIVI E
SANZIONATORI))
- allegato 6-4 (ALLEGATO
D - RAPPORTO ANNUALE SULLO STATO DEL PAESAGGIO)
● allegato 7 (Atti di indirizzo e coordinamento
tecnico della legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per
il governo del territorio" -
INDIRIZZI E CRITERI URBANISTICI PER LA PIANIFICAZIONE DEGLI
ENTI LOCALI IN MATERIA COMMERCIALE) |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA: Giusta
il costante orientamento giurisprudenziale,
in materia di pianificazione urbanistica
deve essere riconosciuta al Comune un’ampia
discrezionalità, con la conseguenza che la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato dei privati a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti.
Invero, deve rilevarsi che, «con
riferimento all’esercizio dei poteri
pianificatori urbanistici, la tutela
dell’affidamento è riservata ai seguenti
casi eccezionali:
I) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con
l’avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona;
II) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;
III) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di
silenzio-rifiuto su domande di rilascio di
titoli edilizi), recanti il riconoscimento
del diritto di edificare;
IV) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area
limitata, interclusa da fondi edificati in
modo non abusivo».
Quindi, in assenza di un affidamento
qualificato, giuridicamente tutelato, in
capo all’Azienda ricorrente, la potestà
pianificatoria non è soggetta al principio
del divieto di reformatio in peius,
in quanto l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse degli
amministrati alla conferma (o al
miglioramento) della previgente disciplina a
interesse di mero fatto, non tutelabile in
sede giurisdizionale.
Oltretutto, è ormai condiviso in
giurisprudenza l’orientamento secondo il
quale «“… l’urbanistica, ed il
correlativo esercizio del potere di
pianificazione, non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle
potenzialità edificatorie dei suoli -non in
astratto, bensì in relazione alle effettive
esigenze di abitazione della comunità ed
alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di
valori ambientali e paesaggistici, sia di
esigenze di tutela della salute e quindi
della vita salubre degli abitanti, sia delle
esigenze economico-sociali della comunità
radicata sul territorio, sia, in definitiva,
del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in
considerazione della loro storia,
tradizione, ubicazione e di una riflessione
“de futuro” sulla propria stessa essenza,
svolta -per autorappresentazione ed
autodeterminazione- dalla comunità medesima,
attraverso le decisioni dei propri organi
elettivi e, prima ancora, attraverso la
partecipazione dei cittadini al procedimento
pianificatorio”.
Sino al punto di ritenere legittima la
scelta pianificatoria della c.d. “opzione
zero” a seguito della quale lo strumento
urbanistico non consente più, de futuro,
l’ulteriore consumo di suolo».
Peraltro, può accadere che la destinazione
di un’area a verde agricolo con divieto di
edificazione non implichi necessariamente
che si debbano soddisfare in modo diretto e
immediato interessi agricoli, ma piuttosto
può essere finalizzata al perseguimento di
esigenze di ordinato governo del territorio,
legate alla necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire
l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando la quota di valori naturalistici
e ambientali necessaria a preservare tale
equilibrio, come accade nella fattispecie de
qua.
---------------
... per l’annullamento
- della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del
14.12.2019, n. 52, pubblicata in data
22.04.2020, nelle sole parti in cui,
(i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte
dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio,
ha assoggettato l’area di proprietà delle
parti ricorrenti al regime di cui al neo
introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A.
del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse
paesaggistico”, nelle quali è esclusa la
possibilità di nuova edificazione, e
(ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del
P.d.R., a mente del quale nelle “aree
agricole di tipo produttivo” “la
nuova edificazione a destinazione agricola
potrà intervenire qualora (…) l’avente
titolo disponga di una superficie di
proprietà, contermine all’edificio di
prevista realizzazione, non inferiore a
10.000 mq”.
...
3. Con il secondo motivo di ricorso
si assume che l’azzonamento del comparto di
proprietà della ricorrente quale “area
agricola di interesse paesaggistico”,
oltre a essere del tutto immotivato e in
contrasto con lo stato di fatto, non essendo
la zona interessata da alcun cono
vedutistico, né da vincoli paesaggistici
sovraordinati, sarebbe altresì stato assunto
in violazione del procedimento di formazione
dello strumento pianificatorio, poiché
sarebbe stato introdotto soltanto in fase di
approvazione dello strumento urbanistico, in
seguito all’accoglimento delle osservazioni
proposte da un soggetto terzo, impedendo in
tal modo agli interessati di presentare le
proprie osservazioni a margine di una tale
scelta.
3.1. La doglianza è complessivamente
infondata.
Attraverso l’impugnata Variante al P.G.T. di
Lurate Caccivio, il comparto di proprietà
dell’Azienda agricola ricorrente, di cui al
foglio 9, mappale 1188, è stato classificato
tra gli “ambiti agricoli di interesse
paesaggistico”, con previsione di
inedificabilità assoluta, confermando per
tale ultimo aspetto quanto già stabilito con
i pregressi strumenti pianificatori (cfr.
all. 9 e 10 del Comune).
Tale collocazione trova la propria
giustificazione nella circostanza che il
comparto è inserito nella classe più alta di
sensibilità paesaggistica (classe 5 - “molto
elevata” - all. 6 del Comune) ed è
altresì ricompreso nella “Rete ecologica
provinciale - CAS - Aree sorgenti di
biodiversità di secondo livello” secondo
il Piano territoriale di coordinamento
provinciale (P.T.C.P.) di Como (all. 5 del
Comune), nonché incluso nel perimetro del
Piano locale di interesse sovracomunale (P.L.I.S.)
“Sorgenti del Torrente Lura” (all. 11
del Comune, pag. 45; cfr. anche certificato
di destinazione urbanistica del 06.05.2015,
all. 7 al ricorso).
In tal modo risulta confermato che la zona è
inserita in un corridoio ecologico di una
certa rilevanza, trattandosi di area
caratterizzata da “fondamentali relazioni
a livello di rete ecologica alla scala
comunale e sovracomunale”, come
ulteriormente dimostrato anche dalla
aerofotogrammetria dell’area in questione,
che ne attesta la collocazione in un
contesto paesaggistico ancora inedificato
posto al centro di un’area completamente
boscata (cfr. Relazione tecnica, pag. 8:
all. 8 al ricorso).
In presenza di tali presupposti,
assolutamente coerenti con lo stato di fatto
e per nulla travisati, risulta certamente
giustificato l’azzonamento riservato
all’area di proprietà dell’Azienda agricola
ricorrente attraverso la Variante impugnata,
avendo l’Amministrazione comunale inteso
preservare il contesto da ulteriore
edificazione, ivi compresa quella correlata
allo svolgimento dell’attività agricola.
Quindi, non risulta illogico che in sede di
esame delle osservazioni, sia stato deciso
che, «per le condizioni oggettive
dell’area, si propone classificarla come
‘area agricola di interesse paesaggistico’»
(osservazione n. 11.8, lett. c), proposta
dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio:
all. 8 del Comune, pag. 23).
La legittimità di tale modus procedendi
risulta avvalorata dal costante orientamento
giurisprudenziale, secondo il quale, in
materia di pianificazione urbanistica, deve
essere riconosciuta al Comune un’ampia
discrezionalità, con la conseguenza che la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato dei privati a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti (Consiglio di Stato, IV,
14.11.2023, n. 9758; IV, 21.08.2023, n.
7881; TAR Lombardia, Milano, II, 11.07.2022,
n. 1662; 25.01.2022, n. 165; 12.03.2021, n.
653; 28.12.2020, n. 2613).
Sempre in linea con la consolidata
giurisprudenza, deve rilevarsi che, «con
riferimento all’esercizio dei poteri
pianificatori urbanistici, la tutela
dell’affidamento è riservata ai seguenti
casi eccezionali:
I) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con
l’avvertenza che la motivazione ulteriore va
riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona;
II) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;
III) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di
silenzio-rifiuto su domande di rilascio di
titoli edilizi), recanti il riconoscimento
del diritto di edificare;
IV) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area
limitata, interclusa da fondi edificati in
modo non abusivo» (Consiglio di Stato,
IV, 02.01.2023, n. 21; anche, IV,
24.01.2023, n. 765; II, 08.09.2021, n. 6234;
TAR Lombardia, Milano, IV, 05.12.2023, n.
2951; altresì, Corte costituzionale,
sentenza n. 179 del 2019).
Quindi, in assenza di un affidamento
qualificato, giuridicamente tutelato, in
capo all’Azienda ricorrente, la potestà
pianificatoria non è soggetta al principio
del divieto di reformatio in peius,
in quanto l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse degli
amministrati alla conferma (o al
miglioramento) della previgente disciplina a
interesse di mero fatto, non tutelabile in
sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV,
05.06.2023, n. 5464; IV, 20.04.2023, n.
4015; TAR Lombardia, Milano, II, 25.01.2022,
n. 165; 14.12.2020, n. 2492; 07.07.2020, n.
1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n.
868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n.
2393).
Oltretutto, è ormai condiviso in
giurisprudenza l’orientamento secondo il
quale «“… l’urbanistica, ed il
correlativo esercizio del potere di
pianificazione, non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle
potenzialità edificatorie dei suoli -non in
astratto, bensì in relazione alle effettive
esigenze di abitazione della comunità ed
alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di
valori ambientali e paesaggistici, sia di
esigenze di tutela della salute e quindi
della vita salubre degli abitanti, sia delle
esigenze economico-sociali della comunità
radicata sul territorio, sia, in definitiva,
del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in
considerazione della loro storia,
tradizione, ubicazione e di una riflessione
“de futuro” sulla propria stessa essenza,
svolta -per autorappresentazione ed
autodeterminazione- dalla comunità medesima,
attraverso le decisioni dei propri organi
elettivi e, prima ancora, attraverso la
partecipazione dei cittadini al procedimento
pianificatorio” (così, Cons. Stato, sez. IV,
10.05.2012, n. 2710, §. 6.).
Sino al punto di ritenere legittima la
scelta pianificatoria della c.d. “opzione
zero” a seguito della quale lo strumento
urbanistico non consente più, de futuro,
l’ulteriore consumo di suolo» (Consiglio
di Stato, IV, 24.01.2023, n. 765; anche, IV,
14.09.2023, n. 8325; IV, 19.07.2023, n.
7070; TAR Lombardia, Milano, II, 28.12.2020,
n. 2613; II, 17.04.2019, n. 868).
Peraltro, può accadere che la destinazione
di un’area a verde agricolo con divieto di
edificazione non implichi necessariamente
che si debbano soddisfare in modo diretto e
immediato interessi agricoli, ma piuttosto
può essere finalizzata al perseguimento di
esigenze di ordinato governo del territorio,
legate alla necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire
l’equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando la quota di valori naturalistici
e ambientali necessaria a preservare tale
equilibrio, come accade nella fattispecie
de qua (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, II, 31.07.2023, n. 7407;
VI, 02.11.2021, n. 7308; IV, 12.02.2013, n.
830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia,
Milano, IV, 19.02.2024, n. 423; IV,
05.12.2023, n. 2951; II, 14.02.2020, n. 309;
03.12.2018, n. 2723; 18.06.2018, n. 1534;
20.06.2017, n. 1371).
Alla stregua di quanto sottolineato, risulta
evidente che le contestazioni formulate
nella censura oggetto di scrutinio
afferiscono al merito delle scelte
dell’Amministrazione, palesando un
differente punto di vista rispetto a quest’ultima,
assolutamente soggettivo, che non può
trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR
Lombardia, Milano, IV, 13.12.2023, n. 3029;
IV, 11.07.2022, n. 1662; II, 12.03.2021, n.
653; II, 28.12.2020, n. 2613; II,
07.07.2020, n. 1291; II, 10.12.2019, n.
2636; II, 20.08.2019, n. 1896; anche,
Consiglio di Stato, IV, 12.09.2023, n. 8275)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.02.2024 n. 492 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Quanto alla dedotta assenza di
vincoli discendenti dai Piani degli Enti sovraordinati (ossia il P.T.R. e il P.T.C.P.),
va precisato che il modello delineato
dall’art. 2, comma 4, della legge regionale
n. 12 del 2005 “prevede che i piani
collocati al livello superiore non sono
gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma
dettano una disciplina di orientamento,
indirizzo e coordinamento, che non può
essere stravolta ma, in particolari casi,
derogata dalla disciplina puntuale dettata
dallo strumento di pianificazione contenente
disposizioni di maggior dettaglio”.
Ciò sta a significare che soltanto con
riguardo ad alcuni specifici e limitati
ambiti i Piani sovraordinati hanno efficacia
prescrittiva e prevalente rispetto a quelli
adottati dal livello di governo inferiore,
solitamente recando una disciplina avente
una efficacia di indirizzo e di
coordinamento.
Del resto, le prerogative in ambito
pianificatorio dei Comuni non possono essere
affatto conculcate, essendo precluso alle
Regioni e alle Province trasformare i poteri
comunali in ordine all’uso del territorio in
funzioni meramente consultive prive di reale
incidenza, o in funzioni di proposta o
ancora in semplici attività esecutive.
Difatti, la funzione di pianificazione
urbanistica nel nostro ordinamento è stata
tradizionalmente rimessa all’autonomia dei
Comuni e in tal senso il legislatore statale
ha qualificato come funzioni fondamentali
dei Comuni «la pianificazione urbanistica
ed edilizia di ambito comunale nonché la
partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale» (art.
14, comma 27, lett. d), del
d.l. n. 78/2010), sottraendo
allo specifico potere regionale di
allocazione, ai sensi dell’art. 118, secondo
comma, Cost., la funzione di pianificazione
e stabilendo che questa rimanga assegnata,
in linea di massima, al livello dell’Ente
più vicino al cittadino (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 179/2019; i
Comuni non possono essere “meri esecutori
di una scelta pianificatoria regionale”
per Corte costituzionale, sentenza n. 202/2021).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento
degli obiettivi di tutela stabiliti dal
P.T.R. e dal P.T.C.P. a protezione dei
valori paesaggistici ivi indicati, ben possa
il P.G.T. introdurre ulteriori disposizioni,
destinate a meglio precisare o ad ampliare
siffatta tutela.
Sicché, anche ove
si fosse al cospetto di previsioni prescrittive e prevalenti, le stesse
opererebbero solo nel verso di impedire al
Comune, o all’Ente territoriale minore, la
compromissione del bene oggetto di tutela
(paesaggio, rete ecologica, ambito agricolo
strategico, ambiti di interesse provinciale,
ecc.), mentre nessun limite può essere posto
laddove tale ultimo Ente volesse garantire
maggiore tutela a tali beni o volesse
estenderne l’ambito, pena l’intrinseca
contraddittorietà di siffatta conclusione.
---------------
... per l’annullamento
- della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del
14.12.2019, n. 52, pubblicata in data
22.04.2020, nelle sole parti in cui,
(i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte
dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio,
ha assoggettato l’area di proprietà delle
parti ricorrenti al regime di cui al neo
introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A.
del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse
paesaggistico”, nelle quali è esclusa la
possibilità di nuova edificazione, e
(ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del
P.d.R., a mente del quale nelle “aree
agricole di tipo produttivo” “la
nuova edificazione a destinazione agricola
potrà intervenire qualora (…) l’avente
titolo disponga di una superficie di
proprietà, contermine all’edificio di
prevista realizzazione, non inferiore a
10.000 mq”.
...
3.2. Quanto poi alla dedotta assenza di
vincoli discendenti dai Piani degli Enti
sovraordinati (ossia il P.T.R. e il P.T.C.P.),
va precisato che il modello delineato
dall’art. 2, comma 4, della legge regionale
n. 12 del 2005 “prevede che i piani
collocati al livello superiore non sono
gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma
dettano una disciplina di orientamento,
indirizzo e coordinamento, che non può
essere stravolta ma, in particolari casi,
derogata dalla disciplina puntuale dettata
dallo strumento di pianificazione contenente
disposizioni di maggior dettaglio” (TAR
Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451;
II, 23.09.2016, n. 1700).
Ciò sta a significare che soltanto con
riguardo ad alcuni specifici e limitati
ambiti i Piani sovraordinati hanno efficacia
prescrittiva e prevalente rispetto a quelli
adottati dal livello di governo inferiore,
solitamente recando una disciplina avente
una efficacia di indirizzo e di
coordinamento (cfr., per alcuni esempi, TAR
Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 423;
II, 06.07.2021, n. 1656; II, 23.03.2021, n.
763).
Del resto, le prerogative in ambito
pianificatorio dei Comuni non possono essere
affatto conculcate, essendo precluso alle
Regioni e alle Province trasformare i poteri
comunali in ordine all’uso del territorio in
funzioni meramente consultive prive di reale
incidenza, o in funzioni di proposta o
ancora in semplici attività esecutive
(Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n.
379).
Difatti, la funzione di pianificazione
urbanistica nel nostro ordinamento è stata
tradizionalmente rimessa all’autonomia dei
Comuni e in tal senso il legislatore statale
ha qualificato come funzioni fondamentali
dei Comuni «la pianificazione urbanistica
ed edilizia di ambito comunale nonché la
partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale»
(art. 14, comma 27, lettera d), del
decreto-legge n. 78 del 2010), sottraendo
allo specifico potere regionale di
allocazione, ai sensi dell’art. 118, secondo
comma, Cost., la funzione di pianificazione
e stabilendo che questa rimanga assegnata,
in linea di massima, al livello dell’Ente
più vicino al cittadino (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 179 del 2019; i
Comuni non possono essere “meri esecutori
di una scelta pianificatoria regionale”
per Corte costituzionale, sentenza n. 202
del 2021).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento
degli obiettivi di tutela stabiliti dal
P.T.R. e dal P.T.C.P. a protezione dei
valori paesaggistici ivi indicati, ben possa
il P.G.T. introdurre ulteriori disposizioni,
destinate a meglio precisare o ad ampliare
siffatta tutela.
In applicazioni di tali coordinate
ermeneutiche, può rilevarsi che, anche ove
si fosse al cospetto di previsioni
prescrittive e prevalenti, le stesse
opererebbero solo nel verso di impedire al
Comune, o all’Ente territoriale minore, la
compromissione del bene oggetto di tutela
(paesaggio, rete ecologica, ambito agricolo
strategico, ambiti di interesse provinciale,
ecc.), mentre nessun limite può essere posto
laddove tale ultimo Ente volesse garantire
maggiore tutela a tali beni o volesse
estenderne l’ambito, pena l’intrinseca
contraddittorietà di siffatta conclusione (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 179 del
2019; anche, TAR Lombardia, Milano, IV,
19.02.2024, n. 424; IV, 05.12.2023, n. 2951)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.02.2024 n. 492 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura
di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza
che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione
se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni
della loro abusività”.
L’ordinanza di demolizione non necessitava di previa
comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti
interessati, in quanto, secondo giurisprudenza consolidata
di questo Consiglio.
“L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante
l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non
necessita della previa comunicazione di avvio del
procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7
l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del
privato al procedimento comunque non potrebbe determinare
alcun esito diverso”.
“Al sussistere di opere abusive la pubblica
amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di
demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento
natura vincolata, non è neanche necessario che venga
preceduto da comunicazione di avvio del procedimento” .
---------------
“La presentazione di
una istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 non
rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma
determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di
demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto
dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione
riacquista la sua efficacia.
Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del
provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto
nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa
procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea
a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia.
Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel
caso di istanza di accertamento di conformità non vi è
alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia
dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi,
meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex
art. 36 D.P.R. n. 380/2001”.
“La giustificazione di questo orientamento sta
nell'evitare che l'ente locale, in caso di rigetto
dell'istanza di sanatoria, sia tenuto ad adottare un nuovo
provvedimento di demolizione delle opere abusive, altrimenti
finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario
del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo
provvedimento”.
---------------
Il Collegio condivide la statuizione del Giudice di prime
cure, laddove conclude che “nel caso di specie, non si
evince dagli atti che l’amministrazione si sia mai espressa
sull’istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti con la
conseguenza che, essendo ormai decorso il termine di cui
all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi
pacificamente formato sulla stessa il silenzio–diniego”,
in quanto tale conclusione rispecchia la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato sul punto.
Invero:
- “La
presentazione di una istanza di accertamento di conformità,
infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende
inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi
è pertanto alcuna automatica necessità per l'amministrazione
di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di
demolizione. Essa determina soltanto un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione, che opera in
termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto
dell'istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia
del Comune dopo soli 60 giorni, l'ordine di demolizione
riacquista la sua piena efficacia”.
---------------
Con il primo motivo di gravame (rubricato: Error
in judicando. Violazione dei principi in materia di giusto
procedimento amministrativo e di giusta amministrazione),
gli appellanti sostengono l’erroneità della sentenza (punto
7.1) laddove -ai fini del rigetto del ricorso sulla base
della considerazione che l'ordine di demolizione di una
costruzione abusiva rappresenta un atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico- ritiene inconferente il richiamo alla
delibera del Consiglio Comunale di Sorrento n. 14 del
20.03.2012 in considerazione del carattere recessivo della
delibera stessa rispetto alle disposizioni di rango primario
e afferma l'inderogabilità della legge ad opera dell'atto
consiliare.
Tale interpretazione del TAR sarebbe errata e basata su una
superficiale lettura dei motivi di ricorso, in quanto il
richiamo all'atto consiliare non avrebbe avuto lo scopo di
affermare che lo stesso fosse derogatorio rispetto alle
disposizioni legislative, bensì di criticare il modus
procedendi dell'Amministrazione, invocando il vizio di
eccesso di potere laddove la p.a. ha adottato il
provvedimento demolitorio senza tenere in alcun conto la
deliberazione del Consiglio Comunale.
L'errore di giudizio sarebbe confermato nelle ragioni
esposte nella decisione appellata al punto 7.4, dalla
lettura del quale sembrerebbe che il Giudice abbia ritenuto
che, al momento della presentazione del ricorso di primo
grado, i sessanta giorni previsti per dall'art. 36 T.U.E.
per la formazione del silenzio-rigetto, sarebbero già
trascorsi, il che non risponderebbe al vero in quanto la
domanda di accertamento di conformità reca la data del
27.11.2012, mentre il ricorso al TAR è stato notificato
all'Amministrazione il 13.11.2012, per cui sarebbe evidente
che i termini dell'accertamento di conformità fossero ancora
in corso.
La doglianza non ha pregio.
Va premesso, come emerge dalla parte in fatto, che per le
opere de quibus -non conformi alle norme urbanistiche
ed alle prescrizioni urbanistiche vigenti nel territorio
comunale, realizzate dopo l’imposizione del vincolo
paesaggistico ambientale ex d.lgs. n. 42/2004 (vincolo
apposto per la Città di Sorrento con D.M. del 26.01.1962 ex
l. n. 1497/1939) e oggetto della qui impugnata ordinanza di
demolizione- è stata presentata dalle parti il 19.11.2004
domanda di condono ex l. n. 326/2003; tale domanda di
condono è stata respinta dal Comune nel 2012 in quanto, per
la dimensione e la consistenza dell’opera realizzata
(consistente in una sopraelevazione di un ulteriore livello
di mq. 90 ad uso abitativo in blocchi di lapillo e lamiere
coibentate di coperture, il tutto completamente rifinito,
nonché in una scala di collegamento tra il piano di campagna
ed il solaio di copertura, su di un immobile preesistente),
è stata inquadrata dal Comune di Sorrento quale nuova
costruzione ed in quanto, stante la preesistenza di vincolo
paesaggistico ed idrogeologico, è stata ritenuta non
riconducibile nella fattispecie del c.d. terzo condono.
Inoltre emerge dall’ultimo capoverso del punto 6 della
sentenza qui impugnata che il ricorso avverso il diniego del
condono è stato respinto con sentenza del TAR n. 1837/2019.
3.1.1. Nel caso concreto l’ordine di demolizione impugnato è
legittimo in quanto è stato adottato dopo la pronuncia di
rigetto del Comune di Sorrento sulla domanda di condono.
Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura
di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza
che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione
se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni
della loro abusività” (ex multis, Consiglio di Stato
sez. VI, 07.06.2021, n. 4319).
L’ordinanza di demolizione non necessitava di previa
comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti
interessati, in quanto, secondo giurisprudenza consolidata
di questo Consiglio (cfr. ex multis Consiglio di
Stato sez. VI, 11.05.2022, n. 3707).
“L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante
l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non
necessita della previa comunicazione di avvio del
procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7
l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del
privato al procedimento comunque non potrebbe determinare
alcun esito diverso”.
“Al sussistere di opere abusive la pubblica
amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di
demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento
natura vincolata, non è neanche necessario che venga
preceduto da comunicazione di avvio del procedimento”
(Consiglio di Stato sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
Stante l’attività vincolata della p.a. in presenza di abusi
edilizi, contrariamente all’assunto delle parti appellanti,
nel caso concreto non ha alcun rilievo -nemmeno sotto
l’aspetto dell’eccesso di potere- l’asserita violazione del
contenuto della delibera del Consiglio comunale di Sorrento
n. 14 del 20.3.2012, qualificata dagli appellanti quale atto
di indirizzo, in quanto in presenza di un atto comunale di
rigetto dell’istanza di condono ex art. 36 del TUE, non è
necessario alcun ulteriore esame o interpretazione della
situazione alla luce del contenuto della delibera del
consiglio comunale n. 14/2012.
3.1.2. Per quanto concerne l’ulteriore profilo del primo
motivo d’appello che si incentra sulla valutazione, da
parte del Giudice di prime cure, della sorte dell’ordinanza
di demolizione dopo la presentazione dell’istanza di
sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, il Collegio rileva
che al riguardo deve trovare applicazione l’indirizzo
giurisprudenziale in forza del quale “la presentazione di
una istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 non
rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma
determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di
demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto
dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione
riacquista la sua efficacia (cfr., ex multis, Consiglio di
Stato, Sez. VI, 06.06.2018, n. 3417; Consiglio di Stato,
Sez. VI, 28.09.2020, n. 5669; Consiglio di Stato, Sez. VI,
27.09.2022, n. 8320).
Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del
provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto
nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa
procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea
a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia.
Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel
caso di istanza di accertamento di conformità non vi è
alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia
dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi,
meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex
art. 36 D.P.R. n. 380/2001” (Consiglio di Stato, Sez.
VI, 25.10.2022, n. 9070).
“La giustificazione di questo orientamento sta
nell'evitare che l'ente locale, in caso di rigetto
dell'istanza di sanatoria, sia tenuto ad adottare un nuovo
provvedimento di demolizione delle opere abusive, altrimenti
finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario
del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo
provvedimento (CdS, VI, sentenza n. 446/2015)”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.11.2018, n. 6233).
3.1.3. Nel caso concreto, come si ricava dai documenti
depositati dalle parti, l’istanza ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 è stata depositata in data 27.11.2012 (doc. 2 dei
ricorrenti in primo grado, depositato il 28.11.2012);
l’odierna appellante, nel corso del giudizio di primo grado
non ha depositato ulteriore documento concernente la sorte
della domanda presentata ex art. 36 DPR n. 380/2001.
Il Collegio condivide la statuizione del Giudice di prime
cure, laddove conclude che “nel caso di specie, non si
evince dagli atti che l’amministrazione si sia mai espressa
sull’istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti con la
conseguenza che, essendo ormai decorso il termine di cui
all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi
pacificamente formato sulla stessa il silenzio–diniego”,
in quanto tale conclusione rispecchia la consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato sul punto (ex
multis: Sez. II, 06.05.2021, n. 3545: “La
presentazione di una istanza di accertamento di conformità,
infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende
inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi
è pertanto alcuna automatica necessità per l'amministrazione
di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di
demolizione. Essa determina soltanto un arresto
dell'efficacia dell'ordine di demolizione, che opera in
termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto
dell'istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia
del Comune dopo soli 60 giorni, l'ordine di demolizione
riacquista la sua piena efficacia (cfr. ancora, Consiglio di
Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669)”.
Contrariamente all’assunto degli appellanti, il Giudice di
prime cure non si riferisce ai 60 giorni trascorsi dalla
presentazione del ricorso al TAR, bensì al decorso dei 60
giorni dalla presentazione dell’istanza ex art. 36 DPR n.
380/2001, e quindi dal 27.11.2012 (cfr. timbro di entrata
sul doc. 2 dei ricorrenti in primo grado), per cui la
statuizione del Giudice di prime cure è corretta e
logicamente ripercorribile, con conseguente rigetto del
primo motivo di appello in quanto infondato (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 20.02.2024 n. 1705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Circolazione stradale, l’ente locale non può impugnare
l’archiviazione del prefetto. Lo ha affermato il Cons. Stato con sentenza priva di precedenti.
La regione non è legittimata ad impugnare gli atti adottati dalla prefettura
in sede di controllo delle sanzioni in materia di circolazione stradale.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III con la
sentenza 19.02.2024 n. 1592 (Pres. Greco, Est. Marra) priva di
precedenti. La disciplina della “circolazione stradale” e delle relative
sanzioni, infatti, appartiene alla competenza dello Stato. Al Prefetto è
stato attribuito un controllo sull’operato degli apparati amministrativi
degli enti locali preposti a loro volta a garantire la sicurezza stradale in
ambito locale. Non è dunque ammissibile che l’ente territoriale impugni la
decisione di un organo –il prefetto- preposti al suo controllo.
Il caso era della Azienda Strade Lazio - Astral S.p.a. società alla quale la
Regione Lazio ha delegato le funzioni amministrative con riguardo ai servizi
di Polizia stradale. Nel 2017, una signora aveva presentato una domanda per
la regolarizzazione e messa in sicurezza di un accesso carrabile, realizzato
sulla strada regionale. L’Astral aveva respinto la richiesta per la
pericolosità dell’accesso per la circolazione stradale notificando un
verbale di contestazione contenente una sanzione pecuniaria.
La Prefettura di Frosinone però disponeva l’archiviazione sul ricorso
amministrativo presentato dalla signora, sul presupposto che “l’esame della
documentazione in atti non consente di formulare un giudizio di sicura
responsabilità nei confronti del ricorrente”. A quel punto Astral ha
impugnato il provvedimento al Tar Lazio che però ha respinto il ricorso.
Contro questa decisione la Spa è ricorsa al Consiglio di Stato che lo ha
dichiarato inammissibile rilevando la carenza di legittimazione attiva del
ricorrente.
Il Collegio richiama le motivazioni della Cassazione (n. 3038/2005) in
relazione ad una vicenda in parte analoga in cui era, tuttavia, in
discussione la legittimazione di un Comune a proporre opposizione contro
l’ordinanza del Prefetto che aveva accolto il ricorso contro un verbale di
infrazione e disposto l’archiviazione. La Suprema corte spiegava che spetta
al solo trasgressore la facoltà di insorgere contro il provvedimento con cui
il Prefetto respinge il suo ricorso (e nulla si prevede per la contraria
ipotesi in cui lo stesso sia accolto e il verbale archiviato).
La disciplina della “circolazione stradale”, spiega il Cds, appartiene alla
competenza dello Stato, in quanto strumentale alla tutela di un interesse,
qual è quello alla sicurezza delle persone, che trascende l’ambito
strettamente locale e postula una regolamentazione unitaria. Spetta dunque
allo Stato anche la disciplina delle sanzioni, mentre la natura degli
interessi oggetto di tutela giustifica che, in sede locale, sia stato
attribuito al Prefetto un ruolo di coordinamento ed anche di controllo
sull’esercizio della funzione strumentale a garantire la sicurezza della
circolazione stradale da parte degli apparati amministrativi degli enti
locali, anche se attivato, in via eventuale, su ricorso della parte.
Pertanto, in capo all’amministrazione locale, sino a quando non si sia
esaurito il potere di intervento del Prefetto, non è configurabile una
posizione soggettiva –diritto soggettivo o interesse legittimo– tutelabile
dinanzi al giudice amministrativo, risultando applicabile il principio in
forza del quale non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva
insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla
revisione del suo operato, evocandolo in giudizio e ponendosi in opposizione
ad esso (articolo NT+Diritto del 26.02.2024).
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Sulla carenza di legittimazione della regione ad impugnare gli atti adottati
dalla prefettura in sede di controllo delle sanzioni in materia di
circolazione stradale.
---
Circolazione stradale – Codice della strada – Sanzioni – Controllo –
Impugnativa ente locale - Inammissibilità
La disciplina della “circolazione stradale”
appartiene alla competenza dello Stato, in quanto strumentale alla tutela di
un interesse, qual è quello alla sicurezza delle persone, che trascende
l’ambito strettamente locale e postula una regolamentazione unitaria; spetta
dunque allo Stato anche la disciplina delle sanzioni, mentre la natura degli
interessi oggetto di tutela giustifica che, in sede locale, sia stato
attribuito al Prefetto un ruolo di coordinamento ed anche di controllo
sull’esercizio della funzione strumentale a garantire la sicurezza della
circolazione stradale da parte degli apparati amministrativi degli enti
locali, anche se attivato, in via eventuale, su ricorso della parte.
Pertanto, in capo all’amministrazione locale, sino a quando non si sia
esaurito il potere di intervento del Prefetto, non è configurabile una
posizione soggettiva –diritto soggettivo o interesse legittimo– tutelabile
dinanzi al giudice amministrativo, risultando applicabile il principio in
forza del quale non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva
insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla
revisione del suo operato, evocandolo in giudizio e ponendosi in opposizione
ad esso (1).
---
(1) Non risultano precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. III con la
sentenza 19.02.2024 n. 1592
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul contraddittorio in tema di verifica dell’anomalia
dell’offerta e sul calcolo dei minimi salariali in caso di
lavoro discontinuo.
---------------
Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Appalto di servizi – Offerta anomala –
Contraddittorio.
In tema di verifica dell’anomalia
dell’offerta, se è vero che l’articolo 97, comma 5, del
d.lgs. n. 50 del 2016 ha previsto per la verifica di
anomalia dell’offerta una struttura “monofasica” del
procedimento e non più trifasica, cioè articolata in
giustificativi, chiarimenti, contraddittorio -com’era,
invece, nel regime disegnato dal previgente articolo 87 del
d.lgs. n. 163 del 2006– e dunque non vi è un vincolo
assoluto di piena corrispondenza tra giustificazioni
richieste e ragioni di anomalia dell’offerta, non si può
tuttavia approdare all’estremo opposto in cui l’esternazione
delle ragioni dell’anomalia dell’offerta avvenga in
definitiva solo col provvedimento di esclusione, amputando
ogni forma di confronto sui profili ritenuti critici, in
spregio dei canoni di collaborazione e buona fede che devono
informare i rapporti tra stazione appaltante e imprese
partecipanti alla gara, specie quando vengono in rilievo
profili escludenti inderogabili come la violazione dei
minimi salariali inderogabili (1).
---------------
Contratti pubblici
e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di
servizi – Offerta anomala – Minimi salariali – Lavoro
discontinuo.
Poiché i minimi salariali stabiliti
inderogabilmente dal contratto collettivo sono espressi su
base mensile e non già su base oraria, è corretto
riproporzionare la paga oraria al monte orario dei
lavoratori discontinui pari a 45 ore settimanali, dunque con
divisore mensile 195 (2)
---------------
(1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
(2) Non risultano precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 19.02.2024 n. 1591 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. – Delineato nei termini che precedono il thema
disputandum, il Collegio deve primariamente peritarsi di
scrutinare il primo motivo di appello, come visto, di indole
schiettamente procedimentale.
In buona sostanza il primo giudice ha dato ragione
all’operatore estromesso G. che si assumeva leso nelle
proprie prerogative partecipative atteso che effettivamente
“nel caso di specie, il contraddittorio è mancato, perché
l’amministrazione si è limitata ad avanzare una richiesta di
giustificazioni connotata da estrema genericità e, a fronte
delle giustificazioni fornite, non ha sottoposto
all’aggiudicataria i profili dell’offerta ritenuti –per la
prima volta– problematici, sicché non le ha consentito di
fornire giustificazioni specifiche sui profili che hanno
condotto all’esclusione”.
L’appellante contrasta tale affermazione trincerandosi
dietro il carattere vincolato ed ineludibile del rimedio
espulsivo a fronte di una violazione dei minimi salariali
inderogabili che non consentirebbe giustificazione alcuna a
mente dell’art. 97, co. 6, d.lgs. n. 50/2016.
2.1. – Il motivo è infondato.
2.2. – Le osservazioni del Pi.Al.Tr. non sono,
infatti, persuasive.
A ben vedere, il RUP, con la nota del 19.10.2022, si è
limitato a richiedere chiarimenti genericamente riferiti
all’offerta nel suo complesso senza far seguire a tale nota
di avvio della verifica alcuna richiesta di approfondimento
istruttorio o di maggiori delucidazioni con riferimento alla
–per vero ben circoscritta– vexata questio
dell’individuazione del corretto divisore per il lavoro
discontinuo nella disciplina del CCNL Multiservizi:
sennonché, sarebbe stato opportuno e conveniente, specie in
un’ottica di trasparenza procedimentale e di clare loqui,
che il RUP esternasse le proprie perplessità in ordine al
calcolo del costo medio orario (questione compendiabile in
estrema sintesi nella scelta tra il divisore 195 o 173)
prima di addivenire alla definitiva esclusione della prima
graduata, giunta a sorpresa dopo un non trascurabile lasso
di apparente stasi procedimentale con la nota del
22.12.2022.
2.3. – Se è dunque vero che “il principio del
contraddittorio procedimentale non comporta un vincolo
assoluto di piena corrispondenza tra giustificazioni
richieste e ragioni di anomalia dell’offerta”, come
evocato dall’appellante, -anche a mente dell’evoluzione
ordinamentale che, con l’articolo 97, comma 5, del d.lgs. n.
50 del 2016, ha previsto per la verifica di anomalia
dell’offerta una struttura “monofasica” del
procedimento e non più trifasica, cioè articolata in
giustificativi, chiarimenti, contraddittorio, com’era,
invece, nel regime disegnato dal previgente articolo 87 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163- non si può tuttavia approdare
all’estremo opposto in cui l’esternazione delle ragioni
dell’anomalia dell’offerta avvenga in definitiva solo col
provvedimento di esclusione, amputando ogni forma di
confronto sui profili ritenuti critici, in spregio dei
canoni di collaborazione e buona fede che devono informare i
rapporti tra stazione appaltante e imprese partecipanti alla
gara, specie quando vengono in rilievo profili escludenti
inderogabili come la violazione dei minimi salariali
inderogabili.
2.4. – Deve dunque essere vagliata positivamente la
statuizione del primo giudice laddove afferma univocamente
che il contraddittorio è mancato nella fattispecie de qua
impedendo all’impresa destinataria del provvedimento
espulsivo di apportare il proprio fondamentale contributo
partecipativo.
3. – Spostando ora il fuoco della disamina sul secondo mezzo
di censura, si entra nel vivo della questione di merito
giuslavoristica della corretta individuazione del divisore
per i lavoratori discontinui del comparto regolato dal CCNL
Multiservizi.
3.1. – Ad avviso del Collegio la tesi di parte appellante
non coglie nel segno.
3.2. – Dall’esegesi sistematica dell’accordo di
contrattazione collettiva non si rinviene alcun indice
testuale di impedimento all’individuazione di altri divisori
oltre a quello enucleato in via ordinaria dall’art. 19 con
riguardo all’orario normale di lavoro di 40 ore settimanali.
Anzi, l’applicazione del divisore 195 rappresenta un
corollario logico della ratio stessa sottesa all’istituto
della discontinuità, consistente appunto nell’assicurare un
monte orario di 45 ore settimanali a parità di base
salariale (a fronte di prestazioni di mera attesa o
custodia) nel quadro di una cornice di flessibilità
dell’organizzazione del lavoro: giova, infatti, soffermarsi
sulla circostanza che le ore contemplate dal lavoro
discontinuo non corrispondono necessariamente a periodi di
svolgimento effettivo della mansione, ma possono tradursi in
prestazioni di mera attesa o, a tutto concedere, di
custodia.
Indi la contrattazione collettiva, in una prospettiva di
competizione più serrata sul costo del lavoro, ha convenuto
che tale monte ore maggiorato, ma più rarefatto sul piano
delle energie psico-fisiche profuse dal lavoratore, sia
remunerato con la stessa paga mensile dell’ordinario
lavoratore del comparto multiservizi soggetto alla
disciplina base dell’art. 19 CCNL.
Tale ratio efficientista e pro-competitiva sarebbe
vanificata se si facesse ricorso indistintamente al divisore
173, come a voler ignorare che il monte ore di cui si
discorre è maggiorato e assicura prestazioni orarie più
competitive, perlomeno sui servizi di durata come la
guardiania e la portineria.
4. – Siffatto argomentare è ulteriormente corroborato dalla
decisiva circostanza che i minimi salariali stabiliti
inderogabilmente dal contratto collettivo sono espressi su
base mensile e non già su base oraria: a mente di tale
inconfutabile dato si sfalda l’intero impianto impugnatorio
giacché la notoria inderogabilità in peius dei
trattamenti fissati dalla contrattazione collettiva opera
rispetto a tali valori mensili e non può trovare adesione la
rielaborazione di tali valori su base oraria sviluppata
dall’Azienda appellante nel tentativo di dimostrare che i
prospetti orari di G. conducano a ribassi illeciti.
5. – Se a tali considerazioni si aggiunge, infine, che,
nonostante l’applicazione del divisore inferiore per i
lavoratori discontinui, l’offerta dell’originaria ricorrente
assicura a costoro una retribuzione mensile pari a quella
–pacificamente conforme al CCNL– riconosciuta ai lavoratori
ordinari si sgretolano definitivamente le fondamenta della
doglianza in esame: si veicola, infatti, l’asserto
conclusivo che nella fattispecie in esame non vi è luogo a
discorrere di violazioni dei minimi salariali inderogabili
atteso che tali minimi devono essere esaminati e raffrontati
nella valorizzazione globale su base mensile e non su quella
su base oraria.
Anzi, ricapitolando i termini della questione mediante
l’espediente logico-argomentativo del rasoio di Oc., può
dirsi che G. ha sviluppato un’offerta al contempo
rispettosa, sul piano economico dei minimi salariali mensili
da contrattazione collettiva ed efficiente sul piano
tecnico, in virtù del maggior monte ore ritraibile
dall’attività dei discontinui: il conseguente minor costo
orario della manodopera rappresenta un naturale corollario
del quoziente operato col divisore maggiorato pari a 195,
espressivo del maggior monte ore assicurato dai discontinui,
ma non inficia in alcun modo i minimi inderogabili, essendo
questi formulati su base mensile.
6. – Tanto considerato, il motivo deve essere disatteso.
7. – In ultimo, la terza censura, volta a denunciare la
decisione del primo giudice in ordine al lamentato difetto
istruttorio e motivazionale del verbale del RUP, allegato
per relationem al provvedimento di esclusione viene a
cadere per la sua stessa intrinseca genericità e vaghezza a
fronte della esaustiva relazione giustificativa dell’offerta
prodotta da parte appellata in sede di verifica: per vero,
rimarca correttamente il primo giudice che l’appellata ha
prodotto questa corposa relazione, nella quale “dedica un
lungo paragrafo al costo della manodopera, indicando in modo
dettagliato e argomentato le diverse voci che conducono ad
uno scostamento tabellare; una parte è dedicata
espressamente all’analisi dell’“incidenza effettiva a carico
dell’azienda degli oneri per carenza malattia, infortunio e
maternità”.
7.1. – Le affermazioni del primo giudice meritano piena
condivisione avendo specialmente riguardo al fatto che
secondo la costante giurisprudenza la difformità dalle
tabelle ministeriali non è sufficiente da sola a dimostrare
la non congruità del costo del personale dichiarato
dall'offerente (v. ex multis, Cons. Stato, sez. III,
27.11.2023, n. 10164) ed è ammissibile lo scostamento da
tali valori purché risulti suffragato da attendibili dati
esperienziali e statistiche aziendali.
Orbene, la dettagliata relazione prodotta da G. in sede
di giustificativi dava conto, anche sotto forma tabellare,
di tali statistiche aziendali ampiamente idonee a
giustificare gli scostamenti dalle tabelle ministeriali,
cionondimeno il RUP non ne ha inspiegabilmente tenuto conto
sminuendone la valenza esplicativa, vieppiù acuita
dall’erronea applicazione del divisore 173 di cui al punto
precedente, con inevitabili riverberi in punto di monte
orario complessivo.
7.2. – Indi, appare fondato il vizio istruttorio e
motivazionale lamentato dal primo ricorrente e ravvisato dal
TAR lombardo, con conseguente reiezione anche dell’ultimo
nucleo censorio (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 19.02.2024 n. 1591 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla impossibilità di monetizzare le ferie non godute per
causa imputabile al lavoratore.
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Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Corpo della
Guardia di finanza - Ferie – Omessa presentazione istanza -
Monetizzazione – Esclusione.
Il diritto al compenso sostitutivo
delle ferie non godute spetta solo quando sia certo che la
loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla
volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile
(1).
Nel caso di specie il finanziere –collocato in aspettativa
per infermità e dichiarato inabile al servizio il giorno
prima del suo decesso- per sua libera scelta aveva
espressamente richiesto di non convertire i giorni di
licenza ordinaria maturati in licenza straordinaria,
circostanza che ha comprovato la possibilità concreta di
fruire delle ferie sebbene rifiutate esplicitamente
dall’interessato.
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(1) Conformi: Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. IV,
30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580,
sez. III, 17.05.2018, n. 2956; sez. V, 12.02.2007,
n. 560 in Foro it., 2007, III, 314.
Nel senso che l’indennità sostitutiva per ferie non godute
debba essere riconosciuta al personale (militare o delle
Forze di polizia) assente dal servizio perché collocato in
aspettativa per infermità e successivamente cessato dal
servizio, Cons. Stato, sez. VI, 09.05.2011, n. 2736, in
Foro it., 2011, III, 304; sez. VI, 07.05.2010, n. 2663, id., 2010, III, 371; sez. VI, 21.04.2008, n. 1765, id.,
2008, III, 429.
Difformi: non risultano
precedenti difformi negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 14.02.2024 n. 148 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
6. Il ricorso è infondato.
7. La censura di violazione della legge, eccesso di potere,
irragionevolezza e illogicità è inaccoglibile poiché il
provvedimento impugnato contiene l’esplicitazione chiara e
univoca della ragione posta a fondamento del diniego di
monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della
loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma a una
libera scelta operata dall’appuntato Za., il quale non ha
presentato l’istanza per il loro godimento.
7.1. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –in
linea con la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95
del 2016) e quella della Corte di giustizia (prima sezione,
sentenza 25.06.2020, C-762/18 e C-37/19)– è ormai
consolidata nel senso di ritenere che il diritto al compenso
sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo
che la loro mancata fruizione non sia stata determinata
dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque
imputabile (Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. II, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580,
sez. III, 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016, n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di
fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione
di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige
il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per
la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi
ai cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente
medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie
medesime (Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. II, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 12.10.2020, n.
6047, e 02.03.2020, n. 1490).
7.2. Nel caso di specie, è pacifico che il militare, per sua
libera scelta (v. dichiarazione dell’interessato 18.02.2021, versata al fascicolo d’ufficio), abbia espressamente
richiesto di non convertire i giorni di licenza ordinaria
maturati in licenza straordinaria e che, a fronte di tale
chiara dichiarazione, l’odierno ricorrente non possa
invocare ex post la monetizzazione dei periodi di ferie
maturate e non godute sulla base di cause non imputabili al
lavoratore e quindi, come tali, idonee a consentire una
deroga al richiamato quadro normativo.
8. A tanto consegue il rigetto del ricorso (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 14.02.2024 n. 148 -
link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ristorante Pizzeria – Installazione tenda ad apertura
variabile – Tenda rettrattile – Ordine di demolizione e
ripristino stato dei luoghi – Violazione norme urbanistico
edilizie – Corpo estraneo a struttura fabbricato – Idoneità
a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico –
Unicamente in presenza di caratteristiche ed effetti di
perdurante e stabile immutazione.
Affinché un corpo estraneo alla
struttura di un fabbricato sia idoneo a pregiudicare il
pregio e il decoro architettonico e, in definitiva, a
vulnerare le caratteristiche esteriori dell’immobile,
occorre che l’elemento aggiuntivo abbia caratteristiche ed
effetti di perdurante e stabile immutazione, che postulano a
monte la stabilità e fissità della consistenza materiale
impattante, nonché, contestualmente, la sua proiezione nello
spazio–tempo.
Nel caso di specie, trattandosi di tende di tela con bracci
retrattili, appoggiate immediatamente sopra la porta di
ingresso dei locali, il materiale assume una consistenza
informe e pressoché nulla ovvero di ridottissimo rilievo
urbanistico, per tutto il tempo in cui resta involto ovvero
arrotolato nelle due bacchette che lo contengono e che sono
meramente appoggiate al muro.
Le opere oggetto di contestazione, inoltre, si limitano a
soddisfare esigenze precarie e si connotano per la
temporaneità della loro utilizzazione, ritenuto che la
funzione delle tende è temporalmente delimitata e
consistente in riparo dal sole, con esclusione della
funzione di protezione dalla pioggia, poiché consta di mero
tessuto permeabile.
Ne consegue che gli elementi aggiunti all’edificio, in
presenza delle suddette caratteristiche non arrecano vulnera
apprezzabili ai valori architettonici ed artistici.
...
(1) Trattasi, secondo il Collegio, di una tenda solo “in potenza”
allorché arrotolata e chiusa, la quale si trasforma in tenda
“in atto” quando, per effetto dello sviluppo del materiale
avvolto nel quale consiste, lo stesso muta e prende appunto
forma di tenda (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 09.02.2024 n. 983 - link a www.ambientediritto.it).
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1.3. Con il terzo motivo è articolata la censura
sostanziale, rubricandosi carenza di potere ed abnormità,
violazione degli art. 31 TUED e dell’art. 2, comma 1, d.P.R.
31/2017 perché la tenda retrattile non deve essere
considerata alla stregua di nuova costruzione.
In particolare, si duole il ricorrente che, nel caso di
specie, si tratta di due tende di tela con bracci
retrattili, appoggiate immediatamente sopra la porta di
ingresso dei locali, dunque non sulla facciata del
fabbricato, al di sotto dei vani contenenti i motori dei
climatizzatori, ed utilizzate in modo temporaneo, solo per
riparare i tavolini ivi presenti.
Le opere oggetto di contestazione, quindi, così come
descritte nell’ordinanza impugnata e come risulta dai
rilievi fotografici inclusi, si limitano a soddisfare
esigenze precarie e si connotano per la temporaneità di
utilizzazione, sicché non si qualificano come manufatti atti
a migliorare la fruizione di uno spazio esterno stabile e
duraturo.
Data la loro consistenza, le caratteristiche costruttive e
la funzione, sotto il profilo normativo rappresentano
un’opera che non determina una “trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio” tale da richiedere il
preventivo rilascio del permesso di costruire.
...
5. Ritiene il Collegio fondato ed assorbente il terzo
motivo di ricorso in punto di inidoneità del descritto
elemento ad incrementare il carico urbanistico e,
soprattutto, a recare un vulnus alla tutela del patrimonio
architettonico e delle caratteristiche del centro storico,
per le considerazioni che seguono.
Va tuttavia corretta la prospettiva di indagine proposta dal
ricorrente in ricorso nella parte iniziale, in cui sostiene
l’assenza di autonoma rilevanza dei due manufatti per cui si
procede e la conseguente loro non soggezione al previo
rilascio del titolo edilizio.
Rimarca il Collegio che non è questa la contestazione
elevata nel provvedimento demolitorio e nel presupposto
verbale di accertamento.
Invero, come si motiva nell’atto impugnato nel passo sopra
riportato, cioè che si contesta non è l’abusività per
carenza di titolo abilitativo edilizio, bensì la violazione
dell’art. 49, comma 22, della Legge Regionale n. 16 del 22.12.2004, prevedente che “Sulla facciata degli stabili
siti nei centri storici” vieta “l’installazione di
apparecchi dì condizionamento d’aria, caldaie, tubazioni e
antenne, nonché l’inserimento di nuovi elementi che
compromettono il decoro architettonico degli stessi”; in
sintesi, dunque, si contesta l’avvenuta inflizione al
patrimonio storico artistico che caratterizza le zone
omogenee “A” – Centro storico, di un vulnus al decoro
architettonico.
6. Occorre pertanto indagare se l’elemento aggiunto dal
ricorrente all’edifico, possiede siffatta natura ed
attitudine impattante.
Osserva al riguardo il Collegio che affinché un corpo
estraneo alla struttura di un fabbricato sia idoneo a
pregiudicare il pregio e il decoro architettonico e, in
definitiva, a vulnerare le caratteristiche esteriori
dell’immobile, occorre che l’elemento aggiuntivo abbia
caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile
immutazione, che postulano a monte la stabilità e fissità
della consistenza materiale impattante, nonché,
contestualmente, la sua proiezione nello spazio–tempo.
Solo un elemento che abbia connotati fisici definiti e che
come tale perduri, appare infatti idoneo ad arrecare vulnera
apprezzabili ai valori architettonici ed artistici.
6.1. Siffatte note sostanziali, a ben guardare, non emergono
tuttavia rispetto al materiale apportato dal ricorrente
all’edificio.
Tale materiale assume, infatti, una consistenza informe e
pressoché nulla ovvero di ridottissimo rilievo urbanistico,
per tutto il tempo in cui resta involto ovvero arrotolato
nelle due bacchette che lo contengono e che sono meramente
appoggiate al muro; infatti, quando la tenda “in potenza” è
avvolta, perché non serve alla sua funzione rimanendo
chiusa, laddove quando è aperta non è ancorata all’immobile
né al suolo.
Giova anche porre in luce la circostanza che le due
bacchette contenitrici, oltretutto, sono poste al di sotto
dei condizionatori e quindi anche che il coupe d’oeil è
assorbito dalla massa dei condizionatori; verosimilmente,
dunque, le due incriminate bacchette possono sembrar dei
listelli di sostegno dei condizionatori.
6.2. Il Collegio è pertanto al cospetto, ponendo mano ai
canoni della fisica aristotelica, di una tenda solo “in
potenza” allorché arrotolata e chiusa, la quale si trasforma
in tenda “in atto” quando, per effetto dello sviluppo del
materiale avvolto nel quale consiste, lo stesso muta e
prende appunto forma di tenda.
6.3. Non sfugge peraltro al Collegio che l’obiezione
sollevabile al delineato costrutto è prevedibile e di
agevole intuizione: v’è da chiedersi, cioè, se il descritto
materiale informe o proteiforme, che quando rimane nello
stadio larvale e consiste in due bacchette avvolgenti o
contenenti appare di scarsissima consistenza ed impatto
anche ottico, nel momento in cui muta a seguito dello
svolgimento e conseguente evoluzione in “tenda”, acquisisca
altresì una portata e un carattere impattante l’ambiente e
il decoro architettonico dell’edificio.
Tale indagine deve giocoforza dipanarsi sotto il profilo
temporale, il parametro guida essendo solo siffatta terza
dimensione della fisica.
7. Orbene in proposito il ricorrente, già nell’atto
introduttivo, ha precisato che le opere oggetto di
contestazione, così come descritte nell’ordinanza impugnata
e come risulta dai rilievi fotografici inclusi, si limitano
a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la
temporaneità della loro utilizzazione.
L’additata temporaneità è stata meglio spiegata nel corso
dell’esposizione camerale, allorché il procuratore di parte
ricorrente ha precisato che l’evoluzione in tenda, e quindi
la protensione del materiale avvolto, è temporalmente
delimitata dalla sua funzione di riparo dal sole, con
esclusione della funzione di protezione dalla pioggia,
poiché consta di mero tessuto permeabile.
Allegazioni non contestate dalla difesa comunale e pertanto
assumibili a fondamento della decisione ai sensi dell’art.
64, comma 2, c.p.a.
Ne consegue la limitatezza temporale dell’uso e dell’impegno
e conseguente impatto del materiale svolto e divenuto “tenda
in atto”, discendente dalla funzione ombrifera cui essa
assolve, circoscritta, quindi, al tempo della radiazione
solare.
7.1. A tale specifico riguardo, il patrono del ricorrente ha
inoltre puntualizzato che le aree antistanti il locale “ombreggiato”,
ove aggettano le due avversate tende, insistono, come emerge
anche dalla documentazione fotografica versata in atti ed
esaminata attentamente dal Collegio, in un vicoletto
angusto, per tale sua natura quindi naturalmente esposto al
sole solo per poche ore al giorno.
Parallelamente, come dianzi evidenziato, la “tenda in atto”
non rimane tale a lungo, giacché la sua protensione non è
temporalmente estesa anche alle giornate o ai momenti di
pioggia, in ragione della consistenza del materiale in un
tessuto permeabile e, pertanto, inutile a proteggere dalla
pioggia.
Se a ciò si aggiunga altresì la notazione –integrante fatto
notorio– che a Napoli le giornate piovose non sono
frequenti, emerge complessivamente il ridotto lasso di tempo
nel quale la tenda “in potenza” (cioè arrotolata e
involta nelle due bacchette contenitrici) muta e permane
quale “tenda in atto”; lasso temporale, sostanzialmente
coincidente con il periodo di irradiazione solare.
8. Da quanto osservato ed accertato deriva che i due
elementi che erroneamente il Comune qualifica come tende,
non posseggono attitudine ad impattare e vulnerare le
caratteristiche architettoniche e il decoro dell’edificio;
dal che va esclusa la violazione dell’art. l’art. 49, comma
22, della Legge Regionale n. 16 del 22.12.2004.
La scrutinata fondatezza del terzo motivo di ricorso
consente di accogliere il gravame, con annullamento del
provvedimento impugnato. |
APPALTI SERVIZI:
Procedura aperta – Affidamento servizio di raccolta,
trasporto, recupero di fanghi disidratati non pericolosi –
Suddivisione in lotti – Costi per la manodopera e sicurezza
– Impugnazione provvedimento di esclusione –
Modifica-correzione del costo della manodopera e del monte
ore – Riduzione del monte ore in sede di giustificativi –
Rilevanza ai fini dell’esclusione – Principi del risultato,
della fiducia e dell’accesso al mercato – D.lgs. n. 36 del
2023
Secondo pacifica giurisprudenza, la
modifica dei costi della manodopera –introdotta nel corso
del procedimento di verifica dell’anomalia– comporta
un’inammissibile rettifica di un elemento costitutivo ed
essenziale dell’offerta economica, che non è suscettivo di
essere immutato nell’importo, al pari degli oneri aziendali
per la sicurezza, pena l’incisione degli interessi pubblici
posti a presidio delle esigenze di tutela delle condizioni
di lavoro e di parità di trattamento dei concorrenti, come
imposte dall’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016
(1).
Tale consolidato orientamento giurisprudenziale, non può
ritenersi superato alla luce del nuovo Codice dei contratti
pubblici. Infatti, il d.lgs. n. 36 del 2023 si pone del
tutto in linea con il d.lgs. n. 50 del 2016 nell’assicurare
una tutela rafforzata degli interessi dei lavoratori,
richiedendo di indicare in via separata il costo della
manodopera e gli oneri di sicurezza, ciò anche al fine di
assicurare che gli operatori economici svolgano una seria
valutazione preventiva dei predetti costi prima di formulare
il proprio “ribasso complessivo” (2).
Inoltre, i principi del raggiungimento dello scopo, di
fiducia e di accesso al mercato devono ritenersi rivolti non
solo nei confronti dell’Amministrazione, ma anche degli
operatori economici privati i quali devono collaborare per
il buon esito dell’affidamento: ebbene proprio tali principi
non consentono di superare il divieto di modificazione del
contenuto dell’offerta, di cui il costo della manodopera
costituisce parte integrante.
...
(1) Cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. III, 31.05.2022, n. 4406.
(2) Si fa riferimento agli articoli 41, comma 13, e 108, comma 9,
del d.lgs. n. 36 del 2023 (TAR
Veneto, Sez. I,
sentenza 09.02.2024 n. 230 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765 ha
introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia
per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio
comunale.
Per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942,
n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai
centri abitati.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo
giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia,
imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla
legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da
considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la
previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista
dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non
impediva ai comuni di estendere all'intero territorio
comunale il potere di pianificazione e controllo
dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica
prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e
non può integrare alcuna violazione del principio di
eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata
disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato
dagli appellanti.
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7. L’appello è infondato.
7.1. Giova ricordare in punto di fatto che nella specie le
difformità che interessano la proprietà degli appellanti
riguardano alcune modifiche alle aperture e la realizzazione
della soletta di copertura a quote sensibilmente superiori
rispetto alla licenza edilizia (in particolare: - gronda
autorizzata a 1,05 mt, ma realizzata 1,75 mt; - gronda
autorizzata a 0,45 mt, ma realizzata 1,24 mt; - colmo
autorizzato a 2,40 mt, ma realizzato a 3,27 mt); al
proposito eloquenti e incontestate sono le risultanze del
verbale di sopralluogo dell’Ufficio tecnico comunale (in
atti), nonché le indicazioni contenute nel provvedimento
impugnato con il quale è stata ordinata “la demolizione
della porzione residenziale e opere abusive sopra descritte
ed il ripristino della situazione autorizzata con Licenza
Edilizia n. 1228 del 18.02.1965 …”, trattandosi di
interventi realizzati in parziale difformità rispetto al
titolo abilitativo (art. 34, comma 1 del DPR 380/2001).
8. Ciò posto, passando alla disamina del primo motivo
di appello, occorre in principalità considerare che:
- l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto
l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli
interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale;
- per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo
limitatamente ai centri abitati;
- è pacifico in causa che, all’epoca in cui erano stati realizzati
gli abusi de quibus (1965), il Comune di Merate era dotato di
un Regolamento Edilizio e di Programma di Fabbricazione
(approvato con Decreto Interministeriale del 18.07.1956 n.
1108), il quale inseriva l'area di specie in zona semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il
rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di
immobili nel territorio comunale;
- l’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza
edilizia (Prat. n. 1228) rilasciata in data 18.02.1965
e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto, previo
sopralluogo, in data 01.09.1965, il permesso di
abitabilità.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo
giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia,
imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla
legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da
considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la
previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista
dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non
impediva ai comuni di estendere all'intero territorio
comunale il potere di pianificazione e controllo
dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica
prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e
non può integrare alcuna violazione del principio di
eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata
disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato
dagli appellanti.
Del resto l’accoglimento di una siffatta prospettazione
condurrebbe ad una irragionevole ed illogica rimozione di
una legittima attribuzione municipale, qual’e è proprio
quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti
quei comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per
tutelare adeguatamente il particolare pregio dei propri
territori, avessero avvertito l’esigenza di subordinare il
legittimo esercizio del diritto di edificazione al rilascio
della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la
imponesse in via generalizzata; né può ragionevolmente
invocarsi una pretesa violazione del principio di
uguaglianza formale e/o sostanziale, che si manifesterebbe -secondo la prospettazione degli appellanti- nella diversità
di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione
all’esercizio del jus aedificandi i cittadini del Comune di
Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia anche per
attività edificatoria da realizzarsi fuori del centro
abitato, rispetto ai quelli residenti in altri comuni che
non avevano adottato un regolamento edilizio recante un
simile obbligo, giacché intuitivamente diverse essendo le
singole realtà locali, neppure è immediatamente apprezzabile
la violazione del principio di uguaglianza e la connessa
ingiustificata diversità di trattamento.
In definitiva, non può ragionevolmente dubitarsi del fatto
che, in presenza di opere realizzate in difformità dalla
licenza edilizia del 18.02.1965, le stesse debbono
qualificarsi come abusive (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A fronte di opere realizzate in parziale
difformità dal permesso di costruire, l’ordinanza di
demolizione costituisce un atto del tutto vincolato,
rispetto al quale l’ente locale non è titolare di alcun
margine di discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione
dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che
la repressione degli abusi edilizi costituisce attività
doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto
alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente
costituita dalla descrizione delle opere abusive e della
loro contrarietà al titolo, come è nella specie.
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del
manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità
dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo
affidamento in capo ai proprietari.
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8.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di
gravame.
Invero, a fronte di opere realizzate in parziale difformità
dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale
l’ente locale non è titolare di alcun margine di
discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione
dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che
la repressione degli abusi edilizi costituisce attività
doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto
alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente
costituita dalla descrizione delle opere abusive e della
loro contrarietà al titolo, come è nella specie
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del
manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità
dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo
affidamento in capo ai proprietari (cfr., sul punto,
sentenza n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come ribadito più volte dalla giurisprudenza, il
rilascio del certificato di abitabilità non può avere
efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti, la
illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal
conseguimento del certificato di agibilità che riguarda
profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni
differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano
il rispettivo rilascio:
- il certificato di agibilità serve ad
accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto
delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità
igiene e risparmio energetico degli edifici e degli
impianti, viceversa
- il titolo edilizio attesta la conformità
dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che
disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere
un’interferenza reciproca.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di
un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la
disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che
l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto
certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri
di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in
quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio.
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8.3. Non merita favorevole apprezzamento neppure il terzo
motivo di gravame, in quanto, come ribadito più volte
dalla giurisprudenza, il rilascio del certificato di
abitabilità non può avere efficacia sanante rispetto alle
opere abusive.
Infatti (ex multis Consiglio di Stato sez. VII, n.
8239/2023; Consiglio di Stato sez. II, n. 3836/2021) la
illiceità dell'immobile sotto il profilo
urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal
conseguimento del certificato di agibilità che riguarda
profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni
differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano
il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad
accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto
delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità
igiene e risparmio energetico degli edifici e degli
impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità
dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che
disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere
un’interferenza reciproca, come sostenuto dal motivo in
esame.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di
un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la
disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che
l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto
certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri
di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in
quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Sugli alloggi di edilizia popolare assegnati in virtù del
rapporto di servizio.
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Beni pubblici – Alloggi di edilizia popolare –
Assegnazione in virtù del rapporto di servizio – Natura
giuridica – Beni appartenenti al patrimonio indisponibile –
Autotutela esecutiva – Ammissibilità.
Gli immobili assegnati a soggetti in
“attività di servizio” sono destinati a realizzare interessi
pubblici e pertanto appartengono al patrimonio
indisponibile, con la connessa possibilità
dell’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela
esecutiva ex art. 823, comma 2, c.c. (1).
---------------
Beni pubblici – Alloggi di edilizia popolare – Assegnazione
in virtù del rapporto di servizio – Cessazione rapporto –
Revoca assegnazione – Legittimità.
Nel caso in cui il rapporto di servizio
(unitamente ad altri elementi) abbia consentito di
beneficiare di alloggi di edilizia popolare, qualora venga
meno tale rapporto (e quindi il presupposto in virtù del
quale si è potuto beneficiare della predetta assegnazione,
prescindendo dalle ordinarie graduatorie per le assegnazioni
degli alloggi di edilizia popolare), legittimamente
l’amministrazione procede alla revoca della predetta
assegnazione (2).
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(1) Precedenti conformi: non esistono precedenti negli esatti
termini. Sulla circostanza secondo la quale la destinazione
“pubblica”, oltre a far annoverare i beni tra quelli
appartenenti al patrimonio indisponibile, consente
all’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela ex
art. 823, comma 2, c.c.: Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2023,
n. 418.
Precedenti difformi: non
risultano precedenti difformi.
(2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. IV, 28.05.1999, n. 883.
Sulla disciplina degli alloggi assegnati in virtù del
rapporto di servizio: Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n.
1890 (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.02.2024 n. 1166 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
5.6. Le censure sono infondate.
5.6.1. I provvedimenti di revoca della assegnazione degli
alloggi sono stati adottati con due decreti prefettizi del
25.11.1997; sotto il profilo delle norme vigenti ratione temporis, non emergono elementi che consentano di
suffragare la tesi degli odierni appellanti.
5.6.2. Gli appellanti propongono una lettura parcellizzata e
decontestualizzata delle norme sopra richiamate, che debbono
invece essere lette e interpretate in maniera sistematica.
5.6.3. La tesi della diversa qualificazione del rapporto
locativo de quo, in relazione al rapporto di servizio non
può essere condivisa, in quanto la legge n. 52/1976,
all’art. 3, opera un rinvio al d.P.R. n. 1406/1954, che,
all’art. 8, disciplina le ipotesi di revoca, richiamando
l’art. 4 della legge 27.12.1953 n. 980, che (a sua
volta) prevede la revoca della assegnazione dell’alloggio in
caso di cessazione dal servizio.
5.6.4. Costituisce elemento non controverso che il rapporto
di servizio (unitamente ad altri elementi) ha consentito
agli appellanti di beneficiare di alloggi di edilizia
popolare; ne consegue che, venendo meno il rapporto di
servizio (e quindi il presupposto in virtù del quale gli
odierni appellanti hanno potuto beneficiare della predetta
assegnazione, prescindendo dalle ordinarie graduatorie per
le assegnazioni degli alloggi di edilizia popolare),
legittimamente l’amministrazione ha proceduto alla revoca
della predetta assegnazione.
5.6.5. Secondo principi consolidati nella giurisprudenza di
questa Sezione, dai quali il Collegio non ritiene di doversi
discostare, “...è principio generale che gli alloggi di cui
alla legge n. 52 del 1976 ("Interventi straordinari per
l'edilizia a favore del personale civile e militare della
pubblica sicurezza, dell'Arma dei carabinieri, del Corpo
della guardia di finanza, del Corpo degli agenti di custodia
e del Corpo forestale dello Stato") possono essere assegnati
al personale in questione solo in quanto sia in servizio,
come emerge dalla espressa previsione dell'art. 1, comma 1,
che stabilisce l'assegnazione degli alloggi al personale "in
attività di servizio", e secondo la ratio della normativa,
per cui gli alloggi servono a far fronte alle esigenze
abitative connesse con la prestazione del servizio in sedi
diverse dal luogo abituale di residenza e hanno pertanto
natura di "alloggi di servizio", con la conseguente
legittimità della revoca dell'assegnazione quando cessa il
presupposto dell'esigenza di servizio” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.05.1999, n. 883).
5.6.6. L’art. 1, comma 1, della l. 24.12.1993 n. 560
(“Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica”) dispone quanto segue: “Sono alloggi
di edilizia residenziale pubblica, soggetti alle norme della
presente legge, quelli acquisiti, realizzati o recuperati,
ivi compresi quelli di cui alla legge 06.03.1976, n. 52, a
totale carico o con concorso o con contributo dello Stato,
della regione o di enti pubblici territoriali, nonché con i
fondi derivanti da contributi dei lavoratori ai sensi della
legge 14.02.1963, n. 60 , e successive modificazioni,
dallo Stato, da enti pubblici territoriali, nonché dagli
Istituti autonomi per le case popolari (IACP) e dai loro
consorzi comunque denominati e disciplinati con legge
regionale”.
Il predetto articolo nel prevedere e disciplinare
l’alienazione degli alloggi di edilizia residenziale
pubblica riconosce legittimazione all’acquisto dei predetti
alloggi agli assegnatari o ai loro familiari conviventi, i
quali conducano un alloggio a titolo di locazione da oltre
un quinquennio e non siano in mora con il pagamento dei
canoni e delle spese all’atto della presentazione della
domanda di acquisto.
Il fatto che la norma abbia espressamente esteso anche agli
assegnatari degli alloggi realizzati ai sensi della legge 06.03.1976 n. 52 (come gli odierni appellanti) non implica
che abbia fatto venir meno le norme sopra richiamate
relative alla revoca della assegnazione dell’alloggio in
caso di cessazione del rapporto di servizio.
5.6.7. In altri termini, l’inclusione degli alloggi in
questione tra quelli qualificati di edilizia residenziale
pubblica, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge n. 560
del 1993 non ha inciso sul loro vincolo di destinazione e
sulle conseguenti modalità di assegnazione e revoca,
operando al diverso fine della disciplina della loro
alienazione, come anche confermato dalla circolare del
Ministero delle finanze n. 455 del 21.02.1994 (cfr.
Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione
siciliana 28.05.2019 n. 491; Tar Sicilia, Sez. III,
24.10.2017 n. 2405; Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.03.2011, n. 1890; in senso conforme, Tar Lazio, Sez. I-ter, 14.05.2012, n. 4310; Tar Liguria, Sez. II, 12.06.2008, n. 1403).
Sotto tale profilo, è stata accolta una nozione di “alloggio
di servizio” intesa in senso ampio e, pertanto, non
circoscritta soltanto agli alloggi strumentali per lo
svolgimento del servizio, ma comprensiva di tutti gli
alloggi comunque concessi ai dipendenti alla sola condizione
che essi espletino “in loco” le mansioni pubbliche alle
quali sono preposti (cfr. Cass. Civ., Sezioni unite, 19.12.2003, n. 19548).
6. Con il secondo motivo di appello, gli odierni
appellanti deducono erroneità della sentenza nella parte in
cui ha respinto il primo, il terzo e il quarto motivo del
ricorso introduttivo del giudizio (sotto altro profilo);
violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e 3 della
l. 06.03.1976 n. 52; difetto di istruttoria; travisamento
in fatto e in diritto; eccesso di potere per difetto dei
presupposti; difetto di motivazione; ingiustizia manifesta.
6.1. Secondo la prospettazione degli appellanti, il giudice
di primo grado, partendo da una qualificazione giuridica
errata degli alloggi in questione, sarebbe addivenuto
all’erronea conclusione di ritenere che, nel caso di specie,
sussisterebbero i presupposti per poter procedere al
rilascio in via autoritativa degli immobili in danno degli
appellanti e per poter esercitare la c.d. autotutela
esecutiva.
6.2. A giudizio degli appellanti, i beni immobili (alloggi)
oggetto del presente contenzioso devono essere annoverati
tra i beni del patrimonio pubblico disponibile, con tutte le
conseguenze di diritto in ordine all’applicazione agli
stessi del regime giuridico di diritto comune.
6.3. A questo riguardo, fanno rilevare che la c.d.
“autotutela esecutiva” della pubblica amministrazione può
essere esercitata esclusivamente nei confronti di beni
appartenenti al demanio e al patrimonio pubblico
indisponibile, ma non anche con riguardo alla gestione dei
beni appartenenti alla categoria del patrimonio disponibile.
6.4. Evidenziano che il demanio e il patrimonio
indisponibile identificano i beni pubblici in senso stretto
che sono utilizzabili secondo modalità determinate, nelle
quali il rispetto del vincolo funzionale della destinazione
pubblica impone l’applicazione di regole di matrice
pubblicistica e autoritativa; laddove i beni appartenenti al
c.d. patrimonio disponibile, al contrario, sono
riconducibili invece al regime giuridico di diritto comune.
6.5. Sostengono che gli alloggi per cui è causa non
rientrino né nel demanio né nel patrimonio pubblico
indisponibile, ma siano ascrivibili al patrimonio
disponibile della amministrazione, per le seguenti ragioni:
- difetterebbe una destinazione del bene a finalità pubbliche e/o a
pubblici servizi ad opera di una norma di legge;
- difetterebbe una destinazione del bene a finalità pubbliche e/o a
pubblici servizi ad opera di atti amministrativi generali o
di pianificazione;
- la stessa amministrazione, nel disciplinare il rapporto in
questione, ha utilizzato lo schema del contratto di
locazione, in luogo della concessione-contratto.
A riprova di quanto dedotto, evidenziano che il godimento
dell’alloggio è stato attribuito agli appellanti non per
finalità pubblicistiche connesse e funzionali alle necessità
del servizio, ma per finalità personali degli interessati e
volte a garantire le esigenze abitative del personale
dell’amministrazione e dei relativi familiari.
In altri termini, il godimento dell’alloggio sarebbe stato
attribuito agli appellanti in forza di un ordinario
contratto di locazione e dietro il pagamento di un
corrispettivo, instaurandosi con l’amministrazione un
rapporto in cui, ad una prima fase prenegoziale
pubblicistica, connotata dall’esercizio del potere
amministrativo, sarebbe subentrata una fase di disciplina
prettamente contrattuale del rapporto, regolata unicamente
da strumenti di natura privatistica.
6.6. Le censure sono infondate.
6.6.1. Occorre in primo luogo rilevare che i beni di
proprietà di soggetti pubblici appartengono al patrimoni
indisponibile se “destinati a un pubblico servizio” (art.
826, comma 3, c.c.) o più in generale se destinati a
realizzare un interesse pubblico.
Come già affermato in un recente precedente della Sezione
(sentenza 12.01.2023, n. 418), la destinazione
“pubblica” oltre a far annoverare i beni tra quella
appartenenti al patrimonio indisponibile, consente
all’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela ex
art. 823, comma 2, c.c.
Nel caso di specie, la destinazione del bene alla
realizzazione di interessi pubblici emerge con evidenza
dalla circostanza che gli immobili in questione erano (e
sono) destinati a soggetti in “attività di servizio”,
realizzandosi così sin dal momento genetico un collegamento
tra il bene e l’interesse pubblico da soddisfare.
6.6.2. Sotto altro aspetto, costituisce ius receptum nella
giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale
gli atti con i quali la pubblica amministrazione ammette i
privati al godimento degli alloggi di edilizia residenziale
pubblica (ossia di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile dell’ente) vanno ascritti al genus delle
concessioni di beni pubblici (Tar Liguria, Sez. I, 13.12.2016 n. 1233).
6.6.2. La concessione del bene pubblico è uno degli
strumenti attraverso i quali l’amministrazione provvede alla
gestione dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo
pubblicistico, al fine di assicurarne il migliore utilizzo.
Nel caso dell'edilizia residenziale pubblica non viene però
in rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni
dell'amministrazione; l’assegnazione dell'alloggio non è
quindi mero strumento di gestione del bene pubblico, ma
tende a soddisfare un generale bisogno della collettività;
ne è prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi
popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale
viene attivata per far fronte alle esigenze abitative della
collettività (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 30.10.2018
n. 1399).
6.6.5. Nella sentenza impugnata, il giudice di primo grado,
dopo una ricostruzione del quadro normativo di riferimento,
ha evidenziato che l’assegnazione dell’alloggio è avvenuta
in relazione al rapporto di servizio degli odierni
appellanti, con la conseguenza che la cessazione del
rapporto di servizio ha legittimato l’amministrazione alla
revoca delle precedenti assegnazioni.
Sulla base delle coordinate ermeneutiche sopra richiamate,
ritiene il Collegio che le conclusioni del giudice di primo
grado debbano essere confermate, in quanto legittimamente
l’amministrazione ha proceduto alla revoca della
assegnazione dell’alloggio nel momento in cui, con la
cessazione del rapporto di servizio, è venuto meno uno dei
presupposti legittimanti l’assegnazione dell’alloggio.
L’esercizio del potere di revoca trova il suo espresso
fondamento giuridico nelle norme sopra richiamate.
Come sopra evidenziato, il d.P.R. 27.11.1954, n. 1406
(“Norme regolamentari per l'assegnazione e la gestione degli
alloggi, costruiti dall'I.N.C.I.S., da assegnare in
locazione al personale dipendente dall’amministrazione della
pubblica sicurezza”), richiamato anche dalle parti
appellanti, all’art. 8, disciplina le ipotesi di revoca,
richiamando l’art. 4 della legge 27.12.1953 n. 980,
che (a sua volta) prevede la revoca della assegnazione
dell’alloggio in caso di cessazione dal servizio (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.02.2024 n. 1166 -
commento tratto da e link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul diniego dell'istanza di concessione edilizia.
Invero, il provvedimento in esame -presentando natura vincolata- non necessitava di una
particolare motivazione; e proprio il carattere vincolato
del provvedimento di diniego rende superflua la
comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che
nessun apporto utile poteva essere conferito dalla
partecipazione del ricorrente all’istruttoria procedimentale.
Giova evidenziare al riguardo che la disposizione dell'art.
21-octies, l. n. 241/1990 che esclude l'effetto invalidante
del vizio dovuto a violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato, trova applicazione anche in relazione ai
provvedimenti viziati per incompetenza relativa.
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di
specificare che il vizio d'incompetenza relativa, che
colpisce un provvedimento amministrativo, in quanto lo
stesso avrebbe dovuto essere emanato da organo diverso dello
stesso ente, costituisce un mero vizio procedimentale, in
quanto tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura
vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto
dispositivo sia palese.
In altri termini, l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, l.
n. 241 del 1990 —che ha escluso l'effetto invalidante del
vizio dovuto a “violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”— trova applicazione anche in relazione ai
provvedimenti viziati per incompetenza relativa.
Ciò posto, andando al caso di specie, e considerata la
natura vincolata del provvedimento impugnato, devono
ritenersi del tutto irrilevanti i vizi di incompetenza
relativa denunciati dalla parte ricorrente (in quanto
“sarebbero stati adottati in conflitto di interesse” o
“perché adottati dal responsabile dell’Ufficio Urbanistica
anziché dal responsabile del SUAP”) e ciò ai sensi del
principio enucleato dall'art. 21-octies della Legge n.
241/1990.
---------------
Oggetto di questo contenzioso è la richiesta di rilascio di
concessione edilizia (per la realizzazione di un complesso
edilizio destinato ad attività commerciale nel comune di
Piazza Armerina) dove all’area (in cui ricade il fondo)
veniva attribuita dal ricorrente una destinazione
urbanistica (ossia “B”) diversa rispetto a quella impressa
dal Comune (“F5”).
Il ricorso è infondato.
La richiesta è stata rigettata perché la progettazione
risultava essere redatta come se l’area ricadesse in zona B
anziché in F5 come risultante dal PRG; in altri termini, il
progetto presentato da parte ricorrente presentava
specifiche e caratteristiche tipiche di una zona B, di
contro, l’area di proprietà del Se. era stata
qualificata nel nuovo piano regolatore come zona F5 Parchi
urbani e suburbani e addirittura sottoposta al vincolo
cimiteriale e boschivo.
Nel provvedimento si legge quanto segue:
a) “l’area interessata alla realizzazione del complesso edilizio
ricade nel vigente PRG per il 90% in zona F5 (parchi urbani
e suburbani) e il 10% come viabilità di progetto”;
b) “il progetto è stato redatto, attribuendo tutti i parametri e
destinazione d’uso ammesse alla zona B, in contrasto con
quanto previsto dalla zonizzazione del vigente PRG (Tav.
Z.5-03) che classifica l’area per il 90% circa in zona F5
dove sono consentiti parchi urbani e suburbani e il 10%
come viabilità di progetto”.
Risulta pertanto infondata la censura di difetto di
motivazione spiegata in ricorso posto che è possibile
comprendere in maniera chiara l’iter logico-giuridico
seguito dall’Amministrazione locale nell’adozione del
provvedimento.
In ogni caso, giova evidenziare che il provvedimento in
esame -presentando natura vincolata- non necessitava di una
particolare motivazione; e proprio il carattere vincolato
del provvedimento di diniego rende superflua la
comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che
nessun apporto utile poteva essere conferito dalla
partecipazione del Se. all’istruttoria procedimentale.
Giova evidenziare al riguardo che la disposizione dell'art.
21-octies, l. n. 241/1990 che esclude l'effetto invalidante
del vizio dovuto a violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato, trova applicazione anche in relazione ai
provvedimenti viziati per incompetenza relativa (cfr. TAR
Campania-Napoli, sez. VII, 10/03/2022, n. 1614; Cons. St.,
sez. III, 04.09.2020 n. 5355; id., sez. V, 07.02.2020 n. 971; id., sez. III, 22.01.2019 n. 253; id.,
03.08.2015 n. 3791; id., sez. V, 14.05.2013 n. 2602;
TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.03.2019 n. 1212; id.,
28.03.2017 n. 1710; TAR Toscana, 30.01.2012 n. 197;
TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 03.05.2021 n. 5096).
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di
specificare che il vizio d'incompetenza relativa, che
colpisce un provvedimento amministrativo, in quanto lo
stesso avrebbe dovuto essere emanato da organo diverso dello
stesso ente, costituisce un mero vizio procedimentale, in
quanto tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura
vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto
dispositivo sia palese (vedi Consiglio di Stato sez. VI,
20/01/2022, n. 359).
In altri termini, l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, l.
n. 241 del 1990 —che ha escluso l'effetto invalidante del
vizio dovuto a “violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”— trova applicazione anche in relazione ai
provvedimenti viziati per incompetenza relativa (vedi
Consiglio di Stato sez. III, 13/05/2020, n. 3046).
Ciò posto, andando al caso di specie, e considerata la
natura vincolata del provvedimento impugnato, devono
ritenersi del tutto irrilevanti i vizi di incompetenza
relativa denunciati dalla parte ricorrente (in quanto
“sarebbero stati adottati in conflitto di interesse” o
“perché adottati dal responsabile dell’Ufficio Urbanistica
anziché dal responsabile del SUAP”) e ciò ai sensi del
principio enucleato dall'art. 21-octies della Legge n.
241/1990 (TAR Sicilia-Palermo, sez. II, 10/01/2022, n.
37; Consiglio di Stato sez. III, 04/09/2020, n. 5355) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 31.01.2024 n. 388 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Sull’indennità risarcitoria per abusi paesaggistici minori.
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Edilizia e urbanistica – Abuso – Mancanza autorizzazione
paesaggistica – Indennità risarcitoria per abusi
paesaggistici minori – Doverosità.
La circostanza che la l. n. 1497 del
1939 sia stata abrogata definitivamente nel 2008 non ha
alcun rilievo quanto all’esistenza dell’illecito da sanare
poiché la norma all’epoca vigente è stata riprodotta nel
d.lgs. n. 42 del 2004, che ha raccolto le norme esistenti in
precedenti testi legislativi, cosicché possono considerarsi
abrogate solo le fattispecie non contenute nel nuovo testo
unico, trattandosi, negli altri casi, di mera modifica del
nomen iuris. Pertanto, l’indennità risarcitoria, oggi
disciplinata dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, in
caso di abusi paesaggistici cd. minori, che era già prevista
dall’art. 15 l. 1497/1939, è dovuta (1).
---------------
(1) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli specifici
termini.
Precedenti difformi: non
risultano precedenti difformi (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 30.01.2024 n. 945 -
commento tratto da e link a
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SENTENZA
1. La signora -OMISSIS- ha impugnato la sentenza indicata in
epigrafe che ha respinto il suo ricorso avverso l’atto
dirigenziale regionale n. 44 del 12.03.2014, avente ad
oggetto l’applicazione delle indennità risarcitorie di cui
all’art. 167 d.lgs. 42/2004 e art. 1, comma 37, lett. B2. L.
308/2004.
2. In effetti l’appellante aveva realizzato, previa
comunicazione asseverata del 06.09.1995, un volume tecnico
di mq. 37 sul terrazzo della sua casa sita in Brindisi
all’epoca ricadente in zona non vincolata.
Successivamente
aveva trasformava quel vano tecnico in volume abitativo e
con istanza del 10.12.2004 chiedeva la sanatoria per quella
trasformazione del volume tecnico in volume abitativo ai
sensi del decreto legge n. 269/2003, convertito con
modificazioni nella l. n. 326/2003.
La Soprintendenza con nota del 29.01.2009 aveva assentito al
mantenimento dell’opera sotto il profilo paesaggistico con
conseguente rilascio del provvedimento che autorizzava il
cambiamento di destinazione d’uso.
Il 12.05.2014 veniva notificato alla ricorrente l’atto
dirigenziale del Servizio Regionale Urbanistica n. 44 del
17.03.2014 di applicazione della indennità risarcitoria di
cui all’art. 167 D.lgs. 42/2004, avverso il quale
l’interessata propone ricorso al TAR per la Puglia.
3. Quest’ultimo ha respinto il ricorso affermando
innanzitutto che il vincolo paesaggistico era esistente già
all’epoca di realizzazione del volume tecnico e che
l’indennità risarcitoria costituiva presupposto
imprescindibile per la sanabilità dell’abuso paesaggistico;
ha aggiunto che era inoltre priva di rilievo la circostanza
che si fosse realizzato un mero cambio di destinazione d’uso
senza lavori esterni, così come era irrilevante, ai fini
della legittimità del provvedimento impugnato, il mancato
invio della comunicazione di avvio del procedimento.
4. L’appello è affidato a tre motivi, sostanzialmente
reiterativi di cui proposti in primo grado, ma secondo
l’interessata malamente apprezzati e ingiustamente respinti.
4.1. Con il primo motivo si ribadisce che
l’autorizzazione paesaggistica non era necessaria e che
comunque era stata rilasciata con la sanatoria dal Comune di
Brindisi in data 24.06.2010 relativamente alle opere
edilizie consistenti in una mera ristrutturazione con cambio
di destinazione d’uso di un volume tecnico in civile
abitazione sul terrazzo, sanatoria peraltro preceduta dai
pareri di compatibilità ambientale favorevole emessi dal
Nucleo di Valutazione Paesaggistica del Comune in data
09.12.2008 e dalla Soprintendenza in data 29.01.2009.
E’ stato anche sottolineato che la sanzione prevista
all’epoca dalla L. 1497/1939 era stata definitivamente
abrogata nel 2008; che la modifica della destinazione d’uso
non aveva comportato alcun danno sul piano paesistico e
infine che, trattandosi di un intervento minore ai sensi del
d.P.R. 31/2017, non era necessaria l’autorizzazione
paesaggistica.
...6. L’appello è infondato, il che consente di prescindere
dall’esame della questione, pur rilevabile d’ufficio,
dell’inammissibilità del gravame a causa del mancato
deposito della sentenza impugnata ex art. 94 c.p.a..
6.1. Relativamente al primo motivo di gravame, va
premesso che la circostanza che la L. 1497/1939 sia stata
abrogata definitivamente nel 2008 non ha alcun rilievo
quanto all’esistenza dell’illecito da sanare poiché la norma
all’epoca vigente è stata riprodotta nel d.lgs. 42/2004, che
ha raccolto le norme esistenti in precedenti testi
legislativi cosicché possono considerarsi abrogate solo le
fattispecie non contenute nel nuovo testo unico, trattandosi
negli altri casi di mera modifica del nomen iuris.
Pertanto l’indennità risarcitoria, oggi disciplinata
dall’art. 167 del d.lgs. 42/2004 in caso di abusi
paesaggistici cd. minori, era già prevista dall’art. 15 l.
1497/1939.
L’autorizzazione paesaggistica era necessaria anche
all’epoca della realizzazione del volume tecnico in base
alla L. 310/1995, mentre le successive autorizzazioni
rilasciate dalla Soprintendenza e dal Comune di Brindisi,
invocate dall’appellante a sostegno della non necessità
dell’autorizzazione, devono considerarsi autorizzazioni in
sanatoria dal momento che, all’epoca in cui fu chiesta la
modifica della destinazione d’uso del manufatto, era emerso
che l’autorizzazione paesistica non era stata richiesta; se
l’autorizzazione fosse stata a suo tempo richiesta quando
furono effettuate le modifiche interne era evidente che non
vi sarebbe stato il pagamento di alcuna sanzione.
E’ inconferente il richiamo al d.P.R. 31/2017 che non era
vigente all’epoca dei fatti.
In conclusione l’ottenimento di una autorizzazione
paesaggistica in sanatoria comporta il pagamento della
sanzione prevista dall’art. 167 d.lgs. 42/2004, come già
correttamente affermato il primo giudice (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 30.01.2024 n. 945 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La distinzione tra atti di conferma in senso
proprio e meramente confermativi deve individuarsi nella
circostanza che l'atto successivo sia stato adottato o meno
senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi, escludendosi che possa considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la
cui adozione sia stata preceduta da un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento,
mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata.
Ricorre invece l'atto meramente
confermativo, non impugnabile, allorché l'Amministrazione si
limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione.
---------------
1. Con il ricorso in esame si espone che la Co.Ca. S.r.l.s. è proprietaria di un immobile sito in Via
... n. 17/b - frazione Casatico di Giussago, edificato
in forza di permesso di costruire n. 60/2006 e di successive
varianti, nonché di autorizzazione paesaggistica del 22.12.2006, rilasciati dal Comune di Giussago alla
precedente proprietaria Xe.Im. S.r.l.
Quest’ultima
subiva un’esecuzione immobiliare con redazione di una
perizia che riscontrava difformità e conseguenti
contestazioni di irregolarità, oggetto di ordinanza di
demolizione che ingiungeva di provvedere alla demolizione
e/o alla riduzione in pristino delle opere abusive eseguite
entro e non oltre 90 giorni.
Parte ricorrente che aveva
acquisito il bene, dubitando dell’effettiva possibilità di
ridurre in pristino senza compromettere le parti
dell’edificio realizzate in conformità, affidava ad un
tecnico di fiducia la redazione di una perizia strutturale,
che effettivamente rappresentava che le operazioni di
demolizione e ricostruzione degli elementi portanti di
copertura avrebbero potuto pregiudicare il comportamento
strutturale dell’opera; veniva dunque con atto del 03.06.2019 presentata istanza di fiscalizzazione degli abusi ex
art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, anche se poi si
rinunciava a detta procedura per richiedere l’indicazione
delle prescrizioni che avrebbero dovuto consentire la
compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 17 del DPR n.
31/2017.
Tuttavia il Comune, a seguito di parere negativo
della Soprintendenza, con atto del 15.06.2020 dichiarava improcedibile quest’ultimo procedimento e disponeva “la
riapertura dei termini per l’ottemperanza all’Ordinanza di
demolizione notificata in data 04.04.2019 …, termini
precedentemente sospesi a decorrere dal 03.06.2019”; il 10.07.2020, in piena emergenza COVID-19, parte ricorrente
richiedeva una proroga dei termini di esecuzione, accolta
dal Comune con successiva nota del 17.07.2020 purché
fossero eseguiti alcuni adempimenti.
Da ultimo, con il
provvedimento impugnato, il Comune comunicava la riapertura
dei termini per l’ottemperanza all’ordinanza di demolizione,
anche se parte ricorrente contestava le modalità di
conteggio del termine per l’adempimento, in previsione della
presentazione di progetto di demolizione parziale del
sottotetto, poi effettivamente trasmesso il 31.12.2020.
Avverso il provvedimento in epigrafe sono insorte le
ricorrenti rassegnando le seguenti censure:
...
4. Il Collegio ritiene di prescindere dalle eccezioni in
rito, anche quanto all’asserita improcedibilità, attesa
l’infondatezza nel merito del ricorso.
4.1 Quanto alla presunta lesività dell’atto impugnato per
come qualificabile quale conferma in senso proprio, in
disparte la successiva valutazione nel merito del gravame,
il Collegio ritiene di aderire all’orientamento
giurisprudenziale (Cons. Stato, V, 27.07.2023, n. 7343;
09.05.2023, n. 4642; TAR Lombardia, Milano, IV, 25.07.2023, n. 1959)
secondo cui la distinzione tra atti di conferma in senso
proprio e meramente confermativi deve individuarsi nella
circostanza che l'atto successivo sia stato adottato o meno
senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli
interessi, escludendosi che possa considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui
adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione
che aveva condotto al precedente provvedimento, mediante la
rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame
degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la
fattispecie considerata; ricorre invece l'atto meramente
confermativo, non impugnabile, allorché
l'Amministrazione si limiti a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riguardo ad un organismo edilizio
autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di
titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed
anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è
richiesta una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla
determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto
il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è
costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua
assenza.
---------------
Il provvedimento demolitorio è sufficientemente motivato con la descrizione
delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di
avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi
degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una
trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti
destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella
successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
Invero, è orientamento pacifico in giurisprudenza che l'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza
di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non
devono essere preceduti da tale comunicazione, perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle
medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n.
241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in
cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato".
---------------
Nel caso di specie, la parte ricorrente aveva la
disponibilità materiale dell’opera abusiva, ragion per cui
legittimamente la notifica del provvedimento demolitorio si
è perfezionata nei confronti di chi, in quel momento,
deteneva l’immobile indipendentemente dall’aver contribuito
a realizzare l’abuso.
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del
d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione
demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il
proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che
l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere
emanata, come nella specie, nei confronti della proprietaria
del manufatto, sebbene non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in
via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo
stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede
soggettiva al momento della commissione dell’illecito
potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della
successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale,
ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi,
ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi
civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Sul punto questa stessa Sezione (06.06.2022, n. 1309) ha
avuto modo di affermare che “l’acquisizione dei beni al
patrimonio comunale, correlata all’inottemperanza all’ordine
di demolizione di opere abusive, grava sia sul proprietario
che sul detentore del bene, anche se non autori materiali
dell’abuso e non aventi causa dal trasgressore, poiché una
volta venuti a conoscenza, tramite la notifica
dell’ordinanza di rimessione in pristino, dell’attività
illecita svolta da terzi, devono attivarsi contro il
responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e
laddove abbiano la disponibilità del manufatto devono
provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento
edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subiscono
certamente l’acquisizione del bene".
---------------
4.2 In disparte se nella fattispecie si possa ricondurre ad
una nuova istruttoria/motivazione –con conseguente
riapertura dei termini per l’ottemperanza- la mera
descrizione degli eventi intercorsi medio tempore
dall’ultima sospensione concessa, preliminarmente la Sezione
esprime l’avviso che, con riguardo ad un organismo edilizio
autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di
titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed
anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è
richiesta una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla
determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto
il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è
costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua
assenza.
Con tali premesse le censure in termini di violazione di
legge non meritano positiva valutazione in quanto il
provvedimento demolitorio, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione
delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata
abusività (cfr. TAR Campania, Salerno, II, 29.01.2019, n. 203;
Napoli, IV, 10.01.2019, n. 137; Cons. Stato, VI, 05.11.2018, n. 6233).
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di
avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi
degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una
trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti
destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella
successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
Non troverebbero ingresso neanche le censure di natura
procedimentale, essendo orientamento pacifico in
giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, II, 13.06.2019, n. 3971;
TAR Campania, Napoli, IV, 10.1.2019, n. 137) che l'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza
di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non
devono essere preceduti da tale comunicazione, perché
trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle
medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che
ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini
di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n.
241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in
cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato".
4.3 In ogni caso parte ricorrente aveva la disponibilità
materiale dell’opera abusiva, ragion per cui legittimamente
la notifica del provvedimento demolitorio si è perfezionata
nei confronti di chi, in quel momento, deteneva l’immobile
indipendentemente dall’aver contribuito a realizzare
l’abuso.
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3,
del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della
sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta,
il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende
che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere
emanata, come nella specie, nei confronti della proprietaria
del manufatto, sebbene non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in
via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo
stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede
soggettiva al momento della commissione dell’illecito
potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della
successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale,
ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi,
ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Sul
punto questa stessa Sezione (06.06.2022, n. 1309) ha avuto modo
di affermare che “l’acquisizione dei beni al patrimonio
comunale, correlata all’inottemperanza all’ordine di
demolizione di opere abusive, grava sia sul proprietario che
sul detentore del bene, anche se non autori materiali
dell’abuso e non aventi causa dal trasgressore, poiché una
volta venuti a conoscenza, tramite la notifica
dell’ordinanza di rimessione in pristino, dell’attività
illecita svolta da terzi, devono attivarsi contro il
responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e
laddove abbiano la disponibilità del manufatto devono
provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento
edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subiscono
certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 13.10.2020, n. 1889; 04.07.2019, n.
1528; 21.01.2019, n. 112; 03.11.2016, n. 2014; 16.03.2015, n. 728)" (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rileva il Collegio che
l'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001
(secondo cui "Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale")
è interpretato dalla giurisprudenza nel senso che la
possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria
posta da tale normativa debba essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono
dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità
del fabbricato, presupposto per l'applicazione della
sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la
conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della
legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti la costante giurisprudenza ritiene che la norma ha
valore eccezionale e derogatorio, ragion per cui non è
l'Amministrazione a dover valutare, prima di emettere
l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere
applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare,
in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l'obiettiva
impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza
pregiudizio per la parte conforme.
Va ancora chiarito in questa sede che l’art. 34, co. 2, del
T.U. edilizia introduce una sanzione alternativa rispetto a
quella demolitivo-restitutoria nel caso in cui la
demolizione non possa avvenire senza incidere sulla
stabilità dell'edificio nel suo complesso.
La statuizione
che prevede una sanzione pecuniaria non configura un'ipotesi
di sanatoria dell'abuso edilizio perpetrato, ma
semplicemente contempera l'esigenza di ristabilire lo status
quo ante con quella di assicurare la sicurezza pubblica; la
sanzione pecuniaria si applica soltanto quando sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione,
risultando in maniera inequivoca che la demolizione
inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
In altri termini, l'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001
disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale
difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo
comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente
o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione".
La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria,
disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque
essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase
esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto
all'ordine di demolizione;
in quella sede, infatti, le parti ben potranno dedurre in
ordine alla situazione di pericolo di stabilità
dell’immobile derivante dall'esecuzione della demolizione.
---------------
4.4 Contrariamente a quanto asserito in sede ricorsuale in
relazione all'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 -secondo cui
"Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale"-
rileva il Collegio che la citata disposizione è interpretata
dalla giurisprudenza nel senso che la possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria
posta da tale normativa debba essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono
dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità
del fabbricato, presupposto per l'applicazione della
sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la
conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della
legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti la
costante giurisprudenza ritiene che la norma ha valore
eccezionale e derogatorio, ragion per cui non è
l'Amministrazione a dover valutare, prima di emettere
l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere
applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare,
in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l'obiettiva
impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza
pregiudizio per la parte conforme (cfr. TAR Sicilia,
Palermo, II, 26.02.2020, n. 439; Cons. Stato, II, 12.09.2019,
n. 6147; VI, 15.07.2019, n. 4939; 21.05.2019, n. 3280; 09.07.2018, n. 4169; 19.11.2018, n. 6497; 29.11.2017, n.
5585).
La Sezione ritiene dunque, in conformità al suesposto
consolidato orientamento, che nel caso di specie il Comune
di Giussago non potesse che ordinare la demolizione delle
opere abusivamente realizzate, salva la facoltà per parte
ricorrente di dedurre, al momento della concreta esecuzione
del provvedimento di demolizione, in ordine all'eventuale
situazione di pericolo di stabilità del fabbricato derivante
dall'esecuzione della demolizione delle opere abusive e per
le opere realizzate in parziale difformità dal titolo
edilizio.
Va ancora chiarito in questa sede che l’art. 34, co. 2, del
T.U. edilizia introduce una sanzione alternativa rispetto a
quella demolitivo-restitutoria nel caso in cui la
demolizione non possa avvenire senza incidere sulla
stabilità dell'edificio nel suo complesso.
La statuizione
che prevede una sanzione pecuniaria non configura un'ipotesi
di sanatoria dell'abuso edilizio perpetrato, ma
semplicemente contempera l'esigenza di ristabilire lo status
quo ante con quella di assicurare la sicurezza pubblica; la
sanzione pecuniaria si applica soltanto quando sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione,
risultando in maniera inequivoca che la demolizione
inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
In altri termini, l'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001
disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale
difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo
comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente
o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione".
La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria,
disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque
essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase
esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto
all'ordine di demolizione (ex plurimis Cons. Stato,
VI, 20/07/2018, n. 4418; 29/11/2017, n. 5585; 12/04/2013, n.
2001); in quella sede, infatti, le parti ben potranno
dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità
dell’immobile derivante dall'esecuzione della demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di volume utile ai fini urbanistici
non è coincidente con quella applicabile in sede paesistica,
dal momento che
- nelle valutazioni di natura urbanistica mediante il volume utile
viene misurata la consistenza dei diritti edificatori,
mentre
- nei giudizi paesistici viene considerata la percepibilità
dell'opera come volume collocato in uno scenario e viene
pertanto valutato il volume percepibile come ingombro alla
visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme
paesistico.
Invero, “se nelle valutazioni di natura urbanistica,
attraverso il volume utile, viene misurata la consistenza
dei diritti edificatori (che sono consumati da alcune
tipologie costruttive, ad esempio l’edificazione fuori
terra, e non da altre, ad esempio la realizzazione di locali
tecnici), nei giudizi paesistici assume rilievo solo il
volume percepibile come ingombro alla visuale o come
innovazione non diluibile nell’insieme paesistico".
---------------
4.5 Nella fattispecie è fuori discussione, per come
deducibile dalla proposta progettuale successivamente
presentata, che anche l’ipotizzata realizzazione di tasche a
tetto, mediante la rimozione di parti di copertura per la
formazione di terrazzi e spazi senza permanenza di persone,
pur determinando una significativa riduzione quantitativa
dell’abuso, non andrebbe a modificare il volume per quanto
attiene all'aspetto della tutela paesaggistica, lasciando
immutata la percepibilità dell'opera ai fini paesistici
soprattutto in ragione dell'invarianza della sagoma di
copertura.
Occorre sottolineare che la nozione di volume
utile ai fini urbanistici non è coincidente con quella
applicabile in sede paesistica, dal momento che nelle
valutazioni di natura urbanistica mediante il volume utile
viene misurata la consistenza dei diritti edificatori,
mentre nei giudizi paesistici viene considerata la
percepibilità dell'opera come volume collocato in uno
scenario e viene pertanto valutato il volume percepibile
come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile
nell'insieme paesistico.
In coerenza con quanto esposto, la
Sezione (n. 1788/2023) ha ritenuto che “se nelle valutazioni
di natura urbanistica, attraverso il volume utile, viene
misurata la consistenza dei diritti edificatori (che sono
consumati da alcune tipologie costruttive, ad esempio
l’edificazione fuori terra, e non da altre, ad esempio la
realizzazione di locali tecnici), nei giudizi paesistici
assume rilievo solo il volume percepibile come ingombro alla
visuale o come innovazione non diluibile nell’insieme
paesistico (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 24.06.2020, n. 1172; 11.06.2019, n. 1319; altresì, TAR
Campania, Napoli, VII, 01.02.2018, n. 712)” (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In giurisprudenza è opinione consolidata
- che "l'esercizio dei poteri di
vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una
delle imprescindibili modalità di cura dell'interesse
pubblico affidato all'una od all'altra branca
dell'Amministrazione ed è espressione del principio di buon
andamento di cui all'art. 97, Cost." e
- che "nella specifica
materia dell'attività urbanistico-edilizia, un potere
specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa
natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad
assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è
affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del
competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n.
380/2001), non sussistendo l'obbligo di comparazione degli
interessi e non essendo rinvenibile un affidamento
tutelabile del privato".
I provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella
misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere
abusivo delle medesime.
Poi, il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il
momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione
dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno
stato di legittimo affidamento e non innesta in capo
all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò
in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell’interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Il
carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione
(che deve essere adottato a seguito della sola verifica
dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti
di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico
sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di
demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus..
Nemmeno occorre motivare in
modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata
la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso
un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti
l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una
situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un
carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera
abusiva si concretizza in una volontaria attività del
costruttore realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente
vincolato e non richiede né una specifica motivazione in
ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale alla demolizione, né una comparazione fra
l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento
in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può in alcun modo legittimare.
---------------
4.6 Sotto ulteriore profilo le censure in termini di eccesso
di potere e di difetto di motivazione sono ancor più
destituite di fondamento se si considera che in
giurisprudenza è opinione consolidata (ad es., Cons. Stato,
IV, 25.11.2008, n. 5811) che "l'esercizio dei poteri di
vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una
delle imprescindibili modalità di cura dell'interesse
pubblico affidato all'una od all'altra branca
dell'Amministrazione ed è espressione del principio di buon
andamento di cui all'art. 97, Cost." e che "nella specifica
materia dell'attività urbanistico-edilizia, un potere
specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa
natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad
assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è
affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del
competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n.
380/2001), non sussistendo l'obbligo di comparazione degli
interessi e non essendo rinvenibile un affidamento
tutelabile del privato".
I provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella
misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere
abusivo delle medesime.
4.7 Per il resto il Collegio ritiene di far proprio quanto
argomentato dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero
che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il
momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione
dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno
stato di legittimo affidamento e non innesta in capo
all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò
in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell’interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (Cons.
Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il
carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione
(che deve essere adottato a seguito della sola verifica
dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti
di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico
sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di
demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (Cons.
Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in
modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata
la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso
un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti
l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una
situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un
carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera
abusiva si concretizza in una volontaria attività del
costruttore realizzata contra legem (in tal senso Cons.
Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente
vincolato e non richiede né una specifica motivazione in
ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale alla demolizione, né una comparazione fra
l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento
in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato,
28.02.2017, n. 908; IV, 12.10.2016, n. 4205; 31.08.2016, n.
3750) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Consorzi stabili fuori gara anche per sanzioni a imprese non
designate per l’esecuzione.
Lo precisa il Tar Lazio chiarendo che l’esclusione deve però essere sorretta
da adeguata motivazione da parte della stazione appaltante come prescrive
anche il nuovo codice.
In caso di partecipazione alla gara di un consorzio stabile, le carenze
nell’esecuzione di precedenti contratti di appalto che abbiano portato alla
risoluzione per inadempimento o ad altre misure sanzionatorie rilevano ai
fini dell’esclusione anche se sono intervenute nei confronti di un’impresa
consorziata diversa da quella designata come esecutrice nella gara stessa.
Nel contempo, l'esclusione deve essere sorretta da adeguata
motivazione,
che implica lo svolgimento da parte della stazione appaltante di una
compiuta istruttoria che consenta alla stessa di compiere le sue valutazioni
discrezionali in merito all'effettiva rilevanza dei fatti contestati al fine
di
procedere all'eventuale esclusione.
Si è espresso in questi termini il TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 11.01.2024 n. 560, che affronta il tema
di come deve essere inteso il possesso dei requisiti generali in capo al
consorzio stabile e
come opera la causa di esclusione delle inadempienze in precedenti
contratti, da valutare anche alla luce delle novità introdotte dal Dlgs
36/2023.
Il fatto
Il Ministero della Difesa aveva bandito una gara per l'affidamento
di
un appalto di lavori. L'aggiudicazione veniva in un primo momento operata a
favore di un raggruppamento temporaneo di imprese in cui il mandatario era
un consorzio stabile. Successivamente,
anche a seguito di un'istanza presentata dal secondo classificato, la
stazione appaltante procedeva
all'annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione.
Tale
annullamento veniva motivato con
riferimento alla previsione dell'allora vigente articolo 80, comma 5,
lettera c-ter), del Dlgs 50/2016, che prevedeva
l'esclusione dalla gara del concorrente che fosse incorso in significative o
persistenti carenze nell'esecuzione di un
precedente contratto di appalto, che avessero portato alla risoluzione per
inadempimento o ad altre sanzioni
comparabili.
La stessa disposizione prevedeva peraltro che su tali
circostanze la stazione appaltante fosse
chiamata a motivare, anche in relazione al tempo trascorso dalla violazione
e alla gravità della stessa. Nello
specifico, a carico del consorzio stabile (mandatario del raggruppamento
originariamente aggiudicatario) risultava
una risoluzione per inadempimento di un precedente contratto di appalto,
nonché altri quattro provvedimenti di
rescissione in danno, sempre a carico del consorzio in relazione a
precedenti appalti.
La stessa stazione appaltante
precisava che non assumeva alcun rilievo la circostanza che le imprese
consorziate esecutrici dei precedenti
contratti di appalto che avevano dato luogo agli atti di risoluzione e
rescissione fossero diverse dall'impresa
designata come esecutrice nella gara bandita.
Ciò in quanto gli eventi da
considerare pregiudizievoli in capo al
consorzio ai fini della sua partecipazione alla gara andavano valutati a
prescindere da quale fosse la consorziata
esecutrice nei contratti rispetto ai quali si erano manifestati gli
inadempimenti, e quindi anche se tale consorziata non coincideva con quella
designata in sede di gara.
Il provvedimento di annullamento
dell'aggiudicazione è stato impugnato dal consorzio stabile davanti al
giudice amministrativo. Secondo il ricorrente
erroneamente la stazione appaltante avrebbe fatto conseguire in maniera
automatica l'annullamento
dell'aggiudicazione dagli atti di risoluzione e rescissione dei precedenti
contratti di appalto.
Ciò senza considerare da
un lato la necessità di operare una valutazione in concreto in merito alla
gravità e rilevanza degli inadempimenti e al
grado di responsabilità dell'impresa consorziata; dall'altro, che in tali
contratti le consorziate esecutrici erano diverse
da quella indicata in sede di gara.
In relazione a tale ultimo profilo, il
ricorrente evidenziava che qualora gli eventi
contestati riguardavano contratti in cui l'impresa consorziata esecutrice
era diversa da quella indicata in sede di gara
non sussisterebbe neanche un onere dichiarativo in capo al consorzio
stabile, in quanto tali eventi non sarebbero
direttamente imputabili al consorzio stesso.
I requisiti generali in capo al
consorzio e alle consorziate
Il giudice
amministrativo ha proceduto in primo luogo all'esame di questo secondo
profilo.
La censura avanzata dal ricorrente
è stata respinta, ritenendosi corretto il comportamento della stazione
appaltante. Ricorda infatti il giudice
amministrativo che la struttura giuridica del consorzio stabile considerato
come un soggetto autonomo dotato di
personalità giuridica, distinta da quella delle consorziate comporta che
l'evento ritenuto pregiudizievole vada
considerato e valutato in capo al consorzio a prescindere dal fatto che lo
stesso abbia materialmente riguardato
un'impresa consorziata diversa da quella designata in sede di gara.
Tale
evento si riferisce infatti a un requisito di
ordine generale (di idoneità morale) che come tale deve essere posseduto in
primo luogo dall'impresa consorziata
indicata come esecutrice in sede di offerta relativa alla specifica gara,
non potendosi ammettere che un'impresa
consorziata priva dei requisiti generali possa essere avvantaggiata dallo
schermo di copertura costituito dal
consorzio.
Ma lo stesso requisito di ordine generale deve essere posseduto
anche dal consorzio in quanto tale, e a
tal fine è irrilevante che l'evento che viene in considerazione per ritenere
insussistente il suddetto requisito abbia
riguardato contratti in cui era impresa esecutrice una consorziata diversa
da quella designata in sede di gara.
In
sostanza, il giudice amministrativo evidenzia che i requisiti generali per
la partecipazione alla gara devono essere
posseduti sia dal consorzio in quanto tale che dall'impresa consorziata
indicata come esecutrice.
Ma in relazione al
consorzio, la carenza del requisito generale rileva anche se il fatto
produttivo della stessa sia imputabile a una
consorziata diversa da quella designata in sede di gara. In realtà la
necessità che i requisiti generali siano posseduti
direttamente anche dal consorzio non è esplicitamente prevista dalla
disciplina legislativa, ma è il frutto di una
elaborazione giurisprudenziale sul punto.
Infatti sia il Dlgs 50 che il Dlgs
36 si occupano esclusivamente dei requisiti
economico-finanziari e tecnico-organizzativi in capo alle imprese consorziate,
ma nulla dicono in merito ai requisiti di
carattere generale. Tuttavia la conclusione accolta dal giudice
amministrativo appare condivisibile.
Il soggetto che
partecipa alla gara e che risulta titolare del relativo contratto in caso di
aggiudicazione è il consorzio stabile in
quanto tale. E poiché esso si configura come una stabile struttura di
impresa con una propria soggettività giuridica e con distinta autonomia
anche patrimoniale,
appare corretto che il consorzio in sé sia in possesso dei requisiti
generali per la partecipazione alla gara. E risulta
altrettanto logico che la sussistenza di tali requisiti sia accertata con
riferimento ai comportamenti di tutte
indistintamente le imprese consorziate, senza che rilevi la circostanza che
gli stessi comportamenti siano stati posti
in essere da una consorziata diversa da quella designata in sede di
partecipazione alla gara.
In sostanza, l'idoneità
morale del consorzio stabile è anche la risultanza dell'idoneità morale di
tutte le imprese consorziate, proprio perché
la struttura consortile unitaria implica che qualunque comportamento di
ognuna di tali imprese si rifletta
immediatamente sulla idoneità del consorzio in relazione al possesso di
requisiti generali.
Nel caso di specie ha
quindi correttamente operato la stazione appaltante, che ha ritenuto
rilevanti ai fini dell'annullamento
dell'aggiudicazione le vicende contrattuali (risoluzione e rescissioni) che
hanno riguardato un'impresa consorziata,
ancorché diversa da quella indicata in sede di gara.
Affermato questo
principio di carattere generale, il giudice
amministrativo ne introduce tuttavia un temperamento. Viene infatti
specificato che resta in capo alla stazione
appaltante un ambito di valutazione discrezionale volto ad accertare se il
comportamento pregiudizievole
dell'impresa consorziata sia idoneo a incidere sull'idoneità morale del
consorzio, argomento che si collega in parte
alla seconda censura del ricorrente in merito al ritenuto difetto di
motivazione del provvedimento di annullamento
dell'aggiudicazione.
L'obbligo di motivazione
Secondo il ricorrente la
stazione appaltante nel disporre l'annullamento
in autotutela dell'aggiudicazione sarebbe incorsa nei vizi di carenza di
motivazione e difetto di istruttoria. Il giudice
amministrativo ha accolto questa censura. Ha infatti ritenuto che la
stazione appaltante, nel valutare la causa di
esclusione che nel caso di specie è stata posta alla base dell'annullamento
dell'aggiudicazione consistente
nell'intervenuta risoluzione di precedenti contratti per inadempimento,
debba motivare specificamente anche in
relazione al tempo trascorso e alla gravità dell'inadempimento.
Questa
valutazione e la contestuale puntuale
motivazione nel caso di specie è mancata del tutto. La stazione appaltante
non ha infatti in alcun modo preso in
considerazione la pluralità di elementi fattuali prospettati dal ricorrente
e che avrebbero potuto incidere sulla
valutazione degli eventi intervenuti nei precedenti rapporti contrattuali.
In sostanza, tali elementi, se opportunamente
vagliati, avrebbero potuto portare a un più adeguato apprezzamento delle
vicende pregresse, così da motivare in
maniera appropriata sulla sussistenza o meno della mancanza del requisito
generale oggetto di considerazione. Da
qui l'illegittimità del provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione
per carenza di motivazione e difetto di
istruttoria.
Le novità del Dlgs 36
Le considerazioni relative al rispetto
puntuale dell'obbligo di motivazione escono
rafforzate dalle novità introdotte dal Dlgs 36.
Quest'ultimo, nell'ambito
della rivisitazione complessiva della disciplina
sulle cause di esclusione, considera le carenze nell'esecuzione di
precedenti contratti che abbiano dato luogo alla
risoluzione per inadempimento o a sanzioni equivalenti non più in maniera
autonoma, ma come una delle ipotesi che
integra l'illecito professionale grave.
Ai sensi dell'articolo 98, comma 2,
l'illecito professionale deve essere valutato in base alla sussistenza degli
elementi che potenzialmente lo integrano, all'idoneità dello
stesso ad incidere sull'affidabilità e integrità dell'operatore e tenendo
conto degli adeguati mezzi di prova. E il mezzo
di prova relativo a questa specifica ipotesi di illecito professionale si
sostanzia nell'intervenuta risoluzione per
inadempimento o nella condanna al risarcimento del danno o in altre
conseguenze comparabili.
In quest'ambito,
l'illecito professionale grave rientra tra le cause di esclusione non
automatica, che implicano quindi un ambito di
valutazione discrezionale della stazione appaltante in merito alla
sussistenza dei relativi elementi costitutivi. Con la
conseguenza che viene consolidato anche a livello legislativo l'orientamento
giurisprudenziale in merito alla
necessità che tale valutazione si estrinsechi in una adeguata motivazione (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024).
---------------
SENTENZA
10. La censura non è fondata.
In effetti le diverse fattispecie “critiche” dichiarate dal Co.Bu.
nel DGUE (potenzialmente rilevanti e quindi da dichiarare ai sensi dell’art.
80, comma 5, d.lgs. n. 50/2016) sono tutte relative a commesse nelle quali
non erano coinvolte, come ditte esecutrici, le imprese consorziate indicate
dal RTI concorrente nella specie.
In effetti il DGUE si riferisce: alle commesse affidate dal Comune di
Selvazzano, dal Comune di Cava de’ Tirreni e dal Comune di Alghero, nelle
quali l’esecutrice designata era la consorziata El.Si. Srl; all’appalto
affidato dal Comune di Palermo, dove la consorziata designata era la Di. S.r.l.; all’appalto affidato dalla Città di Peschiera Borromeo,
dove la consorziata designata era la Be.In. S.r.l.
Quindi nessuna delle fattispecie pregresse concerne le due imprese designate
nell’ambito dell’affidamento in oggetto.
Tuttavia, alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali, il Collegio
ritiene che la struttura giuridica del Consorzio stabile comporta, quale
corollario, che il pregiudizio a carico dello stesso vada valutato e
apprezzato dalla S.A. a prescindere dal fatto che la consorziata esecutrice
coinvolta nella pregressa commessa sia diversa da quella designata nella
nuova procedura (Cons. Stato sez. V, 03.05.2022, n. 3543; id. 25.03.2021, n. 2352; TAR Sicilia, Catania, 31.05.2023, n. 1763).
Più precisamente occorre, in primo luogo che le imprese indicate come
esecutrici siano esse stesse in possesso dei requisiti generali, non
potendosi esse avvantaggiare dello “schermo di copertura” ritraibile dal
consorzio (cfr. Cons. Stato, V, n. 3543/2022 cit.; id. 09.10.2020, n.
6008; 30.09.2020, n. 5742; 05.05.2020, n. 2849; 05.06.2018, n.
3384 e 3385; 26.04.2018, n. 2537).
Ciò implica, in effetti, che il pregiudizio a carico di una data consorziata
(anche laddove maturato quale esecutrice di precedente affidamento a
beneficio del consorzio) non rilevi di per sé ai fini dei requisiti
partecipativi a una diversa gara in cui sia designata dal consorzio stabile
una distinta consorziata esecutrice (Cons. Stato, n. 2387 del 2020, cit.).
Ma ciò non vuol dire (anche) che il pregiudizio maturato (e risultante) a
carico dello stesso consorzio stabile su un precedente affidamento non
rilevi ai fini di una successiva procedura solo perché risultava ivi
designata una diversa consorziata esecutrice.
I requisiti generali vanno infatti accertati sì in capo alle consorziate
esecutrici, ma anche nei confronti del consorzio in sé (cfr. Cons. Stato,
Ad. plen., 04.05.2012, n. 8, relativa a un consorzio di produzione e
lavoro, con principio ben riferibile anche ai consorzi stabili: “il possesso
dei requisiti generali e morali […] deve essere verificato non solo in capo
al consorzio ma anche alle consorziate”; Cons. Stato, V, 25.03.2021, n.
2532).
Per questo, “la circostanza che il fatto della consorziata esecutrice in un
pregresso affidamento non valga a comprovare la carenza dei requisiti
nell’ambito di una gara con altra esecutrice designata non consente sic et
simpliciter di obliterare o ritenere superato un pregiudizio che risulti a
carico (anche) del consorzio stesso.
Una siffatta valutazione attiene infatti, eventualmente, all’apprezzamento
di merito circa l’affidabilità e integrità dell’operatore, a seconda del
tipo di illecito pregresso e delle sue connotazioni materiali (cfr. Cons.
Stato, n. 2532 del 2021, cit.), nonché del giudizio discrezionale rimesso
alla stazione appaltante in caso di illeciti non comportanti l’automatica
esclusione dell’impresa.
Come correttamente dedotto dall’appellante, infatti, il concorrente in gara
è il consorzio stabile, così come lo stesso consorzio è il titolare del
contratto con l’amministrazione (cfr. Cons. Stato, V, 02.02.2021, n.
964; cfr. peraltro anche, in termini generali, Cons. Stato, Ad. plen., 13.03.2021, n. 5, in ordine alla configurazione strutturale propria dei
consorzi stabili -diversa da quella dei consorzi ordinari- caratterizzati
da una “stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a
presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche
patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli
imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche
in proprio”).
Alla luce di ciò, se personalmente a carico del consorzio stabile risulta un
pregiudizio, lo stesso va valutato e apprezzato dalla stazione appaltante a
prescindere dal fatto che la consorziata esecutrice ivi coinvolta (ed
eventualmente colpita, insieme al consorzio, dai provvedimenti
pregiudizievoli dell’amministrazione) sia diversa da quella designata nella
nuova procedura di gara.” (Cons. Stato n. 3453/2022).
Ne consegue che le pregresse vicende in esame, poiché hanno riguardato
(oltre alle consorziate “diverse” da quelle designate nelle specie)
lo stesso Co.Bu. -nei confronti del quale le rescissioni e le
contestazioni sono state formalmente dichiarate (e il Consorzio ha assunto
altresì veste attorea nei conseguenti contenziosi instaurati)- sono state
giustamente considerate dalla S.A., ai fini del loro apprezzamento in
funzione della verifica di affidabilità del RTI concorrente. |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di demolizione e ricostruzione:
attenzione a Google Earth. Le foto prese dalla rete possono
essere determinanti ai fini della dimostrazione della
commissione di abusi edilizi.
Si può parlare di intervento di demolizione e ricostruzione
solamente laddove il privato dia prova dell’assenza di
variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma
dell'edificio preesistente:
è quanto chiarito dal TAR Campania, sede di Napoli, sez. II,
con la sentenza 10.01.2024, n. 286.
1. I fatti di causa
Oggetto del giudizio era l’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione di un corpo di fabbrica realizzato abusivamente
all’esito di un intervento di demolizione e ricostruzione.
Determinante per valutare la reale consistenza dell’immobile
è stata la valutazione delle risultanze fotografiche
ottenute dall’applicazione Google Earth con le quali
si è potuto dimostrare che, almeno fino al 2016, la
consistenza dell’immobile.
Il TAR, dunque, qualificato l’intervento come nuova
costruzione e riscontrata l’assenza dei titoli abilitativi,
non ha potuto far altro che respingere il ricorso
confermando la legittimità dell’ordinanza impugnata.
2. Interventi di demolizione e
ricostruzione. Quali limiti?
La motivazione della sentenza in commento si sofferma sulla
qualificazione degli interventi edilizi di demolizione e
ricostruzione e sulla possibilità di ricondurli nella
fattispecie delineata quale “nuova costruzione”.
Richiamiamo, prima di procedere oltre, le definizioni
rilevanti:
- Nuova costruzione: intervento che determinano una trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso
opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero
costruzioni latu sensu intese, le quali,
indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di
amovibilità, manifestano un carattere di stabilità fisica e
di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere
qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo
(art. 3, comma 1, lett. e) e art. 10, comma 1, lett. a),
d.P.R. n. 380/2001);
- Intervento di demolizione e ricostruzione: tipologia afferente
alla categoria degli interventi di ristrutturazione edilizia
caratterizzati dalla demolizione e ricostruzione di edifici
esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e
caratteristiche planivolumetriche e tipologiche; in ipotesi
tassative si possono prevedere incrementi di volumetria
[art. 3, comma 1, lett. d), e art. 10, comma 1, lett. c),
nonché art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001];
Tali brevi richiami appaiono utili in quanto il ricorrente,
nella fattispecie in commento, invocava –al fine di vedersi
comminata una sanzione più lieve– la qualificazione
dell’intervento eseguito quale ristrutturazione di una
preesistenza edilizia e non già quale nuova costruzione.
Le differenze sono tutt’altro che lessicali: la
ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire, o in difformità al titolo abilitativo, determina
l’applicazione dell’art. 33, d.P.R. n. 380/2001 e non la più
afflittiva sanzione demolitoria prevista dall’art. 31,
d.P.R. n. 380/2001.
3. Nel dubbio, l’intervento si presume
di “nuova costruzione”
A fronte delle difese del ricorrente, il TAR è stato
chiamato a pronunciarsi sul criterio discretivo tra
l'intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova
costruzione.
Si può parlare di intervento di demolizione e ricostruzione
in assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della
sagoma dell'edificio preesistente. Diversamente, si deve
parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione
quanto ai titoli edilizi necessari ed al regime
sanzionatorio
La prova delle richiamate indefettibili e precise condizioni
grava unicamente sul privato e, nella sentenza in commento,
tale prova è mancata, anche alla luce delle risultanze
fotografiche ottenute dall’applicazione Google Earth
prodotte dall’amministrazione (31.01.2024 - tratto da
www.altalex.com).
---------------
SENTENZA
1. Gli odierni ricorrenti hanno impugnato l’ordinanza n. 2
del 21.02.2020, con la quale il Dirigente del Settore
Assetto del Territorio del Comune di Giugliano in Campania
ha ingiunto la demolizione di un corpo di fabbrica presso
l’immobile ubicato alla via ... n. 33, in
Giugliano in Campania, distinto in catasto al foglio 82,
particella 1207 ex art. 31 del d.P.R. 380/2001.
2. Il provvedimento è stato adottato sulla base del verbale
di sequestro redatto dal Comando di Polizia Municipale prot.
n. 3847/P.G./2019 P.V.52/S/19 del 28/11/2019 nel quale
l’intervento viene dettagliatamente descritto come “una
struttura in muratura di circa 80 mq, poggiante su una
pedana in c.a. con altezza di circa 0,50 cm ed una
superficie di circa 200 mq, …provvista di una porta in
ferro, n. 3 finestre ed una finestra, l'interno è composto
da un unico ambiente allo stato grezzo”.
3. Si tratterebbe, come rappresentato nel provvedimento qui
impugnato, di interventi volti alla realizzazione di un
organismo edilizio nuovo e con specifica e autonoma
rilevanza e destinazione, eseguiti, tuttavia, in assenza di
titolo abilitativi.
4. Parte ricorrente contesta l’illegittimità e chiede,
quindi, l’annullamento del provvedimento gravato alla luce
dei seguenti motivi così riportati:
...
7. Il ricorso è infondato.
8. Possono essere unitariamente trattate le censure di
merito, che contestano la corretta qualificazione giuridica
dell’intervento realizzato senza titolo ai sensi dei
procedimenti sanzionatori di cui al d.P.R. 380/2001 (primo
e quarto motivo).
9. Dagli atti istruttori emerge una chiara descrizione del
fabbricato, costituito da un edificio ad un solo piano di
circa 80 mq, dotato anche di aperture laterali (sia di porta
che di finestre) e realizzato su una piattaforma in cemento
armato. Non è peraltro in contestazione che per la sua
realizzazione non sia stato chiesto alcun permesso di
costruire.
Non vi è pertanto dubbio che tale intervento edilizio
rientri nella fattispecie delineata dal legislatore quale
“nuova costruzione” ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. a),
del d.P.R. 380/2001 (“Per nuova costruzione si intende
qualsiasi intervento che consista in una trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso
opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero
costruzioni latu sensu intese, che, indipendentemente dai
materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino
un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza
temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto
che sia fisicamente ancorato al suolo” TAR Campania
Salerno, Sez. II, 12/04/2023, n. 8199.
Quanto alla sua epoca di realizzazione, a fronte dell’onere
probatorio imposto al privato che ha la disponibilità
dell’immobile e quindi la conoscenza dei fatti anche storici
che lo riguardano, l’amministrazione ha fornito documentata
prova contraria, poiché dalle immagini tratte
dall’applicazione “Google Earth” del 2016 (documento
allegato al verbale di sequestro) emerge che a tale data
l’immobile come configurato nel verbale di accertamento non
sussisteva.
Peraltro, sul criterio discretivo tra l'intervento di
demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione, soccorre
l’orientamento consolidato secondo cui ricorre la prima
ipotesi, dalla assenza di variazioni del volume,
dell'altezza o della sagoma dell'edificio, per cui, in
assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve
parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da
assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente
attività edilizia, sia quanto a regime autorizzatorio che ad
eventuale sanzione (TAR Napoli, sez. II, 21.06.2022,
n. 4223; “in ambito edilizio, anche se l'art. 10, comma 1,
lett. c), d.P.R. n. 380/2001 consente di qualificare come
interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività
finalizzate a realizzare un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente, che implicano modifiche della
volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
tuttavia è necessario conservare sempre una linea distintiva
tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova
costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le
modifiche volumetriche e di sagoma abbiano una portata
limitata e siano in ogni caso riconducibili all'organismo
preesistente” (TAR Napoli, sez. VI, 02.03.2023, n.
1344).
Nel caso di specie non vi è dubbio che si tratti di una
unità nuova, realizzata su fondamento di cemento armato,
dotata di finestre perimetrali, autonomamente utilizzabile,
non essendo stato neanche provato l’impatto effettivo
dell’intervento su un presunto preesistente organismo
edilizio.
La mancanza del permesso di costruire che avrebbe dovuto
essere rilasciato prima della costruzione dell’immobile
giustifica pertanto l’adozione dell’ordinanza di demolizione
ex art. 31 del d.P.R. 380/2001 citato (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.01.2024 n. 286 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Considerato che
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce, notoriamente, manifestazione di attività
amministrativa doverosa, non risultano rilevanti le supposte
violazioni procedimentali che avrebbero precluso un
effettiva partecipazione degli interessati al procedimento,
dovendosi ribadire che l'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività vincolata della pubblica amministrazione, con la
conseguenza che, ai fini dell'adozione dell'ordinanza di
demolizione, non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire
all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies, L.
07.08.1990, n. 241.
Analogamente, l'ordinanza di
demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica
motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico a disporre la sanzione, poiché “l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può
giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore
a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice
trascorrere del tempo non può legittimare e, di conseguenza,
l'ordinanza di demolizione, in quanto atto vincolato, non
richiede in nessun caso una specifica motivazione su
puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione
di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti”.
---------------
Rispetto alla
preannunciata presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità ex art. 36 e/o 37, d.p.r. 380/2001, il Comune
sottolinea che non è rinvenibile alcuna disposizione
normativa né arresti giurisprudenziali da cui evincere che
il deposito, intenzionale o anche effettivo, della predetta
domanda in sanatoria determini l’illegittimità del
provvedimento demolitorio, che,
pertanto, sarà solo sospeso nella sua efficacia.
---------------
1. Gli odierni ricorrenti hanno impugnato l’ordinanza n. 2
del 21.02.2020, con la quale il Dirigente del Settore
Assetto del Territorio del Comune di Giugliano in Campania
ha ingiunto la demolizione di un corpo di fabbrica presso
l’immobile ubicato alla via ... n. 33, in
Giugliano in Campania, distinto in catasto al foglio 82,
particella 1207 ex art. 31 del d.P.R. 380/2001.
2. Il provvedimento è stato adottato sulla base del verbale
di sequestro redatto dal Comando di Polizia Municipale prot.
n. 3847/P.G./2019 P.V.52/S/19 del 28/11/2019 nel quale
l’intervento viene dettagliatamente descritto come “una
struttura in muratura di circa 80 mq, poggiante su una
pedana in c.a. con altezza di circa 0,50 cm ed una
superficie di circa 200 mq, …provvista di una porta in
ferro, n. 3 finestre ed una finestra, l'interno è composto
da un unico ambiente allo stato grezzo”.
3. Si tratterebbe, come rappresentato nel provvedimento qui
impugnato, di interventi volti alla realizzazione di un
organismo edilizio nuovo e con specifica e autonoma
rilevanza e destinazione, eseguiti, tuttavia, in assenza di
titolo abilitativi.
4. Parte ricorrente contesta l’illegittimità e chiede,
quindi, l’annullamento del provvedimento gravato alla luce
dei seguenti motivi così riportati:
...
10. Quanto alla presunta violazione dell'art. 7, L. 241/1990,
secondo un consolidato orientamento “considerato che
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce, notoriamente, manifestazione di attività
amministrativa doverosa, non risultano rilevanti le supposte
violazioni procedimentali che avrebbero precluso un
effettiva partecipazione degli interessati al procedimento,
dovendosi ribadire anche a questo proposito che l'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività vincolata della pubblica amministrazione, con la
conseguenza che, ai fini dell'adozione dell'ordinanza di
demolizione, non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire
all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies,
L. 07.08.1990, n. 241 (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez.
VI, 07.11.2022 n. 9715)" (Cons. Stato, sez. VII, 27.02.2023, n. 1958).
11. Analogamente, l'ordinanza di demolizione non deve essere
sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla
sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione,
poiché “l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può
giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore
a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice
trascorrere del tempo non può legittimare e, di conseguenza,
l'ordinanza di demolizione, in quanto atto vincolato, non
richiede in nessun caso una specifica motivazione su
puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione
di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti” (Cons.
Stato Sez. VI, 27.02.2020, n. 1427).
12. Infine, rispetto alla preannunciata presentazione di
un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 e/o 37,
d.p.r. 380/2001, il Comune sottolinea che non è rinvenibile
alcuna disposizione normativa né arresti giurisprudenziali
da cui evincere che il deposito, intenzionale o anche
effettivo, della predetta domanda in sanatoria determini
l’illegittimità del provvedimento demolitorio, che,
pertanto, sarà solo sospeso nella sua efficacia.
Ed in
effetti, parte ricorrente non ha dimostrato l’inoltro
dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. 380/2001 che in ogni caso
avvia un procedimento che si conclude, in caso di mancato
riscontro espresso, con il “silenzio-rifiuto” ex art.
36, comma 3 (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.01.2024 n. 286 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La piscina è una struttura di tipo edilizio che
incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata,
perciò configura una nuova costruzione ex art. 3, comma 1,
lett. e), del DPR n. 380/2001 e non una pertinenza
urbanistica del fabbricato residenziale.
Per condivisibile giurisprudenza tutti gli elementi
strutturali concorrono al computo di volumetria dei
manufatti, interrati o meno, e fra di essi deve intendersi
ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile
come pertinenza in senso urbanistico in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a
quella propria dell'edificio cui accede.
La piscina, infatti, non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, poiché, sul piano
funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle
abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo
svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo
installati nei giardini o nei luoghi di svago. Né può essere
considerata pertinenza la realizzazione della piscina,
considerato che la stessa comporta una "durevole
trasformazione del territorio" la quale, sotto il profilo
urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a
quella propria dell'edificio cui accede e per tale ragione
non può coincidere con la relativa nozione civilistica.
Al riguardo può richiamarsi quella giurisprudenza del
Consiglio di Stato sulla nozione di pertinenza urbanistica
secondo cui tale nozione "è invocabile per opere di modesta
entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici et similia. Viceversa, tali non sono i
manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una
propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale
sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e
specifica utilizzazione".
---------------
2. Con il secondo motivo di appello l’appellante
deduce erronea motivazione. Travisamento dei presupposti di
fatto e di diritto, contraddittorietà.
Evidenzia che la seconda doglianza era stata respinta
dall’adito Tribunale in ragione del fatto che le piscine “sono
assoggettate a contribuzione dall’art. 7 del D.M. 801/1977 e
non sono sempre pertinenziali dal punto di vista
urbanistico, ma solo a certe condizioni, di cui occorre dare
la prova”, mentre la piscina privata, contrariamente a
quanto affermato nell’impugnata sentenza, è sempre una
pertinenza, ed in quanto tale non è soggetta a titolo
abilitativo oneroso.
Il motivo non è fondato.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con
opere invasive sul sito in cui viene realizzata, perciò
configura una nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett.
e), del DPR n. 380/2001 e non, come sostenuto
dall'appellante, una pertinenza urbanistica del fabbricato
residenziale.
Per condivisibile giurisprudenza tutti gli elementi
strutturali concorrono al computo di volumetria dei
manufatti, interrati o meno, e fra di essi deve intendersi
ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile
come pertinenza in senso urbanistico in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a
quella propria dell'edificio cui accede.
La piscina, infatti, non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, poiché, sul piano
funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle
abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo
svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo
installati nei giardini o nei luoghi di svago. Né può essere
considerata pertinenza la realizzazione della piscina,
considerato che la stessa comporta una "durevole
trasformazione del territorio" la quale, sotto il
profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto
a quella propria dell'edificio cui accede e per tale ragione
non può coincidere con la relativa nozione civilistica.
Al riguardo può richiamarsi quella giurisprudenza del
Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 29.11.2019, n.
8192; id., 04.01.2016, n. 19; 24.07.2014, n. 3952; sez. V,
12.02.2013, n. 817; sez. VI, n. 100/2020) sulla nozione di
pertinenza urbanistica, che questo Collegio condivide,
secondo cui tale nozione "è invocabile per opere di
modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera
principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il
contenimento di impianti tecnologici et similia. Viceversa,
tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione
possiedono una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine
ad una diversa e specifica utilizzazione".
L’art. 7 del D.M. 10.05.1977, n. 801, in materia di
determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici
prevede che, in seguito alla realizzazione di una piscina
coperta o scoperta quando sia a servizio di uno o più
edifici comprendenti meno di 15 unità immobiliari, è
previsto un incremento del costo di costruzione del 10%,
pertanto il provvedimento impugnato si sottrae alla censura.
L’appello deve essere, conseguentemente, respinto (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 02.01.2024 n. 44 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul valore delle FAQ.
Occorre in primo luogo ribadire ben noti concetti in ordine
al valore della FAQ, sulla base anche dell’evoluzione
giurisprudenziale.
È infatti indubbio che si tratta della manifestazione di un
nuovo, peraltro in linea teorica condivisibile, modo di
atteggiarsi dell’Amministrazione che si pone in posizione di
collaborazione con l’interessato sfruttando le tecnologie
più moderne al fine di raggiungere il maggior numero di
destinatari; ma proprio per le notevoli potenzialità (si
veda per tutti l’esperienza COVID) è necessario delimitare i
vincoli ed i limiti, onde evitare che questa possa poi
costituire fonte di incertezza ulteriore quando la stessa
Amministrazione ne modifichi successivamente il contenuto, o
addirittura la espunga, come nel caso che ci occupa.
La questione riguarda, quindi, principalmente il valore da
attribuire alla FAQ, ossia se essa possa essere considerata
una vera interpretazione autentica, vincolante per
l'interprete nell'individuazione del significato e
nell'applicazione; ovvero sia qualcosa di meno una “sorta”
di interpretazione collaborativa, i cui margini di
applicazione e vincolatività sono però da decifrare con cura
impingendo essi nell’affidamento dei terzi.
Al riguardo nelle gare pubbliche le FAQ, ovvero i
chiarimenti in ordine alla valenza delle clausole della lex
di gara fornite dalla stazione appaltante anteriormente alla
presentazione delle offerte, “non costituiscono un’indebita,
e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una
sorta d'interpretazione autentica, con cui l'Amministrazione
chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo
momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando
le previsioni della lex specialis”, sicché esse, per quanto non vincolanti,
possono orientare i comportamenti degli interessati e non
possono essere considerate tamquam non essent.
Più in
particolare, pur non avendo esse -come detto- carattere
vincolante, le risposte date dall'Amministrazione
contribuiscono a fornire utili indicazioni di carattere
applicativo in ordine alla ratio sottesa alle procedure e
agli atti in corso di esame, e, una volta suggerita, attraverso le FAQ, la ratio
propria dell'avviso pubblico, all'Amministrazione è
consentito discostarsene solo in presenza di elementi
decisivi, che il giudice deve sottoporre a uno scrutinio
particolarmente severo, per evitare il rischio che la
discrezionalità amministrativa si converta, con il diverso
orientamento amministrativo sopravvenuto, in arbitrio o
comunque leda l’affidamento creato nei destinatari delle
disposizioni.
Quindi si tratta, in realtà, non di una interpretazione
autentica nel senso stretto e formale del termine, che come
tale sarebbe inequivocabilmente vincolante, ma di una
“sorta” di supporto che l’Amministrazione offre alla platea
degli interessati ma che in quanto tale presenta limiti sul
contenuto e sulle modalità di esternazione; ossia ci
troviamo nell’ambito dei meri chiarimenti interpretativi,
delle opinioni, delle prassi applicative ai fini della
migliore lettura della questione controversa, che non
possono però modificare o integrare il senso delle
disposizioni interpretate, anche se gli effetti in termini
di affidamento dei partecipanti non possono essere del tutto
e preventivamente esclusi.
In tal senso, sempre in materia di FAQ, la Sezione ha avuto
modo comunque di pronunziarsi su un caso analogo vertente
sul medesimo bando in esame, rilevando, in sede di
delibazione dell’appello cautelare di altra associazione
culturale, che esse “lungi dal poter assurgere al rango di
fonte, pur se subordinata, del diritto oggettivo, integrano
invece esclusivamente l’esternazione (in forma di “risposte”
a “domande” asseritamene ricorrenti degli utenti) di una
mera prassi amministrativa (ossia, in altri termini, di
un’interpretazione amministrativa della normativa della cui
applicazione si tratta) che, pur potendo eventualmente
valere a formare la c.d. buona fede soggettiva degli utenti,
non è certamente idonea a prevalere rispetto al dato
normativo che sia difforme (nel caso della c.d. “risposta
sbagliata” alla FAQ), né a modificare o integrare il bando
di selezione (potendo semmai unicamente rilevare sotto il
distinto profilo dell’eventuale vulnus recato
all’affidamento del privato)…”.
Una FAQ quindi deve essere in primo luogo chiara nella
“domanda” e nella “risposta” avendo il primario fine di dare
chiarezza evitando di ingenerare ulteriore confusione; una
FAQ poi modificata nel contenuto –o addirittura cancellata– può essere piuttosto indice di perplessità e comunque di
un agire frettoloso dell’amministrazione, tale da poter
ingenerare anche un affidamento nel privato.
Ecco perché l’Amministrazione deve svolgere -nell’ottica
della massima trasparenza- già prima della pubblicazione un
attento esame proprio al fine di non ingenerare inutilmente
l’affidamento nei soggetti interessati, i quali peraltro non
possono essere onerati di un continuo controllo delle FAQ
medesime sino alla data di scadenza del termine di
presentazione dell’istanza di partecipazione.
Come anche un limite di particolare pregnanza va individuato
nel contenuto della FAQ.
Si ribadisce che le FAQ redatte dall'Amministrazione in sede
di gara possono solo chiarire, precisare e meglio esprimere
le previsioni della lex specialis, ma non di certo
modificarne od integrarne il contenuto.
---------------
4. Con il secondo motivo (rubricato: Sull’erroneità
della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto vincolante
l’interpretazione del bando fornita dall’Amministrazione
nelle FAQ) l’appellante richiama il contenuto della FAQ B 3;
detta FAQ è stata poi repentinamente cancellata
dall’Amministrazione e recava il seguente contenuto:
"- B 3: Un’associazione culturale può partecipare al Bando?
SI. Nelle more dell’istituzione del Registro unico nazionale
del Terzo settore, trovano applicazione le previgenti
normative ai fini e per gli effetti derivanti
dall’iscrizione degli enti nei Registri Onlus,
Organizzazioni di volontariato, Associazione di promozione
sociale; registri che non riguardano le associazioni
culturali.
In attesa di conoscere se a queste associazioni
sarà data la possibilità di iscrizione al Registro, si
ritiene di riconoscere, per favorire la maggiore
partecipazione possibile, anche a tali enti la possibilità
di presentare domanda. Una volta operativo il Registro unico
nazionale del Terzo settore, l’associazione culturale è
tenuta a presentare domanda di iscrizione al predetto
Registro, secondo le modalità previste dalla normativa di
riferimento e, solo nel caso in cui la domanda fosse
rifiutata, verrebbe meno il requisito richiesto, con
conseguente dichiarazione di inammissibilità della domanda
di partecipazione al presente Bando.”
A tal riguardo sostiene l’appellante che considerato il
ritardo nell’attivazione del Registro unico,
l’Amministrazione, con la FAQ B 3, è intervenuta per
dirimere alcuni dubbi chiarendo che un’ATS potesse
ricomprendere all’interno della sua compagine anche
un’associazione culturale (quale Voice Art), senza dover
dimostrare l’iscrizione di quest’ultima in uno dei registri
previsti dalla normativa previgente.
Afferma inoltre che con la risposta contenuta nella FAQ
l’Amministrazione ha chiarito la propria volontà
provvedimentale, precisando il contenuto della lex specialis.
4.1 Il motivo, pur in fatto apprezzabile, non può portare
all’accoglimento dell’appello.
Occorre in primo luogo ribadire ben noti concetti in ordine
al valore della FAQ, sulla base anche dell’evoluzione
giurisprudenziale.
È infatti indubbio che si tratta della manifestazione di un
nuovo, peraltro in linea teorica condivisibile, modo di
atteggiarsi dell’Amministrazione che si pone in posizione di
collaborazione con l’interessato sfruttando le tecnologie
più moderne al fine di raggiungere il maggior numero di
destinatari; ma proprio per le notevoli potenzialità (si
veda per tutti l’esperienza COVID) è necessario delimitare i
vincoli ed i limiti, onde evitare che questa possa poi
costituire fonte di incertezza ulteriore quando la stessa
Amministrazione ne modifichi successivamente il contenuto, o
addirittura la espunga, come nel caso che ci occupa.
La questione riguarda, quindi, principalmente il valore da
attribuire alla FAQ, ossia se essa possa essere considerata
una vera interpretazione autentica, vincolante per
l'interprete nell'individuazione del significato e
nell'applicazione; ovvero sia qualcosa di meno una “sorta”
di interpretazione collaborativa, i cui margini di
applicazione e vincolatività sono però da decifrare con cura
impingendo essi nell’affidamento dei terzi.
Al riguardo nelle gare pubbliche le FAQ, ovvero i
chiarimenti in ordine alla valenza delle clausole della lex
di gara fornite dalla stazione appaltante anteriormente alla
presentazione delle offerte, “non costituiscono un’indebita,
e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una
sorta d'interpretazione autentica, con cui l'Amministrazione
chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo
momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando
le previsioni della lex specialis” (Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013, n. 341; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2014, n. 290), sicché esse, per quanto non vincolanti,
possono orientare i comportamenti degli interessati e non
possono essere considerate tamquam non essent.
Più in
particolare, pur non avendo esse -come detto- carattere
vincolante, le risposte date dall'Amministrazione
contribuiscono a fornire utili indicazioni di carattere
applicativo in ordine alla ratio sottesa alle procedure e
agli atti in corso di esame (Cons. Stato, Sez. I, parere
6812/2020), e, una volta suggerita, attraverso le FAQ, la
ratio propria dell'avviso pubblico, all'Amministrazione è
consentito discostarsene solo in presenza di elementi
decisivi, che il giudice deve sottoporre a uno scrutinio
particolarmente severo, per evitare il rischio che la
discrezionalità amministrativa si converta, con il diverso
orientamento amministrativo sopravvenuto, in arbitrio o
comunque leda l’affidamento creato nei destinatari delle
disposizioni (Cons. Stato, I, parere 1275/2021; cfr. anche
sez. V 02.03.2022, n. 1486).
Quindi si tratta, in realtà, non di una interpretazione
autentica nel senso stretto e formale del termine, che come
tale sarebbe inequivocabilmente vincolante, ma di una
“sorta” di supporto che l’Amministrazione offre alla platea
degli interessati ma che in quanto tale presenta limiti sul
contenuto e sulle modalità di esternazione; ossia ci
troviamo nell’ambito dei meri chiarimenti interpretativi,
delle opinioni, delle prassi applicative ai fini della
migliore lettura della questione controversa, che non
possono però modificare o integrare il senso delle
disposizioni interpretate, anche se gli effetti in termini
di affidamento dei partecipanti non possono essere del tutto
e preventivamente esclusi.
In tal senso, sempre in materia di FAQ, la Sezione ha avuto
modo comunque di pronunziarsi su un caso analogo vertente
sul medesimo bando in esame, rilevando, in sede di
delibazione dell’appello cautelare di altra associazione
culturale, che esse “lungi dal poter assurgere al rango di
fonte, pur se subordinata, del diritto oggettivo, integrano
invece esclusivamente l’esternazione (in forma di “risposte”
a “domande” asseritamene ricorrenti degli utenti) di una
mera prassi amministrativa (ossia, in altri termini, di
un’interpretazione amministrativa della normativa della cui
applicazione si tratta) che, pur potendo eventualmente
valere a formare la c.d. buona fede soggettiva degli utenti,
non è certamente idonea a prevalere rispetto al dato
normativo che sia difforme (nel caso della c.d. “risposta
sbagliata” alla FAQ), né a modificare o integrare il bando
di selezione (potendo semmai unicamente rilevare sotto il
distinto profilo dell’eventuale vulnus recato
all’affidamento del privato)…” (Sez. IV ord. n. 2845/2022
del 20.06.2022).
Una FAQ quindi deve essere in primo luogo chiara nella
“domanda” e nella “risposta” avendo il primario fine di dare
chiarezza evitando di ingenerare ulteriore confusione; una
FAQ poi modificata nel contenuto –o addirittura cancellata– può essere piuttosto indice di perplessità e comunque di
un agire frettoloso dell’amministrazione, tale da poter
ingenerare anche un affidamento nel privato.
Ecco perché l’Amministrazione deve svolgere -nell’ottica
della massima trasparenza- già prima della pubblicazione un
attento esame proprio al fine di non ingenerare inutilmente
l’affidamento nei soggetti interessati, i quali peraltro non
possono essere onerati di un continuo controllo delle FAQ
medesime sino alla data di scadenza del termine di
presentazione dell’istanza di partecipazione.
Come anche un limite di particolare pregnanza va individuato
nel contenuto della FAQ.
Si ribadisce che le FAQ redatte dall'Amministrazione in sede
di gara possono solo chiarire, precisare e meglio esprimere
le previsioni della lex specialis, ma non di certo
modificarne od integrarne il contenuto (Consiglio di Stato,
sez. V, 04.05.2022, n. 3492).
Nel caso specifico, la FAQ era obiettivamente erronea, e
peraltro veniva successivamente cancellata dalla stessa
Amministrazione, ma non poteva rendere legittima da sola
l’erogazione del finanziamento, né creare un affidamento
rilevante, vista la chiarezza del quadro normativo, sulla
base di quanto sopra evidenziato, e dimostrata altresì
(seppur ex post) la possibilità di iscrizione al Registro
regionale dell’associazionismo della Regione Lazio di cui
all’art. 9 della l.r. 22/1999.
Ad avviso del Collegio pertanto il motivo, pur degno di
considerazione, non può portare all’accoglimento
dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.12.2023 n. 11198 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scala
a chiocciola abusiva se non è prevista nella relazione asseverata.
La decisione del Consiglio di Stato: bocciato il ricorso dei proprietari
intenzionati a ricavare un locale abitabile nel sottotetto.
La
sentenza 21.08.2023 n. 7832 emessa dal supremo
Tribunale amministrativo (Sez. VII), ci consente di cogliere due aspetti per nulla
scontati in tema di abusi edilizi. Difatti, come vedremo, un intervento
edilizio può risultare abusivo perché in qualche misura “collegato” ad altra
opera del tutto irregolare; ma anche perché, seppur presente nel progetto
grafico, non è espressamente menzionato nella correlata relazione asseverata
prodotta alle amministrazioni.
Il fatto
I privati proprietari di un immobile strutturato su più livelli, decidevano
di realizzare alcuni interventi edilizi, e più precisamente: l’abbassamento
del solaio dell’ultimo piano con conseguente installazione di una scala a
chiocciola, necessaria ad accedere al piano mansarda (così ricavato), nonché
al terrazzo soprastante. Facile intuire come l’abbassamento del solaio
avesse consentito di ricavare dei vani abitabili, con un inevitabile aumento
di superficie.
Gli interventi edilizi in parola, richiamavano l’attenzione tanto del Comune
quanto della Soprintendenza (attesa l’esistenza di un vincolo), che
ritenevano del tutto abusiva l’attività posta in essere dai privati, in
quanto le opere, per tipologia e per come realizzate, non erano di fatto mai
state autorizzate. Conseguentemente, il Comune emetteva ordinanza di
demolizione e reintegrazione, mentre la Soprintendenza esigeva la
predisposizione di un progetto finalizzato al ripristino dello stato dei
luoghi.
I privati, del tutto convinti di non essersi resi colpevoli di alcun abuso,
decidevano di rivolgersi al Tar, che tuttavia rigettava il loro ricorso.
I giudici amministrativi, infatti, ritenevano che l’intervento complessivo
fosse qualificabile come ristrutturazione edilizia; solo così può definirsi
la realizzazione di più opere coordinate, da cui è derivato un organismo
edilizio caratterizzato da una diversa distribuzione dei volumi sul piano
verticale, tanto da rendere abitabili degli spazi che in precedenza non lo
erano. Per un siffatto intervento, le autorizzazioni erano ineludibili;
mancando le stesse, l’abuso è incontestabile.
La decisione del Consiglio di Stato
Investiti della vicenda, i giudici di Palazzo Spada non hanno alcun dubbio
in merito alla piena correttezza di quanto statuito nel provvedimento del
Tar. Quanto all’ampliamento del sottotetto, non è contestabile la sua
abusività, essendo senz’altro un’opera mai assentita dalla Soprintendenza.
L’attenzione ai concentra poi sulla scala a chiocciola ritenuta abusiva per
due ordini di ragioni.
Anzitutto, in virtù della sua funzione di collegamento agli ambienti
abusivamente ricavati (sottotetto abitabile), essa si inserisce in un
contesto di opere non autorizzate, da ciò conseguendo anche la sua abusività.
Ma vi è un ulteriore aspetto di non scarsa rilevanza: la scala a chiocciola,
non era prevista nella relazione asseverata che ha consentito la
realizzazione dell’intervento, ma risultava soltanto dai correlati progetti
grafici.
Ebbene, per il Consiglio di Stato ciò non è affatto sufficiente; il
manufatto doveva anche essere menzionato testualmente nella relazione
asseverata, che nel caso di specie recava invece la sola menzione di opere
interne del tutto differenti da quelle poi realmente eseguite (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
10.10.2023).
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SENTENZA
1. Con il primo motivo le appellanti ripropongono, anche ai sensi
dell’art. 36 c.p.c., le medesime censure di illegittimità per violazione del
giusto procedimento con riferimento ad ogni atto impugnato e, in
particolare, deducono che il Giudice riunendo i due giudizi (R.G. 2365/2002
ed R.G. 2374/2002) avverso la ordinanza di demolizione del Comune di Napoli
e il provvedimento di ripristino della Soprintendenza, aveva esaminato solo
la censura di violazione del giusto procedimento con riferimento al ricorso
(R.G. 2365//02) avverso la ordinanza di demolizione omettendo ogni censura
parimenti avverso il provvedimento di ripristino emesso dalla
Soprintendenza.
2. Con il secondo motivo deducono che il Tar erroneamente aveva
ritenuto che le opere oggetto di contestazione non risultavano autorizzate
ed avrebbero comportato un aumento di superficie utile. In particolare il
Giudice aveva erroneamente ritenuto che alcune delle opere in questione non
risultavano inserite nella autorizzazione soprintendizia n. 25014 del
21.08.1993 rilasciata ai sig.ri Ce.Bo. e Ma.Te.Cu., loro danti causa.
3. Con il terzo motivo deducono che la sentenza appellata era erronea
anche nella parte in cui il Giudice aveva ritenuto che le opere contestate
risultavano configurare un intervento di “ristrutturazione edilizia”.
Le censure, da esaminare congiuntamente per la loro stretta connessione, non
sono fondate.
Il Tar ha disposto una istruttoria dalla quale è emerso che le opere oggetto
della residua impugnazione avevano comportato un aumento delle superfici
utili; esse sono, infatti, consistite nell’abbassamento del solaio
dell’ultimo piano (immediatamente sottostante il “soppegno” al di
sotto del tetto) e nella installazione di una scala a chiocciola per
l’accesso al piano mansarda, così ricavato, nonché al terrazzo soprastante.
L’abbassamento del solaio dell’ultimo piano ha consentito di ricavare dei
vani abitabili in luogo del descritto soppegno (cfr. verbale di P.G. del
23.02.2002, di cui alla produzione erariale del 30.09.2016 nel fascicolo
riunito R.G. 2374/2002 nonché comunicazione di notizia di reato del
02.11.1999, del 07.05.2002).
Il Tar ha quindi condivisibilmente concluso che l’intervento fosse
qualificabile (quanto meno) come ristrutturazione in quanto erano state
realizzate più opere coordinate che aveva portato a un organismo edilizio
caratterizzato da una diversa distribuzione dei volumi sul piano verticale
tanto da rendere abitabili degli spazi che non lo erano in precedenza.
Gli interventi hanno, infatti, comportato un aumento delle superfici utili
con l’abbassamento del solaio dell’ultimo piano, con la realizzazione di
vani abitabili in luogo del soppegno, con la installazione della scala per
l’accesso al piano mansarda e alla terrazza.
Quanto alle violazioni del procedimento, l'indirizzo condiviso della
giurisprudenza amministrativa ritiene che i provvedimenti aventi natura di
atto vincolato, come l'ordinanza di demolizione o l’ordine di ripristino,
non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento,
non essendo prevista la possibilità per l'Amministrazione di effettuare
valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva
delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un
atto dovuto e, in quanto tale, non deve assicurare le garanzie
partecipative, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di
natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere
un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia
l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo (Cons. Stato n. 6490 del 2021;
Cons. Stato n. 4389 del 2019; Cons. Stato n. 2681 del 2017).
In sostanza, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, non
risultando pertanto rilevanti le supposte violazioni procedimentali che
avrebbero precluso un'effettiva partecipazione degli interessati al
procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento
dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies l. 07.08.1990, n. 241 (Cons.
Stato, n. 1958 del 2023).
Quanto all’ampliamento del sottotetto, non è contestabile la sua abusività
essendo senz’altro opera non prevista dall’autorizzazione soprintendentizia
n. 25014 del 21.08.1993.
Sono condivisibili le affermazioni del primo Giudice il quale ha evidenziato
che la scala a chiocciola, è da qualificarsi abusiva per due ragioni.
Innanzitutto, la scala si inserisce in un contesto di opere non autorizzate
per la sua funzione di collegamento anche agli ambienti abusivamente
ricavati (sottotetto abitabile); inoltre, essa non era prevista nella
relazione asseverata che ha consentito la realizzazione dell’intervento ma
solo nei relativi grafici.
Sebbene sia già dirimente la prima considerazione, va osservato, rispetto a
quest’ultima circostanza, che non è sufficiente l’indicazione dell’opera nel
grafico di progetto, dovendo essere la stessa anche menzionata testualmente
nella relazione asseverata che reca la sola menzione di opere interne.
Trattandosi, quindi, di opere non autorizzate da effettuarsi su un immobile
sottoposto a vincolo individuo, non v’è dubbio che l’ordine di
reintegrazione (art. 131 d.lgs. 490/1999, vigente ratione temporis)
acquisisca natura vincolata con la conseguente infondatezza di tutte le
censure mosse avverso il provvedimento della Soprintendenza.
Nulla può essere disposto in relazione alla richiesta dell’interveniente di
dichiarare la propria estraneità dagli abusi realizzati, avendo lo stesso
spiegato un intervento ad adiunvandum e non un intervento autonomo.
L’autonomo ricorso proposto dall’interveniente è stato, inoltre, dichiarato
perento, sicché nessun elemento è stato fornito a sostegno della propria
estraneità agli abusi.
L’appello deve essere, pertanto, respinto. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: La sanatoria riduce le carte.
Niente certificato di agibilità? Venditore non inadempiente. La
compravendita di un immobile al centro di una sentenza della Corte di
cassazione.
Il rilascio della
agibilità richiede la sussistenza dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, ragion per cui può essere ottenuta
soltanto per gli immobili regolari anche sotto tale ultimo profilo ovvero,
in caso di immobili abusivi, previa concessione o autorizzazione in
sanatoria. Il certificato di agibilità non può essere, quindi, rilasciato
nel caso in cui l'immobile sia abusivo. In caso di compravendita di immobile
in corso di sanatoria non può configurarsi un inadempimento del venditore
per mancata consegna del suddetto certificato.
E' quanto ha stabilito la Suprema Corte, Sez. II civile, con la
sentenza 01.08.2023 n. 23370.
Il caso di specie origina dall'impugnazione della sentenza con la quale la
Corte d'appello di Catania, in riforma delle decisioni emesse in primo
grado, aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto preliminare
di compravendita di un immobile per asserito inadempimento di parte
venditrice.
Il rifiuto del promissario acquirente del bene di addivenire
alla stipulazione del contratto definitivo era giustificato dalla mancata
consegna del certificato di abitabilità dell'immobile, tuttora mancante,
essendo specifico obbligo del venditore, ai sensi dell'art. 1477 cc,
consegnare tale documento all'acquirente, quale requisito della fruibilità e
commerciabilità dell'immobile.
Secondo il Collegio non rilevava il fatto che
nel contratto preliminare le parti avessero previsto la necessità di
presentare domanda per la concessione in sanatoria dell'immobile, ponendo a
carico della promittente venditrice il relativo onere e tutte le somme
dovute a saldo della oblazione e dei contributi urbanistici ai fini del
rilascio della concessione in sanatoria e certificato di agibilità, “atteso
che solo una espressa rinuncia da parte del promissario acquirente avrebbe
potuto esonerare l'altra parte dall'obbligo di provvedere alla consegna del
suddetto certificato”.
Interposta impugnazione, la Suprema Corte ha ritenuto i due motivi, da
trattarsi congiuntamente per la loro connessione obiettiva, ammissibili e
fondati.
In particolare, la ricorrente ha censurato la pronuncia dei giudici
collegiali che avrebbero trascurato di considerare che l'oggetto del
preliminare di vendita era un immobile abusivo, non in regola con la
normativa edilizia, tanto che le parti avevano previsto che il promittente
venditore dovesse presentare domanda di concessione in sanatoria,
adempimento regolarmente posto in essere anche con il pagamento della
relativa oblazione e degli oneri concessori.
Per quanto di interesse in
questa sede, secondo gli Ermellini la Corte di appello ha errato nel
ritenere non sufficiente, a tal fine, il richiamo contenuto nel preliminare
al procedimento in sanatoria, bensì necessaria un'espressa rinuncia alla
consegna del certificato da parte dell'acquirente: “la promessa di acquisto
di un immobile che le parti consapevolmente sanno essere oggetto di
procedimento di sanatoria edilizia comporta, quale conseguenza implicita e
necessaria, la rinuncia al suddetto certificato, in deroga alla disposizione
di cui all'art. 1477 cc”.
La previsione del procedimento di sanatoria
edilizia risponde non solo all'interesse della parte acquirente, ma anche
della parte venditrice, in quanto la normativa in materia “sanziona con la
nullità l'atto di trasferimento tra ivi di immobili abusivi, consentendo
l'atto solo nei casi di abusi sanabili e previa allegazione di copia della
domanda di sanatoria e della menzione degli estremi dell'avvenuto versamento
delle prime due rate dell'oblazione”.
Infatti, l'art. 40 della legge 47/1985
consente la trasferibilità degli immobili abusivi, previa allegazione della
domanda in sanatoria e degli estremi del pagamento delle prime due rate
dell'oblazione, senza pertanto richiedere l'intervenuto rilascio del
provvedimento in sanatoria: quindi, “il trasferimento non implica anche la
consegna del certificato di abitabilità o agibilità dell'immobile, che
necessariamente sarà posteriore al nuovo titolo edilizio, non potendo essere
rilasciato prima”.
In base alla giurisprudenza di legittimità, proseguono i
giudici di piazza Cavour, “la mancata consegna del certificato di
abitabilità non determina in via automatica la risoluzione del contratto
preliminare di compravendita per inadempimento del venditore, dovendo essere
verificata in concreto la gravità dell'omissione in relazione alla godimento
ed alla commerciabilità del bene e che, nel caso di immobili soggetti a
sanatoria, l'interesse dell'acquirente all'ottenimento del certificato
appare attenuato, atteso che l'art. 35 legge n. 47/1985 prevede
espressamente che esso, a conclusione del procedimento in sanatoria, venga
rilasciato anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari,
qualora le opere sanate non contrastino con la sicurezza statica“.
Il
Collegio è incorso in un ulteriore errore non avendo comunque valutato, in
relazione al caso concreto, l'incidenza della mancanza del certificato
suddetto sulla possibilità di godimento e commerciabilità del bene.
Nella
valutazione delle prove, la Corte di appello ha ritenuto il venditore
inadempiente all'obbligo di consegnare il certificato di agibilità omettendo
tuttavia di valutare, sottolineano gli Ermellini, che in ispecie “le parti,
nella consapevolezza del carattere abusivo dell'immobile, avevano
espressamente previsto di dar corso al procedimento di sanatoria, senza
posticipare alla sua definizione la conclusione del contratto definitivo, e
che il suddetto certificato presuppone il rilascio della autorizzazione o
concessione in sanatoria. Sconta di conseguenza tale errore anche
l'affermazione che tale mancata consegna avrebbe potuto essere giustificata
solo da una espressa rinuncia della parte promissaria acquirente, dovendo
essa confrontarsi con il contenuto e gli effetti derivanti dalla clausola
contrattuale più volte menzionata”.
In altri termini la Corte di appello
aveva dato atto che le parti, in sede di contratto preliminare, “nella
evidente consapevolezza della presenza di difformità sull'immobile, avevano
previsto la necessità di attivare il procedimento di sanatoria edilizia,
ponendo a carico della parte promittente l'onere di presentare la relativa
domanda e di sopportare le conseguenti spese per l'oblazione ed ogni altro
contributo ed onere. Non risulta, invece, che le parti avessero stabilito
che la stipulazione del contratto definitivo sarebbe stata rimandata alla
definizione del procedimento di sanatoria. La clausola negoziale che
prevedeva l'attivazione del suddetto procedimento stava quindi a significare
la disponibilità da parte del promissario acquirente di stipulare l'atto
definitivo di acquisto una volta presentata la domanda di sanatoria ed
assolti i relativi oneri di spesa, senza attendere la sua definizione”.
La
Cassazione approda così al rigetto del ricorso.
La decisione impugnata non è
corretta: i giudici territoriali, nell'interpretare il contratto
preliminare, non si sono attenuti “al dato testuale che le parti avevano
convenuto solo la presentazione della domanda in sanatoria e quindi di voler
stipulare il contratto definitivo anche in assenza della concessione, con
ciò implicitamente ritenendo non necessario il rilascio del certificato di
abitabilità, la cui mancanza era stata opposta dalla controparte solo in
corso di giudizio, quale mero pretesto per giustificare il proprio
inadempimento”.
Sicché, chiosa la Corte, “il giudice del rinvio, nel
valutare, conformemente ai principi esposti, il comportamento delle parti e
le reciproche contestazioni di inadempienza, dovrà altresì verificare la
reale portata della clausola contrattuale citata anche sotto altro profilo,
se vale a dire con essa il promittente venditore garantiva la effettiva
possibilità di sanatoria degli abusi presenti nell'immobile ed accertare,
altresì, se essi erano suscettibili di sanatoria o, come dedotto dalla
odierna ricorrente nella memoria depositata, sono stati effettivamente
sanati ed il certificato di agibilità è stato rilasciato” (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2023).
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SENTENZA
Il primo motivo del ricorso, che denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 1477 cod. civ. e degli artt. 40 e 35 legge n. 47 del
1985, censura la decisione impugnata per avere ritenuto fondata l’eccezione
di inadempimento sollevata dalla controparte per la mancata consegna del
certificato di agibilità dell’immobile.
Sostiene al riguardo la ricorrente l’erroneità di tale soluzione, per avere
la Corte di appello trascurato di considerare che oggetto del preliminare di
vendita era un immobile abusivo, non in regola con la normativa edilizia,
tanto che le parti avevano previsto che il promittente venditore dovesse
presentare domanda di concessione in sanatoria, adempimento questo
regolarmente posto in essere anche con il pagamento della relativa oblazione
e degli oneri concessori.
Ora, poiché l’art. 40 legge n. 47 del 1985 consente la trasferibilità degli
immobili abusivi, previa allegazione della domanda in sanatoria e degli
estremi del pagamento delle prime due rate dell’oblazione, senza pertanto
richiedere l’intervenuto rilascio del provvedimento in sanatoria, ne
discende che, in tale ipotesi, il trasferimento non implica anche la
consegna del certificato di abitabilità o agibilità dell’immobile, che
necessariamente sarà posteriore al nuovo titolo edilizio, non potendo essere
rilasciato prima.
La promessa di acquisto di un immobile che le parti consapevolmente sanno
essere oggetto di procedimento di sanatoria edilizia comporta quindi, quale
conseguenza implicita e necessaria, la rinuncia al suddetto certificato, in
deroga alla disposizione di cui all’art. 1477 cod. civ.
Ha errato pertanto la Corte di appello laddove ha ritenuto che non fosse
sufficiente, a tal fine, il richiamo contenuto nel preliminare al
procedimento in sanatoria, ma fosse necessaria un espressa rinuncia alla
consegna del certificato da parte dell’acquirente.
Si aggiunge che, in base alla giurisprudenza di legittimità, la mancata
consegna del certificato di abitabilità non determina in via automatica la
risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del
venditore, dovendo essere verificata in concreto la gravità dell’omissione
in relazione alla godimento ed alla commerciabilità del bene e che, nel caso
di immobili soggetti a sanatoria, l’interesse dell’acquirente
all’ottenimento del certificato appare attenuato, atteso che l’art. 35 legge
n. 47 del 1985 prevede espressamente che esso, a conclusione del
procedimento in sanatoria, venga rilasciato “anche in deroga ai requisiti
fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con
la sicurezza statica ...“. In tale contesto, il giudice territoriale
avrebbe dovuto comunque valutare, in relazione al caso concreto, l’incidenza
della mancanza del certificato suddetto sulla possibilità di godimento e
commerciabilità del bene.
Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 1460 cod.
civ. e degli artt. 1362, 1366 e 1375 stesso codice, lamentando che la Corte,
nell’interpretare il contratto preliminare, non si sia attenuta al dato
testuale che le parti avevano convenuto solo la presentazione della domanda
in sanatoria e quindi di voler stipulare il contratto definitivo anche in
assenza della concessione, con ciò implicitamente ritenendo non necessario
il rilascio del certificato di abitabilità, la cui mancanza era stata
opposta dalla controparte solo in corso di giudizio, quale mero pretesto per
giustificare il proprio inadempimento.
I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente per la loro
connessione obiettiva, sono ammissibili e fondati.
Sotto il primo profilo, non hanno fondamento le eccezioni sollevate dal
controricorrente di inammissibilità dei motivi per difetto di specificità e
perché fondati su circostanze nuove, mai dedotte nei giudizi di merito.
Le censure sollevate dal ricorso investono direttamente le ragioni della
decisione e risultano argomentate sulle medesime risultanze e dati di fatto
su cui la Corte di appello ha motivato la conclusione accolta, che viene
contrastata per erronea applicazione di norme di diritto.
La fondatezza del ricorso emerge invece dalla considerazione che la stessa
Corte di appello ha dato atto che le parti, in sede di contratto
preliminare, nella evidente consapevolezza della presenza di difformità
sull’immobile, avevano previsto la necessità di attivare il procedimento di
sanatoria edilizia, ponendo a carico della parte promittente l’onere di
presentare la relativa domanda e di sopportare le conseguenti spese per
l’oblazione ed ogni altro contributo ed onere.
Non risulta, invece, che le parti avessero stabilito che la stipulazione del
contratto definitivo sarebbe stata rimandata alla definizione del
procedimento di sanatoria. La clausola negoziale che prevedeva l’attivazione
del suddetto procedimento stava quindi a significare la disponibilità da
parte del promissario acquirente di stipulare l’atto definitivo di acquisto
una volta presentata la domanda di sanatoria ed assolti i relativi oneri di
spesa, senza attendere la sua definizione. Nella premessa, merita
aggiungere, che tale adempimento fosse idoneo a produrre l’effetto sperato,
che vale a dire gli abusi esistenti potessero essere sanati e fosse
ristabilita la regolarità del bene dal punto di vista edilizio e
urbanistico.
La previsione del procedimento di sanatoria edilizia rispondeva, del resto,
non solo all’interesse della parte acquirente, ma anche della parte
venditrice, in quanto la normativa in materia, com’è noto, sanziona con la
nullità l’atto di trasferimento tra vivi di immobili abusivi, consentendo
l’atto solo nei casi di abusi sanabili e previa allegazione di copia della
domanda di sanatoria e della menzione degli estremi dell’avvenuto versamento
delle prime due rate dell’oblazione (art. 40 legge n. 47 del 1985).
Tanto precisato, appare condivisibile la critica svolta nel ricorso per
avere la Corte di appello ritenuto che, nonostante la clausola contrattuale
sopra menzionata, la parte promittente avesse altresì l’obbligo di
consegnare il certificato di agibilità dell’immobile, per non avervi la
controparte espressamente rinunciato, non potendo altrimenti considerarsi
non inadempiente.
Tale affermazione mal si concilia con la citata previsione contrattuale
sulla necessità del procedimento di sanatoria dell’immobile, che implicava,
da un lato, la mancanza del suddetto certificato e la sua conoscenza
da parte dell’acquirente e, dall’altro, la sua ottenibilità solo in
un momento successivo.
Ciò per la ragione che il rilascio del certificato di
agibilità presuppone, anche, la conformità urbanistica dell’immobile e non
può essere quindi rilasciato nel caso in cui esso sia abusivo
(Cons. Stato, sez. II, 17.05.2021, n. 3836).
In questo senso depone la normativa in materia urbanistico
edilizia introdotta dal d.p.r. n. 380 del 2001, che ha eliminato, com’è
noto, ogni differenza tra agibilità ed abitalità, assorbendo la seconda
nella prima.
In particolare, mentre l’art. 24, nella sua stesura originaria, vigente al
momento contratto per cui è causa, prevedeva che il certificato di agibilità
attestasse la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e
risparmio energetico degli edifici, il successivo art. 25, nel disciplinare
il procedimento di rilascio, menzionava espressamente tra le dichiarazioni a
corredo della domanda l’attestazione relativa alla “conformità dell’opera
rispetto al progetto presentato“ (comma 1, lett. b), ossia la sua
regolarità edilizia ed urbanistica.
Con il d.lgs. n. 222 del 2016, che ha ricondotto la certificazione al regime
della s.c.i.a., tale requisito di conformità, con l’abrogazione del citato
art. 25, è stato riportato nella norma definitoria dell’art. 24, come
modificato, che include espressamente “la conformità dell’opera al
progetto presentato“ tra i fatti che il tecnico deve asseverare all’atto
della presentazione della segnalazione certificata per l’agibilità degli
edifici.
Il rilascio della agibilità richiede, pertanto, la sussistenza dei requisiti
sia igienico sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, ragion per cui
può essere ottenuta soltanto per gli immobili regolari anche sotto tale
ultimo profilo ovvero, in caso di immobili abusivi, previa concessione o
autorizzazione in sanatoria. Lo stesso art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001, che
regola il relativo procedimento in sanatoria, prevede espressamente del
resto che a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria venga
rilasciato il certificato di agibilità, anche in deroga relativamente a
determinati requisiti dell’immobile.
La sentenza impugnata è quindi errata per avere ritenuto l’odierna
ricorrente inadempiente all’obbligo di consegnare il certificato di
agibilità, omettendo di valutare che le parti, nella consapevolezza del
carattere abusivo dell’immobile, avevano espressamente previsto di dar corso
al procedimento di sanatoria, senza posticipare alla sua definizione la
conclusione del contratto definitivo, e che il suddetto certificato
presuppone il rilascio della autorizzazione o concessione in sanatoria.
Sconta di conseguenza tale errore anche l’affermazione che tale mancata
consegna avrebbe potuto essere giustificata solo da una espressa rinuncia
della parte promissaria acquirente, dovendo essa confrontarsi con il
contenuto e gli effetti derivanti dalla clausola contrattuale più volte
menzionata.
Non è qui in discussione il principio, più volte ribadito
da questa Corte, secondo cui il venditore ha, in generale, l’obbligo di
reperire e consegnare il certificato di agibilità, quale requisito per la
usufruibilità e commercializzazione futura del bene, non potendo altrimenti
considerarsi adempiente rispetto alle obbligazioni nascenti dal contratto.
Proprio la riconducibilità di tale omissione nella categoria
dell’inadempimento, porta a ritenere che l’oggetto sia disponibile e che
quindi l’acquirente possa rinunciarvi ovvero non possa contestare la sua
mancanza tutte le volte in cui abbia manifestato l’intenzione di non
considerare la sua consegna decisiva per l’acquisto dell’immobile
(Cass. n. 10665 del 2020).
Merita aggiungere che il giudice del rinvio, nel valutare, conformemente ai
principi esposti, il comportamento delle parti e le reciproche contestazioni
di inadempienza, dovrà altresì verificare la reale portata della clausola
contrattuale citata anche sotto altro profilo, se vale a dire con essa il
promittente venditore garantiva la effettiva possibilità di sanatoria degli
abusi presenti nell’immobile ed accertare, altresì, se essi erano
suscettibili di sanatoria o, come dedotto dalla odierna ricorrente nella
memoria depositata, sono stati effettivamente sanati ed il certificato di
agibilità è stato rilasciato.
Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata, con rinvio della causa
alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, che provvederà
anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. |
EDILIZIA PRIVATA:
Invero, il presupposto per l'adozione di
un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di
responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con
quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia.
Sicché
- sia il soggetto che ha la titolarità a eseguire l'ordine
ripristinatorio -ossia in virtù del diritto dominicale il
proprietario-
- che il responsabile dell'abuso
sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei
luoghi, posto che l'acquirente dell'immobile abusivo o del
sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti
giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti
capo al precedente proprietario, ivi compresa l'abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell'ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo stato l'abuso
commesso prima del passaggio di proprietà, restando
ovviamente salva la possibilità per il terzo acquirente che
sia in buona fede di rivalersi nei confronti del venditore a
seguito dell'avvenuta demolizione.
L'accertamento della natura abusiva rende dovuto (nel caso
di specie) il ripristino, non potendo applicarsi l'art. 34,
relativo agli interventi realizzati in parziale difformità
rispetto al permesso di costruire.
L’asserito potenziale pregiudizio alla parte conforme non
incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione e può
rilevare, semmai, solo nella fase successiva e su impulso
della parte, sempre che la demolizione sia ingiunta ai sensi
degli artt. 33 o 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, recanti la
previsione alternativa della sanzione pecuniaria e la cui
applicazione è esclusa allorquando la demolizione è
ingiunta, come nella specie, in base agli artt. 27 e 31 del
citato decreto.
---------------
L’appello è infondato.
Infatti il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di
ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella
commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella
strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto
che ha la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio
-ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario- che
il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione
reale del ripristino dei luoghi, posto che l'acquirente
dell'immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato
succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi
relativi al bene ceduto facenti capo al precedente
proprietario, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo
gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia
dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartita,
pur essendo stato l'abuso commesso prima del passaggio di
proprietà (così Cons. Stato II n. 2830 del 04.05.2020, VI,
11.12.2018, n. 6893; nello stesso senso Cons. Stato, A.P.
17.10.2017, n. 9), restando ovviamente salva la possibilità
per il terzo acquirente che sia in buona fede di rivalersi
nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta
demolizione (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato,
sez. VI, 14.08.2015, n. 3933).
L'accertamento della natura abusiva rendeva, infatti, dovuto
il ripristino, non potendo applicarsi l'art. 34, relativo
agli interventi realizzati in parziale difformità rispetto
al permesso di costruire.
L’asserito potenziale pregiudizio alla parte conforme non
incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione e può
rilevare, semmai, solo nella fase successiva e su impulso
della parte, sempre che la demolizione sia ingiunta ai sensi
degli artt. 33 o 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, recanti la
previsione alternativa della sanzione pecuniaria e la cui
applicazione è esclusa allorquando la demolizione è
ingiunta, come nella specie, in base agli artt. 27 e 31 del
citato decreto (così Consiglio di Stato II n. 4851 del
15.05.2023).
L’appello deve pertanto essere respinto (Consiglio di Stato,
Sez. VII,
sentenza 17.07.2023 n. 6969 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili abusivi, il trasferimento della proprietà al Comune non
impedisce la demolizione.
L'acquisizione del bene deve rendere più agevole l'abbattimento e non
incrementare il patrimonio dell'ente. L'effetto traslativo dell'opera
edilizia abusiva al patrimonio comunale, previsto dall'art. 31 del Dpr
380/2001, consegue ope legis in caso di inottemperanza all'ingiunzione a
demolire e non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di
eseguire l'ordine di demolizione, «in quanto il trasferimento dell'opera
nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato a una sua
più agevole demolizione e non, invece, a incrementare il patrimonio
dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del
territorio».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 23.03.2021 n. 11133, che ha respinto il ricorso contro la
pronuncia con
cui la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del
Tribunale di Palermo, aveva dichiarato il costruttore di
un immobile responsabile dei reati previsti dagli articoli 44, lettera c), 64
e 71, 65 e 95, 93 e 95, del Dpr 380/2001 e all'articolo
181 del Dlgs 42/2004 e concesso il beneficio della sospensione condizionale
della pena, subordinatamente alla demolizione
delle opere abusive.
Cornice normativa
L'articolo 31 del Dpr 380/2001, omologo alla precedente disposizione
prevista dall'articolo 7 della legge 47/1987 «Norme in
materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia» prevede che:
• il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso edilizio la
rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di
novanta giorni per adempiere;
• decorso inutilmente questo termine il bene e l'area di sedime
sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del
comune;
• l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire
«costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari»;
• l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che
con deliberazione consiliare «non si dichiari l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici ed ambientali»;
• il giudice, con la sentenza di condanna, «ordina la demolizione
delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti
eseguita», salvo che non sia intervenuta la suindicata delibera.
La sentenza della Cassazione
I difensori dell'imputato avevano sostenuto che la Corte d'appello, «in
maniera acritica e illogica, aveva confermato la
subordinazione della concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena, senza considerare [che] l'imputato
non aveva la disponibilità dei beni perché acquisiti al patrimonio del
Comune». Tesi che non ha colto nel segno.
La Cassazione
ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, salvo che il
comune abbia dichiarato l'esistenza di interessi
pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto
urbanistico violato, la subordinazione della sospensione
condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è
impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al
patrimonio comunale a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione (sentenza Cassazione n. 41051/2015).
Sicché,
a prescindere dall'acquisizione del bene al patrimonio comunale, «il
soggetto condannato resta comunque il destinatario
dell'ordine di demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di
dare esecuzione, nelle forme di rito, all'ordine di
demolizione a propria cure e spese» (sentenza Cassazione, n. 45703/2011).
Profili costituzionali
Nel senso indicato dalla Cassazione si è espressa anche la Corte
costituzionale. Basta citare la sentenza n. 140/2018, che, nel dichiarare
l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 2, della legge della
Regione Campania 22.06.2017, n. 19
(Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai Comuni in materia di
governo del territorio) che attribuiva alla giunta
regionale la potestà di adottare linee guida per supportare gli enti locali
nell'attuazione di misure alternative alla demolizione
degli immobili abusivi, ha stabilito che «la demolizione degli immobili
abusivi acquisiti al patrimonio del Comune […]
costituisce un principio fondamentale della legislazione statale».
Principio
che i giudici costituzionali hanno riaffermato con la
sentenza n. 86/2019: «la scelta operata dal legislatore statale di
sanzionare le violazioni più gravi della normativa urbanistico-edilizia
[impone] la rimozione dell'opera abusiva e, con essa, il ripristino
dell'ordinato assetto del territorio»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.05.2021).
---------------
SENTENZA
1. Va osservato, in premessa, che è pacificamente riconosciuta la
possibilità, per il giudice penale, di subordinare l'applicazione della
sospensione condizionale alla demolizione delle opere abusive.
Tale possibilità, secondo un primo orientamento, confermato anche dalle
Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1 del 10/10/1987 (dep. 1988),
Bruni, Rv. 177318), non era originariamente ammessa.
Tuttavia una successiva pronuncia delle medesime Sezioni Unite (Sez. U, n.
714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo, Rv. 206659) ha fornito un
condivisibile indirizzo interpretativo, ammettendo la legittimità della
sospensione condizionale subordinata alla demolizione che appare, peraltro,
giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un
manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o
pericolosa del reato, da eliminare (cfr. Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015,
Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014),
Russo, Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466; Sez.
3, n. 38071 del 19/09/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 18304 del
17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000),
Pagano, Rv. 216444).
2. Va, poi, ricordato che l'effetto traslativo dell'opera edilizia
realizzata abusivamente al patrimonio comunale, previsto dall'art. 31, comma
quarto, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (ed in precedenza dall'omologa
disposizione di cui all'art. 7 della Legge 28.02.1985, n. 47), consegue
ope legis in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire e non
costituisce impedimento tecnico-giuridico
alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il
trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è
esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere
economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso
edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con
opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n.
49397 del 16/11/200, Rv. 230652).
Il soggetto condannato resta, quindi, il destinatario dell'ordine di
demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di dare esecuzione,
nelle forme di rito, al predetto ordine di demolizione a propria cure e
spese (cfr. ex multis, Sez. 3, n. 45703 del 26/10/2011, Rv. 251319;
Sez. 3 n. 43294 del 29.09.2005, Rv. 232646; Sez. 3 n. 37120 dell'11.05.2005
Rv. 232174).
L'ordine di demolizione opera, pertanto, anche in caso di intervenuta
acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale posto che, sino a quando
non sia intervenuta una delibera dell'ente locale che dichiari l'esistenza
di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive
-ipotesi nella specie non verificatasi-, è sempre possibile per il
condannato chiedere al Comune stesso l'autorizzazione a procedere alla
demolizione a propria cura e spese (Sez. 3 n. 7399 del 13/11/2019, dep.
25/02/2020, Rv. 278090 - 01; Sez. 3, n. 39471 del 18/07/2017, Rv. 272502 - 01;
Sez. 3, n. 26149 del 09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, n. 37120 del
08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321). |
URBANISTICA:
Il termine e i presupposti per
l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma
7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere
ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il
superamento delle scadenze previste non determina il venir
meno degli atti della procedura pianificatoria.
La disposizione di legge regionale sopra richiamata va
necessariamente interpretata in senso costituzionalmente
orientato, in guisa da garantire l’osservanza dei principi
di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della
pubblica Amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione),
nonché da assicurare l’esigenza che la legge regionale si
attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge
statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la
quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della
delibera di adozione del piano, fissando unicamente i
termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia,
peraltro di durata pluriennale (art. 12 del d.P.R. n. 380
del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione
aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli
atti assunti è collocata incidentalmente nel testo
dell’articolo 13, comma 7, della l.r. n. 12 del 2005 e ciò
consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non
all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della disposizione, ma alla violazione
dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione
normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in
termini non perentori.
---------------
2.2. Passando al primo motivo, con il quale si assume
la tardività dell’adozione della variante, osserva il
Collegio che, come evidenziato dalla costante giurisprudenza
della Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II,
28.12.2020, n. 2613), “il termine e i presupposti per
l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma
7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere
ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il
superamento delle scadenze previste non determina il venir
meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR
Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n.
761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n.
7614; 10.12.2010, n. 7508)”.
La disposizione di legge regionale sopra richiamata va
necessariamente interpretata in senso costituzionalmente
orientato, in guisa da garantire l’osservanza dei principi
di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della
pubblica Amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione),
nonché da assicurare l’esigenza che la legge regionale si
attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge
statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la
quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della
delibera di adozione del piano, fissando unicamente i
termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia,
peraltro di durata pluriennale (art. 12 del d.P.R. n. 380
del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal
tenore letterale della previsione normativa, deve
privilegiarsi quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo
la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata
valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione
aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli
atti assunti è collocata incidentalmente nel testo
dell’articolo 13, comma 7, della l.r. n. 12 del 2005 e ciò
consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non
all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto
nella prima parte della disposizione, ma alla violazione
dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione
normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in
termini non perentori (cfr.: TAR per la Lombardia – sede
di Milano, Sez. II, 22.01.2019, n. 122; Id., 10.12.2018, n.
2761; Id., 30.3.2017, n. 761; Id., 26.5.2016, n. 1097; cfr.,
da ultimo, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II,
10.2.2021, 374; Id., 26.11.2021, n. 2622).
Le assorbenti considerazioni esposte conducono, quindi, alla
reiezione del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo
chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura
sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive
del proprio interesse.
L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica
aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di
propria spettanza, richiedendosi, invece che le
‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni
raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che
l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà”.
---------------
2.3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che,
nonostante l’adozione di modifiche sostanziali anche al
Piano delle Regole e al Piano dei Servizi, l’aggiornamento
sarebbe stato svolto senza alcuna verifica ambientale
strategica.
Come eccepito dal Comune resistente, il motivo è
inammissibile e infondato.
2.3.1. Anzitutto, non è stato allegato né dimostrato dal
ricorrente se e in quale misura le doglianze relative alla
fase di VAS incidano sul “regime” riservato ai suoli di loro
proprietà.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo
chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura
sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive
del proprio interesse. L’interesse a impugnare lo strumento
pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica
aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di
propria spettanza, richiedendosi, invece che le
‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni
raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che
l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà” (cfr.,
ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133;
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 15.11.2016 n.
2140).
2.3.2. In ogni caso, il motivo è anche infondato per assenza
di vizi di illogicità o di travisamento nella decisione di
esclusione.
Il Documento di Piano sottoposto a VAS contemplava l’area
del ricorrente (denominata “Golfo Agricolo”); a fronte di
tale VAS sono stati necessari adeguamenti al Piano dei
Servizi ed a quello delle Regole, per i quali però
l’Amministrazione ha deciso di chiedere un parere motivato
circa l’assoggettamento a VAS anche delle citate modifiche
al PdS e al PdR, e l’Autorità Competente per la VAS, con
parere del marzo 2017, ha escluso l’assoggettamento alla
stessa VAS delle modifiche ai due citati Piani, in quanto
gli elementi di novità non erano tali da determinare la
necessità di una nuova procedura di verifica.
Si tratta di un parere estremamente articolato ed analitico,
fra l’altro espressione di discrezionalità
tecnico-amministrativa delle Autorità preposte alla VAS,
parere nel quale non si ravvisano evidenti errori o palesi
illogicità.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo pacifico indirizzo
della giurisprudenza amministrativa, la destinazione
agricola non implica esclusivamente l’esercizio
dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di
salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo
l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto
equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive
di edificazione.
---------------
2.5. Con il quarto motivo il ricorrente deduce che il
Comune, nell’assegnazione della destinazione all’area, non
avrebbe considerato lo stato effettivo dei luoghi, essendo
stata a suo dire irrimediabilmente compromessa la
possibilità di uno sfruttamento agricolo del suolo in
conseguenza delle opere di piantumazione preventiva
effettuate durante la vigenza del previgente PGT.
Il motivo è infondato.
Sul punto è sufficiente osservare che, secondo pacifico
indirizzo della giurisprudenza amministrativa, condiviso
anche dalla scrivente Sezione, la destinazione agricola non
implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma
risponde anche alla necessità di salvaguardare valori
ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di
suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane
edificate ed aree libere prive di edificazione (cfr. la
sentenza di questa Sezione n. 62/2022, pronunciata in una
causa contro lo stesso Comune di Segrate, nonché TAR
Campania-Napoli, Sez. II, 30.05.2018, n. 3563; TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, 11.06.2013, n. 1502).
Ne consegue che l’avvenuta piantumazione non preclude
l’assegnazione di una destinazione prevalentemente agricola
al comparto.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In linea generale, va ricordato che “la pianificazione
urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta
di valutazioni comparative degli interessi pubblici in
gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale
potere non è limitato solo alla disciplina coordinata
dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina
dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo
complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi
pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli
scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio”.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle
autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresent[a]no scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare”.
Con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area il
Consiglio di Stato ha osservato che “le scelte
urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte
al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che
risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità,
violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la
destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con
particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e
aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in
peius della disciplina urbanistica attraverso il
ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è
interdetta solo da determinazioni vincolanti per
l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’
dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime
aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato
del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione o ancora nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo”.
Va dunque ribadito che le valutazioni di merito compiute
dall’Amministrazione, nell’imprimere una diversa
destinazione all’area, non sono sindacabili in sede
giurisdizionale se non nei limiti dell’abnormità e
dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie.
---------------
2.7. Con il sesto motivo si deduce che il Comune non
avrebbe valutato in alcun modo la sostenibilità economica
delle politiche di intervento e delle scelte pianificatorie
concretamente approvate.
Come eccepito dalla difesa comunale, il motivo è
inammissibile nella parte in cui è volto a censurare nel
merito le valutazioni operate dall’Amministrazione comunale,
senza dedurre illogicità o irragionevolezza delle scelte
effettuate, unico ambito di sindacabilità delle scelte
discrezionali del Comune.
In linea generale, va ricordato che “la pianificazione
urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta
di valutazioni comparative degli interessi pubblici in
gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale
potere non è limitato solo alla disciplina coordinata
dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina
dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo
complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi
dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in
concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi
pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli
scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione
urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di
Stato, Sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della
Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle
autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresent[a]no scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id.,
09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01. 2019, n. 119; id.,
05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id.,
05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Con riferimento alla revisione peggiorativa della
destinazione urbanistica di un’area –peraltro nemmeno
avvenuta nel caso di specie, posto che la previsione
precedente è stata annullata in via giurisdizionale- il
Consiglio di Stato ha osservato, con la pronuncia della
Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte
urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte
al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che
risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità,
violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la
destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con
particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e
aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in
peius della disciplina urbanistica attraverso il
ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è
interdetta solo da determinazioni vincolanti per
l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’
dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime
aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato
del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione o ancora nella modificazione in zona agricola
della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Va dunque ribadito che le valutazioni di merito compiute
dall’Amministrazione, nell’imprimere una diversa
destinazione all’area, non sono sindacabili in sede
giurisdizionale se non nei limiti dell’abnormità e
dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte di
pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione
discrezionale, insindacabile nel merito e non sono condizionate dalla pregressa
indicazione, nel precedente strumento urbanistico, di
destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli,
essendo sfornita di tutela la generica aspettativa di fatto
alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius
delle destinazioni impresse da un previgente.
---------------
10. Con il quarto motivo, gli appellanti evidenziano l’erroneità della
motivazione del TAR per non aver considerato che le
particelle nn. 103, 104 e 463, destinate a “Zona F –
attrezzature pubbliche e ad uso pubblico – V.P. verde
pubblico attrezzato”, nella precedente pianificazione
presentavano, in parte, una destinazione a “Zona C”. Si
insiste, inoltre, sulla natura espropriativa della nuova
pianificazione.
10.1. Il quarto motivo di appello è infondato.
10.2. Va ribadito che le scelte di pianificazione sono
espressione di un’amplissima valutazione discrezionale,
insindacabile nel merito (fra le più recenti, cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. II,
09.01.2020, n. 161; Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; Sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; Sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; Sez. II,
07.08.2019, n.
5611; Sez. IV, 25.06.2019, n. 4345; Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986) e non sono condizionate dalla pregressa
indicazione, nel precedente strumento urbanistico, di
destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli,
essendo sfornita di tutela la generica aspettativa di fatto
alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius
delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (Cons.
Stato, Sez. IV, 22.03.2021 n. 2420; Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 20.01.2020, n. 456; Sez. IV, 24.06.2019, n. 4297; Sez. IV, 26.10.2018, n. 6094; Sez. IV, 24.03.2017, n. 1326; Sez. IV, 11.11.2016,
n. 4666).
10.3. Né può convenirsi con la parte odierna appellante
laddove lamenta di aver subito un’espropriazione de facto
della proprietà, essendo evidente che la destinazione
impressa alle aree per cui è causa costituisce applicazione
degli ordinari poteri di “zonizzazione” spettanti al Comune
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2022 n. 10731 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte di pianificazione sono espressione di
un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel
merito, e non sono condizionate dalla
pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di
destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli,
essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle
destinazioni impresse da un previgente P.R.G..
A tale proposito, il Collegio rileva che le c.d. zone
agricole, oltre a comprendere le aree destinate
effettivamente all’attività agricola, possono includere
anche aree, solitamente periferiche, le quali, benché non
utilizzate, in concreto, all’esercizio dell’agricoltura, non
possono secondo le valutazioni del pianificatore avere altra
valutazione urbanistica.
Risulta parimenti corretta la statuizione della
sentenza di primo grado, che ha rilevato come la previsione
di un “lotto minimo” per le zone a destinazione agricola non
costituisca un presupposto previsto per poter attribuire la
destinazione agricola al fondo, bensì l’unità minima
necessaria affinché su quel fondo si possa autorizzare, da
parte del comune, l’edificazione degli edifici strumentali
all’attività di coltivazione o di carattere residenziale a
servizio del fondo, al fine di evitare che le aree a
destinazione agricola vengano surrettiziamente trasformate,
mediante la loro vendita frazionata e mediante la
costruzione di edifici su ciascuna di esse, in lotti a
destinazione sostanzialmente residenziale.
---------------
Gli atti di pianificazione non necessitano di motivazione
che sia puntuale per ciascuna specifica previsione di piano,
riguardante la singola area.
--------------
7.4. Con il quarto motivo di appello, ci si duole della
pronuncia impugnata per aver respinto il quarto motivo di
ricorso di primo grado, con il quale si era censurata
l’insussistenza dei presupposti per ritenere l’area in esame
a destinazione “agricola”, anche in considerazione
dell’insussistenza del “lotto minimo” per potersi
qualificare come “zona agricola”.
7.4.1. Come correttamente statuito dal Tar, le scelte di
pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione
discrezionale, insindacabile nel merito (fra le più recenti,
cfr. da Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163 a Sez.
IV, 28.06.2018, n. 3986) e non sono condizionate dalla
pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di
destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli,
essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla
reformatio in melius delle
destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (cfr. da Cons.
Stato, Sez. IV, 22.03.2021 n. 2420 a Sez. IV, 11.11.2016, n. 4666).
7.4.2. A tale proposito, il Collegio rileva che le c.d. zone
agricole, oltre a comprendere le aree destinate
effettivamente all’attività agricola, possono includere
anche aree, solitamente periferiche, le quali, benché non
utilizzate, in concreto, all’esercizio dell’agricoltura, non
possono secondo le valutazioni del pianificatore avere altra
valutazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. II, 28.02.2020, n. 1461; cfr. anche 22.01.2021, n. 659 e 13.10.2021 n. 6883).
7.4.3. Risulta parimenti corretta la statuizione della
sentenza di primo grado, che ha rilevato come la previsione
di un “lotto minimo” per le zone a destinazione agricola non
costituisca un presupposto previsto per poter attribuire la
destinazione agricola al fondo, bensì l’unità minima
necessaria affinché su quel fondo si possa autorizzare, da
parte del comune, l’edificazione degli edifici strumentali
all’attività di coltivazione o di carattere residenziale a
servizio del fondo, al fine di evitare che le aree a
destinazione agricola vengano surrettiziamente trasformate,
mediante la loro vendita frazionata e mediante la
costruzione di edifici su ciascuna di esse, in lotti a
destinazione sostanzialmente residenziale.
7.4.4. Il quarto motivo di appello va respinto.
7.5. Con il quinto motivo di appello, si grava la sentenza
per non aver accolto la censura di difetto di motivazione
del provvedimento di approvazione della variante.
7.5.1. In base alla costante e pacifica giurisprudenza di
questo Consiglio, della quale il Tar ha fatto
applicazione nello scrutinio della doglianza di ricorso, gli
atti di pianificazione non necessitano di motivazione che
sia puntuale per ciascuna specifica previsione di piano,
riguardante la singola area (Cons. Stato, sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II,
04.05.2020, n. 2824; Sez. IV, 03.02.2020, n. 844).
7.5.2. Nel caso di specie, la motivazione contenuta nella
relazione generale è pienamente pertinente alla scelta
comunale di confermare la pregressa destinazione del suolo
di proprietà della società, per evitare il consumo di suolo
mediante l’incremento della superficie edificabile.
7.5.3. Il quinto motivo di appello va pertanto
respinto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.12.2022 n. 10661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le scelte di pianificazione urbanistica
“costituiscono
esercizio di ampia discrezionalità da parte
dell'amministrazione e le stesse,
nell'ambito del sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, sono censurabili,
oltre che per violazione di legge, solo per
manifesta illogicità e/o irragionevolezza
ovvero insufficienza della motivazione, onde
evitare un indebito sconfinamento nel cd.
merito amministrativo.
Inoltre, l'interesse pubblico all'ordinato
sviluppo edilizio del territorio non è
funzionale solo all'interesse pubblico
all'ordinato sviluppo edilizio del
territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per
finalità (civile abitazione, uffici
pubblici, opifici industriali e artigianali,
etc.), ma è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità
di interessi pubblici, che trovano il
proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Pertanto, l'onere di motivazione gravante
sull'amministrazione in sede di adozione di
uno strumento urbanistico, salvo i casi in
cui le previsioni incidano su zone
territorialmente circoscritte ledendo
legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con
l'indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale
e mirata”.
---------------
Sull’amministrazione non grava un obbligo
puntuale di motivazione oltre a quella
evincibile dai criteri desunti dalla
relazione illustrativa del piano stesso in
ordine alle proprie scelte discrezionali
assunte per la destinazione delle singole
aree.
---------------
Le
osservazioni presentate in occasione
dell’adozione di un nuovo strumento di
pianificazione del territorio costituiscono
un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo e in
tale contesto vengono valutate dal Comune
nell’ottica della corretta pianificazione
per il soddisfacimento dell’interesse
pubblico, sicché la provenienza delle stesse
ha una rilevanza limitata, né si deve
ritenere che il Comune sia tenuto a svolgere
puntuali verifiche sulla legittimazione a
presentare osservazioni, riconosciuta anzi
con ampia latitudine.
---------------
3.2. Con il secondo motivo, si deduce
l’illegittimità del piano, nella parte in
cui ha accolto le osservazioni di Mi.,
poiché sarebbe stata incrementata la
superficie edificabile ed espanso l’ATU9, in
contrasto con gli obiettivi fissati nel
documenti di piano e, in particolare, quelli
di rallentare il consumo di suolo e di
frenare lo sviluppo edilizio della città.
Al di là del fatto che, nelle more del
ricorso, il documento di piano è scaduto per
decorrenza del termine di validità
quinquennale ai sensi dell’art. 8 L.R. n.
12/2005 e che dunque lo stesso non
costituisca l’attuale parametro di
riferimento in ordine alle scelte
urbanistiche dell’amministrazione, la
censura è comunque infondata nel merito.
Le scelte di pianificazione urbanistica
–quale è quella in esame– “costituiscono
esercizio di ampia discrezionalità da parte
dell'amministrazione e le stesse,
nell'ambito del sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, sono censurabili,
oltre che per violazione di legge, solo per
manifesta illogicità e/o irragionevolezza
ovvero insufficienza della motivazione, onde
evitare un indebito sconfinamento nel cd.
merito amministrativo.
Inoltre, l'interesse pubblico all'ordinato
sviluppo edilizio del territorio non è
funzionale solo all'interesse pubblico
all'ordinato sviluppo edilizio del
territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per
finalità (civile abitazione, uffici
pubblici, opifici industriali e artigianali,
etc.), ma è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità
di interessi pubblici, che trovano il
proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Pertanto, l'onere di motivazione gravante
sull'amministrazione in sede di adozione di
uno strumento urbanistico, salvo i casi in
cui le previsioni incidano su zone
territorialmente circoscritte ledendo
legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con
l'indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte effettuate,
senza necessità di una motivazione puntuale
e mirata” (cfr., ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 11.12.2020,
n. 2473).
Nel caso di specie, alcuna irragionevolezza
è rinvenibile nella scelta discrezionale del
Comune, avuto riguardo al fatto che le zone
a cui è stata attribuita destinazione
residenziale sono esterne al Parco agricolo
Sud Milano e ai limiti di aree incluse in un
piano di lottizzazione; peraltro la
previsione di un aumento di superficie
edificabile e l’espansione dell’ATU9 trova
specifica giustificazione nella funzionalità
connessa all’ampliamento dell’oratorio e
alla presenza di un’area per servizi già
dotata di potenziale edificatorio, sicché
l’accoglimento delle osservazioni deve
essere giudicato in linea con gli obiettivi
complessivi del Pgt, che prevedeva già
(anche quello adottato) limitati interventi
di completamento di piccoli lotti rimasti
inedificati all’interno della città.
Infine, nessuna legittima aspettativa in
senso opposto è individuabile in capo ai
ricorrenti, che infatti nemmeno l’hanno
allegata.
3.3. Parimenti infondata è la terza
censura, con cui si lamenta
l’illegittimo accoglimento dell’osservazione
di Ch.Ed. per carenza di
istruttoria, poiché il Comune non avrebbe
verificato che le aree della società non
avrebbero “i requisiti classici”
delle aree di completamento.
Fermo quanto già sopra precisato circa
l’ampia discrezionalità delle scelte del
pianificatore urbanistico e la non
irragionevolezza delle decisioni assunte
nella fattispecie, deve essere ribadito,
secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, che
sull’amministrazione non grava un obbligo
puntuale di motivazione oltre a quella
evincibile dai criteri desunti dalla
relazione illustrativa del piano stesso in
ordine alle proprie scelte discrezionali
assunte per la destinazione delle singole
aree (cfr., ex plurimis, TAR
Lombardia, Sez. II, 16.02.2021, n. 879).
Non può quindi fondatamente sostenersi che
l’amministrazione dovesse rendere puntuale
conto, accogliendo l’osservazione della
società, delle caratteristiche dell’area in
raffronto a tutte le altre analoghe del
territorio, essendo invece sufficiente il
raffronto effettuato con quelle limitrofe e
la valutazione di omogeneità operata.
3.4. Con il quarto motivo, i
ricorrenti deducono che l’amministrazione
comunale avrebbe analizzato un’osservazione
–quella di Mi.– presentata da un sedicente
procuratore speciale del proprietario
dell’area, senza che tuttavia venisse
prodotta una procura speciale notarile.
Il motivo è inammissibile, poiché i
ricorrenti non hanno alcun interesse a
contestare il difetto di rappresentanza
sostanziale di Miglio, che avrebbe potuto
essere fatto valere solo dal proprietario
dell’area.
In ogni caso, le osservazioni presentate in
occasione dell’adozione di un nuovo
strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati
nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo (cfr. TAR Lombardia,
Milano, 11.01.2021, n. 58; id., 03.12.2018,
n. 2722; id., 06.08.2018, n. 1945) e in tale contesto
vengono valutate dal Comune nell’ottica
della corretta pianificazione per il
soddisfacimento dell’interesse pubblico,
sicché la provenienza delle stesse ha una
rilevanza limitata, né si deve ritenere che
il Comune sia tenuto a svolgere puntuali
verifiche sulla legittimazione a presentare
osservazioni, riconosciuta anzi con ampia
latitudine
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.02.2022 n.
220 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
linea generale, le determinazioni di
pianificazione urbanistica non necessitano
di particolare motivazione, salvo che
particolari situazioni abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di
soggetti privati, nel caso in esame la ragione della
modifica è stata esplicitata con la volontà
di non ingenerare un contrasto con il P.T.C.P. adottato, dunque in funzione di
salvaguardia dello stesso nell’attesa della
sua approvazione finale.
---------------
Con riferimento alla posizione della società
ricorrente, non risulta che essa potesse
nutrire un affidamento qualificato nella
collocazione della propria area in un ambito
di trasformazione residenziale, giacché una
tale posizione è rinvenibile, per costante
giurisprudenza, solo nel caso in cui
l’aspettativa si sia concretizzata in uno
strumento urbanistico esecutivo (piano di
lottizzazione, piano particolareggiato,
piano attuativo) approvato o convenzionato o
quantomeno adottato.
---------------
7.1.
Anche questo secondo motivo è destituito di
fondamento.
7.2. Premesso che, in linea generale, le
determinazioni di pianificazione urbanistica
non necessitano di particolare motivazione,
salvo che particolari situazioni abbiano
creato aspettative o affidamenti in favore
di soggetti privati (ex multis, Cons. Stato,
Sez. II, 02.12.2020, n. 7636; TAR
Milano, Sez. II, 16.09.2020, n.
1668), nel caso in esame la ragione della
modifica è stata esplicitata con la volontà
di non ingenerare un contrasto con il P.T.C.P. adottato, dunque in funzione di
salvaguardia dello stesso nell’attesa della
sua approvazione finale.
L’art. 31 delle N.T.A. del P.T.C.P., pur facendo salve le
previsioni degli strumenti urbanistici
vigenti al momento dell’approvazione del
piano provinciale, certamente non suggerisce
di addivenire a una pianificazione comunale
collidente con il P.T.C.P. in corso di
approvazione.
La vicinanza temporale tra
l’approvazione del P.G.T. e del P.T.C.P.
rende quindi più che ragionevole adeguare
sin da subito il primo al secondo, in
un’ottica di leale collaborazione tra
istituzioni e di buon andamento
dell’amministrazione.
7.3. Con riferimento alla posizione della
società ricorrente, non risulta –per
converso– che essa potesse nutrire un
affidamento qualificato nella collocazione
della propria area in un ambito di
trasformazione residenziale, giacché una
tale posizione è rinvenibile, per costante
giurisprudenza, solo nel caso in cui
l’aspettativa si sia concretizzata in uno
strumento urbanistico esecutivo (piano di
lottizzazione, piano particolareggiato,
piano attuativo) approvato o convenzionato o
quantomeno adottato (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 25.08.2017, n. 4063; Id., 12.04.2018, n. 2204; Id., Sez. II,
06.11.2019, n. 7560; Id., 01.08.2018, n. 4734)
o derivi da precedenti giudicati favorevoli
(Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2019, n.
4343; Id., 08.06.2020, n. 3632)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.05.2021 n. 1267 -
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URBANISTICA:
Non è irragionevole, né in contrasto con l’art. 7 della legge
1150/1942 o con i principi della pianificazione, il metodo pianificatorio seguito dal Comune che, nel ridisegnare integralmente un contesto urbanistico ormai consolidato, si propone di ottenere un mix di destinazioni, alcune principali e altre di complemento.
La ricerca di un bilanciamento tra destinazioni diverse, che eviti la creazione di quartieri monofunzionali, è anzi un indice di qualità urbanistica. Naturalmente, possono essere censurati gli accostamenti di destinazioni incompatibili, che provocano disagi e dannose interferenze, ma nel caso in esame la soluzione individuata, incentrata su due destinazioni principali (terziario e servizi) con alcune destinazioni accessorie (spazi scoperti, residenze, distributori di carburante, attività industriali e artigianali), appare equilibrata, anche in conseguenza dell’esclusione delle infrastrutture più impattanti (grandi strutture di vendita, cimiteri, ospedali, impianti per servizi pubblici locali).
La presenza della destinazione residenziale in un ambito a vocazione commerciale non è un elemento di contraddittorietà, ma ha evidentemente lo scopo di garantire una certa continuità con la situazione preesistente. La differenziazione degli indici edificatori rispetto ad altre zone del territorio è una diretta conseguenza del mix di destinazioni scelto per i singoli ambiti, e dunque non costituisce in via diretta un sintomo di irragionevolezza. L’illegittimità della scelta urbanistica non si manifesta neppure sotto forma di disparità di trattamento: per arrivare a questa conclusione occorrerebbe dimostrare che due situazioni del tutto identiche ricevono una dotazione di diritti edificatori diversa, ma nello specifico una simile prova non è stata fornita. Lo strumento urbanistico generale fissa degli obiettivi e dei limiti: in questa cornice la specificazione e l’attribuzione in concreto dei diritti edificatori è correttamente rinviata ai piani attuativi, tramite accordo tra i proprietari se tutti partecipano o secondo le decisioni dei proprietari che dispongono della maggioranza del valore delle aree ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge 166/2002.
---------------
Il fatto che, nelle aree di
trasformazione aventi dimensioni superiori a 7.000 mq., l’art. 32 delle NTA preveda una quota di edilizia residenziale convenzionata in una misura che varia dal 10% al 30% delle unità immobiliari, salva diversa previsione dei Progetti Norma, non configura alcuna illegittimità.
La perequazione urbanistica può assumere varie forme, tra cui anche l’imposizione di un limite ai diritti edificatori e la conversione della parte eccedente in iniziative di interesse collettivo (nello specifico, la realizzazione di alloggi da affittare a prezzi convenzionati) o in un obbligo ragionevolmente contenuto di cessione gratuita delle aree. Finché viene garantito l’equilibrio economico della lottizzazione, le distorsioni create da questo metodo pianificatorio rimangono ammissibili e non costituiscono un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo ai danni dei lottizzanti.
In realtà, la misura della capacità edificatoria insediata su una certa area dipende dalle scelte dell’amministrazione, e dunque non vi è espropriazione quando l’amministrazione stabilisce un limite a tale capacità, sia pure sotto forma di vincolo di destinazione su una parte di quanto edificato. Tale vincolo può avere qualsiasi contenuto, purché corrisponda a un interesse pubblico effettivo, e dunque può anche servire a ottenere risultati simili a quelli che in passato erano conseguiti con altri strumenti come i PEEP, disciplinati da apposita normativa di settore.
---------------
Sull’impostazione urbanistica del PRG 14. Passando al merito, con una prima serie di argomenti il ricorrente cerca di dimostrare l’irragionevolezza del metodo pianificatorio seguito dal Comune che, nel ridisegnare integralmente un contesto urbanistico ormai consolidato, si propone di ottenere un mix di destinazioni, alcune principali e altre di complemento.
Le censure non sono però condivisibili. 15. Il metodo non appare né irragionevole né in contrasto con l’art. 7 della legge 1150/1942 o con i principi della pianificazione.
La ricerca di un bilanciamento tra destinazioni diverse, che eviti la creazione di quartieri monofunzionali, è anzi un indice di qualità urbanistica. Naturalmente, possono essere censurati gli accostamenti di destinazioni incompatibili, che provocano disagi e dannose interferenze, ma nel caso in esame la soluzione individuata, incentrata su due destinazioni principali (terziario e servizi) con alcune destinazioni accessorie (spazi scoperti, residenze, distributori di carburante, attività industriali e artigianali), appare equilibrata, anche in conseguenza dell’esclusione delle infrastrutture più impattanti (grandi strutture di vendita, cimiteri, ospedali, impianti per servizi pubblici locali).
La presenza della destinazione residenziale in un ambito a vocazione commerciale non è un elemento di contraddittorietà, ma ha evidentemente lo scopo di garantire una certa continuità con la situazione preesistente. 16. La differenziazione degli indici edificatori rispetto ad altre zone del territorio è una diretta conseguenza del mix di destinazioni scelto per i singoli ambiti, e dunque non costituisce in via diretta un sintomo di irragionevolezza. L’illegittimità della scelta urbanistica non si manifesta neppure sotto forma di disparità di trattamento: per arrivare a questa conclusione occorrerebbe dimostrare che due situazioni del tutto identiche ricevono una dotazione di diritti edificatori diversa, ma nello specifico una simile prova non è stata fornita. 17. Lo strumento urbanistico generale fissa degli obiettivi e dei limiti: in questa cornice la specificazione e l’attribuzione in concreto dei diritti edificatori è correttamente rinviata ai piani attuativi, tramite accordo tra i proprietari se tutti partecipano o secondo le decisioni dei proprietari che dispongono della maggioranza del valore delle aree ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge 166/2002.
Per quanto riguarda la conclusione degli accordi tra i privati, il Comune ha regolato i rapporti di forza secondo un canone che non è solo giuridico ma anche di senso comune: la consistenza delle rispettive quote di proprietà. L’art. 99 delle NTA precisa infatti che i diritti edificatori e gli oneri si ripartiscono in proporzione alla consistenza della proprietà, salvo diversa pattuizione. Tra gli oneri, che devono essere definiti in dettaglio nei piani attuativi, rientra anche l’esatta misura delle aree a standard, che dipende dalle caratteristiche degli edifici progettati. 18. Il fatto che, nelle aree di trasformazione aventi dimensioni superiori a 7.000 mq., l’art. 32 delle NTA preveda una quota di edilizia residenziale convenzionata in una misura che varia dal 10% al 30% delle unità immobiliari, salva diversa previsione dei Progetti Norma, non configura alcuna illegittimità.
La perequazione urbanistica può assumere varie forme, tra cui anche l’imposizione di un limite ai diritti edificatori e la conversione della parte eccedente in iniziative di interesse collettivo (nello specifico, la realizzazione di alloggi da affittare a prezzi convenzionati) o in un obbligo ragionevolmente contenuto di cessione gratuita delle aree. Finché viene garantito l’equilibrio economico della lottizzazione, le distorsioni create da questo metodo pianificatorio rimangono ammissibili e non costituiscono un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo ai danni dei lottizzanti.
In realtà, la misura della capacità edificatoria insediata su una certa area dipende dalle scelte dell’amministrazione, e dunque non vi è espropriazione quando l’amministrazione stabilisce un limite a tale capacità, sia pure sotto forma di vincolo di destinazione su una parte di quanto edificato. Tale vincolo può avere qualsiasi contenuto, purché corrisponda a un interesse pubblico effettivo, e dunque può anche servire a ottenere risultati simili a quelli che in passato erano conseguiti con altri strumenti come i PEEP, disciplinati da apposita normativa di settore (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 19.02.2024 |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Paesaggio,
mai libera l’installazione di pannelli solari in area tutelata. Il Tar
Sardegna boccia la posa in opera senza comunicazione di un impianto sul
tetto di un condominio.
L’installazione di pannelli solari in aree soggette a vincolo non rientra
nella categoria di edilizia libera e necessita di comunicazione di inizio
lavori. Inoltre, se è in area vincolata necessita del parere dell’istituto
di tutela.
Con questa motivazione il TAR Cagliari, Sez. I, con la
sentenza
02.05.2023 n. 323 ha respinto il ricorso
presentato da una persona che nella copertura condominiale di una palazzina
di sei piani (che ricade in area sottoposta a vincolo urbanistico
paesaggistico determinato da delibera del Consiglio comunale) aveva
installato, senza autorizzazione, un impianto termico solare per la
produzione di acqua calda.
Tutto inizia quando la proprietaria dell’appartamento situato a sesto piano
presenta al Comune denuncia di abuso edilizio «al fine di valutare la
legittimità dell’opera». Segue sopralluogo dei funzionari comunali nel piano
di copertura dell’edificio da cui emerge che era stato «installato un
impianto tecnologico “solare termico”, sulla copertura condominiale al piano
settimo dell’edificio di uso esclusivo dell’unità immobiliare -sita al
terzo piano e destinata ad uso residenziale- di sua proprietà».
Il sopralluogo alla presenza della proprietaria e usufruttuaria
dell’appartamento al sesto piano dove è presente l’unico accesso alla
copertura piana del fabbricato. Non a caso, nell’esposto la proprietaria
lamenta il fatto «di essere costretta a consentire di far entrare in casa
mia persone per eseguire le manutenzioni di un pannello solare installato
abusivamente nel lastrico solare condominiale che è sopra la mia casa».
L’argomento era stato al centro anche di un’assemblea di condominio «con
richiesta di rimozione in quanto l’installazione del pannello non risultava ritualmente consentita dal Condominio». Dagli accertamenti risulta che le
opere sono state «realizzate in assenza di titolo abilitativo e in assenza
di autorizzazione paesaggistica».
C’è quindi l’ordinanza di demolizione e ripristino dei luoghi. Segue il
ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso «l’omessa comunicazione dell’avvio
di procedimento», il fatto che «le opere potevano essere dunque eseguite
senza alcun titolo abilitativo» e «l’installazione di pannelli solari
ricadrebbe nell’attività di edilizia libera ben potendo dunque essere
realizzati senza alcun titolo abilitativo».
Un altro elemento sollevato dal
ricorrente riguarda «il contesto urbano dell’area in questione,
caratterizzata proprio dalla presenza di molteplici pannelli solari e fotovoltaici nelle coperture degli edifici (e dunque la modifica di “lieve
entità” sotto il profilo della coerenza urbanistica che caratterizza la
zona».
A supporto della tesi secondo cui l’intervento ricade nell’ambito di
edilizia libera, il ricorrente, cita la sentenza del Tar del 2020. Tesi che,
secondo i giudici, non può essere accolta perché «diversamente da quanto
avvenuto nel caso deciso dal Tar Lazio, il ricorrente non ha neanche
inoltrato la comunicazione di inizio lavori».
Non solo, i giudici ricordano che «le disposizioni legislative subordinano
espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni
contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni
culturali e del paesaggio)».
Quanto all’autorizzazione paesaggistica, i
giudici sottolineano che «i pannelli in questione, posizionati sul solaio
piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili
dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con
riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio».
Ricorso infondato e respinto. Spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
26.09.2023).
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SENTENZA
11. Il nucleo centrale del ricorso è, a ben vedere, rinvenibile nel
secondo motivo di impugnazione.
12. Lamenta in primo luogo il sig. Fr. che nel caso di specie non si
sarebbe considerato che l’intervento in questione ricade nella categoria
dell’edilizia libera e pertanto sarebbe realizzabile senza necessità di
titolo abilitativo.
12.1 Richiama a supporto la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 11025
del 28.10.2020, per la quale “l’installazione di impianti solari
destinati alla produzione di acqua calda è considerata, ex combinato
disposto artt. 123, comma 1, 3, comma 1-b, del D.P.R. n. 380 del 2001,
estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera e, dunque, intervento
di manutenzione straordinaria; che le relative opere possono essere eseguite
senza alcun titolo abilitativo, ex art. 6, comma 1, lett. e-quater) (all’epoca art.
6, comma 2-d), del D.P.R. n. 380 del 2001; che non era necessario dunque
presentare la d.i.a., essendo all’uopo sufficiente l’inoltro
all’Amministrazione della comunicazione di avvio dei lavori”.
13. In relazione a tale richiamo giurisprudenziale il Collegio rileva, in
primo luogo, che diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal TAR
Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio
lavori.
14. Tale non può intendersi, invero, quella inoltrata in data 08.04.2013
dall’allora proprietario dell’immobile Fl.Fl. che non ha affatto
inserito nell’indicazione delle opere da eseguire l’installazione dei
pannelli solari per cui è causa, limitandosi a indicare l’esecuzione di ben
diverse (e specificate) opere interne.
15. Il ricorrente sostiene altresì che l’intervento in questione, eseguito
tra il 2012 e il 2013, rientrerebbe nell’edilizia libera e sarebbe
ammissibile anche in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Richiama sul punto:
- l’art. 6 del DPR n. 380/2001, rubricato “attività libera
edilizia” che al comma 1, prevede tra gli interventi che non necessitano di
titolo abilitativo edilizio, al punto “e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
- l’art. 15 della l.r. n. 23/1985, rubricato “interventi di
edilizia libera”, che al comma 1, dispone che “i seguenti interventi sono
eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio:
(…)
j-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
16. L’argomento non è decisivo.
17. Come invero precisato nel provvedimento impugnato le citate disposizioni
legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
18. Orbene, l’art. 75 del Regolamento Edilizio vigente, rubricato “Coerenza
e compiutezza architettonica degli edifici”, vieta di posizionare nelle
pareti esterne (comprese quelle orizzontali) apparecchiature tecnologiche
(tra le quali rientrano senz’altro i pannelli solari) che non risultano in
armonia architettonica con le pareti del fabbricato ed il suo intorno,
visibili da altri spazi pubblici e prive di accorgimenti volti a mascherare
i macchinari.
18.1 Recita infatti testualmente: “Nelle nuove costruzioni o nella modifica
di edifici esistenti, tutte le pareti esterne prospettanti su spazi pubblici
e privati, anche se interni all'edificio, e tutte le opere ad esse attinenti
(finestre, parapetti, ecc.) devono essere realizzate con materiali e cura di
dettagli tali da garantire la buona conservazione nel tempo delle strutture
stesse. Nelle stesse pareti esterne è vietato sistemare tubi di scarico,
canne di ventilazione e canalizzazioni in genere, apparecchiature
tecnologiche a meno che il progetto non preveda armonicamente una loro
sistemazione nelle pareti, secondo accurate scelte di carattere funzionale
ed architettonico… Per le unità di condizionamento visibili dalla strada o
da altri spazi pubblici è prescritta l’adozione di accorgimenti volti a
mascherare il macchinario.”.
19.1 E come precisato nel provvedimento impugnato “L'impianto tecnologico
accertato al momento del sopralluogo non può essere ritenuto all'uopo
idoneo, perché non integrato nella configurazione della copertura e
posizionato in maniera tale da essere visibile dagli spazi pubblici”.
20. Sul punto l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato trova
conferma nelle produzioni fotografiche allegate al verbale di sopralluogo in
atti, dalle quali i pannelli in questione sono ben visibili da diverse
inquadrature prospettiche.
21. Né può ritenersi che la nuova normativa nel frattempo intervenuta, ossia
il DL n. 17 del 01.03.2022, richiamata nelle memorie difensive dal
ricorrente, sia sul punto decisiva, essendo essa non applicabile ratione
temporis alla valutazione di legittimità del provvedimento in esame e
restando -eventualmente- suscettibile di valutazione in caso di
presentazione di una nuova futura istanza da parte dello stesso ricorrente.
22. Nell’ordinanza impugnata si contesta altresì che l’intervento sia stato
realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica, necessaria per
abilitare quel tipo di interventi in ambito tutelato.
23. Sostiene invece il sig. Fr. che intervento rientrerebbe nella
categoria degli interventi “esclusi dall’autorizzazione paesaggistica” pur
in ambiti vincolati.
Ciò risulterebbe, in particolare, dall’apposita circolare regionale di
“Chiarimenti in merito al Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
24. L’argomento non è fondato, in quanto nel “quadro sinottico di raffronto”
(allegato a tale circolare) ove sono indicati gli “interventi ed opere non
soggette ad autorizzazione paesaggistica”, nella categoria “A.6.” che nella
tesi del ricorrente giustificherebbe l’esclusione di tale autorizzazione, è
inclusa “l’installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a
servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da
non essere visibili dagli spazi pubblici esterni”.
25. Quanto affermato dal ricorrente non trova dunque riscontro in fatto in
quanto, come evidenziato dalle produzioni fotografiche del Comune, i
pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano
evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con
conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa
vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata
esenzione dal titolo autorizzatorio.
26. L’intervento in questione, sul punto, pare invece ricadere nell’ambito
del quadro b.8 dell’anzidetta circolare, relativo alla categoria degli
“interventi e opere soggette a procedimento semplificato”, che peraltro allo
stato non risulta essere stato avviato.
27. Neanche il rilievo che il notevole lasso di tempo intercorso dalla
realizzazione dell’opera all’adozione del provvedimento impugnato avrebbe
ingenerato un legittimo affidamento del ricorrente circa la liceità
dell’opera, il che richiederebbe una motivazione del provvedimento
rafforzata, merita accoglimento.
28. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, più volte condiviso dal
Tribunale, ritiene che anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine
di demolizione di opere abusive costituisca atto dovuto, non potendo il
semplice decorso del tempo giustificare il legittimo affidamento del
contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è
soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile
poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione
di illegalità, né imporre all’amministrazione la necessità di una
comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con
l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (Adunanza Plenaria n. 9
del 2017).
28.1 Pertanto, in presenza di un abuso edilizio la lesione degli interessi
pubblici urbanistici (e paesaggistici) è “in re ipsa”, senza necessità di
far precedere la repressione del predetto abuso dalla verifica
dell’effettiva compromissione in concreto del contesto circostante, con la
conseguente infondatezza del profilo di censura con cui si lamenta la
carenza di una adeguata motivazione da parte dall’amministrazione procedente
in ordine al rilievo minimale dell’opera. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Quesito su mutamento composizione delle commissioni consiliari.
Sintesi/Massima
Sulla composizione delle commissioni consiliari si richiama il parere n.
771/2018 in cui il Consiglio di Stato osserva come il rispetto del criterio
proporzionale ex art. 38, c. 6, del d.lgs. n. 267/2000 potrebbe essere
garantito prevedendo l'istituto del voto plurimo piuttosto che capitario.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha trasmesso le
osservazioni formulate dal segretario comunale del comune di … in merito
alla questione segnalata da un consigliere di minoranza. Il predetto
consigliere ha evidenziato che, all'esito delle elezioni amministrative
dell'ottobre 2021, il consiglio comunale di … si componeva di 12 consiglieri
eletti per la lista "… e …" e di 5 consiglieri per la lista "…"
di cui fa parte il consigliere esponente.
In seno al consiglio comunale sono istituite le commissioni consiliari
permanenti, composte ciascuna da cinque consiglieri, di cui tre in
rappresentanza della maggioranza e due della minoranza. Nel corso del
mandato, due consiglieri di maggioranza sono passati all'opposizione
formando il gruppo misto.
A seguito di tale circostanza, i consiglieri di maggioranza hanno presentato
una delibera al fine -ad avviso del consigliere esponente- di nominare i
nuovi membri delle commissioni e modificare la composizione delle
commissioni consiliari permanenti per assegnare i due rappresentanti della
minoranza uno al gruppo "…" ed uno al gruppo misto. La proposta della
maggioranza pregiudicherebbe, quindi, la rappresentanza del gruppo "…"
nell'ambito delle commissioni consiliari, riducendone i componenti da due a
uno. I consiglieri del predetto gruppo, ritenendo la posizione della
maggioranza non coerente con il regolamento del consiglio comunale, hanno
deciso di non procedere alla elezione dei propri rappresentanti nelle
commissioni che, ad oggi, da quanto emerge dalla richiesta di parere, non
sarebbero state più convocate.
L'ente ritiene, invece, che l'istituzione del gruppo misto ha comportato
inevitabilmente un mutamento delle forze politiche in seno al consiglio
comunale; pertanto, è stato necessario adeguare, in coerenza con il
principio di proporzionalità, la composizione delle commissioni permanenti
ai nuovi assetti, attraverso l'attribuzione al gruppo misto di un proprio
rappresentante all'interno delle commissioni senza però intervenire sul
numero dei componenti l'organo.
Tanto premesso, è stato chiesto di conoscere se, a seguito dell'istituzione
del gruppo misto, le commissioni debbano mantenere la composizione iniziale,
oppure se i due rappresentanti assegnati alla minoranza debbano essere
considerati in ragione di un componente per ciascun gruppo dell'opposizione.
Al riguardo, in via preliminare, si precisa che le commissioni non sono
organi necessari dell'ente locale, cioè non sono componenti indispensabili
della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli e,
in quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo assembleare. In
altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque
nell'ambito della competenza dei consigli.
Si rileva, in base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, che le commissioni consiliari, se previste dallo
statuto, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con
l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in
consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche
nelle commissioni in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro
peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo
38, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in
concreto; pertanto, spetta al consiglio comunale prevedere nel regolamento i
meccanismi idonei a garantirne il rispetto. Ai sensi dell'art. 33, comma 1,
del regolamento del consiglio comunale è previsto che ciascuna commissione
permanente è costituita da cinque consiglieri da ripartire fra i gruppi
consiliari, in proporzione alla consistenza dei gruppi stessi. Il terzo
comma del medesimo articolo 33 dispone che "eventuali modifiche dei
gruppi consiliari non determinano mutamenti nella composizione delle
commissioni, salvo il caso di dimissioni o di impedimento permanente".
Secondo il consigliere esponente tale ultima disposizione precluderebbe la
possibilità di modificare la composizione delle commissioni. Il segretario
del comune ha osservato, invece, come la composizione delle commissioni
consiliari con tre rappresentanti di maggioranza e un rappresentante per
ciascun gruppo di opposizione sia stata ritenuta rispettosa del criterio
proporzionale, precisando che la disposizione recata dall'articolo 33, comma
3, del regolamento del consiglio disciplina l'ipotesi di un'intervenuta
modifica dei gruppi già esistenti, quindi l'ipotesi prevista dalla predetta
norma non sarebbe applicabile al caso di specie trattandosi di costituzione
di un nuovo gruppo. È pur vero che il citato art. 33, comma 3, del
regolamento sembra presentare una formulazione ambigua.
Pertanto, il consiglio comunale potrebbe valutare la possibilità di
riformulare in modo più chiaro la disposizione regolamentare sopracitata. In
merito alla questione prospettata, si richiama il parere n. 771 del
07.03.2018 in cui il Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare come il
rispetto del criterio proporzionale richiesto dall'art. 38, comma 6, del
decreto legislativo n. 267/2000 potrebbe essere garantito prevedendo
l'istituto del voto plurimo in luogo del voto capitario.
Con specifico riferimento all'istituto del voto plurimo, il Consiglio di
Stato-sez. V, con sentenza n. 4919 del 25.10.2017, ha osservato che "questa
modalità di voto, nel garantire il rispetto del principio di proporzionalità
ex art. 38, comma 6, d.lgs. n. 267 del 2000, non viola il principio di
parità tra i consiglieri".
Dall'esame delle osservazioni fornite dal segretario dell'ente, emerge che
il consiglio comunale starebbe valutando l'opportunità di introdurre
apposite modifiche normative tali da adeguare le fonti di autonomia locale
ai criteri indicati nella citata pronuncia del Consiglio di Stato del 2018.
Nelle more delle modifiche in parola, si richiama il consolidato avviso di
questo Ministero, espresso in altri casi analoghi, e cioè che l'oggettiva
impossibilità di insediare validamente le commissioni giustifica il
riespandersi della piena attribuzione delle competenze del consiglio
comunale, del quale le commissioni costituiscono articolazioni, essendo
prive di competenza autonoma (parere
17.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Questo
Comune sta procedendo alla nomina del nuovo revisore dei conti per il
triennio 2024/2027 ed ha provveduto a richiedere le prescritte dichiarazioni
alla persona estratta dalla prefettura. Dalle dichiarazioni è emersa a
carico dello stesso una condanna non definitiva per reato contro la PA.
È possibile procedere alla nomina?
Al fine di rispondere al quesito proposto dobbiamo discernere la nostra
analisi necessariamente dalle specifiche previsioni introdotte dal Testo
Unico degli Enti Locali in merito alle cause di incompatibilità dell’organo
di revisione.
L'art. 236, comma 1, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 con riferimento alle
ipotesi di incompatibilità dell’organo di revisione infatti stabilisce
testualmente che: "valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità
di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile, intendendosi per
amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale".
Tanto ciò premesso il citato art. 2399 c.c. rinvia, tra l'altro, all'art.
2382 c.c. che prevede che sono cause impeditive alla nomina (e se nominati,
causa di decadenza) le seguenti situazioni: interdetto; inabilitato;
fallito; chi è stato condannato ad una pena che comporta l'interdizione
anche temporanea dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici
direttivi.
Le ipotesi d'incompatibilità e d'ineleggibilità alla carica di revisore
degli enti locali, elencate all'art. 236 del Tuel, sono pertanto tipiche e
nominate e quindi non possono essere derogate, né estese per analogia ad
altri casi non espressamente individuati nella legge e pertanto finché il
revisore dei conti rimane iscritto nell’apposito registro dei revisori
legali e/o all'Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili
(necessaria ai fini dell’iscrizione all’elenco dei revisori degli enti
locali).
Ad abundantiam segnaliamo che sul punto si è espresso anche il
Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale con proprio Parere
24.01.2024 dove viene ribadito che "Il revisore sottoposto a giudizio
penale mantiene l'iscrizione nell'Elenco fino a quando permangono le
condizioni relative all'iscrizione all'ODCEC e/o al Registro dei revisori
legali e, di conseguenza, può essere nominato dall'ente".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 236 - Art. 2399 c.c. - Art. 2382 c.c.
Documenti allegati
Parere 24.01.2024 del Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale
(14.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Chiarimento in merito al parere prot. QI/19070/2021 inerente “i
chioschi e i manufatti similari realizzati su suolo pubblico” - Indirizzi
per gli Uffici (Comune di
Roma,
nota 07.02.2024 n.
26731 di prot.).
---------------
E’ pervenuta allo scrivente Dipartimento una richiesta di chiarimento in
merito all’oggetto, in particolare, facendo riferimento al
parere 03.02.2021 n. 19070 di prot. [1]
di questo dipartimento, se la realizzazione di chioschi e manufatti similari
su suolo pubblico sia sottoposta alla legislazione inerente le opere
pubbliche o al D.P.R. 380/2001, con riferimento sia ai chioschi di nuova
installazione che a quelli già preesistenti ma privi di titolo edilizio.
L’argomento dell’installazione dei chioschi è già stato ampiamente trattato
nei suoi vari aspetti anche in un altro parere di questo Dipartimento,
18.04.2018 n. 67434 di prot., ed in un ordine di servizio
interdipartimentale con il Dip. Sviluppo Economico Attività Produttive e
Agricoltura,
18.11.2015 n. 79383 di prot., richiamati e riportati in allegato
al suddetto parere parere
03.02.2021 n. 19070 di prot.,
pubblicati sul sito istituzionale all’indirizzo ..., ed alla cui lettura si
rimanda per brevità di trattazione. (...continua).
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[1] leggasi anche l'allegato 3 (Regione Lazio,
parere 12.05.2011 n. 127210 di prot.) e l'allegato 4
(Regione Lazio,
parere 19.05.2009 n. 91613 di prot.) |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Forma dei verbali del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
La registrazione integrale dell'adunanza del consiglio non può avere
validità di un verbale, atteso che l'art. 97, c. 4, lett. a), del d.lgs. n.
267/2000 assegna al segretario dell'ente locale la cura della
verbalizzazione delle riunioni di consiglio.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha chiesto l'avviso
di quest'Ufficio in ordine al quesito posto da un consigliere di minoranza
del comune ... concernente la forma dei verbali del consiglio comunale.
In particolare, è stato chiesto se la registrazione integrale della seduta
del consiglio possa avere la stessa validità di un verbale e, quindi, se sia
possibile non procedere alla verbalizzazione da parte del segretario
comunale dell'ente, tenuto conto che l'art. 56, comma 8, del regolamento del
consiglio comunale di ... dispone che "Nel caso vengano utilizzati
sistemi di registrazione integrale della seduta, i supporti magnetici
rappresentano i verbali dell'adunanza".
Lo statuto dell'ente all'art. 34, comma 4, prevede che "… la
verbalizzazione delle sedute del Consiglio e della Giunta sono curate dal
Segretario Comunale, secondo le modalità ed i termini stabiliti dal
regolamento." Il successivo comma 5 dispone che i verbali delle sedute
sono firmati dal presidente e dal segretario.
Al riguardo, si rileva che, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. a), del
d.lgs. n. 267/2000, il segretario dell'ente locale "partecipa con
funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e
della giunta e ne cura la verbalizzazione". Pertanto, è lo stesso
legislatore statale che ha previsto, nell'ambito delle competenze del
segretario, la cura della verbalizzazione delle riunioni di consiglio e di
giunta, e lo statuto dell'ente ribadisce tale funzione del segretario
comunale.
In merito alla natura e alla funzione del verbale, si fa presente che il
Consiglio di Stato - sez. IV, con sentenza n. 4373 del 2018, nell'esaminare
un caso diverso da quello in esame, ha osservato che "il verbale, atto
giuridico appartenente alla categoria degli atti certificativi, è il
documento preordinato alla descrizione di atti o fatti, rilevanti per il
diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, appositamente
incaricato di tale compito."
L'Alto Consesso ha, altresì, evidenziato che "negli organi collegiali,
dove la funzione di verbalizzazione e il verbale assumono rilievo decisivo e
necessità indefettibile, il tratto di collegamento tra esternazione
dell'atto amministrativo (che normalmente avviene in forme diverse dalla
scritta) e documentazione dell'atto (ad esempio, deliberazione) è
rappresentato dal verbale della seduta, che costituisce la 'memoria' di
quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta stessa, affinché
questi possano essere successivamente (ed ulteriormente) documentati,
secondo le modalità di volta in volta prescritte. Come affermato dalla
giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato - sez. IV, 25.07.2001, n. 4074),
il verbale ha il compito di attestare il compimento dei fatti svoltisi al
fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e
di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia peraltro
necessario indicare minutamente le singole attività compiute e le singole
opinioni espresse."
Si soggiunge che il TAR Sicilia – Sez. di Catania, con sentenza n. 1311 del
14.07.2009, ha sottolineato che il verbale della seduta "costituisce
l'elemento essenziale della esternazione e della documentazione delle
determinazioni amministrative degli organi collegiali, nonché la condizione
necessaria perché le determinazioni stesse acquistino valore di espressione
di potestà amministrative."
Inoltre, dalla sentenza del Consiglio di Stato del 04.06.2020, n. 3544, si
evince che "… l'atto di verbalizzazione ha una funzione di certificazione
pubblica, contiene e rappresenta i fatti e gli atti giuridicamente rilevanti
che è necessario siano conservati per le esigenze probatorie con fede
privilegiata -dal momento che sono redatti da un pubblico ufficiale- che si
sostanzia essenzialmente nella attendibilità in merito alla provenienza
dell'atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al pubblico ufficiale ed ai
fatti innanzi a lui accaduti (cfr. Cass. sez. I, 03.12.2002, n. 17106)".
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopra citato, si ritiene
che il consiglio comunale, nell'esercizio della propria autonomia funzionale
ed organizzativa di cui all'articolo 38, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000,
abbia la possibilità di regolamentare la registrazione del dibattito e delle
votazioni con mezzi audiovisivi, ma le norme statutarie e quelle
regolamentari dell'ente locale devono, comunque, trovare una necessaria
armonizzazione con le norme statali.
Nel caso di specie, si osserva che l'articolo 56, comma 8, del regolamento
del consiglio comunale non risulta coerente con il disposto dell'art. 97,
comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, in quanto la verbalizzazione è attività
propria del segretario comunale, il quale, oltre a riportare gli interventi
dei singoli consiglieri e degli altri partecipanti alla seduta, può
segnalare fatti e circostanze avvenuti che non emergano dalla registrazione
vocale. Inoltre, la forma scritta fornisce certezza in ordine alla modalità
della deliberazione maturata in sede di riunioni degli organi collegiali
(parere 07.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo comune ha ricevuto una istanza di congedo parentale da
parte di una dipendente che terminerà il periodo di maternità obbligatorio
il prossimo 25 gennaio.
Secondo le disposizioni introdotte dalla legge di bilancio 2024, qual è il
trattamento economico previsto?
Come richiamato nel quesito proposto, la legge di bilancio per il 2024 (L.
30.12.2023, n. 213) ha previsto ulteriori disposizioni agevolative per i
genitori in tema di congedi parentali di cui all'art. 34, D.Lgs. 26.03.2001,
n. 151.
La norma di cui trattasi (art. 1, comma 179, L. 30.12.2023, n. 213) recita
infatti testualmente che:
“All'articolo 34, comma 1, primo periodo, del testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e
della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, le
parole: «elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un
mese fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento
della retribuzione» sono sostituite dalle seguenti: «elevata, in
alternativa tra i genitori, per la durata massima complessiva di due mesi
fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della
retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60 per cento
della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese, elevata all'80
per cento per il solo anno 2024». L'articolo 34, comma 1, del testo unico di
cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, come modificato dal presente
comma, si applica con riferimento ai lavoratori che terminano il periodo di
congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, di cui rispettivamente
al capo III e al capo IV del medesimo testo unico di cui al decreto
legislativo n. 151 del 2001, successivamente al 31.12.2023.”
Secondo le nuove disposizioni, pertanto, è stato previsto che il congedo
parentale di due mesi, previsto fino al compimento del sesto anno di età del
figlio, venga retribuito:
- per il primo mese all'80% (ma per gli enti locali tale
trattamento è assorbito da quello più favorevole previsto dall'art. 45,
comma 3, CCNL 16.11.2022 che prevede la retribuzione dei primi 30 giorni
pari al 100% - si veda la Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS);
- per il secondo mese al 60% (per il solo 2024, la retribuzione al
60% del secondo mese è elevata all'80%).
- per i restanti periodi continua ad applicarsi la disciplina
attualmente vigente con indennità pari al 30%
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS
- L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 179
(07.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI:
Questa amministrazione comunale ha verificato di aver commesso un
errore materiale in merito alla corretta indicazione del fondo di cassa
nell'approvazione del rendiconto 2022.
E' possibile procedere nelle prossime settimane ad una riapprovazione dello
stesso?
Il tema della modificabilità o meno del rendiconto approvato deriva da una
atavica diatriba sul concetto della intangibilità o immodificabilità del
rendiconto codificata per il bilancio dello Stato (che approva il rendiconto
con legge ordinaria) dall'art. 150, R.D. 23.05.1924 n. 827.
Per ciò che concerne gli enti locali (che naturalmente approvano il
rendiconto con proprio atto -delibera Consiliare- e non con legge)
l'intangibilità e l'immodificabilità del rendiconto sono state più volte
confermate dalla magistratura contabile (ad esempio Corte dei Conti, Sez.
regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE) in
quanto secondo i giudici "modificare il rendiconto con effetto
retroattivo sulla gestione di competenza pregressa significherebbe
vanificare la funzione di veridicità "storica" insita nel rendiconto stesso".
Ad aiutarci nella risposta al quesito dobbiamo però registrare il recente
intervento della stessa magistratura contabile ed in particolare della Sez.
regionale di controllo per il Veneto che con propria Deliberazione n. 1/2024
ha affrontato nuovamente con dovizia di particolari il tema della
modificabilità o meno del rendiconto approvato.
All'esito dell'indagine della Corte, viene concluso che non si rinvengono
nell'ordinamento elementi ostativi alla rettifica di specifici allegati del
rendiconto, in presenza di meri errori materiali e che pertanto "L'Ente
potrà dunque, mediante opportuna delibera dell'organo consiliare, procedere
senza indugio alla rettifica dell'allegato previsto dall'art. 11, comma 4,
lett. a), del d.lgs. n. 118/2011, concernente il risultato di
amministrazione, trasmettendo tempestivamente il rendiconto aggiornato alla
banca dati delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 della
legge 31.12.2009, n. 196 e rappresentando l'esito di tali variazioni nel
primo documento di bilancio utile".
Sulla scorta di quanto innanzi, riteniamo che l'errore sulla corretta
indicazione del fondo di cassa non può che essere ricondotto alla categoria
degli errori materiali e che pertanto l'Ente potrà procedere alla
riapprovazione del rendiconto 2022 con successiva ritrasmissione dello
stesso alla BDAP.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
R.D. 23.05.1924 n. 827, art. 150
Documenti allegati
Sezione regionale di controllo per il Veneto, Deliberazione n. 1/2024 -
Sezione regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE (31.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Assegnazione di poteri gestionali ad organi politici.
Quesiti
Nei comuni sotto i 5.000 abitanti sussiste la possibilità di
attribuire la Responsabilità dirigenziale ai politici.
Tuttavia questa facoltà è riconosciuta solo se ricorrono dei
presupposti. Come indicato da varie pronunce ANAC, l’ultima
con Delibera ANAC 291 del 20.06.2023, i presupposti sono:
1) Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti,
2) Indicazione sullo statuto comunale della possibilità di deroga
al principio di distinzione delle funzioni tra organi
tecnici,
3) Attribuzione delle funzioni tecniche prioritariamente al
Segretario Comunale,
4) Dimostrazione che l’attribuzione all’organo politico comporta il
contenimento della spesa, mediante delibera allegata al
bilancio.
Premesso quanto sopra, si chiede se in mancanza dei predetti
requisiti (ad eccezione di quello concernente il numero di
abitanti) è possibile che le competenze dirigenziali vengano
attribuite ad un politico, nonostante nell’ente vi sia in
pianta organica un dipendente D4 e se sia possibile che tale
competenza dirigenziale venga attribuita tramite un’“auto-attribuzione”
sindacale.
Risposta
La normativa così come interpretata dall’ANAC e dalla
giurisprudenza fissa i presupposti indicati nel quesito,
ferma restando che "è necessario che le relative
disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma
“regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in
un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del
consiglio comunale (art.
42 TUEL) o della giunta (articolo
48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR
Liguria sez. I,
sentenza 31.03.2021 n. 284).
Anche il Ministero dell’Interno (parere
del 18.12.2014) ha ritenuto che il carattere
speciale della norma richieda necessariamente il rispetto
delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua
legittima applicazione, essendo necessaria sia la
sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare
che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale
del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
In merito all’applicazione dell’istituto derogatorio oggetto
della presente trattazione, invero, lo stesso Ministero
dell’Interno (si veda, ad esempio parere sopra citato) ha
evidenziato che, in base all’art. 15 del CCNL 22.01.2004,
negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i
responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento
organizzativo dell’ente sono titolari delle posizioni
organizzative disciplinate dagli articoli 8 e seguenti del
CCNL 31.03.1999.
Pertanto, alla luce delle citate disposizioni, è apparso
evidente al Ministero che negli enti privi di qualifiche
dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa. Pur dovendosi ritenere tuttora
applicabile l’articolo
53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale
disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla
non concessione della posizione organizzativa al personale
in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del
conseguimento di un effettivo risparmio di spesa. Peraltro,
secondo la Corte dei conti, sez. reg. di contr. per l’Emilia
Romagna,
deliberazione
14.09.2023 n. 124, non
è neppure necessario dimostrare la assoluta carenza,
all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in
quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta
condizione, che invece è richiesta per il conferimento di
incarichi ad esterni.
L’esercizio di eventuali poteri gestionali da parte del
Sindaco (o degli assessori) non può basarsi né sulla
prerogativa sindacale di potere sindacale di affidare con
proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi
prevista dall’articolo
50, comma 10, TUEL, ma richiede necessariamente che sia
preceduto da una apposita deliberazione di Giunta avente
valenza ed efficacia regolamentare.
Infatti, la previsione della precitata disposizione dell’articolo
50, comma 10, TUEL, per il suo stesso tenore e per il
contesto in cui è contenuta, non regola il potere di cui
all’articolo
53 della legge n. 388/2000, ma riguarda semplicemente il
potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi.
Stante la deroga ad un principio generale, allora, occorre
che la modifica organizzativa interna all’ente –assegnando
agli organi politici anche l’esercizio di poteri gestionali–
sia espressa e inequivoca.
Di questi principi ha fatto applicazione, infatti, il TAR
Liguria, sez. II, nella sentenza n. 83 del 03.02.2022, che
ha accolto il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza
sindacale adottata ai sensi dell’articolo
27 del D.P.R. n. 380/2001, che attribuisce ai dirigenti
la vigilanza in materia edilizia e urbanistica, che aveva
ingiunto ex
articolo 31 D.P.R. n. 380/2001 “di provvedere entro
il termine di 90 giorni dalla data di notifica della
presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi
originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati
in assenza di alcun titolo edilizio …”.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso
rispetto della preventiva regolazione derogatoria
dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta
comunale ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità
dell’ordinanza emessa dal Sindaco.
In particolare, nella citata sentenza i giudici hanno
ritenuto illegittima, in quanto viziata da incompetenza,
l’ordinanza sindacale impugnata che aveva disposto
l’immediata rimozione di alcuni materiali abbancati, idonei
a configurare la realizzazione di deposito di materiale,
rientrante, ex
art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. n. 380/2001 nella
definizione di “interventi di nuova costruzione”, che
necessitano del preventivo rilascio del permesso di
costruire ex
articolo 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, come detto, il Sindaco si era autonomamente
attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’articolo
107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria,
disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita
deliberazione di Giunta in tal senso
(23.01.2024 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Legittime le prove concorsuali svolte con carta e penna.
Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impeghi nella pubblica
amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023 non hanno carattere impositivo.
Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impieghi nella pubblica
amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023, seppur finalizzate a promuovere
l’utilizzo dello strumento informatico nelle prove scritte, non hanno
carattere impositivo e, pertanto, gli enti possono in determinati contesti
scegliere se svolgerle alla vecchia maniera ovvero con l’uso della classica
carta e penna.
Nel preferire questa soluzione, le amministrazioni sono tenute a motivare la
loro scelta (dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore
e
più efficiente metodo di selezione) e ad indicare nei bandi di concorso
tutte
le prescrizioni volte ad assicurare l'imparzialità e l'efficienza della
procedura.
È quanto viene affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez II-bis, con la
sentenza
13.02.2024 n. 2948, che vede protagonista un
comune laziale.
La
procedura concorsuale indetta da un ente locale è stata impugnata, da un
candidato innanzi al giudice amministrativo, ritenuta illegittima in ragione
dell'espletamento della prova scritta in modalità cartacea e non
informatizzata.
La norma violata, per il ricorrere, è l'articolo 13, comma
2, del
Dpr 487/1994, nella versione aggiornata dall'articolo 1, comma 1, lettera n),
del Dpr 82/2023, laddove si stabilisce che «gli elaborati sono redatti in
modalità digitale attraverso la strumentazione
fornita per lo svolgimento delle prove».
Raffrontando la precedente versione
testuale della norma e quella attuale, il
Tar sottolinea come nel testo previgente (utilizzando l'avverbio
«esclusivamente») era sancita l'obbligatorietà della
redazione degli elaborati delle prove scritte mentre nella nuova
formulazione tale obbligatorietà (venendo meno
l'utilizzo di tale avverbio) non è più rinvenibile.
La disposizione in
esame, se letta con il disposto contenuto
all'articolo 1, comma 3, dello stesso (secondo la quale è essenziale
garantire lo svolgimento del concorso pubblico
in modo da assicurarne l'imparzialità e l'efficienza, rendendo possibile e
non doveroso l'ausilio di sistemi
informatici), porta a ritenere che, pur registrandosi una preferenza
legislativa per promuovere l'utilizzo dello
strumento informatico, le modalità di svolgimento delle selezioni pubbliche
sono rimesse alla discrezionalità della
pubblica amministrazione e devono rispondere a logiche di razionalità ed
efficienza organizzativa.
Per il giudice
amministrativo laziale, dunque, l'uso della tradizionale forma di redazione
degli elaborati mediante supporto
cartaceo non è illegittima, ma non gode più di quella presunzione di
imparzialità e di efficacia che era immanente
nella previsione regolamentare originale, con la conseguenza che
l'amministrazione è tenuta a motivare
opportunamente circa la preferenza delle prove in detta modalità,
dimostrandone la coerenza con il fine di
assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione nel caso
concreto.
Allo stesso modo nel bando di
concorso devono essere indicate le prescrizioni volte ad assicurare
l'imparzialità e l'efficienza della procedura (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 16.02.2024).
---------------
SENTENZA
I profili di rito possono essere tralasciati perché il ricorso è
infondato nel merito, come puntualmente argomentato dal Comune di Fiumicino
nelle proprie memorie difensive.
La disposizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera n), del DPR 16.06.2023,
nr. 82, ha sostituito l’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, che nel testo
previgente sanciva l’obbligatorietà della redazione degli elaborati delle
prove di concorso (come reso palese dall’avverbio “esclusivamente”) “su
carta portante il timbro dell’ufficio e la firma di un componente della
commissione esaminatrice….”, con il testo che adesso prevede la
redazione degli elaborati “in modalità digitale attraverso la
strumentazione fornita per lo svolgimento delle prove”, specificandone
le condizioni (tempo aggiuntivo per malfunzionamento, non modificabilità del
documento salvato dal candidato, disabilitazione della connessione
internet).
Sia l’esegesi testuale operata nel raffronto tra la precedente versione
testuale della norma e quella attuale (che non include più l’avverbio “esclusivamente”),
sia l’interpretazione sistematica in rapporto all’art. 1, comma 3, D.P.R.
487/1994 a norma del quale è essenziale garantire lo svolgimento del
concorso pubblico in modo da assicurarne l’imparzialità e l’efficienza,
rendendo possibile (e non doveroso) l’ausilio di sistemi informatici (“Il
concorso pubblico si svolge con modalità che ne garantiscano l'imparzialità,
l'efficienza, l'efficacia nel soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione
reclutante e la celerità di espletamento ricorrendo, ove necessario,
all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di
preselezione e a selezioni decentrate per circoscrizione territoriali”)
inducono il Collegio a condividere la tesi del Comune di Fiumicino, secondo
la quale pur registrandosi una preferenza legislativa per promuovere
l’utilizzo dello strumento informatico, le modalità di svolgimento delle
selezioni pubbliche sono rimesse alla discrezionalità della P.A. e devono
rispondere a logiche di razionalità e efficienza organizzativa.
Ciò comporta due importanti conseguenze.
La prima è che, a mente dell’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, nel
testo modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del D.P.R.
16.06.2023, n. 82, l’uso della tradizionale forma di redazione degli
elaborati mediante supporto cartaceo non è illegittima, ma non gode più di
quella presunzione di imparzialità e di efficacia che era immanente nella
previsione regolamentare originale, con la conseguenza che l’Amministrazione
è tenuta a motivare opportunamente circa la preferenza delle prove in detta
modalità, dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e
più efficiente metodo di selezione nel caso concreto.
La seconda è che, rispetto all’uso nelle prove scritte di supporti
informatici, la redazione degli elaborati su carta dovrà essere disciplinata
specificatamente dall’Ente, non potendosi più contare sulle garanzie formali
che erano precedentemente previste dall’art. 13, comma 2, del DPR 487/1984
(e dunque spetterà all’Ente indicare nel bando di concorso le prescrizioni
volte ad assicurare in concreto l’anonimato dell’elaborato durante la sua
correzione ai fini dell’assegnazione del punteggio, la sua effettiva
riferibilità al candidato, che quest’ultimo lo abbia redatto durante le
prove e così via).
Siccome nessuno dei due aspetti sin qui elencati è oggetto di censura e la
doglianza formulata si fonda solo sulla ritenuta obbligatorietà della prova
scritta in modalità informatica (principio che va escluso), il gravame è
infondato nel primo motivo e come tale va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo, e non determina
l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera
b), del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre il manufatto abusivo
nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in
quanto detta subordinazione
contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria,
collegabile alla già
avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale
rispondenza alla disciplina urbanistica.
---------------
3. Il ricorso è inammissibile.
L'unico motivo -con il quale si censurano la violazione di
legge ed il vizio della
motivazione del provvedimento impugnato relativamente
all'inosservanza degli
artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001- è inammissibile.
Diversamente da quanto
prospettato dal ricorrente, il Tribunale, nel motivare il
rigetto dell'istanza di
sospensione o revoca dell'ordine di demolizione, non ha
imperniato la propria
decisione sul solo diniego tacitamente espresso dalla
Pubblica Amministrazione
competente sulla richiesta di permesso in sanatoria -pur
molto significativo- ma
ha valorizzato altri elementi, come le dichiarazioni
della teste Ca., la quale ha
riferito che la demolizione comunque non è stata effettuata
e che a causa dei
vincoli insistenti sulla zona ove l'immobile è costruito si
tratta di una costruzione
non sanabile.
Inoltre, lo stesso consulente di parte ha
aderito a tali conclusioni
sottolineando che la sopraelevazione oltre il terzo piano
non è sanabile;
circostanza ammessa e non contestata dallo stesso
ricorrente, il quale afferma di avere proposto un'istanza di
sanatoria condizionata alla demolizione di parte
dell'edificio.
Ed è sufficiente ricordare che è illegittimo, e non
determina
l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera
b), del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre il manufatto abusivo
nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in
quanto detta subordinazione
contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria,
collegabile alla già
avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale
rispondenza alla disciplina
urbanistica (ex plurimis, Sez. 3,
15.10.2020 n. 28666, Rv. 280281).
Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcuna ipotesi
di violazione di
legge, avendo operato il Tribunale nel rispetto dell'art.
36, comma 3, d.P.R. n. 380
del 2001, con adeguata e coerente motivazione in punto di
fatto, a fronte di una
prospettazione difensiva manifestamente infondata (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
07.02.2024 n. 5486). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aree vincolate, la presenza di altri edifici non basta a
giustificare il condono.
Con questa motivazione il Tar di Roma ha respinto il ricorso contro
un’ordinanza di demolizione.
La presenza di altri edifici in un’area vincolata non è motivo sufficiente
per consentire la sanatoria di un’opera realizzata abusivamente.
Con questa
motivazione il TAR Lazio-Roma, Sez. IV-quater con la
sentenza
07.02.2024 n.
2422, ha respinto il ricorso di una persona che aveva impugnato
l’ordinanza di demolizione di Roma Capitale per la realizzazione di
un“immobile posto al piano terra con destinazione abitazione”, per 73 metri
quadrati e un cubatura fuori terra di 247,00 metri cubi.
La vicenda inizia nell'aprile del 2013 quando dal Comune
viene inviato l'avviso di rigetto alla domanda di condono, «in quanto
l'edificio
ricadrebbe in area sottoposta a tutela dei beni paesaggistici e al quale
seguiva (malgrado le osservazioni del ricorrente) il provvedimento di
rigetto
definitivo». Quindi il ricorso al Tar.
Tra i motivi «travisamento dei fatti,
in
quanto l'edificio ricadrebbe nell'ambito della c.d. zona 02 (recupero
urbanistico) e nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b
Pian del Marmo che riguarda un vasto quartiere ormai edificato e
urbanizzato». Poi altre argomentazioni che riguardano la classificazione
dell'area.
Per il Collegio il ricorso è infondato.
«Sono da respingere i
primi due
motivi con i quali si sostiene l'insussistenza del vincolo paesaggistico, in
quanto l'immobile ricadrebbe in un'area
oramai urbanizzata -scrivono i giudici-, rientrando nel perimetro del
piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b
Pian del Marmo che riguarda un quartiere ormai edificato, che non avrebbe
nulla delle caratteristiche delle aree
vincolate». I giudici sottolineano il fatto che «l'istanza di condono
riguarda un abuso che ha determinato la
realizzazione di un'intera unità immobiliare, con aumento di superficie
utile e volumetria e adibita a civile
abitazione».
Per i giudici «è evidente che non rileva l'avvenuta
urbanizzazione dell'area e, ciò, considerando che il
vincolo paesaggistico è fondato com'è su una valutazione complessiva del
paesaggio e dell'area circostante, che
presuppone un giudizio di prevalenza dell'interesse pubblico che, in quanto
tale, può essere superato solo da un
successivo provvedimento di revoca o di rimozione del vincolo stesso che, al
termine di una nuova istruttoria,
determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari».
I
giudici ricordano che l'applicabilità del terzo
condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata limitata alle
sole opere di restauro e risanamento
conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se
ed in quanto conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Non solo: «Il
fatto che si sia in presenza di una zona
urbanizzata non fa venire meno l'esigenza di scongiurare la realizzazione di
ulteriori interventi abusivi -sottolineano i
giudici-, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia
suscettibile di venir meno solo perché in passato
sia stato disatteso, imponendosi al contrario un maggiore rigore per il
futuro per prevenire ulteriori danni all'ambiente
e salvaguardare quel poco di integro che ancora residua».
Ricorso respinto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
13.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sono da respingere i primi due motivi con i quali si sostiene
l’insussistenza del vincolo paesaggistico, in quanto l’immobile ricadrebbe
in un’area oramai urbanizzata, rientrando nel perimetro del piano di
recupero urbanistico Nucleo 19.12b "Pian del Marmo" che riguarda un
quartiere ormai edificato, che non avrebbe nulla delle caratteristiche delle
aree vincolate.
1.2 Contrariamente a quanto dedotto, va evidenziato come sia stato lo stesso
ricorrente a confermare (nel secondo motivo) che la zona in cui è situato
l’immobile del ricorrente è inclusa nel piano territoriale paesistico n.
15/b “Valle del Tevere”, circostanza ulteriormente ribadita dall’avvenuto
deposito del certificato di destinazione urbanistica che conferma la
sussistenza dei vincoli individuati dall’Amministrazione.
1.3 Si consideri, peraltro, che l’istanza di condono riguarda un abuso che
ha determinato la realizzazione di un’intera unità immobiliare, con aumento
di superficie utile e volumetria e adibita a civile abitazione.
1.4 E’ altrettanto evidente che non rileva l’avvenuta urbanizzazione
dell’area e, ciò, considerando che il vincolo paesaggistico è fondato com’è
su una valutazione complessiva del paesaggio e dell’area circostante, che
presuppone un giudizio di prevalenza dell’interesse pubblico che, in quanto
tale, può essere superato solo da un successivo provvedimento di revoca o di
rimozione del vincolo stesso che, al termine di una nuova istruttoria,
determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari.
1.5 E’ noto, peraltro, che l’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 4 e
l’art. 3, comma 1, lett. b), della L.Reg. n. 12/2004, prevede che per le aree
soggette a vincolo siano sanabili esclusivamente le opere di restauro,
risanamento conservativo e manutenzione straordinaria (tipologie nn. 4, 5 e
6 dell'allegato "1" alla legge 24.11.2003, n. 326), tipologie queste
ultime che escludono gli incrementi volumetrici e di superficie.
1.6 Un costante orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che
“l'applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle opere realizzate
in zona vincolata ..(sia) limitata alle sole opere di restauro e risanamento
conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se
ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici" e, ancora, che "ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett.
d), del decreto legge su menzionato come convertito sul terzo condono, ...
(siano) sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a
specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo se ricorrono
congiuntamente le seguenti condizioni:
a) si tratti di opere realizzate
prima della imposizione del vincolo;
b) seppure realizzate in assenza o in
difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche;
c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro,
risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
d) che vi sia il
previo parere dell'Autorità preposta al vincolo" (Cons. St., Sez. VI,
18.05.2015 n. 2518; Cons. Stato, sez. VI, 16/08/2023, n. 7779 Cons. Stato,
Sez. VI, 03.02.2023 n. 1182, 29.07.2022 n. 6684, 22.04.2022 n.
3088 e 17.03.2020 n. 1902).
1.7 Anche la successiva giurisprudenza di merito ha confermato che “in
materia edilizia ed urbanistica, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico,
non può essere ammessa a sanatoria un'opera abusivamente realizzata qualora
comporti l'edificazione di nuove superfici abitabili e un conseguente
aumento volumetrico, seppur minimo, non rilevando in tal senso l'entità del
vincolo stesso (assoluto o relativo) (TAR Lazio Roma, Sez. II-bis,
23/01/2018, n. 828)”.
1.8 Il fatto che si sia in presenza di una zona urbanizzata non fa venire
meno l’esigenza di scongiurare la realizzazione di ulteriori interventi
abusivi, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia
suscettibile di venir meno solo perché in passato sia stato disatteso,
imponendosi al contrario un maggiore rigore per il futuro per prevenire
ulteriori danni all’ambiente e salvaguardare quel poco di integro che ancora
residua (TAR Lazio sez. IV-ter, 01/02/2023 n. 18076).
1.9 Da respingere è anche la terza e ultima censura con la quale si sostiene
che sarebbe illegittima una qualunque ulteriore sanzione demolitoria o
pecuniaria e, ciò, considerando che il Comune non risulta aver adottato i
provvedimenti di carattere repressivo e sanzionatorio, essendosi quindi in
presenza di poteri amministrativi ancora inespressi. |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Sui motivi aggiunti in appello, sull’invalidità derivata e
sull'avvalimento.
---------------
Giustizia amministrativa – Motivi aggiunti – Grado di
appello – Inammissibilità – Impugnazione di atti nuovi
sopravvenuti.
Possono essere proposti motivi
aggiunti in grado d'appello, al solo fine di dedurre vizi
ulteriori degli atti già censurati in primo grado, e non
anche nella diversa ipotesi in cui con essi s'intenda
impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo
grado.
Sono inammissibili i motivi aggiunti proposti, allorché gli
atti sopravvenuti non sono in grado di integrare un vizio
del provvedimento di aggiudicazione, oggetto di impugnativa
in prime cure, sub specie di illegittimità sopravvenuta, e
non vi sia ragione per derogare al principio del doppio
grado di giudizio. (1)
---------------
Atto
amministrativo – Annullabilità – Impugnazione – Nullità –
Effetto caducante – Rapporto di presupposizione tra atti.
Si distingue tra invalidità a effetto
caducante e invalidità a effetto viziante, atteso che nel
primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende
automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo
non sia stato impugnato; mentre nel secondo caso l'atto
conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e
pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di
rito.
La prima ipotesi ricorre nel caso in cui l'atto successivo
venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza
procedimentale a guisa di inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore.
Si realizza, pertanto, l'effetto caducante solo qualora il
rapporto di presupposizione che avvince i due provvedimenti
sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto
successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto
procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto
all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di
interessi. (2)
---------------
Contratti pubblici
e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di
servizi – Avvalimento – Avvalimento tecnico-operativo –
Tratti caratterizzanti.
Nella fattispecie di avvalimento tecnico
operativo, sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a
disposizione di mezzi e risorse specifiche, indispensabili
per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a
disposizione del concorrente.
L'indagine in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento
operativo deve essere svolta sulla base delle generali
regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare
secondo i canoni enunciati dal codice civile di
interpretazione complessiva e secondo buona fede delle
clausole contrattuali.
Il contratto di avvalimento, pertanto, non deve quindi
necessariamente spingersi sino alla rigida quantificazione
dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione delle qualifiche
del personale messo a disposizione ovvero all’indicazione
numerica dello stesso personale.
L'assetto negoziale deve consentire l'individuazione delle
esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere,
direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, nonché i
parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione.
Quando si tratti di avvalimento tecnico-operativo, può
essere previsto l’impiego non di un singolo elemento della
produzione, bensì dell’azienda intesa come complesso
produttivo unitariamente considerato o di un ramo di essa.
Di questa l’ausiliaria non perde la detenzione, pur
mettendola adisposizione, in tutto o in parte, per
l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le previsioni del
contratto di avvalimento, approvate dalla stazione
appaltante. (3)
---------------
(1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.05.2020, n. 2792;
Cons. Stato, sez.VI, 02.01.2018, n. 21.
(2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2611 e
20.01.2015, n. 163; Cons. Stato, sez. IV, 06.12.2013, n.
5813, idem, 13.06.2013, n. 3272; idem, 24.05.2013, n. 2823;
Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5986; idem, 05.09.2011,
n. 4998; Cons. Stato, sez. V, 25.11.2010, n. 8243.
(3) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619;
Cons. Stato, sez. V, 21.07.2021, n. 5485; Cons. Stato, sez.
V, 12.02.2020, n. 1120; Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n.
5464; Cons. Stato, sez. III, 04.01.2021, n. 68; Ad. plen.,
14.11.2016, n. 23; Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n.
3682; Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935; Cons.
Stato, sez. V, 10.01.2022, n. 169; Cons. Stato, sez. V,
22.02.2021 n. 1
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2024 n. 1263 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
13. In limine litis vanno delibate le eccezioni di
inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti in appello
sollevata da LaB. e dal Comune di Milano e quella
di improcedibilità del presente giudizio formulate da
LaB., principiando in ordine logico da quella di
inammissibilità.
13.1. Ed invero secondo quanto affermato dal Consiglio di
Stato, nella sua più autorevole composizione (Ad. Plen. n. 4
del 2011 e di recente ribadito da Ad. Plen. n. 9 del 2014),
la norma positiva enucleabile dal combinato disposto degli
artt. 76, co. 4, c.p.a. e 276, co. 2, c.p.c., impone di
risolvere le questioni processuali e di merito secondo
l'ordine logico loro proprio, assumendo come prioritaria la
definizione di quelle di rito rispetto a quelle di merito, e
fra le prime la priorità dell'accertamento della ricorrenza
dei presupposti processuali (nell'ordine, giurisdizione,
competenza, capacità delle parti, ius postulandi,
ricevibilità, contraddittorio, estinzione), rispetto alle
condizioni dell'azione (tale fondamentale canone processuale
è stato ribadito da Ad. Plen. n. 10 del 2011).
13.2. L’eccezione è fondata alla luce di quanto di seguito
specificato.
13.2.1. E’ noto che ai sensi dell’art. 104, comma 3, c.p.a.,
nel giudizio di appello possono essere proposti motivi
aggiunti qualora la parte ricorrente venga a conoscenza di
nuovi documenti, dopo la conclusione del primo grado di
giudizio, e da detti documenti emergano vizi degli atti già
impugnati, senza che gli stessi siano stati prodotti dalle
altre parti nel giudizio di primo grado (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 17.07.2023, n. 6933; Cons. giust. amm. Sicilia
sez. giurisd., 04.10.2022, n. 996).
Da tale disposto normativo è dato agevolmente inferire che
la proposizione di motivi aggiunti è consentita nei limiti
in cui essi siano proposti avverso i medesimi atti già
impugnati in prime cure.
Questo Consiglio ha avuto modo a
sua volta di osservare che "ai sensi dell'art. 104, co. 3,
del d.lgs. n. 104 del 2010 le parti possono proporre motivi
aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre
ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado,
dovendo rilevarsi come non ci si trovi in tale evenienza
nell'ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti
sopravvenuti alla sentenza di prime cure" (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 04.05.2020, n. 2792; id., sez. VI, 02.01.2018, n. 21).
La norma de qua ha pertanto codificato il pregresso
orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti
in grado d'appello al solo fine di dedurre vizi ulteriori
degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella
diversa ipotesi in cui con essi s'intenda impugnare nuovi
atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado (cfr.
Consiglio di Stato sez. VI 02.01.2018, n. 21).
La norma, costituendo un'eccezione alla regola del divieto
dei nova nel giudizio di secondo grado, non si presta ad una
lettura estensiva, che peraltro finirebbe per sovvertirne la
stessa formulazione posta dal legislatore in termini
inequivocabilmente negativi. Inoltre l'impugnazione dei
nuovi atti sopravvenuti per la prima volta e direttamente in
sede di appello violerebbe il principio del doppio grado di
giudizio (Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2011 n. 3662).
...
14. Deve per contro essere disattesa l’eccezione di
improcedibilità dell’odierno giudizio, avanzata da
LaB., fondata sul rilievo che gli atti di presa
d’atto dell’aggiudicazione in favore del soggetto
incorporante, che si sostanzierebbero in una
riaggiudicazione, non sarebbero stati oggetto di rituale
impugnativa in prime cure, trattandosi di profilo
sconfessato non solo da Sa. ma dallo stesso Comune di
Milano.
14.1. Né si può ritenere, alla luce di quanto innanzi
rappresentato, circa la riaggiudicazione (implicita) in
favore di LaB., che l’interesse al ricorso debba
intendersi completamente traslato avverso le note di presa
d’atto e di comunicazione, oggetto di impugnativa innanzi al
Tar Lombardia, posto che, ferma la necessità che sui vizi
denunciati con il ricorso per motivi aggiunti in appello –afferenti i requisiti di partecipazione di ordine generale
del soggetto incorporante- si pronunci il giudice di prime
cure, l’eventuale illegittimità del provvedimento di
aggiudicazione in favore di Eu., oggetto dell’odierno
giudizio, non potrebbe che determinare comunque in via
automatica la caducazione della riaggiudicazione in favore
del soggetto incorporante LaB..
14.2. Può pertanto applicarsi alla fattispecie de qua la
giurisprudenza in materia secondo la quale, pur in presenza
di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi
tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto
viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento
dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto
consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato,
mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo
da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non
impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi, quella
appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza
in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della
medesima sequenza procedimentale a guisa di inevitabile
conseguenza dell'atto anteriore, il che comporta, dunque, la
necessità di verificare l'intensità del rapporto di
conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo,
con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale
rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che
l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso
contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile
rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove
valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato,
V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e
05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Detto rapporto di presupposizione è invero ravvisabile tra
l’atto presupposto –aggiudicazione in favore del soggetto
incorporato Eu.– e l’atto consequenziale –riaggiudicazione a favore del soggetto incorporante
LaB., nella parte in cui quest’ultimo presuppone
l’esistenza e la validità del primo -non oggetto di
successivo ed autonomo vaglio- ferma restando per contro la
necessità di autonoma impugnativa della riaggiudicazione per
i profili afferenti esclusivamente ai requisiti di
partecipazione del soggetto incorporante LaB., nei
termini suindicati, in quanto non suscettibili di retroagire
sul primo atto, determinandone una sorta di illegittimità
sopravvenuta.
14.3. Pertanto, applicando tali coordinate ermeneutiche nei
termini suesposti, si ravvisa l’indicato vincolo di
presupposizione, in grado di comportare, in ipotesi di
annullamento del provvedimento oggetto del presente
contenzioso, da qualificarsi quale atto presupposto, un
effetto caducante automatico dell’atto consequenziale,
ovvero dell’implicita riaggiudicazione in favore del
soggetto incorporante LaB., per la parte avente ad
oggetto la previa aggiudicazione in favore di Eu. (atto
presupposto).
...
17.3. Il motivo è infondato, dovendosi il disciplinare di
gara interpretare in senso conforme alla previsione
dell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 cui expressis verbis
fa rinvio.
17.4. Non ignora il collegio che secondo orientamento ormai
consolidato in giurisprudenza, a seconda che si tratti di
avvalimento c.d. garanzia ovvero di avvalimento c.d. tecnico
o operativo, diverso è il contenuto necessario del contratto
concluso tra l'operatore economico concorrente e
l'ausiliaria; in particolare, in caso di avvalimento c.d.
tecnico operativo sussiste sempre l'esigenza della concreta
messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, e
specificamente indicate nel contratto, indispensabili per
l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a
disposizione del concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619; V, 21.07.2021, n. 5485; V, 12.02.2020, n. 1120 e le sentenze ivi richiamate; le
ragioni alla base del predetto orientamento
giurisprudenziale sono in Cons. giust. amm. Sicilia, sez.
giuris., 19.07.2021, n. 722).
E' peraltro altrettanto noto il principio (ex multis, cfr.
Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n. 5464; III, 04.01.2021, n. 68, ma fissato dall'Adunanza plenaria nella
sentenza del 14.11.2016, n. 23) secondo cui l'indagine
in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento c.d.
operativo deve essere svolta sulla base delle generali
regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare
secondo i canoni enunciati dal codice civile di
interpretazione complessiva e secondo buona fede delle
clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 cod. civ.).
17.5. Il contratto di avvalimento pertanto non deve quindi
necessariamente spingersi, ad esempio, sino alla rigida
quantificazione dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione
delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero
alla indicazione numerica dello stesso personale. Tuttavia,
l'assetto negoziale deve consentire quantomeno
"l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa
ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio
all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le
risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3682); deve cioè prevedere, da un lato, la
messa a disposizione di personale qualificato, specificando
se per la diretta esecuzione del servizio o per la
formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata,
dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse
e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935 Cons. Stato Sez. V, Sent., 10.01.2022, n.
169).
17.5.1. Inoltre questa Sezione ha altresì affermato il
principio ( Consiglio di Stato, sez. V. 22/02/2021 n. 1514)
per cui “L’elemento caratterizzante [l’avvalimento] non è
limitato a un mero “prestito” formale di personale e/o di
macchinari e/o di beni strumentali necessariamente,
sganciato dalla relativa organizzazione aziendale […] anche
se il suo effetto –relativamente al rapporto di appalto-
consiste nell’imputazione giuridica ed economica delle
prestazioni che ne sono oggetto direttamente all’impresa
concorrente, che, a tal fine, si avvale dell’ausiliaria” (Cons.
Stato, V, 16.03.2018, n. 1698) e che pertanto nel caso di
ricorso all’istituto dell’avvalimento, è ben possibile “che,
nel singolo contratto, sia previsto, quando si tratti di
c.d. avvalimento tecnico-operativo, l’impiego non di un
singolo elemento della produzione, bensì dell’azienda intesa
come complesso produttivo unitariamente considerato (o di un
ramo di essa). Di questa l’ausiliaria non perde la
detenzione, pur mettendola a disposizione, in tutto o in
parte, per l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le
previsioni del contratto di avvalimento, approvate dalla
stazione appaltante” (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2024 n. 1263 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una scala in ferro per
consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce intervento
per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del
solaio di copertura di un immobile, non determina una
significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza,
essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale, funzionalmente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e
caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire
una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non
comportare un aumento del carico urbanistico.
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la
realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia
priva di un collegamento strutturale con l’abitazione,
inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in
ragione della sua conformazione, destinata ad essere
agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata
di ruote: le caratteristiche ora evidenziate inducono,
pertanto a ritenere che non necessitasse di un permesso di
costruire, come invece adombrato dall’amministrazione che ha
emesso l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001.
---------------
... per l'annullamento dell’ingiunzione di demolizione di
una scala esterna - provvedimento del 09.08.2023, prot. n.
0508, del responsabile del settore IV “Urbanistica ed
edilizia - Attività produttive” del Comune di Santa
Marinella;
...
1. Con ordinanza prot. n. 508 del 09.08.2023, il Comune di
Santa Marinella ingiungeva alle ricorrenti di effettuare la
demolizione di opere realizzate abusivamente (“scala a
chiocciola, in ferro zincato di colore bianco, di larghezza
pari a mt. 1,40 ed altezza pari a mt. 3,50, ancorata con
piastre in ferro e bulloni ad una pedana in ferro montata su
ruote, che consente di accedere dal giardino al solaio di
copertura del portico prospiciente l’ingresso
dell’abitazione”) e di rimettere in pristino lo stato dei
luoghi presso l’immobile ubicato al lungomare ... n. 9,
distinto in catasto al foglio 22, p.lla 28, sub. 501.
2. Con ricorso notificato in data 24.10.2023 e depositato in
data 02.11.2023, le ricorrenti esponevano:
- che De Ma.Da. e le figlie Sa.Lu. e Sa.Gi. sono proprietarie della suddetta unità immobiliare,
risalente agli anni ‘30, alla quale si accede
dall’antistante giardino pertinenziale attraverso un portico
a copertura piana;
- che la copertura del portico ed il tetto a tegole sono
raggiungibili, per qualunque esigenza, esclusivamente dal
giardino;
- che De Ma.Da. aveva posizionato nel giardino una
scala a piattaforma mobile e di arredo, con struttura autoportante, realizzata con elementi di esigua dimensione
(tubolari in ferro verniciato di diametro 8 cm con altezza
variabile, 3 mt. nel punto più alto) dotata di ruote e fermi
di sicurezza a vite che ne consentono, all’occorrenza,
l’agevole spostamento all’interno dell’ampio giardino
pertinenziale (di circa mq. 1.300).
Tanto premesso, impugnavano la suddetta ordinanza, sulla
base dei seguenti motivi di diritto.
...
2.2. “Violazione di legge (violazione e
falsa applicazione artt. 3, 6, co. 1, lett. e-bis), 22, 31, 36 e
37 del d.P.R. n. 380 del 2001). Eccesso di potere per
sviamento e travisamento dei fatti, difetto di istruttoria,
illogicità e contraddittorietà degli atti, motivazione
incongrua e contraddittoria, manifesta ingiustizia.
Violazione del procedimento: artt. 10 e 11 della L. n.
241/1990”.
Evidenziava la parte ricorrente che la scala su piattaforma
mobile in questione (diretta a soddisfare esigenze
contingenti e temporanee, e destinata ad essere
immediatamente spostata al cessare della necessità di
accesso) non costituisce manufatto o intervento edilizio e,
contrariamente a quanto assunto dall’amministrazione
resistente mediante il richiamo all’art. 31 del D.P.R.
380/2001, non necessita del rilascio del permesso di
costruire.
Denunciava comunque che la suddetta ingiunzione denotava una
valutazione affrettata ed errata, ed era affetta da carenza
di motivazione.
Allegava che l’ordine di demolizione non era stato preceduto
dalla notifica di un accertamento motivato, tale da
consentire un preventivo contraddittorio in sede
amministrativa.
...
5. Ritiene il Collegio di poter esaminare anzitutto il
secondo motivo di ricorso, in base all’orientamento
secondo cui «Il principio della ragione più liquida
consente di derogare all'ordine logico di esame delle
questioni portate al vaglio dell'organo giurisdizionale e,
qualora le questioni vagliate esauriscano la vicenda
sottoposta al giudice amministrativo, aderendo al principio
sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato,
gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
vengono ritenuti non rilevanti ai fini della decisione»
(Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2023, n. 951).
6. Il motivo è fondato.
È condivisibile infatti l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa secondo cui la realizzazione di una scala in
ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce
intervento per il quale non è richiesto il preventivo
rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del
solaio di copertura di un immobile, non determina una
significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza,
essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale, funzionalmente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e
caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire
una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio
dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non
comportare un aumento del carico urbanistico. (TAR
Campania-Salerno, sez. I, 24/07/2013, n. 1680).
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la
realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia
priva di un collegamento strutturale con l’abitazione,
inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in
ragione della sua conformazione, destinata ad essere
agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata
di ruote (cfr. fotografie depositate in atti): le
caratteristiche ora evidenziate inducono, pertanto a
ritenere che non necessitasse di un permesso di costruire,
come invece adombrato dall’amministrazione che ha emesso
l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001 (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.02.2024 n. 2261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Parere di regolarità tecnica espresso dal responsabile del
servizio ex art. 49 TUEL – Natura – Parere non vincolante –
Collocazione endoprocedimentale – Impugnazione –
Inammissibilità.
Va dichiarata l’inammissibilità del
ricorso proposto avverso il parere formulato dal
responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del DLgs
18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1. Su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che
non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il
parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non
intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo,
devono darne adeguata motivazione nel testo della
deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi
pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro
assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in
un vizio di legittimità), è dirimente rimarcare la natura
non vincolante del parere tecnico, dal quale (come la norma
precisa) la Giunta e il Consiglio possono discostarsi, sia
pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione
endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è
inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione
giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria
per la nascita dell'interesse a ricorrere.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
(per quanto riguarda il ricorso introduttivo):
1) della nota prot. n. 3442 del 15/03/2019 del Dirigente del
Servizio Urbanistica del Comune di Cardito, con la quale,
con riferimento alla pratica edilizia 623/2017 del
05.05.2017 relativa ad approvazione di PUA presentata dalla
ricorrente, si esprime diniego definitivo;
...
1 - Il ricorso introduttivo ha ad oggetto la legittimità del
parere contrario espresso dal Dirigente del servizio
urbanistica del Comune di Cardito in merito all’adozione e
approvazione da parte della Giunta Comunale del PUA ad
iniziativa privata presentato dalla società ricorrente (di
seguito, “Vi.”) con istanza n. prot. 5931/2017, con
riferimento alla realizzazione di edificazione residenziale
su lotto di sua proprietà in ct. al fg. 2, p.lle nn. 897 e
899 (zona C2, lato ovest).
La proposta di piano segue una precedente proposta
presentata dalla ricorrente nel 2011 e respinta
dall’Amministrazione con d.G.C. n. 164/2012, la quale ha
resistito all’impugnativa esperita dalla Vi. (cfr. sent. n.
967/2016 in atti).
...
6 - In limine litis, va dichiarata l’inammissibilità
del ricorso introduttivo proposto avverso il parere
formulato dal responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del
Decreto Legislativo 18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1.
Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e
al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere
richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica,
del responsabile del servizio interessato e, qualora
comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non
intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo,
devono darne adeguata motivazione nel testo della
deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi
pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro
assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in
un vizio di legittimità - cfr. Cons. Stato, Sez. V,
11.06.2013 n. 3236 che richiama quali precedenti conformi
Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez IV, 22.06.2006,
n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), è dirimente
rimarcare la natura non vincolante del parere tecnico, dal
quale (come la norma precisa) la Giunta e il Consiglio
possono discostarsi, sia pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione
endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è
inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione
giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria
per la nascita dell'interesse a ricorrere (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2024 n. 919 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI:
Accesso civico, illegittimo il «no» all’istanza sull’esecuzione
di un’opera pubblica.
Consentito a chiunque di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
Fatti salvi i limiti (di stretta interpretazione) sanciti dall’articolo
5-bis del Dlgs 39/2013, l’accesso civico generalizzato consente a chiunque
di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione obbligatoria per consentire la partecipazione al
dibattito pubblico e il controllo democratico dell’attività amministrativa,
senza necessità di verificare la legittimazione del soggetto richiedente.
Di conseguenza, nel caso di un'istanza riguardante l'accesso alle fasi di un
procedimento di esecuzione di un'opera pubblica, il Comune non può
evocare l'ipotesi di abuso del diritto all'accesso civico generalizzato e
opporre un diniego all'istanza per il fatto di ritenerla strumentale,
pretestuosa
e d'intralcio al buon funzionamento degli uffici dell'ente.
Lo ha stabilito
il
Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
02.02.2024 n. 1117.
Il fatto
Nel caso
in esame alcuni cittadini si erano rivolti a un Comune campano per acquisire
una fitta mole di documentazione relativa alla progettazione ed esecuzione
di un intervento di riqualificazione di un edificio storico, parzialmente
finanziato dal ministero dell'Interno.
I cittadini si dolevano di una
presunta e
improvvisa trasformazione delle modalità dell'intervento (da miglioramento
sismico e messa in sicurezza a integrale
demolizione e successiva ricostruzione del plesso), per cui formulavano
istanza all'ente locale per ottenere
l'estrazione di copia di tutti i documenti relativi all'intervento in
questione, e in particolare:
- i pareri allegati al progetto
definitivo ed esecutivo;
- la corrispondenza intercorsa tra il Comune
beneficiario del finanziamento e il ministero che
lo erogava;
- le attestazioni e/o dichiarazioni rese dal sindaco o dal Rup in
merito all'ottenimento del finanziamento;
-
l'accordo/convenzione/contratto stipulato tra il Comune e l'ente
finanziatore.
A fronte di una siffatta istanza il
Comune opponeva un reiterato diniego evocando la figura giuridica dell'abuso
del diritto all'accesso civico
generalizzato in quanto il gruppo di cittadini, ad avviso
dell'amministrazione, fondava le proprie richieste
esclusivamente su mere e indimostrate illazioni circa la possibile perdita
del finanziamento ministeriale.
L'ente
aggiungeva poi che l'ampia e ingiustificata ostensione documentale sarebbe
stata causa di intralcio al buon
funzionamento della Pa. Al che gli interessati impugnavano il diniego
dell'ente e il Tar Campania (Sezione II,
decisione n. 1618/2023) accoglieva il ricorso censurando in toto l'operato
comunale.
La carenza di motivazione
I
giudici hanno osservato che la motivazione addotta dall'ente nel
provvedimento di diniego non ha indicato le ragioni
ostative all'accesso generalizzato, tenuto conto del fatto che, in relazione
all'articolo 5-bis «il legislatore non opera,
come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva
individuazione di esclusioni all'accesso
generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere
effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per
caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di
altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
13.02.2024).
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SENTENZA
L’appello non è fondato.
Con un primo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error
in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l.
07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e
s.m.i. - difetto e, comunque, erroneita’ della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, il giudice di primo grado avrebbe errato
nel disattendere l’eccezione di inammissibilità, formulata dal comune in
primo grado e fondata sul rilevo della mancata impugnazione, nei termini di
legge, dell’unico e solo provvedimento di diniego espresso, emesso dal
Responsabile dell’U.T.C. con nota prot. del 24.11.2022, atteso che la
successiva nota del Responsabile dell’U.T.C. prot. n. 786 del 14.02.2023
costituirebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, un
atto meramente confermativo del precedente diniego prot. n. 6138 del
24.11.2022.
La premessa, da cui muove il comune appellante, è quella secondo cui la mera
reiterazione di una richiesta di accesso agli atti, già oggetto di un
provvedimento di rifiuto, che non sia basata su elementi nuovi rispetto alla
richiesta originaria o su una diversa prospettazione dell’interesse a base
della posizione legittimante l’accesso, non vincola l’amministrazione ad un
riesame della stessa e rende legittimo e non autonomamente impugnabile il
provvedimento meramente confermativo del precedente rigetto.
Dall’accoglimento di tale premessa la parte appellante fa pertanto
discendere l’inammissibilità del ricorso di primo grado, essendo stato lo
stesso esperito a fronte di un atto meramente confermativo del primo
diniego, non impugnato.
L’assunto della parte appellante, pur essendo astrattamente condivisibile,
in quanto conforme alla constante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons.
St., Sez. IV, 13.01.2020 n. 279 e, nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV,
22.09.2020 n. 5549), non può trovare applicazione alla fattispecie oggetto
del presente giudizio, in relazione alla quale, contrariamente a quanto
ritenuto nel primo motivo di appello, non viene in rilievo una mera
reiterazione della prima richiesta di accesso documentale, in assenza di
nuovi elementi, ma una nuova richiesta di accesso basata sul diverso
istituto dell’accesso civico generalizzato.
L’accesso civico generalizzato, come noto, costituisce un diritto
fondamentale che contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti
fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato rinviene,
infatti, fondamento, oltre che nella Carta costituzionale (artt. 1, 2, 97 e
117) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42),
anche nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione include
la libertà di ricevere informazioni e le eventuali limitazioni, per tutelare
altri interessi pubblici e privati in conflitto, sono solo quelle previste
dal legislatore, risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva
di legge.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a
ricercare informazioni, quale diritto che consente la partecipazione al
dibattito pubblico e di conoscere i dati e le decisioni delle
amministrazioni al fine di rendere possibile quel controllo “democratico”
che l’istituto intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative
consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza
tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione
(accountability) della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non occorre verificare,
così come per l’accesso documentale, la legittimazione dell’accedente, né è
necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente, contrariamente a
quello documentale, a “chiunque” di visionare ed estrarre copia
cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto
di pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n.
33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità
generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti
sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo
del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right
to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti
esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge, mentre
l’accesso documentale (e ancor di più quello difensivo) risponde al
paradigma del “need to know”, con tutto ciò che ne consegue in punto
di
Dalle considerazioni che precedono emerge la netta distinzione, sul piano
strutturale e funzionale, tra l’istituto dell’accesso documentale e quello
civico generalizzato, da cui ulteriormente discende la legittima facoltà di
azionare il secondo anche quando non sussistono ( o non sussistono più) i
presupposti per esercitare il primo.
Con un secondo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error
in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l.
07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e
s.m.i. - difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, la sentenza di primo grado sarebbe erronea
per avere il giudice di primo grado apoditticamente ritenuto “sussistenti”
tutti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di accesso ai sensi
dell’art. 5, d.lgs. n. 33/2013.
Ciò, in quanto l’istanza di accesso del 02.02.2023 e, ancor di più, la
successiva domanda giurisdizionale, lungi dal raggiungere un benché minimo
grado di concretezza, sarebbero fondate soltanto su mere e indimostrate “illazioni”
circa la possibile perdita del finanziamento e come tali si rileverebbero
del tutto pretestuose.
Inoltre, tali richieste di accesso sarebbero state formulate in modo del
tutto disfunzionale rispetto alla finalità che si propongono di realizzare,
trasformandosi, in ragione dell’ampia e ingiustificata ostensione
documentale, in una causa di intralcio al buon funzionamento della P.A.,
tale da compromettere lo svolgimento degli ordinari compiti di ufficio che
già spettano al funzionario comunale
Il motivo non è fondato.
Per individuare l’ambito di estensione e gli eventuali limiti dell’accesso
civico generalizzato si possono richiamare i principi espressi nel parere
della sez. I del Consiglio di Stato 30.03.2021, n. 545.
È stato in precedenza ricordato che l’accesso civico “generalizzato”
consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o
informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione obbligatoria (art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa
dimostrazione di un interesse, concreto e attuale in relazione con la tutela
di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal
senso (tra le tante, Cons. Stato,
sez. V, 04.01.2021, n. 60; sez. VI, 05.10.2020, n. 5861).
E’ stato precisato (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861) che
con l’accesso civico generalizzato il legislatore ha inteso superare
il divieto di controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche
amministrazioni, su cui è incentrata la disciplina dell’accesso di cui agli
artt. 23 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, così che l’interesse individuale alla
conoscenza è protetto in sé, ferme restando le eventuali contrarie ragioni
di interesse pubblico o privato di cui alle eccezioni espressamente
stabilite dalla legge a presidio di determinati interessi ritenuti di
particolare rilevanza per l’ordinamento giuridico.
E’ stato altresì puntualizzato che il rapporto tra le due
discipline (dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato,
oltre il rapporto tra tali due discipline generali e quelle settoriali) deve
essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca,
quanto piuttosto di inclusione/completamento, finalizzato all’integrazione
dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella
diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse
coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia
delle singole discipline (cfr.
Adunanza Plenaria 10/2020).
La regola della generale accessibilità è peraltro temperata
dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati
che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune
informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono
state classificate in assolute e in relative e al loro
ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel secondo)
rifiutare l'accesso.
Le eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato sono quelle
individuate all'art. 5-bis, comma 3
(segreto di Stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti
dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti,
inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990),
mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del
medesimo articolo (la sicurezza
pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le
questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità
finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e
il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive; la
protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa
in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi
economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la
proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida
Anac, adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016
(recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso
civico generalizzato), è stato chiarito che il legislatore
non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva
individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una
attività valutativa che deve essere effettuata dalle Amministrazioni con la
tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla
disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi
presi in considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta
accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione degli atti
possa comunque determinare un pericolo di concreto pregiudizio agli
interessi indicati dal Legislatore.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Collegio rileva che dalla
analisi della motivazione del provvedimento di diniego si ricava l’assenza
di qualsivoglia riferimento ad una delle suindicate ragioni che precludono i
diritti all’accesso generalizzato.
Più in radice, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, in
riferimento all’istanza presentata ai sensi dell’accesso civico
generalizzato, di fatto, il comune non si è proprio pronunciato. Il che
appare già sufficiente per la conferma della sentenza impugnata.
Peraltro, nemmeno può essere condiviso l’assunto che, nel caso in esame, si
verserebbe nell’ipotesi di abuso del diritto all’accesso civico
generalizzato.
Come noto, l’abuso del diritto, secondo la definizione più
accreditata anche in dottrina, consiste nella deviazione dell'esercizio del
diritto rispetto allo "scopo" per il quale il diritto stesso è stato
riconosciuto.
Orbene, dalla natura degli atti richiesti al Comune di Cotrone (relativi al
procedimento di riqualificazione di un edificio storico) emerge,
contrariamente a quanto ritenuto dal comune appellante, non solo la
ragionevole esigenza conoscitiva dei ricorrenti in primo grado, ma, venendo
in rilievo l’utilizzo di risorse pubbliche, anche la conformità della
richiesta documentale alle finalità cui è preordinata la previsione dello
strumento dell’accesso civico generalizzato, che, come anticipato, mira, a
favorire forme di diffuse di controllo sull’ esercizio dei pubblici poteri.
Il riferimento, infine, alla possibile paralisi dell’ufficio tecnico
comunale a fronte della massiva richiesta di accesso, costituisce, ad avviso
del Collegio, una inammissibile integrazione in giudizio della motivazione
del provvedimento di diniego dell’accesso.
Il maggioritario e condivisibile indirizzo interpretativo
del Consiglio di Stato assume, infatti, l’inammissibilità della motivazione
postuma (specie quando, come nel caso in esame, avviene per il tramite degli
scritti difensivi), ritenendola in contrasto anche con le regole del giusto
procedimento amministrativo.
Tale condivisibile orientamento trae ulteriore argomento
dalla condivisibile considerazione per cui «il difetto di motivazione nel
provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di
norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di
legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento
ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non
invalidanti» (ex plurimis,
Consiglio di Stato, sezione terza, 07.04.2014, n. 1629; sezione sesta,
22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247; sezione quinta,
27.03.2013, n. 1808).
L’indirizzo giurisprudenziale in esame ha ricevuto, inoltre, l’autorevole
avallo della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato, con l’ordinanza
26.05.2015, n. 92, la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della n. 241 de
1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo
comma, della Costituzione, da una sezione giurisdizionale regionale della
Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che la rimettente si era sottratta
al doveroso tentativo di sperimentare l’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione censurata, chiedendo un improprio avallo a una
determinata interpretazione della norma censurata.
Dalle considerazioni che precedono discende il respingimento dell’appello
con conseguente conferma della sentenza impugnata. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Obbligo per la Pa di adottare il provvedimento espresso anche quando gode di
ampia discrezionalità.
Non può si può applicare la preclusione prevista per gli atti amministrativi
generali.
L’amministrazione può essere condannata all’adozione di un provvedimento
espresso anche laddove il potere sia connotato da ampia discrezionalità.
Lo
afferma la III Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 01.02.2024 n. 1061.
Il caso
A seguito della carenza di organico presso un ufficio del giudice di
pace, alcuni enti e avvocati hanno rivolto istanza al ministero della
giustizia
affinché coprisse i posti in pianta organica e avviasse la procedura di
rideterminazione della stessa.
Non avendo il ministero fornito risposta,
hanno impugnato il silenzio-inadempimento, che il Tar Toscana ha dichiarato
inammissibile perché si tratta di attività ampiamente discrezionale in
quanto
diretta a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate.
Il Consiglio di
Stato,
a cui è passata la vertenza, ricorda in premessa il costante orientamento
giurisprudenziale, che costituisce principio generale, secondo cui è obbligo
della Pa adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto
interessato anche se si ritiene che la domanda sia irricevibile,
inammissibile,
improcedibile o infondata, non potendo la Pa rimanere inerte.
La
discrezionalità
L'applicazione al caso di specie di tali coordinate
ermeneutiche induce i giudici di Palazzo Spada a dichiarare fondato
l'appello. Non può infatti essere applicata la
preclusione prevista per gli atti amministrativi generali, che non deve
essere intesa in senso assoluto, acritico e
generalizzato, posto che la sua ratio risiede nella impossibilità di
individuare specifici destinatari in capo ai quali
possa radicarsi una posizione giuridica qualificata e differenziata di
interesse legittimo.
Non è questo il caso
proposto dall'appello, riferito a specifiche interruzioni dei servizi
giudiziari che avevano precluso l'efficace esercizio
della professione forense.
D'altro canto, l'articolo 2 del Dlgs 165/2001 impone alle Pa di determinare
le dotazioni
organiche inspirando la loro organizzazione al criterio di funzionalità
rispetto ai compiti e ai programmi di attività;
l'articolo 6 inoltre dispone che in sede di definizione del piano dei
fabbisogni di personale l'amministrazione indichi la
consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in
base ai fabbisogni programmati.
È del
tutto evidente, dunque, che sull'istanza l'amministrazione avrebbe dovuto
pronunciarsi con un provvedimento
espresso, ancorché connotato da ampio margine di discrezionalità.
Ma in virtù di tale margine, il giudice non può
spingersi a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici
amministrativi, può solo ordinare al ministero di
dare pieno riscontro all'istanza originaria. Ed è quello che fa
nell'accogliere l'appello: accerta il silenzio-inadempimento
del ministero e lo condanna a provvedere sull'istanza nel termine di trenta
giorni (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).
---------------
SENTENZA
1. A seguito di una situazione di carenza di organico presso l’ufficio del
giudice di pace di Prato, che ha condotto ad una sensibile riduzione dei
servizi (sospensione del servizi di iscrizione a ruolo dei decreti per
ingiunzione di pagamento), gli enti e i singoli avvocati indicati in
epigrafe hanno rivolto istanza al Ministero della Giustizia affinché
coprisse i posti in pianta organica ed avviasse la procedura di
rideterminazione della stessa.
Non avendo il Ministero fornito risposta, hanno impugnato davanti al TAR
della Toscana il silenzio-inadempimento.
Il TAR della Toscana, con la sentenza gravata nel presente giudizio, ha
dichiarato “inammissibile
l’azione proposta”, sia perché
trattasi di attività “ampiamente discrezionale” (la prima), sia
perché, ove si volesse intendere l’istanza come rivolta “all’emanazione
dei cd. atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico”, si
profilerebbe un difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
I ricorrenti hanno impugnato la sentenza con ricorso in appello.
...
2. Il gravame censura la sentenza di primo grado anzitutto per travisamento
dell’atto di diffida, in punto di qualificazione data alla pretesa dal primo
giudice, il che ha reso la pronuncia “incomprensibile ed illogica”.
Il TAR avrebbe quindi male inteso ed applicato il precedente in termini
costituito dalla sentenza del TAR Abruzzo n. 46 del 2023, non impugnata
dall’amministrazione e passata in autorità di cosa giudicata, che ha accolto
analogo ricorso.
3. Per quanto riguarda l’istanza volta alla copertura dei posti in pianta
organica, il TAR, richiamando la citata sentenza n. 46 del 2023 del TAR
dell’Abruzzo, ha affermato che “il precedente giurisprudenziale sopra
richiamato ha, infatti, concluso per la natura ampiamente discrezionale
della verifica in ordine all’adeguatezza delle risorse amministrative
assegnate all’Organo giudiziario e la conseguenziale impossibilità di
ordinare al Ministero la copertura degli organici: “poiché la verifica
dell’adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici amministrativi
costituisce esercizio di attività ampiamente discrezionale e avviene con
cadenza periodica, il collegio non può ordinare, come richiesto dal
ricorrente, al Ministero di provvedere alla copertura della dotazione
organica cristallizzata nel d.m. 05.11.2009” (TAR Abruzzo L’Aquila,
21.03.2023, n. 46).
Con tutta evidenza, siamo pertanto nel solco della giurisprudenza citata
nella memoria dell’Amministrazione resistente e che ha escluso il possibile
ricorso al processo speciale in materia di silenzio della p.a. con
riferimento a provvedimenti generali o pianificatori caratterizzati dalla
natura ampiamente discrezionale (Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2017, n. 6096;
sez. V, 09.03.2015, n. 1182; sez. IV, 05.03.2013, n. 1349) e dalla mancanza
di un conseguenziale obbligo di provvedere giudizialmente coercibile”.
Nello stesso ordine di idee l’amministrazione appellata in memoria ha
affermato che la domanda di copertura della pianta organica “è atto
complesso ad alto contenuto discrezionale, implicante non soltanto atti di
gestione, come assunto nell’appello”; analogamente, “il silenzio
sulla domanda di modifica della pianta organica —domanda che emerge dagli
atti, anche se praticamente abbandonata nel corso del giudizio introduttivo
e non coltivata nell’appello— non è azionabile in ragione della natura
giuridica degli atti di rideterminazione delle piante organiche”.
4. Va in proposito osservato che -contrariamente ai più risalenti arresti,
soprattutto di primo grado, richiamati in senso opposto dalla motivazione
della sentenza gravata- per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato (da ultimo sentenze n. 4415/2023, n. 5206/2023 e n. 7912/2023) “il
rito previsto dagli artt. 31 e 117 c.p.a. rappresenta infatti sul piano
processuale lo strumento rimediale per la violazione della regola
dell'obbligo di agire in via provvedimentale sancita dall'art. 2, L. n. 241
del 1990”.
La violazione della citata disposizione che, sul piano sostanziale, ha
sancito l’obbligo per l’amministrazione di agire in via provvedimentale,
costituisce pertanto il presupposto del rimedio processuale in questione.
L’obbligo per la pubblica amministrazione di agire in via provvedimentale,
discendente dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, ha ad oggetto anche
l’attività discrezionale (ad eccezione delle categorie di provvedimenti che
solitamente la giurisprudenza esclude non già in quanto discrezionali, ma
perché sottratti per altre caratteristiche strutturali o funzionali
all’obbligo di provvedere: sul punto si tornerà al successivo punto 5.).
5. La sentenza di questa Sezione n. 7548/2022 ha in proposito precisato che
“Per costante orientamento giurisprudenziale,
costituisce principio generale, riconducibile ai canoni di trasparenza e
buona amministrazione ex art. 97 Cost. ed alla disposizione normativa di cui
all'art. 2, comma 3 della L. n. 241 del 1990, quello secondo cui è obbligo
della Pubblica Amministrazione adottare un provvedimento espresso
sull'istanza del soggetto interessato
(cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 14.12.2004, n. 7955).
Ciò anche al fine di assicurare la trasparenza dell'azione
e dei comportamenti dell'Amministrazione e favorire lo svolgimento
imparziale del procedimento (cfr.
Cons. Giust. Amm. Sicilia, 08.11.2005, n. 747).
L'obbligo dell'amministrazione pubblica di provvedere sulle
istanze del privato con un provvedimento formale corrisponde ad un principio
di civiltà giuridica, codificato dalla legge generale sul provvedimento
amministrativo 07.08.1990, n. 241 art. 2, che trasmette un forte segnale in
ordine alla doverosità dell'espresso agire della pubblica amministrazione,
collegato al necessario raggiungimento della definizione, in senso positivo
o negativo, di quella quota di interesse sostanziale concretamente messo in
moto dall'atto di impulso del privato ed in esso soggettivizzata
(cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, 04.10.2010, n. 32659).
In presenza di una formale istanza l'Amministrazione è
tenuta a concludere il procedimento, e ciò anche se ritiene che la domanda
sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo
rimanere inerte. Il legislatore, infatti, ha imposto al soggetto pubblico di
rispondere alle istanze private, sancendo l'esistenza di un dovere che
rileva ex se quale diretta attuazione dei principi di correttezza, buon
andamento e trasparenza, consentendo altresì alle parti, attraverso
l'emanazione di un provvedimento espresso, di tutelare in giudizio i propri
interessi a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2022, n. 1283; Cons. Stato, Sez. III,
13.07.2021, n. 5284; Cons. Stato. Sez. III, 19.04.2018, n. 2370; Cons.
Stato, Sez. III, 18.05.2020, n. 3118)”.
In senso analogo si è espressa la sentenza della VI sezione di questo
Consiglio di Stato, n. 2420/2022: “Ogniqualvolta la
realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda
dall'intermediazione del pubblico potere, l'Amministrazione, in particolare,
è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia
questione di procedimenti ad istanza di parte e l'organo procedente ravvisi
ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda:
l'attuale formulazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 241 del 1990, pure in
caso di "manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità … della
domanda", impone l'adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in
tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non
giustificandosi una condotta meramente inerte.
Il silenzio-inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di
posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un'utilità
giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non
necessitante dell'intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al
patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente”.
6. L’applicazione alla fattispecie dedotta di tali coordinate ermeneutiche
depone nel senso della fondatezza del gravame. |
APPALTI:
Gare telematiche e malfunzionamenti delle piattaforme: le
indicazioni del Tar.
È tutto da verificare l’impatto positivo sul contenzioso delle competizioni
digitali: resta la ancora la prassi che trasforma ogni gara in una sorta di
“caccia all’errore” e sulla disomogeneità degli orientamenti
giurisprudenziali.
Due recenti sentenze del Tar Sicilia e del Tar Campania hanno affermato
alcuni importanti principi in relazione allo svolgimento delle gare
telematiche, con particolare riferimento alle ipotesi di malfunzionamento
delle piattaforme digitali e dell’individuazione delle relative conseguenze.
Nello
specifico, il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.02.2024
n. 383 [1], ha affermato che il
meccanismo di sospensione e proroga del termine di presentazione
telematica dell'offerta previsto dalle norme opera soltanto nel caso in cui
il
malfunzionamento della piattaforma sia imputabile alla stazione appaltante
ovvero vi sia un'incertezza assoluta in ordine alle cause che hanno
determinato il ritardo nell'invio dell'offerta.
Al contrario, la sospensione
o la
proroga non trovano spazio nel caso in cui sia provata la negligenza del
concorrente il quale, ancorché messo a conoscenza delle modalità tecniche
di presentazione dell'offerta telematica e dell'opportunità di operare con
congruo anticipo, non si sia attivato tempestivamente.
Il TAR Campania-Napoli, Sez.
I,
sentenza 01.02.2024 n. 800 [2],ha invece sancito l'illegittimità
dell'esclusione del
concorrente che abbia operato il caricamento della documentazione di gara
sulla piattaforma telematica entro l'orario prefissato ma non sia riuscito a
finalizzarne l'invio a causa di un
rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente stesso.
Ciò anche
in considerazione dell'esiguo ritardo (8
secondi) con cui l'invio è stato finalizzato rispetto all'orario ultimo
indicato nel disciplinare di gara.
Il Tar Sicilia: il
malfunzionamento della piattaforma
Un ente appaltante aveva indetto una
procedura aperta per l'affidamento di un
accordo quadro relativo al servizio di gestione di centri di accoglienza per
cittadini stranieri.
Il disciplinare di gara
prevedeva che l'intera procedura si svolgesse attraverso una procedura
telematica che prevedeva che la
documentazione di offerta dovesse essere trasmessa tramite una piattaforma
informatica messa a disposizione
dall'ente appaltante. Un concorrente ricorreva al giudice amministrativo
denunciando che non era stato messo nelle
condizioni di partecipare alla procedura di gara.
Evidenziava infatti che
entro l'orario indicato nel disciplinare di gara
era riuscito a caricare la documentazione richiesta, ma che successivamente
non aveva potuto presentare l'offerta
in ragione di un blocco della piattaforma, che aveva dato luogo a una
momentanea indisponibilità del servizio
telematico. In considerazione di tale circostanza il concorrente presentava
istanza all'ente appaltante per la
riapertura del termine di presentazione dell'offerta.
Tale istanza veniva
respinta sulla base dell'assunto secondo cui
lo stesso disciplinare di gara stabiliva che l'inserimento della
documentazione nel sistema rimaneva a rischio
esclusivo del concorrente e che, in questa logica, i concorrenti erano
tenuti ad avviare le attività di caricamento della
documentazione di gara con congruo anticipo rispetto alla scadenza prevista,
proprio per non trovarsi
nell'impossibilità di completare la trasmissione dell'offerta nel termine
prescritto.
In sede di ricorso il concorrente replicava a queste argomentazioni
evidenziando che nessuna censura poteva
essere mossa al suo comportamento, posto che lo stesso aveva provveduto al
caricamento della documentazione
nei termini previsti, e che esclusivamente l'invio dell'offerta non era
avvenuto entro la scadenza stabilita a causa di
un malfunzionamento del sistema.
Di conseguenza la scelta dell'ente
appaltante di non procedere a una proroga del
termine di presentazione dell'offerta doveva considerarsi illegittima, in
quanto assunta in violazione da un lato di
un'esplicita previsione del disciplinare di gara che la consentiva, e
dall'altro dei principi generali di tutela
dell'affidamento, raggiungimento del risultato, accesso al mercato e di
buona fede richiamati negli articoli di
apertura del D.lgs. 36/2023. La proroga del termine di presentazione
dell'offerta.
Il Tar Sicilia ricorda preliminarmente
il quadro normativo di riferimento.
Con previsioni sostanzialmente analoghe,
sia il D.lgs. 50/2016 (articolo 79,
comma 5-bis) che il D.lgs. 36/2023 (articolo 25, comma 2), stabiliscono che
nel caso di malfunzionamento anche
temporaneo delle piattaforme informatiche le stazioni appaltanti devono
garantire la partecipazione alla gara dei
concorrenti, anche eventualmente disponendo la sospensione del termine di
presentazione delle offerte per il
periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la
proroga dello stesso per una durata
proporzionale alla gravità del malfunzionamento.
In relazione a queste
previsioni è indubbio che se il concorrente
non riesce a trasmettere l'offerta entro il termine prestabilito a causa di
un malfunzionamento del sistema
informatico imputabile alla stazione appaltate ha diritto di essere
riammesso in termini ai fini della presentazione
dell'offerta. Tale diritto sussiste anche nell'ipotesi in cui vi siano
incertezze in merito alla causa del mancato invio,
nel senso che non si riesca a determinare se lo stesso dipenda
effettivamente dalla stazione appaltante o dal
concorrente che non si è attivato per tempo al fine di rispettare il
termine, considerati i meccanismi di
funzionamento delle piattaforme informatiche.
In sostanza, se la rimessione
in termini è naturalmente dovuta nel
caso di malfunzionamento del sistema oggettivamente ascrivibile alla
stazione appaltante, su quest'ultima ricade
anche il rischio della causa ignota del malfunzionamento. Al contrario,
nessun diritto alla rimessione in termini sorge
in capo al concorrente nel caso in cui il ritardo nella presentazione
dell'offerta sia ascrivibile a una comprovata
negligenza dello stesso.
In questo senso la giurisprudenza amministrativa ha
ripetutamente evocato il principio
dell'autoresponsabilità dei concorrenti nelle gare telematiche, secondo cui
gli stessi sopportano le conseguenze di
eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione di
offerta.
In applicazione di tale principio la
stessa giurisprudenza ha precisato che grava sul concorrente l'onere di
attivarsi tempestivamente ai fini della
presentazione della documentazione di gara e in particolare dell'offerta, in
modo da capitalizzare i tempi. Più nello
specifico, è stato affermato che nelle gare telematiche è richiesta ai
concorrenti una particolare diligenza, nel senso
che la sua capacità informatica e l'attenta lettura delle istruzioni sul
funzionamento della piattaforma, nonché i
fisiologici rallentamenti del traffico informatico, devono indurre i
concorrenti stessi a gestire e per quanto possibile
prevenire i possibili e limitati inconvenienti di malfunzionamento della
piattaforma.
Applicando questi principi al caso di specie, il Tar Sicilia ha
ritenuto che il concorrente non avesse assolto all'onere di attivazione
tempestiva
e con la dovuta diligenza ai fini della presentazione dell'offerta su
piattaforma informatica. Infatti, lo stesso non ha
mai generato e caricato il documento contenente l'offerta economica, e
proprio per questo il sistema lungi
dall'essersi bloccato ha più volte segnalato allo stesso concorrente
l'impossibilità di procedere.
In sostanza, l'analisi
di quanto avvenuto ha portato il Tar Sicilia a ritenere che non vi sia stato
un blocco o malfunzionamento del sistema,
quanto piuttosto la corretta segnalazione al concorrente dell'impossibilità
di procedere a causa del mancato
caricamento di un documento da parte dello stesso.
Ne consegue che la
mancata presentazione dell'offerta nei
termini previsti è imputabile esclusivamente al comportamento tenuto dal
concorrente, non sussistendo quindi i
presupposti per la rimessione in termini, che è stata legittimamente negata
dall'ente appaltante.
Il Tar Campania: lo
sforamento (minimale) del termine di presentazione delle offerte
La vicenda
esaminata dal Tar Campania riguarda
una procedura di gara telematica per l'affidamento di un appalto integrato
di lavori.
La stazione appaltante aveva
disposto l'esclusione di un concorrente in quanto non aveva provveduto al
completo caricamento della
documentazione di gara entro il termine previsto dal disciplinare.
L'esclusione veniva impugnata davanti al giudice
amministrativo dal concorrente, che evidenziava come nonostante l'avvenuto
caricamento della documentazione di
offerta nel termine prestabilito il sistema non aveva consentito il
completamento della procedura attraverso la
ricezione positiva dell'invio con il tasto conferma poiché risultava
superato il termine di soli otto secondi.
Secondo il
ricorrente l'esiguità del ritardo rilevato avrebbe imposto all'ente
appaltante di adottare il principio di proporzionalità
nella valutazione dell'evento, evitando quindi di procedere all'esclusione.
Il Tar Campania ha accolto il ricorso.
Il
giudice amministrativo ha infatti in primo luogo osservato che nel termine
indicato nel disciplinare di gara il
ricorrente aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l'intera
documentazione di offerta, in adempimento agli
obblighi procedurali imposti ai concorrenti.
Al riguardo, non può essere
imputato al concorrente di essersi attivato
per iniziare il caricamento con solo due ore di anticipo rispetto all'orario
di scadenza. Infatti il disciplinare non
prevedeva alcun termine iniziale, e d'altro canto il tempo residuo per
completare il caricamento doveva considerarsi
congruo rispetto all'ordinario funzionamento delle piattaforme informatiche.
Di conseguenza, non può essere
imputato al concorrente il mancato ricevimento della conferma all'invio nel
termine ultimo stabilito per la
presentazione dell'offerta, poiché si tratta di un ritardo del sistema
presumibilmente dovuto al notevole traffico di
dati verificatosi nella fase finale della procedura di caricamento.
Peraltro, attribuire un effetto escludente a un ritardo
di soli otto secondi risulta contrario al principio di proporzionalità, in
quanto produce il massimo della sanzione
l'esclusione dalla gara nei confronti di un concorrente che in realtà aveva
completato il caricamento nei tempi
dovuti, ma non era riuscito a finalizzarlo (per soli otto secondi) a causa
di un rallentamento del sistema.
Il
contenzioso nelle gare telematiche Le due pronunce esaminate offrono
interessanti indicazioni sulle modalità di
svolgimento delle gare telematiche, tanto più importanti in un momento in
cui il ricorso alle stesse rappresenta la scelta ordinaria per procedere
agli affidamenti.
Le stesse pronunce fanno tuttavia
emergere un dato. Le gare telematiche dovrebbero accelerare e rendere più
fluido lo svolgimento delle procedure di
gara, anche assicurando una più efficace tracciabilità dei relativi
adempimenti. Sotto questo profilo, la funzione che
si immaginava potessero assolvere era anche quella di una auspicabile
riduzione del contenzioso. In realtà
quest'ultimo obiettivo sembra raggiunto solo in parte. Ne sono evidenza le
due pronunce esaminate, che giungono a
conclusioni diverse in relazione a due casi sostanzialmente analoghi.
Ciò
che muta è piuttosto la natura del
contenzioso, che viene a concentrarsi essenzialmente sul funzionamento (o
malfunzionamento) della piattaforma
informatica. Ma è tutto da verificare quanto ciò riuscirà ad incidere sulla
consolidata prassi che trasforma ogni gara
in una sorta di caccia all'errore e sulla disomogeneità degli orientamenti
giurisprudenziali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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[1] TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.02.2024
n. 383
10. Si può prescindere
dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla difesa erariale,
atteso che il ricorso è infondato e va rigettato.
Per la loro connessione logica e funzionale le censure articolate con il
mezzo di tutela all’esame possono essere esaminate congiuntamente.
Osserva preliminarmente il Collegio che l’art 79, comma 5-bis, del D.lgs.
50/2016 prevedeva che "Nel caso di presentazione delle offerte attraverso
mezzi di comunicazione elettronici messi a disposizione dalla stazione
appaltante ai sensi dell'articolo 52, ivi incluse le piattaforme telematiche
di negoziazione, qualora si verifichi un mancato funzionamento o un
malfunzionamento di tali mezzi tale da impedire la corretta presentazione
delle offerte, la stazione appaltante adotta i necessari provvedimenti al
fine di assicurare la regolarità della procedura nel rispetto dei principi
di cui all'articolo 30, anche disponendo la sospensione del termine per la
ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il
normale funzionamento dei mezzi e la proroga dello stesso per una durata
proporzionale alla gravità del mancato funzionamento. Nei casi di
sospensione e proroga di cui al primo periodo, la stazione appaltante
assicura che, fino alla scadenza del termine prorogato, venga mantenuta la
segretezza delle offerte inviate e sia consentito agli operatori economici
che hanno già inviato l'offerta di ritirarla ed eventualmente sostituirla.
La pubblicità di tale proroga avviene attraverso la tempestiva pubblicazione
di apposito avviso presso l'indirizzo Internet dove sono accessibili i
documenti di gara, ai sensi dell'articolo 74, comma 1, nonché attraverso
ogni altro strumento che la stazione appaltante ritenga opportuno. In ogni
caso, la stazione appaltante, qualora si verificano malfunzionamenti, ne dà
comunicazione all'AGID ai fini dell'applicazione dell'articolo 32-bis del
decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, recante codice dell'amministrazione
digitale".
L’art. 25, comma 2, del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 stabilisce invece che “Le
stazioni appaltanti e gli enti concedenti utilizzano le piattaforme di
approvvigionamento digitale per svolgere le procedure di affidamento e di
esecuzione dei contratti pubblici, secondo le regole tecniche di cui
all'articolo 26. Le piattaforme di approvvigionamento digitale non possono
alterare la parità di accesso degli operatori, né impedire o limitare la
partecipazione alla procedura di gara degli stessi ovvero distorcere la
concorrenza, né modificare l'oggetto dell'appalto, come definito dai
documenti di gara. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano
la partecipazione alla gara anche in caso di comprovato malfunzionamento,
pur se temporaneo, delle piattaforme, anche eventualmente disponendo la
sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di
tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la proroga dello
stesso per una durata proporzionale alla gravità del malfunzionamento”.
L’art. 92, comma 2, lettera c), del D.lgs. n. 36/2023 stabilisce infine che
i termini di presentazione delle domande di partecipazione sono prorogati “in
misura adeguata e proporzionale”, nei casi di cui all'articolo 25, comma
2, terzo periodo.
Tanto premesso, alla luce delle citate disposizioni, non è revocabile in
dubbio che se l'operatore economico -il quale si avvale dei mezzi di
comunicazione elettronica messi a disposizione dalla stazione appaltante-
non riesce a trasmettere la propria offerta entro il termine prestabilito a
causa di un malfunzionamento informatico imputabile alla stazione
appaltante, lo stesso ha evidentemente diritto da essere rimesso in termini
per la presentazione dell'offerta.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che anche ove non
sia possibile stabilire con certezza se vi sia stato un errore da parte del
singolo operatore economico, ovvero se la trasmissione dell'offerta sia
stata impedita da un vizio del sistema informatico imputabile alla stazione
appaltante, le conseguenze degli esiti anormali del sistema non possono
andare a detrimento dei partecipanti, stante la natura meramente strumentale
del mezzo informatico (Consiglio di Stato, sezione III, 28.12.2020, n. 8348,
Consiglio di Stato, sezione III, 07.01.2020, n. 86 e Consiglio di Stato,
sezione V, 20.11.2019, n. 7922), nonché i principi di par condicio e
di favor partecipationis.
Ne discende che il diritto alla rimessione in termini del singolo operatore
economico (il quale non sia riuscito ad inviare in tempo l'offerta o la
domanda di partecipazione) sorge, non soltanto in caso di comprovato
malfunzionamento della piattaforma digitale della stazione appaltante, ma
anche in caso di incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio (e
cioè se per colpa della stazione appaltante oppure del singolo operatore
economico che non si è attivato per tempo).
In definitiva, il rischio della "causa ignota" del malfunzionamento
informatico ricade sulla stazione appaltante.
Nessun diritto alla rimessione in termini può essere riconosciuto, invece,
in caso di comprovata negligenza del singolo operatore economico.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evocato il
principio di autoresponsabilità, e ciò con specifico riguardo alla
partecipazione alle procedure di evidenza pubblica che si svolgono mediante
la presentazione telematica dell'offerta. In linea generale, il Consiglio di
Stato ha avuto modo di statuire che ciascuno dei concorrenti "sopporta le
conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e
nella presentazione della documentazione" (Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria, 25.02.2014 n. 9).
A tal proposito, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sezione III,
02.07.2014, n. 3329, 03.07.2017, n. 3245, 03.07.2018, n. 4065 e, da ultimo,
Consiglio di Stato, sezione III, 30.10.2023, n. 9325) ha elaborato il
principio dell'equa ripartizione, tra soggetto partecipante e
amministrazione procedente, del rischio "tecnico" di inidoneo
caricamento e trasmissione dei dati su piattaforma informatica ("rischio
di rete" dovuto alla presenze di sovraccarichi o di cali di performance
della rete, e "rischio tecnologico", dovuto alle caratteristiche dei
sistemi operativi software utilizzati dagli operatori), secondo criteri di
autoresponsabilità dell'utente, sul quale grava l'onere di pronta e
tempestiva attivazione delle procedure, sì da capitalizzare il tempo
residuo, salvi ovviamente i malfunzionamenti del sistema imputabili al
gestore della piattaforma (fermi del sistema, mancato rispetto dei livelli
di servizio, etc.), per i quali invece non può che affermarsi la
responsabilità di quest'ultimo.
In base a questi principi, applicabili al caso di specie in esame, sussiste
"l'esigibilità, per le imprese, d'una peculiare diligenza nella
trasmissione degli atti di gara, compensata dalla possibilità d'uso diretto
della loro postazione informatica", mentre deve escludersi la
possibilità "di predicare [...] l'accollo in capo alla stazione
appaltante dei rischi derivanti dall'uso del modello informatico [...], a
tutto concedere vigendo anche in questo caso le ordinarie regole di
suddivisione della responsabilità per attività rischiose".
Nello specifico: "In tale chiave ricostruttiva, l'esperienza e abilità
informatica dell'utente, la stima dei tempi occorrenti per il completamento
delle operazioni di upload, la preliminare e attenta lettura delle
istruzioni procedurali, il verificarsi di fisiologici rallentamenti
conseguenti a momentanea congestione del traffico, sono tutte variabili che
il partecipante ad una gara telematica deve avere presente, preventivare e
"dominare" quando si accinge all'effettuazione di un'operazione così
importante per la propria attività di operatore economico, non potendo il
medesimo pretendere che l'amministrazione, oltre a predisporre una valida
piattaforma di negoziazione operante su efficiente struttura di
comunicazione, si adoperi anche per garantire il buon fine delle operazioni,
qualunque sia l'ora di inizio delle stesse, prescelto dall'utente, o lo
stato contingente delle altre variabili sopra solo esemplificativamente
indicate" (Consiglio di Stato, sezione III, 24.11.2020 n. 7352; cfr.,
inoltre, Consiglio di Stato, sezione I, 24.01.2020 n. 220).
In sintesi, il meccanismo di sospensione e proroga del termine di
presentazione telematica dell'offerta, già previsto dall’articolo 79, comma
5-bis, D.lgs. n. 50 del 2016 ed ora dall’art. 25, comma 2, terzo periodo,
del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 opera soltanto se (e nella misura in cui)
ricorra almeno una delle due seguenti situazioni:
a) malfunzionamento della piattaforma digitale imputabile alla
stazione appaltante;
b) incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio
dell'offerta (e cioè se per un malfunzionamento del sistema oppure per
negligenza dell'operatore economico).
Viceversa, il ridetto meccanismo di sospensione e proroga non può mai
operare in caso di comprovata negligenza dell'operatore economico, il quale
-benché reso edotto ex ante (grazie a regole chiare e precise
contenute nella lex specialis) delle modalità tecniche di
presentazione telematica dell'offerta e dell'opportunità di attivarsi con
congruo anticipo- non si è invece attivato per tempo.
...
[2] TAR Campania-Napoli, Sez.
I,
sentenza 01.02.2024 n. 800
4.- Le diverse censure, in
considerazione degli oggettivi profili di connessione e sovrapposizione dei
relativi argomenti, possono ricevere sintetica trattazione unitaria.
Il ricorso è fondato.
Il bando di gara, alla Sezione IV: Procedura, al paragrafo IV.3.3), titolato
“Termine per il ricevimento delle offerte”, precisa che “le
offerte dovranno pervenire mediante l’utilizzo della piattaforma telematica
“Net4market” … entro il termine perentorio del 09/10/2023 ora locale:
12:00:00.”.
I fatti riportati dalla ricorrente non sono smentiti dalle amministrazioni
resistenti e sono peraltro confermati da una serie di documenti allegati
agli atti della causa. Pertanto sugli stessi può fondarsi la ricostruzione
certa degli avvenimenti.
Il giorno 09.10.2023, la Ca. SRL, mandataria del costituendo RTI ricorrente,
caricava sulla piattaforma, in ordine cronologico, i seguenti documenti:
- alle ore 11.19.54, il file dell’offerta economica, generato dal
portale e firmato digitalmente da tutti i componenti del costituendo RTI;
- alle ore 11.20.31, la cartella .zip contenente la documentazione
costituente l’offerta temporale, firmata da tutti i componenti del
costituendo RTI;
- alle ore 11.50.31, la cartella .zip contenente la documentazione
amministrativa, firmata da tutti i componenti del costituendo RTI;
- alle ore 11.58.53, la cartella .zip contenente l’offerta tecnica,
firmata esclusivamente dalla mandataria, con all’interno i tre files
prescritti dal disciplinare firmati digitalmente da tutti i componenti del
costituendo RTI.
Risulta quindi che, prima dell’orario stabilito dal bando come termine
finale, la mandataria aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l’intera
documentazione relativa alle offerte, necessaria ai fini della
partecipazione, svolgendo quindi diligentemente gli adempimenti previsti dal
bando.
Ebbene, non può imputarsi alla ricorrente di avere iniziato il caricamento
lo stesso giorno 9, a sole due ore dall’orario di scadenza, atteso che il
bando di gara non imponeva alcun termine iniziale e, in ogni caso, la scelta
del momento in cui iniziare gli adempimenti è da ritenersi del tutto congrua
rispetto ai tempi ordinariamente preventivabili come necessari per caricare
la documentazione sulla piattaforma e per confermarla.
Né può ricadere sulla ricorrente la circostanza che il sistema non abbia
ricevuto la conferma di quanto già caricato entro il termine prefissato, in
quanto non possono essere a suo carico non solo le anomalie manifeste del
sistema che, nel caso in esame, non sembrano essersi verificate, ma nemmeno
i meri ritardi nella ricezione delle offerte. Tali ritardi sono
presumibilmente riconducibili al fatto che la piattaforma, la quale ha
dovuto assorbire gli allegati caricati da una pluralità di operatori
economici in un ristretto arco temporale, accusando rallentamenti nella
procedura di caricamento.
In altri termini, il sovraffaticamento per eccesso di dati in entrata che,
verosimilmente, non ha permesso la conferma dell’avvenuto caricamento entro
l’orario previsto dal bando, non può riversarsi sulla ricorrente, ciò in
applicazione dei principi di par condicio e di favor
partecipationis alle procedure di gara (Cons. Stato, sez. III,
07.01.2020, n. 86).
Peraltro, attribuire significato ad un ritardo di soli otto secondi si
scontrerebbe col principio di proporzionalità atteso che imporrebbe la grave
sanzione espulsiva nei confronti di un operatore che aveva pur sempre
caricato in tempo nella piattaforma i dati utili.
In questa sede devono quindi applicarsi per analogia i consolidati principî,
affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui non può essere
escluso dalla gara un concorrente che abbia curato il caricamento della
documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l’orario fissato
per siffatta operazione, ma non sia riuscito a finalizzare l’invio a causa
di un rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente (per i casi
di malfunzionamento del sistema, cfr. Cons. Stato, 86/2020 cit.; anche Cons.
Stato, sez. V, 20.11.2019, n. 7922; Sez. III, 07.07.2017, n. 3245, per
ipotesi relativa ad un errore dell’impresa e non già ad un malfunzionamento
del sistema).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, se risulta impossibile stabilire
con certezza se vi sia stato un errore da parte del trasmittente o,
piuttosto, la trasmissione sia stata danneggiata per un vizio del sistema,
il pregiudizio ricade sull’ente che ha bandito, organizzato e gestito la
gara (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 25.01.2013, n. 481). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fascia di rispetto stradale, nessuna deroga per la recinzione
dominicale.
Il Tar Milano conferma l’operato del comune per la norma restrittiva del
regolamento comunale emanata in applicazione del Codice della Strada.
L’amministrazione di un comune milanese ha emesso un’ordinanza di
demolizione di una recinzione di un fondo sul ciglio della strada, in quando
realizzata nella fascia di rispetto stradale inedificabile, in violazione
del regolamento edilizio comunale relativamente alle strade che ricadono
sotto la gestione dell’ente.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza
sostenendo che
la recinzione finalizzata a delimitare la proprietà allo scopo di separarla
dalle
altre, custodirla e difenderla da intrusioni fosse espressione di diritto
dominicale, prevalente sulle norme urbanistiche in virtù dell'articolo 841
del
codice civile che consente sempre al proprietario di chiudere il proprio
fondo.
I giudici della II Sezione del TAR Lombardia-Milano hanno smontato la tesi
del ricorrente.
«Anche le recinzioni -si legge nella
sentenza 30.01.2024 n. 229- sono soggette al rispetto del
vincolo
stradale indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all'esercizio
dello
jus escludendi alios o meno» sono soggette al rispetto della fascia di
rispetto
delle strade ai sensi del Codice della Strada.
I giudici ricordano che è lo
stesso Codice della strada che, per quanto riguarda le strade comunali,
«prevede fasce di rispetto che inibiscono le nuove costruzioni,
ricostruzioni e ampliamenti e prescrizioni per la
realizzazione di recinzioni e piantagioni» (articolo 18, commi 1 e 4).
È
sempre l'articolo 18, comma 4, del Codice a
prevedere che «le recinzioni e le piantagioni dovranno essere realizzate in
conformità ai piani urbanistici e di traffico
e non dovranno comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente
proprietario della strada, il campo visivo
necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione».
Nel caso
specifico, i giudici premettono che il
regolamento edilizio del Comune ha previsto che «la realizzazione di
recinzioni, di qualsiasi tipologia, è comunque
soggetta a titolo abilitativo». E che per quanto riguarda la strada in
questione si fa espresso riferimento alle fasce di
rispetto stabilite dal Codice all'articolo 26 a seconda di tipo, dimensione
ed ente gestore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).
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SENTENZA
1. La ricorrente ha impugnato l’ordinanza n. 2 del 27.02.2020 del
Responsabile del Settore Gestione del Territorio recante la rimozione della
recinzione esistente sull’area di cui al fg. 2 mapp. 928 (parte), 926 e 485
e il pagamento della sanzione di € 1.000,00.
Contro il suddetto atto la ricorrente ha sollevato i seguenti motivi di
ricorso.
I. Violazione e falsa applicazione artt. 6 e 31 dpr n.
380/2001 – falsa applicazione art. 31 regol. edilizio - falsa applicazione
art. 26, comma 4, lett. b), dpr n. 495/1992 – eccesso di potere per errata
rappresentazione dei fatti – difetto di istruttoria difetto dei presupposti.
Secondo la ricorrente la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente
destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla
dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a far
valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico
del diritto dominicale, di talché anche la presenza di un vincolo dello
strumento pianificatorio, nella specie, peraltro, inesistente, non può
incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di
chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c.
II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26, comma 4,
lett. b), dpr n. 495/1992 - violazione artt. 6 e 10 dpr n. 380/2001.
Secondo la ricorrente l’art. 31 del Regolamento edilizio comunale ha
ritenuto di estendere nel tratto interno del centro abitato la previsione in
materia di distacchi di cui all’art. 26, comma 4, lett. b), che il DPR n.
495/1992 contempla, invece, per i tratti “fuori dai centri abitati”
per cui sarebbe illegittimo in quanto il regolamento edilizio non può
determinarsi in tema di distanze delle costruzioni dal confine stradale in
maniera difforme da quanto previsto dalla norma statale.
La difesa del Comune ha chiesto l’inammissibilità ed improcedibilità per
acquiescenza, tardività e mancata tempestiva impugnazione dell’art. 31 del
R.E. comunale di Corbetta. In subordine ha chiesto la reiezione del ricorso.
...
2. Il ricorso non è inammissibile in quanto il Regolamento edilizio, in
quanto, norma generale, può essere impugnato insieme all’atto applicativo e
quindi, nel caso di specie, con l’ordinanza di demolizione in questione.
3. Nel merito il ricorso è infondato.
Il presente ricorso è stato introdotto al fine di contestare la legittimità
dell’ordinanza che ha imposto la rimozione della recinzione realizzata al
limite del ciglio stradale nella fascia di rispetto stradale inedificabile
in violazione del regolamento edilizio comunale relativamente al rispetto
della distanza dalla strada comunale (ex Strada Statale 11).
In merito occorre rilevare che la “fascia di rispetto” delle strade,
secondo la classificazione di queste offerta dal relativo Codice, consiste,
ai sensi dell’art. 2, co. 1, n. 22, d.lgs. n. 285/1992, nella “striscia
di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla
realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni,
recinzioni, piantagioni, depositi e simili”.
Quindi anche le recinzioni sono soggette al rispetto del vincolo stradale
indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all’esercizio dello jus
escludendi alios o meno.
Il successivo art. 18 del Codice della Strada, relativo ai centri abitati,
nel fare rinvio alle più specifiche norme del regolamento, prevede fasce di
rispetto che inibiscono “le nuove costruzioni, ricostruzioni e
ampliamenti” (co. 1) e prescrizioni per la realizzazione di “recinzioni
e piantagioni” (co. 4).
Il comma 4 stabilisce che “Le recinzioni e le piantagioni dovranno essere
realizzate in conformità ai piani urbanistici e di traffico e non dovranno
comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente proprietario della
strada, il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della
circolazione”.
Il Regolamento Edilizio comunale di Corbetta approvato con delibera
consiliare n. 52 del 28.11.2019 ha esercitato tale competenza stabilendo
all’art. 31 che: “la realizzazione di recinzioni, di qualsiasi tipologia,
è comunque soggetta a titolo abilitativo. Lungo la strada ex SS 11, anche
nel tratto interno al centro abitato, trova applicazione l’art. 26, comma 4,
lett. b), del D.P.R. 16.12.1992, n. 495”.
Poiché la distanza della recinzione dal ciglio della strada è finalizzata a
garantire il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della
circolazione, deve escludersi che il Comune abbia esercitato la sua
competenza in contrasto con la norma di legge.
4. In definitiva quindi il ricorso va respinto. |
APPALTI:
Sulla durata delle iscrizioni nel casellario Anac e
sull’intrasferibilità a diversa sezione dopo la scadenza di
una iscrizione obbligatoria.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Iscrizione nel casellario informatico –
Durata massima di un anno – Derogabilità da parte di Anac -
Esclusione.
La decisione dell’Anac di
“spostare”, allo scadere del termine annuale di efficacia,
l’iscrizione nel casellario informatico a seguito di
segnalazione per dichiarazione falsa, in una diversa sezione
del casellario medesimo, anziché disporne la cancellazione,
è illegittima in quanto priva di un reale fondamento
normativo e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia
(anche sub specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti
dall’art. 38, 1° comma, lett. h), del d.lgs. n. 163 del 2006,
norma comunque prevalente su disposizioni di rango
regolamentare (1).
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma di cui
all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ha
evidentemente carattere speciale, riferendosi non a
qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa
nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole
ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere –circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali
disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a
disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a
maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere
più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle
fonti del diritto.
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(1) Precedenti conformi: non risultano specifici precedenti in
termini. In generale, sulla durata dell’iscrizione nel
casellario informatico, Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n.
517; TAR per l’Abruzzo, sez. I, 15.04.2015, n. 282 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 29.01.2024 n. 881 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con il primo motivo di appello viene riproposta la
censura, già dedotta nel precedente grado di giudizio,
secondo cui l’impugnato diniego di cancellazione
dell’annotazione del provvedimento sanzionatorio avrebbe
violato l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
L’originaria iscrizione nel casellario ANAC, infatti, era
stata disposta ai sensi di tale ultima norma, laddove il
potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale
Anticorruzione è disciplinato dalle previsioni del
Regolamento unico in materia di esercizio del potere
sanzionatorio, emanato ai sensi dell’art. 8, comma 4, del
d.lgs. n. 163 del 2006.
In virtù di quanto previsto dall’art. 38, comma 1-ter, cit.,
in particolare, l’iscrizione nel casellario informatico ai
fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli
affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h),
può essere disposta per la durata massima di un anno,
decorso il quale la detta iscrizione “è cancellata e
perde comunque efficacia”.
Inserendo l’iscrizione di cui trattasi, al termine del
periodo interdittivo (per di più con procedura totalmente
automatizzata e, dunque, senza alcuna ponderazione del caso
concreto) nell’area “C” del casellario, per un periodo di
tempo indefinito, l’ANAC avrebbe contestualmente violato
l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art.
45, comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio
del potere sanzionatorio (a mente del quale “Il termine
di durata delle annotazioni inserite nel Casellario,
indicato nel provvedimento finale, ai sensi dell’art. 38,
comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed articolo 48,
comma 1, del Codice decorre dalla data di pubblicazione
delle annotazioni stesse. Trascorso detto termine, le
annotazioni perdono efficacia”), in quanto l’annotazione
(iscritta in data 17.07.2020) avrebbe dovuto essere
cancellata in accoglimento dell’apposita istanza presentata
dalla società in data 28.09.2021, essendo decorso il termine
(massimo) di un anno dall’iscrizione (oltre il quale
l’Autorità è tenuta a disporre
la materiale cancellazione dell’annotazione, non potendosi
limitare a spostare la stessa da una sezione all’altra del
casellario, così mantenendo evidenza del periodo di
interdizione già trascorso).
In ogni caso, prosegue l’appellante, anche ove di volesse
ritenere che l’ANAC conservi un potere discrezionale di
conservazione dell’annotazione oltre il periodo annuale
indicato dall’ultimo periodo dell’art. 38, comma 1-ter cit.,
l’Autorità avrebbe dovuto comunque svolgere un’istruttoria
specifica e rendere apposita motivazione “rafforzata”
in relazione alla conservazione “ultrattiva”
dell’annotazione riportata nel casellario informatico ed
alla pubblica utilità della stessa.
Il motivo è fondato.
E’ pacifico in atti che il provvedimento sanzionatorio
presupposto fosse stato adottato dall’ANAC ai sensi e per
gli effetti dell’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del
2006, che così prevede: “In caso di presentazione di
falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure
di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione
appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene
che siano state rese con dolo o colpa grave in
considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti
oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di
falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario
informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara
e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1,
lettera h), fino ad un anno, decorso il quale l’iscrizione è
cancellata e perde comunque efficacia”.
La finalità di tale iscrizione –disposta con norma primaria
di legge– è evidentemente quella di portare a conoscenza
delle stazioni appaltanti l’esistenza del divieto di
partecipazione alle gare pubbliche (anche in veste di
subappaltatore) e, con esso, necessariamente anche le
ragioni che ne stanno alla base.
La stessa legge è chiara nel prescrivere un termine massimo
di efficacia di tali iscrizioni, che non può eccedere
l’anno.
A tale regola primaria si conforma –per evidenti ragioni di
gerarchia delle fonti giuridiche– la disciplina
regolamentare in materia, data in particolare dall’art. 45,
comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio del
potere sanzionatorio dell’ANAC, a mente del quale –come già
detto– “Il termine di durata delle annotazioni inserite
nel Casellario, indicato nel provvedimento finale, ai sensi
dell’art. 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed
articolo 48, comma 1, del Codice decorre dalla data di
pubblicazione delle annotazioni stesse. Trascorso detto
termine, le annotazioni perdono efficacia”.
La norma di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163
del 2006 ha evidentemente carattere speciale, riferendosi
non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa
nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole
ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa
grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere
–circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali
disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a
disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a
maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere
più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle
fonti del diritto (in quanto di natura regolamentare, quale
l’art. 38 del Regolamento per la gestione del Casellario
Informatico di cui alla delibera consiliare ANAC del
29.07.2020).
Nel caso di specie l’ANAC ha ritenuto motu proprio di poter
“trasferire” la detta iscrizione, allo scadere del
termine massimo di efficacia annuale, dalla Sezione “B” del
casellario informatico alla Sezione “C” del medesimo,
anziché limitarsi a cancellarla (come prescritto dalla norma
di legge primaria), scelta che secondo il primo giudice
troverebbe la “copertura” giuridica dell’art. 8,
comma 2, lett. dd), del d.P.R. n. 207 del 2010, per cui “Nella
subsezione del casellario relativa alle imprese qualificate
SOA esecutrici di lavori pubblici sono inseriti i seguenti
dati: […] tutte le altre notizie riguardanti le imprese che,
anche indipendentemente dall'esecuzione dei lavori, sono
dall'Autorità ritenute utili ai fini della tenuta del
casellario, compresa la scadenza del certificato del sistema
di qualità aziendale”.
Tale soluzione non può essere accolta, ove si consideri che,
nel corpo del medesimo art. 8, comma 2 cit., alla lettera s)
vengono già fatte oggetto di iscrizione le “falsità nelle
dichiarazioni rese in merito ai requisiti e alle condizioni
rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara e per
l’affidamento dei subappalti”, all’uopo precisando che “il
periodo annuale, ai fini dell’articolo 38, comma 1, lettera
h), del codice, decorre dalla data di iscrizione nel
casellario”.
Deve quindi concludersi, per ragioni di sistematicità
logica, che la previsione di chiusura (dunque, di carattere
generale e sussidiario) di cui alla richiamata lettera ss)
possa trovare applicazione solo nel caso di fattispecie non
riconducibili alle ipotesi specificamente contemplate dalle
precedenti lettere del medesimo comma secondo.
Nel caso in esame tale condizione non si verifica,
l’iscrizione di cui trattasi essendo pacificamente
riconducibile alla diversa ipotesi contemplata dall’art. 8,
comma 2, lettera s), del d.P.R. n. 207 del 2010 (ipotesi per
la quale, come già detto, la norma primaria di riferimento
prevede la cancellazione sic et simpliciter dell’iscrizione,
una volta scaduto il termine di efficacia della misura
interdittiva).
Deve quindi concludersi che la decisione dell’ANAC di “spostare”,
allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione
di cui trattasi in una diversa Sezione del casellario
informatico, anziché disporne la cancellazione, sia
illegittima in quanto priva di un reale fondamento normativo
e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia (anche sub
specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti
dall’art. 38, comma primo, lettera h), del d.lgs. n. 163 del
2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango
regolamentare (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 29.01.2024 n. 881 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’onere della prova in materia di domanda di sanatoria di
abusi edilizi.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento di
conformità – Onere della prova.
L’onere di provare l’esistenza dei
presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria,
tra cui, in primis, la data dell’abuso grava sul
richiedente; infatti, solo il privato può fornire, in quanto
ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o
altri elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso,
mentre l’amministrazione non può materialmente accertare
quale fosse la situazione all’interno del suo territorio
(1).
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(1) Conformi: Cons. Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e
24.03.2023 n. 3011; Cons. Stato, sez. VI, 12.10.2020, n.
6112;
Difformi: non risultano
precedenti difformi (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 26.01.2024 n. 853 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. I motivi sono infondati.
7.1 Per giurisprudenza consolidata grava sul richiedente
l’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il
rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in
primis, la data dell’abuso. Solo il privato può,
infatti, fornire, in quanto ordinariamente ne dispone,
inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre
l’amministrazione non può materialmente accertare quale
fosse la situazione all’interno del suo territorio (Cons.
Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e 24.03.2023 n. 3011;
sez. VI, 12.10.2020, n. 6112; sez. VII, 07.08.2023 n. 7628;
id. 30.03.2023, n. 3304; sez. VI, 18.05.2021, n. 3853).
7.2 Nel caso di specie, posto che l’amministrazione ha
respinto l’istanza di sanatoria perché dal fotogramma aereo
del 12.07.2003 non erano visibili le opere oggetto di
condono, l’interessato non ha fornito alcun elemento idoneo
a smentire quanto emergente dalla documentazione agli atti
del comune.
Al riguardo non assurgono a prova della realizzazione dei
manufatti residenziali in data antecedente al 31.03.2003 né
la concessione edilizia n. 39/1996, che ha per oggetto la
costruzione di un magazzino agricolo, né la circostanza
-affermata ma, mai dimostrata- che all’epoca del rilievo
aerofotogrammetrico del luglio 2003 il fabbricato fosse
occultato da rigogliosa vegetazione che lo sovrastava.
7.3 Correttamente pertanto il giudice di primo ha ritenuto
legittimo il diniego a prescindere dall’ulteriore profilo
afferente al superamento della volumetria condonabile,
poiché la mancata realizzazione delle opere entro il termine
di legge, che era onere del richiedente dimostrare,
costituisce di per sé circostanza ostativa al condono.
Peraltro l’appellante non ha nemmeno dato la prova della
sussistenza dei presupposti di cui al comma 1, lett. b),
l.r. 8/11/2004, n. 12, che disciplina il caso in cui
l’intera unità immobiliare oggetto di sanatoria sia adibita
a prima casa del richiedente, giacché nel caso di specie è
pacifico che solo una porzione del fabbricato era adibito ad
abitazione dell’istante.
8. In definitiva l’appello deve essere respinto (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 26.01.2024 n. 853 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’ordine di demolizione non serve il motivo di interesse
pubblico.
Il Consiglio di Stato ricorda la natura del provvedimento di «atto dovuto e
vincolato»; e la ponderazione dell’interesse pubblico è assolta, a monte,
dal legislatore.
Nessun diritto a comunicare l’avvio del procedimento prima di emettere
l’ordinanza di demolizione. Nessun obbligo di indicare nell’ordinanza di
demolizione il motivo di interesse pubblico al ripristino. Nessuna
possibilità di invalidare l’ordinanza a causa del molto tempo trascorso tra
la realizzazione dell’abuso e la procedura repressiva. Nessun obbligo di
verificare, su istanza dell’interessato, la “doppia” conformità dell’opera
oggetto dell’ordinanza di ripristino.
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sul caso di un abuso
realizzato in un comune della Campania, ribadisce tutte le caratteristiche
dell'ordinanza di demolizione che rendono questo atto snello, potentissimo e
praticamente inarrestabile.
Il caso di specie riguarda un fabbricato di due livelli a destinazione
abitativa realizzato senza titolo in un'area incompatibile con tale funzione
(zona agricola).
L'ordinanza di demolizione emessa dal comune a cinque anni dalla sua
scoperta, da parte della polizia municipale, è stata impugnata al Tar
Campania dall'interessato, il quale ha impugnato anche il diniego del comune
nei confronti della richiesta, fatta successivamente, per valutare la
conformità urbanistica dell'opera per la quale era stato avviato il
contenzioso. Infine, a seguito del rigetto dei ricorsi del Tar,
l'interessato si è rivolto al Consiglio di Stato.
Il secondo giudice, nel confermare la decisione del Tar, ha esaurientemente
dimostrato l'infondatezza di tutti i motivi con i quali il ricorrente aveva
attaccato la decisione del Comune. In nessun caso è stato possibile
intaccare o indebolire l'efficacia di questo provvedimento repressivo,
previsto dal legislatore a favore dei comuni e finalizzato al controllo e
tutela del territorio.
Tanto per cominciare, l'ordinanza di demolizione di manufatti abusivi,
ribadisce Palazzo Spada, «non richiede una specifica motivazione sulla
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la
relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già
compiuta, a monte, dal legislatore».
Il provvedimento, precisano inoltre i giudici nella
sentenza 26.01.2024 n. 825, «è atto vincolato e -si ribadisce-
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione».
Neanche il passaggio del tempo toglie nulla al potere del comune, escludendo
«un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può
dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi».
Quanto alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento, i giudici
respingono decisamente anche la tesi del ricorrente secondo la quale
l'ordinanza sarebbe illegittima senza la comunicazione ex articolo 7 della
legge 241/1990, non prevedendo questo atto, «alcun apporto partecipativo
del privato», se ci sono i presupposti di legge.
«L'attività di repressione degli abusi edilizi mediante l'ordinanza di
demolizione -si ricorda-, avendo natura vincolata, non necessita della
previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai
sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
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SENTENZA
3.1. Nel merito l’appello è infondato e va respinto.
Con il primo motivo (rubricato: Error in iudicando – violazione art.
7 l. 241/1990) l’appellante sostiene che il TAR avrebbe erroneamente ritenuto
superflua la preventiva comunicazione di avvio del procedimento e del
funzionario responsabile, stante la natura vincolata dell’ordinanza di
demolizione, in quanto il Consiglio di Stato in più occasioni avrebbe
ribadito, seppur implicitamente, la necessità della preventiva
interlocuzione tra la P.A. ed il privato anche in materia di ordinanza di
demolizione.
3.2. La censura relativa all’illegittimità dell’ordine di demolizione per
assenza della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
l. 241/1990 non ha pregio.
L’ordinanza di demolizione costituisce infatti espressione di un potere
vincolato e doveroso in presenza dei requisiti richiesti dalla legge,
rispetto al quale non è richiesto alcun apporto partecipativo del privato (Cfr.
ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11/05/2022, n. 3707: “L'attività di
repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo
natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del
procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990,
considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non
potrebbe determinare alcun esito diverso”; Consiglio di Stato, sez. II,
01/09/2021, n. 6181: “Al sussistere di opere abusive la pubblica
amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo
motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario
che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento”).
In ogni caso, trattandosi di procedimento vincolato, troverebbe applicazione
l’art 21-octies, co. 2, l. 241/1990, posto che il provvedimento non avrebbe
potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato.
3.3. E’ pure infondato il secondo motivo di impugnazione (rubricato:
Error
in iudicando – eccesso di potere), con il quale l’appellante sostiene che
sarebbe errata la sentenza nella parte in cui il giudice di I grado ha
respinto il motivo di ricorso con il quale è stato evidenziato il difetto di
motivazione in ordine all’interesse pubblico alla demolizione ed alla
mancata valutazione della conformità urbanistica degli abusi sanzionati, e
con il quale l’appellante (citando la sentenza del Consiglio di Stato, Sez.
IV, n. 781/1991 senza riportarne sinteticamente il contenuto o altra
indicazione per esaminare l’attinenza della stessa alla censura) ritiene che
tale onere motivazionale era sicuramente esistente.
3.3.1. Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata
e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e
le ragioni della loro abusività (Ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI,
07/06/2021, n. 4319).
Ne consegue che non è necessario che l’amministrazione individui un
interesse pubblico –diverso dalle mere esigenze di ripristino della
legalità violata– idonee a giustificare l’ordine di demolizione (Consiglio
di Stato, sez. VI, 17/10/2022, n. 8808: “L'ordine di demolizione di manufatti
abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra
l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal
legislatore”; Consiglio di Stato sez. II, 11/01/2023, n. 360: “L'ordine di
demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”).
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga
adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, atteso
che, a fronte della realizzazione di un immobile abusivo, non è
configurabile alcun affidamento del privato meritevole di tutela; l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “Il provvedimento
con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile
abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di
ripristino” (Consiglio di Stato, ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dal Consiglio di Stato, sez. II,
11/01/2023, n. 360, che ha affermato che “l'ordine di demolizione è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva
che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del
fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti
atti repressivi".).
3.3.2.
È pure infondata l’affermazione dell’erroneità della sentenza laddove
respinge la censura sulla mancata valutazione della conformità urbanistica
degli abusi sanzionati prima di ordinarne la demolizione.
Infatti,
la realizzazione delle opere edilizie descritte nell’ordine di
demolizione in assenza del prescritto titolo edilizio, costituisce elemento
sufficiente a giustificare l’adozione del provvedimento impugnato; tale
circostanza impone al Comune di ordinare il ripristino dello stato dei
luoghi a prescindere dall’eventuale compatibilità delle opere con gli
strumenti urbanistici.
3.3.3. Secondo la costante giurisprudenza di questa Sezione,
la conformità
urbanistica delle opere deve essere oggetto di valutazione da parte
dell’amministrazione comunale solo nell’ipotesi in cui il privato abbia
presentato un’istanza di accertamento di conformità (ex multis Consiglio di
Stato sez. VI, 20/07/2021, n. 5457: “In presenza di abusi edilizi, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale,
prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e tanto si evince chiaramente
dagli artt. 27 e 31, del medesimo d.P.R. n. 380 cit., che obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 che rimette
all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato”). |
EDILIZIA PRIVATA:
Giusta il consolidato
orientamento della giurisprudenza, l'omessa o imprecisa
indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di
diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31,
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza
all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità
dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito
necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza
fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun
potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero
accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area
da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della
costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato,
non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime
che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di
inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui
requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il
conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale
provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia
puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate”.
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione
costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi
alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata
indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere
colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di
acquisizione.
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla
previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione
dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile
l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
---------------
3.4. Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato: Error in iudicando
-
violazione art. 31 DPR n. 380/2001), l’appellante censura la sentenza
laddove ritiene che l’indicazione dell’area da acquisire può avvenire nella
fase susseguente all’accertamento dell’inottemperanza.
L’appellante sostiene
che l’omessa indicazione pregiudicherebbe dal punto di vista sostanziale gli
interessi del ricorrente, il quale, in primo luogo, deve essere messo in
condizione di valutare, in termini di “costo-beneficio”, l’opportunità di
adempiere o meno all’ordine di demolizione.
Inoltre l’esatta indicazione
sarebbe necessaria, in quanto l’effetto ablatorio si verificherebbe
immediatamente ed “ope legis” alla scadenza del termine legale o di quello
prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a
demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da
eventuali pesi e vincoli preesistenti.
3.4.1. La censura non merita accoglimento.
Occorre premettere che l’articolo 31 del d.P.R. n. 380/2001 prevede al comma
3 che, "Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti previsioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del Comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a
dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
Con riferimento alla censura dedotta il Collegio rileva che la
prospettazione di parte appellante, come rilevato nella decisione di questa
Sezione 03.12.2020, n. 7672, “si pone in contrasto con un consolidato
orientamento della giurisprudenza in base al quale l'omessa o imprecisa
indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di
diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31,
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza
all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità
dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito
necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez.
V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez.
VI, n. 1998 del 2004)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2020, n.
7672).
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza
fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun
potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero
accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area
da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della
costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato,
non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime
che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di
inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui
requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il
conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale
provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia
puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate” (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 06.02.2018, n. 755).
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione
costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi
alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata
indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere
colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di
acquisizione (Cons. St., sez. VI, 24/06/2020, n. 4058; Cons. St., sez. IV,
n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV,
n. 4659 del 2008; Cons. St., sez. VI, n. 1998 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.10.2022, n. 9068).
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla
previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione
dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile
l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
3.4.2. Da quanto dedotto emerge l’infondatezza delle censure proposte dalla
parte appellante alle statuizioni del Giudice di prime cure in ordine alle
doglianze sottoposte al suo vaglio con il ricorso principale con riferimento
all’ordine di demolizione Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.01.2024 n. 825 - link a
www.giustizia-amministrativa.it) |
APPALTI SERVIZI:
Clausola sociale, nessun obbligo di riassunzione di tutto il
personale dell’appaltatore uscente.
Il Consiglio di Stato ribadisce la necessità di contemperare l’obbligo con
la libertà di organizzazione dell’impresa anche nel nuovo codice.
Con la recente
sentenza
25.01.2024 n. 807 del Consiglio di Stato,
Sez. V, si rimarca che dall’applicazione
della clausola sociale non sorge alcun obbligo di integrale riassorbimento
del personale del pregresso affidatario.
L’applicazione della clausola,
infatti, esige un contemperamento tra un «bilanciamento delle tutele del
lavoro con l’art. 41 Cost.» ed il «principio, tipicamente pubblicistico, di
buon andamento dell’azione amministrativa».
La vicenda
Il ricorrente censura l'errore della sentenza di primo grado (Tar Lazio,
sez. II, n. 13442/2023) nella parte in cui non ha accolto il primo motivo
del ricorso fondato sulla pretesa violazione dell'obbligo di riassorbimento
del personale del pregresso gestore imposto dalla legge e dalla
contrattazione collettiva.
L'aggiudicatario, secondo l'appellante avrebbe sottodimensionato il
riassorbimento del personale del pregresso affidatario proponendo
l'assorbimento di 73 dipendenti su 181.
Il giudice, anche di secondo grado, non condivide l'assunto evidenziando,
fin dalla premessa, che la stessa legge di gara non prevedeva -né avrebbe
potuto prevederlo- l'esclusione in caso di mancato totale riassorbimento del
personale del precedente contratto prevedendo, invece, l'estromissione solo
in caso di mancata produzione del piano di riassorbimento (destinato a
chiarire le dinamiche organizzative che concretamente l'operatore intende
adottare sul riassorbimento, sempre eventuale).
I vincoli della clausola sociale
La censura consente al giudice d'appello di ricordare l'esatta
configurazione degli obblighi che discendono dalla clausola sociale (anche
nella nuova configurazione voluta dal
nuovo codice).
In primo luogo, lo stesso disciplinare di gara, correttamente,
prevedeva da un lato la necessità di impegnarsi sulla stabilizzazione ma
chiarendo «la necessaria armonizzazione con l'organizzazione
dell'operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative
e di manodopera previste nel nuovo contratto». In secondo luogo,
la legge di gara indicava il contratto «preteso» dalla stazione
appaltante (Ccnl Servizi di pulizia e servizi integrati/Multiservizi) ma «ferma
l'applicazione», proseguiva il disciplinare, «ove più favorevole,
della clausola sociale prevista dal contratto collettivo nazionale prescelto
dall'aggiudicatario del contratto».
Il disciplinare quindi, rispettoso delle indicazioni del codice,
salvaguardava l'autonomia imprenditoriale degli appaltatori. Nel ritenere
corrette dette indicazioni, il giudice d'appello precisa che «il grado di
vincolatività della clausola sociale si desume dalla regola di compatibilità
espressamente declinata nel disciplinare, che richiede l'armonizzazione con
l'organizzazione aziendale, rendendola attuabile con elasticità, in ragione
appunto delle prerogative imprenditoriali».
L'obbligo del nuovo gestore, quindi, è solo quello di procedere
prioritariamente, in caso di necessità di manodopera, nell'assorbimento «nel
proprio organico» del «personale già operante alle dipendenze del
fornitore uscente». Ed è proprio l'uso dell'avverbio «prioritariamente»,
spiega il giudice, sta a significare che «l'esigenza di assumere
personale deve essere soddisfatta attingendo prioritariamente al personale
alle dipendenze del gestore uscente, non obbligando invece ad acquisire
personale proveniente dal gestore uscente se non necessario, così declinando
l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le scelte organizzative
dell'impresa».
La clausola sociale, quindi, deve essere intesa in senso elastico non
imponendo in nessun caso «la riassunzione di tutta la forza lavoro
utilizzata dal gestore uscente». La portata dell'obbligo della clausola,
del resto, veniva ben chiarita in una serie di riscontri ad altrettanti
quesiti posti alla stazione appaltante con cui si chiariva che dalla stessa
«non può derivare un obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto
di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata»
laddove il concorrente risultasse «già in possesso di una propria
struttura in grado di gestire autonomamente tale funzionalità, così
declinando l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le esigenze
imprenditoriali».
La stazione appaltante, pertanto, ha ben chiaro l'approdo giurisprudenziale
in materia prima di tutto anche comunitario (fatto proprio anche dall'Anac)
secondo cui l'obbligo del riassorbimento è solo teorico e deve essere
contemperato «con la libertà d'impresa e con la facoltà in essa insita di
organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria
organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da
valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell'appalto (Cons.
St., sez. V, 01.08.2023 n. 7444)».
La clausola sociale di assorbimento, conclude il giudice, è destinata sì ad
operare nell'ipotesi di cessazione d'appalto e «subentro di imprese o
società appaltatrici e risponde all'esigenza di assicurare la continuità
dell'occupazione nel caso di discontinuità dell'affidatario» ma
l'effetto non può essere vessatorio e tale da «condizionare la libertà
economica e i principi dell'economia di mercato al fine di perseguire
interessi socialmente rilevanti, come il diritto al lavoro». In difetto
risulterebbe in contrasto con la stessa Costituzione italiana fin
dall'articolo 1 e delle disposizioni costituzionali «che si occupano di
lavoro, fra le quali gli artt. 35, 36» e 41.
E sono proprio «le esigenze di bilanciamento fra diritti
costituzionalmente protetti» che «impediscono quindi di attribuire
alle prerogative dei lavoratori una valenza assoluta, dovendo essere
contemperate con altre esigenze di tutela, pure costituzionalmente garantite»,
tra queste l'autonomia imprenditoriale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.02.2024). |
URBANISTICA:
La buona fede dei lottizzandi non salva la lottizzazione abusiva
(e non ferma il Comune).
Il Tar Palermo ha ribadito il principio, rigettando la richiesta degli
interessati di sospendere il fermo dei lavori imposto dall’ente locale.
Nessuna possibilità per i lottizzandi in buona fede di fermare l’azione del
Comune contro la lottizzazione abusiva.
Con una recente ordinanza, il Tar
Palermo ha respinto l’istanza di alcuni lottizzandi volta a sospendere
l’ordinanza dell’ente locale per fermare subito i lavori dopo la scoperta di
una vasta lottizzazione abusiva (in forma sia cartolare che materiale) nel
comune siciliano.
I giudici del TAR Sicilia-Palermo, Sez. , hanno escluso nettamente
qualsiasi fumus boni iuris dei richiedenti, per una serie di motivi, tutti
saldamente confermati dagli orientamenti della giurisprudenza.
Gli istanti,
affermano i giudici, «non possono invocare il proprio stato soggettivo al
fine
di escludere la legittimità del provvedimento impugnato»; e questo perché
«la lottizzazione abusiva -si ricorda nell'ordinanza
25.01.2024 n. 38- prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei
lottizzanti:
e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo
dell'intervenuta
illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la
tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione
dell'illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti
dell'alienante».
Strada sbarrata anche alle eventuali possibilità di sanatoria di singoli
elementi (lotti o fabbricati), in quanto «non è
possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle
singole unità immobiliari realizzate
abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell'area
abusivamente lottizzata essere valutate
in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della
destinazione di zona che ne deriva nel suo
complesso».
Infine, anche l'argomento legato alla circostanza che l'abuso è
molto risalente nel tempo viene
respinto al mittente. «Il fatto che le opere siano state realizzate in un
lungo arco di tempo -affermano infatti i giudici
del Tar- non incide in alcun modo sulla legittimità dell'ordine di
sospensione della lottizzazione, avuto presente il menzionato carattere
permanente dell'illecito» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.02.2024).
---------------
ORDINANZA
Considerato, anzitutto:
- che secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza “…la
lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del -OMISSIS-01 prescinde
dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto
rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell'intervenuta illegittima
trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei
terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione dell'illecito, può
essere fatta valere in sede civile nei confronti dell'alienante [cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 08.01.-OMISSIS-16, n. 26]” (Consiglio di Stato n. 768/-OMISSIS--OMISSIS-),
sicché i ricorrenti –quali acquirenti dell’immobile– non possono invocare il
proprio stato soggettivo al fine di escludere la legittimità del
provvedimento impugnato;
Rilevato:
- che dalla documentazione versata in atti dal Comune e per fatti
pacifici, l’area indentificata al catasto al foglio -OMISSIS- ex part.-OMISSIS-
(di estensione di 23.610 mq) ha formato oggetto di numerosi frazionamenti
con conseguente edificazione, nei lotti così creatisi, di altrettanti
immobili, connessi da una strada d’accesso e delimitati da un muro lungo
tutto l’asse nord/sud dell’area, sicché sussiste una lottizzazione abusiva
nella forma sia cartolare che materiale;
- che, inoltre, la contestata lottizzazione abusiva –pur al
sommario esame proprio della presente fase cautelare– non appare realizzata
interamente in data antecedente all’introduzione della l. 47/1985;
- che, in proposito, il Comune ha dato conto di elementi concreti
che suffragano il compimento di opere e atti giuridici, nell’ambito
dell’area coinvolta nella lottizzazione, successivamente all’entrata in
vigore della legge predetta;
Evidenziato:
- che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta
a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell'ordinato
assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto
dall'eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, e pertanto alcun
rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione
edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già
rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in
via di sanatoria (TAR Campania Salerno, sez. I – 14/11/-OMISSIS-23 n. 2172,
che ha puntualizzato come “Su queste basi, non è possibile la sanatoria
della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità
immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di
suolo ricomprese nell'area abusivamente lottizzata essere valutate in modo
isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione
di zona che ne deriva nel suo complesso”);
- che, su quest’ultimo punto, si veda in senso conforme Consiglio
di Stato, sez. VI – 19/04/-OMISSIS-23 n. 3957;
- che, in ogni caso, la natura di illecito permanente della
lottizzazione abusiva (cfr. Consiglio di Stato n. 2947/-OMISSIS-21) conduce
a ritenere applicabile la sanzione reale della demolizione di cui all’art.
18 l. 47/1985; in altri termini, il fatto che le opere siano state
realizzate in un lungo arco di tempo non incide in alcun modo sulla
legittimità dell'ordine di sospensione della lottizzazione, avuto presente
il menzionato carattere permanente dell'illecito (cfr. Tar Sicilia- Palermo
sent. n. 1001/-OMISSIS-23);
- che la conseguente insanabilità si giustifica con la deviazione
dagli scopi stabiliti con la pianificazione urbanistica e la lesione
dell'essenziale prerogativa comunale della programmazione in materia (CGA
Sicilia – 22/06/-OMISSIS-22 n. 745, ad avviso del quale “essa ha dunque
una potenzialità lesiva più estesa di quella del singolo abuso edilizio
poiché incide sull'interesse pubblico primario alla corretta urbanizzazione
del territorio condizionando indebitamente le scelte pianificatorie future”);
Dato atto:
- che, per costante giurisprudenza, non vi è obbligo per il Comune
di procedere ad una variante urbanistica pur in presenza di zone interessate
da vasti interventi abusivi (CdS, I, 14.03.-OMISSIS-22, n. 565; Id., II,
02.11.-OMISSIS--OMISSIS-, n. 6762 e 07.08.-OMISSIS-19, n. 5607);
- che, con riguardo all’ultimo motivo, la natura di atto vincolato
del provvedimento impugnato esclude la necessità di comunicazione del
preavviso di rigetto;
Ritenuto:
- che, in definitiva, non sussiste il fumus boni iuris del
gravame; |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso in centro storico, prima di demolire (o monetizzare) serve
il parere della Soprintendenza.
La procedura, ricorda il Consiglio di Stato chiamato a giudicare
un’intricata vicenda, si applica anche agli edifici non sottoposti a vincolo.
Prima di decidere se demolire o concedere
la possibilità di monetizzare un
abuso edilizio su un edificio nel centro storico, il Comune deve chiedere il
parere della Soprintendenza, anche se l'intervento riguarda un bene non
sottoposto a tutela. E comunque, in caso di inottemperanza all'ordine di
demolizione, benché l'acquisizione al patrimonio del Comune «operi di
diritto,
non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di
addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo;
pertanto, il
mancato accertamento dell'inottemperanza, unitamente peraltro
all'adozione di atti e/o comportamenti dell'Amministrazione incompatibili
con l'esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la
colpevolezza
del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme
restando le responsabilità civili, amministrative, penali e contabili dei
funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio
secondo le scansioni temporali previste dal legislatore».
Questi principi si
leggono nella lunga e densa pronuncia del Consiglio di Stato - Sez. II (sentenza 22.01.2024 n. 806)
che mette la parola fine a una vicenda
estremamente complessa, di cui in passato si è occupato sia il giudice
ordinario (fino a una pronuncia della Corte
d'Appello) sia lo stesso giudice amministrativo (con sentenze del Tar Emilia
Romagna e infine dello Stesso Consiglio
di Stato).
La controversia prende le mosse da un abuso edilizio, consistente
in una sopraelevazione su una terrazza
all'ultimo piano di un edificio (non sottoposto a tutela) nel centro storico
di Modena, di cui di fatto ne è stato
modificato il prospetto. L'intervento consiste nella l realizzazione di un
volume di circa 14 mq con un affaccio diretto
quasi in linea con il fronte dell'edificio e con due finestre, diverse per
forma e collocazione rispetto a quelle del
palazzo. L'intervento è stato realizzato in difformità a una istanza di
risistemazione dell'immobile ottenuta nel 1983.
Successivamente, l'interessata ha chiesto la sanatoria ai sensi del condono
del 1985, che gli è stata negata dal
Comune, il quale nel 1990 ha emesso una ordinanza di demolizione, mai
formalmente revocata. Ne è seguito un
primo contenzioso, che si concluso sfavorevolmente al proponente: sia il Tar
Emilia Romagna che il Consiglio di
Stato, infatti, respingono, rispettivamente, ricorso e appello
dell'interessato. L'abuso viene confermato anche dal
giudice ordinario, con sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello.
Tuttavia, questi giudizi non incidono in alcun
modo sulla realtà: né il proprietario procede alla rimessa in pristino, né
le opere vengono demolite dal Comune, il
quale non procede neanche all'acquisizione del bene. Si apre invece una
interlocuzione tra il proprietario e il
Comune, ad esito della quale vengono emanati due successivi provvedimenti,
nel 2019 e poi nel 2022, con i quali il
Comune concede alla proprietaria la sanatoria dell'abuso previa
monetizzazione, in alternativa alla demolizione.
A questo punto inizia il secondo contenzioso perché il provvedimento viene
impugnato dai condomini dell'edificio.
Il Tar Emilia Romagna accoglie il ricorso.
Da ultimo, il Consiglio di Stato,
ad esito di una attenta ricostruzione e una
approfondita analisi dei vari profili del caso, respinge l'appello e annulla
i provvedimenti del Comune, con però una
diversa motivazione rispetto al Tar. In questo secondo contenzioso lo stesso
Comune di Modena si è costituito
ad
adiuvandum a fianco dell'interessata.
A rendere complicata la vicenda è
anche la classificazione dell'intervento
edilizio oggetto della controversia, che il Tar inquadra come nuova
costruzione e che invece il Consiglio di Stato
riconduce alla ristrutturazione edilizia. Il Tar respinge il ricorso perché
ritiene che il Comune abbia violato l'articolo 31
del Testo unico edilizia, cioè quello che riguarda gli interventi senza
permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali. L'articolo 31 prevede appunto la procedura
dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale,
in caso mancata rimessa in pristino da parte dell'interessato (cui può
eventualmente seguire una demolizione
volontaria da parte del proprietario negoziata con il Comune).
Anche il
Consiglio di Stato respinge l'appello ma
guarda invece all'articolo 33, quello sugli interventi di ristrutturazione
edilizia in assenza di permesso di costruire o in
totale difformità. Per questa fattispecie, come è noto, è prevista la
rimessa in pristino ma non l'acquisizione da parte
del comune in caso di inottemperanza. Di fatto, attraverso due percorsi
argomentativi diversi, i due giudici arrivano
alla medesima conclusione. Nel primo caso, il Tar respinge il ricorso perché
-muovendosi nella logica
dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale ex articolo 31- conclude
che «la fiscalizzazione non avrebbe
potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica».
Il Consiglio di Stato -muovendosi invece
nella logica della regolarizzazione ex articolo 33- pizzica il comune nel
mancato adempimento previsto dal comma
4 dell'articolo, bypassando il parere obbligatorio e vincolante da
richiedere alla Soprintendenza, previsto anche nel
caso di edifici non vincolati.
Infatti, ricordano i giudici della Seconda
Sezione di Palazzo Spada, in caso di
regolarizzazione di opere di ristrutturazione edilizia, «eseguite su
immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri
storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o
pecuniaria, spetta all'amministrazione
preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime
mediante un parere vincolante.
Tale tipologia di
atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che
implica che il Comune deve attenersi a
quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in
cui il parere non venga reso entro il
termine previsto, la competenza si trasferisce all'amministrazione
comunale». Il comune invece ha fatto tutto in
casa, attraverso la commissione sulla qualità del paesaggio, in difformità
dalla legge.
«È proprio il legislatore -sottolinea Palazzo Spada- ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di
un intervento demolitorio, anche singolo,
all'interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se
tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a
prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all'Autorità preposta alla tutela
di un vincolo, ancorché formalmente non
imposto.
D'altro canto, la affermata insanabilità dell'opera di cui
all'originario provvedimento del 1989, si fonda
proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli
illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla
disciplina urbanistica».
«Introducendo un autonomo concetto giuridico,
anziché pratico/tecnico, di impossibilità
demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo
consultivo l'espressione della scelta tra
demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non
tiene alcun conto dei precedenti giudicati
sul punto -concludono i giudici- il Comune di Modena ha violato l'art. 33,
comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001».
«Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai
propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino;
applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa
istruttoria finalizzata comunque ad accertare la
fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo
parere della Soprintendenza, quale unico
soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure
concretamente eseguibile, a tutela
dell'assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sopraelevazione, c’è l’interesse ad agire in giudizio del
condòmino.
Il Consiglio di Stato l’ha individuato
nella tutela del valore architettonico dell’edificio
La tutela del valore architettonico dell’edificio condominiale,
“astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione”,
integra sicuramente l’interesse ad agire del condomino contro provvedimenti
che invece ne legittimano il mantenimento.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806 (Pres. Cirillo, Est. Manzione) con una complessa
decisione che ha toccato almeno tre punti su cui, si legge in una nota del
Cds, “non esistono precedenti negli esatti termini”.
Il requisito della vicinitas, quale condizione della legittimazione ad
agire, spiega il Collegio, è intrinseco nella qualità di condomino ma non
assorbe, neppure in tale peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire,
che va dimostrato in concreto, anche in corso di causa; esso, tuttavia -prosegue-, sussiste ogniqualvolta l’intervento contestato sia una
sopraelevazione, e il condomino lamenti il pregiudizio all’aspetto
architettonico dell’edificio, giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art.
1127, commi 2 e 3, c.c.
Nel caso affrontato l’intervento era consistito in una sopraelevazione
contro la quale alcuni condomini avevano proposto ricorso al giudice civile
ex art. 1127 c.c. La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la
pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo
invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la
signora l’ha “inglobato” nel proprio appartamento.
Il Collegio condivide la
ricostruzione operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè,
è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando
una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle
condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non
essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero
edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea
orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata
condominiale» nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e
finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate
rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al
preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto
architettonico».
Il Consiglio di Stato pone anche altri punti fermi. Benché la sanzione
acquisitiva al patrimonio dell’ente, spiega il Collegio, in caso di
inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di
diritto», non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al
fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un
titolo; pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza, unitamente
peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti dell’Amministrazione
incompatibili con l’esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere
la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della
proprietà, ferme restando le responsabilità –civili, amministrative, penali
e contabili– dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore.
Inoltre, lo stato legittimo dell’immobile, chiarisce la decisione, è altra
cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto dall’ultimo
titolo di legittimazione rilasciato; qualora un titolo edilizio esista e sia
proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria ad
attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo possibile riferirsi a
una ipotetica situazione preesistente al titolo stesso, salvo introdurre una
forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute
medio tempore, legittimate o meno (articolo NT+Diritto del 30.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conseguenze della mancata demolizione di un immobile abusivo.
In linea generale il proprietario non ha più alcun diritto a
porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni,
spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se
coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del
medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla
scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34,
comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e
dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in
pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia possibile- prima
dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e
34.
Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale
conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni
ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza
casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli
effettivamente accertati. Nella prassi, cioè, accade sovente che i
provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità,
semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione
procedente.
La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati
finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni
nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo
stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più
elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche. Vero è che la
formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi
della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione
dell’ingiunzione a demolire.
Si ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da
considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da
ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato
«all’interessato» (art. 31, comma 4).
L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua
massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi
accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di
verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo
autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario,
estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche
di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva,
soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del
territorio dell’Amministrazione vigilante
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806
- massima tratta da e link a https://lexambiente.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’interesse del condomino ad agire in giudizio contro un
abuso edilizio.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Giustizia
amministrativa – Condominio – Interesse al ricorso.
Il requisito della vicinitas, quale
condizione della legittimazione ad agire, è intrinseco nella
qualità di condomino ma non assorbe, neppure in tale
peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire, che va
dimostrato in concreto, anche in corso di causa.
Esso, tuttavia, sussiste ogniqualvolta l’intervento
contestato sia una sopraelevazione, e il condòmino lamenti
il pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio,
giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art. 1127, commi 2
e 3, c.c. operatività dell’art. 1127 c.c. (1).
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Edilizia e
urbanistica – Abuso edilizio – Acquisizione al patrimonio
del comune – Inottemperanza – Accertamento.
Benché la sanzione acquisitiva al
patrimonio dell’ente, in caso di inottemperanza dell’ordine
di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di diritto», non
è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari
al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che
necessita di un titolo.
Pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza,
unitamente peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti
dell’Amministrazione incompatibili con l’esercizio di tale
potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del
proprietario, non determinando il trasferimento della
proprietà, ferme restando le responsabilità –civili,
amministrative, penali e contabili– dei funzionari che non
hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le
scansioni temporali previste dal legislatore (2)
---------------
Edilizia e
urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento – Titolo
edilizio.
Lo stato legittimo dell’immobile è altra
cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto
dall’ultimo titolo di legittimazione rilasciato.
Qualora un titolo edilizio esista e sia proprio lo
“scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria
ad attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo
possibile riferirsi ad una ipotetica situazione preesistente
al titolo stesso, salvo introdurre una forma di improprio e
generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute
medio tempore, legittimate o meno (3).
---------------
(1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
(2) Non risultano precedenti negli esatti termini.
(3) Non risultano precedenti negli esatti termini (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
10. La vicenda di cui è causa, resa ancor più
complessa dall’evidente conflittualità sottesa alla stessa e
dal profluvio argomentativo di tutte le parti (da ultimo, la
memoria di replica delle appellate supera finanche i
previsti limiti dimensionali), interseca diverse questioni
di diritto con riferimento alle quali appare opportuno una
preliminare ricostruzione giuridica.
Oggetto di impugnativa sono due provvedimenti di c.d.
fiscalizzazione di un abuso edilizio, la cui sussistenza è
incontestata tra le parti, ancorché non ne sia condiviso
l’inquadramento, essendone dubbia la riconducibilità al
paradigma della “nuova opera” o della “ristrutturazione
edilizia”, in entrambi i casi sine titulo, ovvero, al più,
in totale difformità da quanto avallato con l’unico
posseduto, vale a dire l’autorizzazione edilizia n. 1461 del
1983 per «risanamento e modifiche di un appartamento al 4°
piano di un fabbricato civile».
Il secondo provvedimento, di
sostanziale conferma del precedente, consegue alla
dichiarata necessità di ottemperare al giudicato cautelare
favorevole alle ricorrenti in primo grado, previa
acquisizione, peraltro, di documentazione tecnica che il
Comune ha ritenuto satisfattiva dell’avvenuto rispetto dei
requisiti imposti dalla normativa antisismica.
11. Il primo giudice, nel tentativo di mettere ordine nel
reticolo delle contrapposte argomentazioni di parte, e
soprattutto nel disordinato sviluppo procedimentale seguito
dagli uffici comunali, ha infine motivato l’accoglimento del
ricorso sul solo scrutinio positivo della doglianza
contenuta al punto 3.1 dei motivi aggiunti, relativi alla
invocata inapplicabilità agli interventi di “nuova
costruzione” dell’istituto di cui all’art. 33, comma 4, del T.u.e.
Nello sviluppo della motivazione, tuttavia, ha dato
altresì atto della fondatezza di ulteriori rilievi avanzati
dalle ricorrenti in particolare con il ricorso principale,
seppure in verità senza preoccuparsi troppo della coerenza
narrativa della ricostruzione del quadro normativo proposta.
Da qui il riferimento all’avvenuta acquisizione del bene al
patrimonio del Comune, giusta la colpevole inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, non potendo la condotta della
proprietaria essere “scriminata” dai documentati tentativi
di appianare le problematiche di natura civilistica sottese
alla vicenda.
Con riferimento poi alle censure riguardanti
il primo atto, ma superate dal contenuto del secondo
(lesione del contraddittorio, violazione o erronea
applicazione della l.r. n. 39 del 2004), dando atto che esse
sono state «depotenziate, alla luce del rinnovato esercizio
dell’iter procedimentale e del nuovo provvedimento», ha
dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse.
Alcune
ulteriori questioni invece, o in quanto «aventi natura
logicamente subordinata» o perché divenute irrilevanti (ad
esempio, il rispetto delle norme in materia sismica,
l’incongruità motivazionale, la disparità di trattamento),
sono state assorbite.
Infine, «sull’applicazione della
sanzione di 20.000 € (asseritamente dovuta ex art. 31 comma
4-bis)» ha ritenuto di non potersi pronunciare «trattandosi
di attività amministrativa consequenziale e non ancora
esercitata».
12. Il Collegio ritiene dunque utile innanzi tutto chiarire
che il perimetro della controversia si concentra
essenzialmente sul provvedimento del Comune di Modena del
2022, che in quanto confermativo del precedente, ne replica
il contenuto (e quindi i vizi), ampliandoli, ma nel contempo
ne elimina alcuni in precedenza presenti.
12.1. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e
da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia
stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e
di una nuova ponderazione degli interessi.
In tale seconda ipotesi, va dunque richiamato l’insegnamento
giurisprudenziale per il quale
«ogni nuovo provvedimento
innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera
giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria
(che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta
di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova
motivazione, dimostri di voler confermare la volizione
espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto
di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento
del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove
valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo
superamento di quelle poste a base di un provvedimento
impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di
carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del
relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2018,
n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 02.09.2013, n. 4358 e sez. IV, 25.06.2013, n. 3457).
13. Da un confronto meramente testuale tra la determina del
2019 e quella del 2022 risultano chiari gli elementi di
diversificazione e di approfondimento sopravvenuto, a
partire dal mutato richiamo alla cornice normativa di
riferimento, abbandonando il riferimento alla legislazione
regionale per ricondurre la scelta solo sotto l’egida
dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Da qui,
l’effettiva inutilità della riproposizione da parte delle
appellate delle censure facenti leva sulla contestata errata
applicazione di tale legislazione regionale.
13.1. Vero è che nei casi di riedizione del potere in mera
ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento
attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto
ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza
del giudice (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2011, n. 1757; Cons. Stato, sez. IV,
02.01.2019, n. 16).
Nel caso di
specie tuttavia l’adozione non in maniera spontanea, ma in
esecuzione della decisione cautelare del giudice, del nuovo
atto regolante la vicenda da parte dell’Amministrazione, non
dà allo stesso rilevanza provvisoria, in attesa cioè che una
sentenza di merito definitiva accerti se quello
originariamente impugnato sia o meno legittimo.
Al
contrario, da esso emerge chiaramente che l’Amministrazione,
a seguito della decisione del giudice, ha sostituito il
provvedimento la cui esecutività è stata sospesa in sede
giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una
rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così
adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il
giudicato, innovando rispetto all’assetto di interessi già
pregiudizievole per il privato.
In sintesi, seppure il
dirigente abbia richiamato espressamente in premessa
l’ordinanza n. 186/2022 del Tar per l’Emilia Romagna, se
ne è poi discostato radicalmente, avendo da subito rimarcato
che «non si è verificato alcun effetto ablatorio del
manufatto in questione a favore del Comune di Modena visti
gli intendimenti reiteratamente espressi dalla sig.ra
Ma. di dare corso all’ordinanza con il corretto
obiettivo di ripristinare uno stato dei luoghi conforme alla
categoria del restauro propria dell’immobile, e non di
creare un “quid novi” inconciliabile con tale categoria».
In
senso diametralmente opposto la richiamata ordinanza,
esprimendosi sul fumus dell’istanza, dà atto che «in buona
sostanza, l’effetto ablatorio in favore del Comune appare
essersi verificato ope legis con l’inutile scadenza del
termine fissato per ottemperare all’ingiunzione, mentre è
irrilevante la mancata adozione di un atto di ricognizione
della consistenza immobiliare oggetto di trasferimento (il
quale costituisce viceversa titolo necessario per
l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari del trasferimento dell’immobile)», invocando
anche la copiosa giurisprudenza del Consiglio di Stato in
materia.
14. Sempre in limine litis, alterando la sistematica seguita
nello sviluppo dell’appello, il Collegio ritiene opportuno
scrutinare il quarto motivo di gravame, con il quale la
signora Si.Ma. lamenta l’erroneità della sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente
l’interesse ad agire delle condòmine, asseritamente
identificandolo nella mera affermazione di tale specifico
status.
15. In materia di impugnazione dei titoli edilizi,
l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia
n. 22 del 2021, risolvendo un contrasto giurisprudenziale
sulle condizioni dell’azione impugnatoria da parte di chi si
ritenga leso da un titolo rilasciato a terzi, ha precisato
che la mera c.d. vicinitas, intesa come vicinanza fisica
della propria proprietà rispetto a quella oggetto
dell’intervento edilizio contestato, non basta a dimostrare
l’esistenza di un concreto ed attuale interesse a ricorrere,
dovendosi affermare la distinzione e l’autonomia tra la
legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso.
Il Giudice
è tenuto dunque ad accertare anche d’ufficio la sussistenza
di entrambe le condizioni dell’azione, verificando se esiste
un vantaggio concreto ed attuale che il ricorrente potrebbe
effettivamente trarre dalla caducazione del titolo edilizio
contestato, tenuto conto delle specifiche censure articolate
in atti e concedendogli la possibilità di precisarlo e
comprovarlo in corso di causa, in modo da evitare il
compimento di attività giurisdizionali inutili, in contrasto
con l’interesse pubblico all’efficienza ed efficacia del
processo ex artt. 111 Cost., 6 e 13 CEDU e 47 Carta UE.
15.1. Quanto detto non subisce deroghe neppure laddove ad
agire sia un condomino, in relazione ad interventi che non
interessino, o non interessino direttamente, parti comuni
dell’edificio, seppure evidentemente la peculiarità del
contesto renda la vicinitas per così dire ontologicamente
intrinseca alla relativa qualifica.
Come di recente
affermato anche dalla Sezione, ad esempio, laddove le
conseguenze dannose dell’intervento siano già state oggetto
di pronuncia risarcitoria favorevole, l’interesse è venuto
meno, al fine di evitare un’indebita locupletatio del terzo
rispetto alla censurata attività edificatoria altrui (Cons.
Stato, sez. II, 17.10.2022, n. 8841).
15.2. Nel caso di specie tuttavia l’intervento è consistito
nella sopraelevazione dell’edificio, con riferimento alla
quale le odierne appellate non a caso hanno proposto ricorso
innanzi al giudice civile ex art. 1127 c.c.
La Corte di
Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di
primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo
invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una
chiusura la signora Si.Ma. l’ha “inglobato” nel
proprio appartamento.
E in effetti, quale che ne sia
l’inquadramento tipologico sotto il profilo edilizio e a
prescindere dalla contestata efficacia di giudicato di tali
affermazioni da parte della difesa civica, giusta
l’estraneità del Comune di Modena a ridetto contenzioso, il
Collegio condivide la ricostruzione dei fatti di causa
operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria,
cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una
parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui
realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni
di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non
essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico
riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo
dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale
superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla
facciata condominiale» nonché connotata dalla presenza di
«due finestre di forma e finiture diverse da quelle
esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle
stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al
preesistente a scapito del pregio estetico del condominio
nel suo aspetto architettonico».
Il riferimento alle
finestre, quindi, cui l’appellante vorrebbe circoscrivere la
portata del giudicato civile, è solo esemplificativo, oltre
che rafforzativo, della generale disarmonia prodotta, quanto
meno ad avviso del giudice civile.
15.3. La tutela, dunque, del valore architettonico
dell’edificio condominiale, astrattamente pregiudicata da
qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione, integra sicuramente
l’interesse ad agire avverso provvedimenti che ne
legittimano il mantenimento, siccome accaduto nel caso di
specie.
15.4. Va pertanto respinto il quarto motivo di appello.
16. D’altro canto e in senso diametralmente opposto, la
sentenza impugnata ha ritenuto meritevole di apprezzamento
la tesi contenuta nei motivi 2.1, 2.2 e 2.5 del ricorso
introduttivo, laddove le appellate allora ricorrenti
lamentano il difetto di legittimazione a chiedere una
sanatoria da parte dell’appellante, essendo ormai
intervenuta l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio
indisponibile del Comune, e alla luce del giudicato
formatosi sulla compromissione e peggioramento del decoro
architettonico del palazzo.
La questione, ripresa nel motivo
aggiunto 3.1, è infine più correttamente ricondotta non alla
legittimazione ad avanzare richieste di qualunque genere al
Comune di Modena -cui spettava l’onere di dichiararne se del
caso l’improcedibilità- bensì alla ritenuta violazione,
nell’adozione degli atti impugnati, dell’art. 33, comma 4,
del d.P.R. n. 380 del 2001, che essendo riferito alle
ipotesi di ristrutturazione abusiva, non avrebbe potuto
trovare applicazione in caso di “nuova costruzione”, quale
quella in esame.
17. Il Collegio ritiene utile premettere una sintetica
ricostruzione dei principi posti a base degli istituti
giuridici a vario titolo e con finalità opposte evocati da
tutte le parti in causa, in maniera peraltro spesso confusa,
sì da attingere indistintamente elementi dall’uno e
dall’altro, seppure si tratti di categorie autonome e per
nulla fungibili.
18. L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede, per
i soli casi di opera eseguita in assenza di permesso di
costruire, ovvero in variazione essenziale o totale
difformità dallo stesso, quale conseguenza della mancata
ottemperanza all’ordine di demolizione, un’automatica
fattispecie acquisitiva al patrimonio del comune dell’opera
abusiva e della relativa area di sedime.
Sull’automatismo
del relativo meccanismo acquisitivo si è di recente espressa
anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai cui
principi occorre fare integrale rinvio, seppure con talune
precisazioni integrative (Cons. Stato, A.P., 11.10.2023, n. 16).
18.1. Come affermato dal giudice delle leggi con riferimento
all’omologa previsione contenuta nell’art. 15, comma 3,
della l. 28.01.1977, n. 10, «l’acquisizione, a titolo
gratuito, dell’area sulla quale insiste la costruzione
abusiva al patrimonio indisponibile del comune rappresenta
la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in
essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale
difformità od in assenza della concessione e, poi, non
adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa» (Corte cost.,
ordinanza n. 82 del 15.02.1991).
La natura sanzionatoria autonoma dell’acquisizione al patrimonio, da
sempre riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa (da
ultimo, v. ex multis C.G.A.R.S., 25.03.2022, n. 373,
nonché Cons. Stato, sez. II, 20.01.2023, n. 714), ha
trovato d’altro canto conferma con l’aggiunta al predetto
art. 31 dei commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, per effetto
dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), della legge 11.11.2014, n. 164, di conversione, con modifiche, del d.l. 12.09.2014, n. 133, che hanno previsto un’ulteriore e
autonoma sanzione per il medesimo illecito, ovvero la
corresponsione di una somma di danaro compresa tra euro
duemila (2.000/00) e euro ventimila (20.000/00), i cui
proventi sono a destinazione vincolata alle spese per rimessione in pristino e acquisizione e attrezzatura di aree
destinate a verde pubblico. Sanzione aggiuntiva della quale
le appellate lamentano la mancata irrogazione.
Sul punto,
come detto, il primo giudice ha ritenuto di non
pronunciarsi, essendo il relativo potere ancora esercitabile
dal Comune di Modena, così dando ulteriormente per scontato
che l’intera fattispecie sia da ricondurre all’interno della
cornice delineata dall’art. 31 e non dall’art. 33 del T.u.e.
18.2. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al
patrimonio comunale costituiscono dunque due distinte
sanzioni, che rappresentano «la reazione dell’ordinamento al
duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue
un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di
demolirla» (Corte cost., n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.).
Mentre la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione
ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive,
per cui l’individuazione del suo destinatario comporta
l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e
prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e
sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene;
invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della
relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la
correlata sanzione pecuniaria).
18.3. Le scansioni procedurali sintetizzate dall’Adunanza
plenaria risultano dunque essere le seguenti: «[…] il
responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi
causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze,
sicché vanno distinte le seguenti fasi temporali:
a) fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di
demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la
demolizione, che, se viene posta in essere, evita il
trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico;
b) qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i
destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un
secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un
lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la
conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria
e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter
rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce
l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da
essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel
suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non
abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi
dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001);
c) decorso il termine per demolire, qualora
l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la
possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato
per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non
comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla
‘retrocessione’ del bene, né fa venire meno la sanzione
pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la
perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è
già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione,
nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla
demolizione in danno».
19. In linea generale, quindi, il proprietario non ha più
alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la
scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla
discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se
coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla
possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1,
del medesimo T.u.e., consente la presentazione della
relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli
articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque
fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque
prima della scadenza del termine indicato per demolire o
ridurre in pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia
possibile- prima dell’irrogazione delle sanzioni previste
in alternativa dagli articoli 33 e 34.
20. Le possibili variabili a tale -condiviso- schema
ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni
di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come
dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza
casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a
quelli effettivamente accertati.
Nella prassi, cioè, accade
sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera
morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura
scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La
meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi
enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile
quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da
qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto
non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più
elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche.
21. Vero è che la formulazione della norma non sembra
lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza
procedimentale che consegue all’avvenuta adozione
dell’ingiunzione a demolire. Il Collegio ritiene tuttavia
che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da
considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile
condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento
dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31,
comma 4).
21.1. L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in
ragione della sua massima afflittività, presuppone
necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa
che da un lato consente all’amministrazione di verificare
l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo
autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del
nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della
prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad
esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di
risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea,
seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le
esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione
vigilante.
21.2. Il rispetto di tali scansioni procedurali, dunque,
lungi dal costituire baluardo meramente formale
strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero
scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il
giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi
tutelati dal legislatore, ovvero la salvaguardia
dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo
titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela
della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il
titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso
ripristino spontaneo dello stato dei luoghi.
Il che poi,
sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il
valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla
Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del
manufatto abusivo.
Per pacifica giurisprudenza esso
costituisce un mero atto istruttorio endoprocedimentale che
precede il provvedimento vero e proprio costituente titolo
«per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei
registri immobiliari, che deve essere eseguita
gratuitamente»; ma a detto verbale di sopralluogo deve
essere attribuito anche il valore corrispondente, mutatis
mutandis, al verbale di contestazione dell’illecito ex art.
14 della l. n. 689 del 1981, stante che è solo a far data
dallo stesso che il proprietario viene messo in condizione
di chiarire la propria posizione, scongiurando l’effetto
acquisitivo (ma non, ovviamente, quello demolitorio).
Solo
così è possibile recuperare quel necessario elemento di
raccordo tra i due snodi che tipicamente connotano ogni
procedimento sanzionatorio, ovvero la fase affidata agli
organi di vigilanza, deputata all’acquisizione di elementi
istruttori, e la successiva, avente natura lato sensu
contenziosa e decisoria, preordinata all’adozione, da parte
dell’autorità titolare della potestà sanzionatoria, del
provvedimento di irrogazione della stessa.
21.3. Nel contempo, le ricordate esigenze di certezza del
diritto non possono tradursi in un effetto traslativo
destinato a rimanere meramente virtuale ove non seguito,
cioè, dai necessari e doverosi adempimenti formali.
Ritiene
dunque il Collegio che l’operatività “di diritto”
dell’effetto acquisitivo allo scadere dei 90 giorni
dall’ingiunzione demolitoria vada intesa esclusivamente a
favore del Comune, ponendo il proprietario in una situazione
di mera soggezione rispetto alle scelte del primo, che non
gli consente più di demolire spontaneamente, salvo il primo
non glielo consenta, espressamente o tacitamente, non
addivenendo alla formazione del titolo sempre necessario per
dare luogo ad un cambio di proprietà.
21.4. È evidente al riguardo che ciò non esclude le
eventuali responsabilità, penali, amministrativo-contabili
e/o civili conseguente alla sostanziale rimessione in
termini operata dal Comune nel momento in cui non dà seguito
al procedimento sanzionatorio. Trattasi tuttavia di vicende
estranee al perimetro del giudizio e comunque inidonee ad
inficiare ex se il successivo procedimento amministrativo.
22. Ulteriore corollario di tali scelte gestionali è
costituito dalla potenziale incidenza delle stesse sulla
valutazione della “colpevolezza” del soggetto tenuto a
rimuovere l’abuso. Anche a tale riguardo, va detto che
l’Adunanza plenaria, nella pronuncia poc’anzi richiamata,
seppure quasi come un obiter, ha individuato quale unica
ipotesi di esclusione della imputabilità (non della
colpevolezza, quindi) il caso, in verità alquanto di scuola,
della «malattia completamente invalidante» ( § 19.6, della
pronuncia n. 16 del 2023).
23. Ritiene il Collegio che se è lo stesso Comune ad aprire
un dialogo con la proprietà, accedendo alle relative
proposte e di fatto operando continue rimessioni in termini
rispetto a quello normativamente previsto per
l’ottemperanza, ridetta colpevolezza non può che essere
esclusa.
23.1. Nel caso in esame, l’Amministrazione da un lato non ha
mai inteso annullare in autotutela l’ordinanza del 1990 -
revocata, a distanza di oltre trenta anni, con i
provvedimenti impugnati; ma dall’altro non vi ha dato mai
alcun concreto seguito, come avrebbe potuto –recte, dovuto–
fare una volta passata in giudicato la sentenza n. 1507/2012
di questo Consiglio di Stato, che ha confermato la
legittimità della denegata sanatoria.
Manca, dunque, un vero
accertamento di inottemperanza: l’ammissione della stessa
per tabulas nelle richieste di parte, dapprima di riesame,
indi di sanatoria/legittimazione di una diversa modalità
costruttiva, infine di fiscalizzazione, non è stata in alcun
modo valutata dal Comune in relazione alla tempistica entro
la quale l’abuso avrebbe dovuto essere demolito. Finanche la
nota del 21.05.2014, di riscontro alla richiesta di
parte del 02.04.2014, invocata dalle appellate a conferma
delle proprie tesi, conferma la scelta del Comune di non
dare seguito alla sanzione originariamente inflitta.
È vero,
infatti, che in tale occasione il dirigente ha dichiarato
non decaduto «nessun ordine di demolizione causa del parere
della Commissione per qualità architettonica e il paesaggio
del 14/03/2014 ove, a fronte di una Sua volontaria
demolizione di quanto realizzato abusivamente. È stato
proposto di valutare la possibilità di realizzare (dopo la
demolizione dell’abuso), una struttura di tipo
“ferro-finestra” per consentire il godimento del terrazzo
prospiciente su piazza Pomposa»; salvo poi sollecitare la
stipula di un accordo sostitutivo di provvedimento ex art.
11 della l. n. 241 del 1990, con ciò riconducendo il
problema del mantenimento o meno dello status quo al previo
avallo degli altri condomini, non alle questioni ostative di
natura urbanistica.
Lo stesso è a dire della successiva
comunicazione del 30.07.2015, che in maniera ancora più
ambigua “concede” «ulteriori 90 giorni, dal ricevimento
della presente, per dar corso all’esecuzione dell’ordinanza
di demolizione del 01.03.1990», sull’assunto che non è stato
dato riscontro all’invito precedente.
La nota peraltro
preannuncia, in caso di ulteriore inottemperanza, non la
futura acquisizione del bene e dell’area di sedime, ma
l’irrogazione aggiuntiva della (sola) sanzione di cui
all’art. 31, comma 4-bis, del T.u.e., «in considerazione del
fatto che l’abuso ricade nelle aree di cui all’art. 27, comma
2, del citato D.P.R. 380/2001», senza peraltro precisare
l’ipotizzata tipologia del vincolo, con ciò rafforzando
tuttavia l’originario inquadramento dell’illecito nella
fattispecie più grave.
24. Sotto tale profilo, dunque, è meritevole di positiva
valutazione la contestata acquisizione del bene alla
proprietà comunale (secondo motivo di appello, laddove si
contestano i capi da 1.6 a 1.8, pag. 28-29), ripreso anche
dal Comune di Modena, con argomentazione maggiormente
perspicua.
25. Il Tar per l’Emilia Romagna, tuttavia, dopo essersi
dilungato sulla tematica dell’automatica acquisizione del
bene al patrimonio comunale, vi giustappone quella della
ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’istituto
della fiscalizzazione.
26. Con il termine “fiscalizzazione” dell’abuso, funzionale
ad evidenziare sinteticamente e già a livello definitorio la
sua sostanziale monetizzazione, si intende un rimedio
alternativo eccezionalmente concesso in luogo della
demolizione.
In particolare, si può accedere alla
fiscalizzazione sia in caso di mancanza, totale difformità o
variazione essenziale dal titolo riferito ad
ristrutturazione edilizia (art. 33, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001); sia a fronte di accertata difformità solo
parziale dal permesso di costruire (art. 34, comma 2, e
2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli
interventi soggetti a s.c.i.a. alternativa al permesso di
costruire di cui all’art. 23, comma 01); sia infine
all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela,
del titolo stesso (art. 38).
Ma non nell’ipotesi, più grave,
di avvenuta realizzazione di una “nuova opera” in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità o variazione
essenziale dallo stesso (art. 31).
27. Sul piano dei presupposti oggettivi, mentre nel caso di
variazione essenziale o totale difformità ovvero di
illiceità dell’intervento sopravvenuta all’annullamento del
titolo si fa riferimento all’impossibilità di esecuzione, il
cui accertamento motivato è demandato espressamente, almeno
nella prima ipotesi, ai competenti uffici tecnici comunali
(art. 33, comma 2); laddove si tratti di parziale difformità
la stessa è limitata alla verifica dell’impatto sulla «parte
eseguita in conformità», che non deve ricavarne pregiudizio.
27.1. Ad avviso del Collegio tale differenza, apparentemente
minimale, costituisce un ulteriore tassello a riprova della
proporzionalità del quadro delle reazioni dell’ordinamento
rispetto al diverso disvalore degli illeciti: ferma restando
la priorità sempre e comunque accordata all’opzione
ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a
più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza
della costruzione nel caso della variazione essenziale o
totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di
esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona”
del manufatto, in caso di difformità parziale dal titolo,
prescindendo, solo in tale ultima ipotesi, dalla tipologia
di intervento effettuato (che dunque può anche non essere
una ristrutturazione).
27.2. Con riferimento agli immobili non vincolati ma
ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, la norma prevede
un’ulteriore “variabile” procedimentale, ovvero la necessità
del previo «parere vincolante circa la restituzione in
pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria» a cura
dell’«amministrazione competente alla tutela dei beni
culturali ed ambientali».
28. Se si eccettua il caso dell’avvenuta caducazione del
titolo, è dunque evidente che la fiscalizzazione costituisce
un “castigo” alternativo alla demolizione solo laddove
l’abuso sia per così dire parte di un tutto, che comunque il
legislatore consente eccezionalmente di preservare: ciò
avviene tipicamente sia nel caso in cui ci si discosti in
maniera minimale dalle indicazioni del permesso di
costruire, sia in quelle in cui, benché la divergenza sia
corposa, si tratta comunque di un intervento su patrimonio
edilizio preesistente.
29. Certo è che essa si basa su presupposti del tutto
diversi da quelli che portano all’acquisizione del bene al
patrimonio indisponibile quale conseguenza
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire: e ciò per
l’evidente ragione che la maggior gravità di queste ultime
non consentono mai di tollerare il mantenimento in loco di
situazioni di illecito permanente ritenute radicalmente in
contrasto con esigenze di buon governo del territorio.
Laddove ciò avvenga, infatti, deve trattarsi di una scelta
funzionale all’interesse pubblico deliberato dall’organo
legislativo del Comune, e successiva all’acquisizione della
proprietà alla mano pubblica (art. 31, comma 5, del d.P.R.
n. 380 del 2001).
29.1. Rileva ancora il Collegio come tale eterogeneità
contenutistica trovi piena conferma nelle differenze di
declinazione dei relativi procedimenti sanzionatori: gli
artt. 33 e 34 del T.u.e. non prevedono affatto la notifica
dell’accertamento di inottemperanza per l’evidente ragione
che ad essa non consegue la perdita della proprietà. L’iter
si ricongiunge in tratti omogenei con riferimento alla
demolizione, che nei casi più gravi è successiva
all’acquisizione dell’opera, ma grava pur sempre sul Comune,
seppure a spese dei responsabili dell’abuso.
30. La sentenza impugnata, in verità in assenza di una
specifica censura sul punto, inquadra l’intervento come
“nuova costruzione” e coerentemente ritiene non applicabile
l’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non
riferibile a ridetta tipologia di intervento edilizio, salvo
poi precisare che in ogni caso la fiscalizzazione non
avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato
alla proprietà pubblica.
Su siffatto inquadramento «il Comune era privo di margini di
apprezzamento, avendola il giudice amministrativo già
qualificata come “nuova costruzione” (cfr. sentenza
irrevocabile sez. II - 11/7/2003, par. 1-d)». Esso inoltre
contrasterebbe con la giurisprudenza, richiamata allo scopo,
che «[…] ritiene che debba essere classificata come nuova
costruzione, non pertinenziale, anche una tettoia “che abbia
i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di
posa o di elevazioni dell’opera” (cfr. Tar Calabria-Reggio Calabria- 23/01/2023 n. 96, che evoca Consiglio di
Stato sez. IV – 02/03/2018 n. 1309)».
31. Il Collegio non condivide la ricostruzione, ritenendo di
accedere al riguardo alla diversa prospettazione fornita in
merito dalla difesa civica.
Le argomentazioni
dell’appellante, invece, in quanto fondate essenzialmente
sulla ribadita attendibilità della documentazione
concernente la preesistenza di un granaio che si sarebbe
andato a ripristinare, già ritenuta inconferente sia dal
Comune (con atti non impugnati), sia dal giudice civile, si
palesano in parte qua prive di pregio.
D’altro canto, laddove l’Amministrazione avesse voluto
rivedere anche le proprie originarie posizioni negative al
riguardo, avrebbe dovuto rieditare tutti i precedenti
dinieghi, a far data da quello del 30 ottobre 1989, per
contro mai messo in discussione.
32. Il provvedimento datato 22.08.2022, oggetto di
motivi aggiunti di ricorso, diversamente dal precedente, del
17.06.2019, inquadra espressamente l’opera «nella
categoria di intervento della ristrutturazione edilizia,
nell’accezione di cui alle lett. d), comma 1, art. 31 Legge n.
457/1978, ora lett. d), comma 1, art. 3 DPR 380/2001 e lett.
c), comma 1, art. 10 DPR 380/2001».
33. Il Collegio ritiene che l’inquadramento dell’abuso come
ristrutturazione edilizia sine titulo, in quanto neppure
fatta oggetto di censure di merito, non fosse in alcun modo
preclusa dal precedente giudicato amministrativo.
La scarna
motivazione ricavabile dalle sentenze del Tar per l’Emilia
Romagna n. 755 del 1990 e n. 756 del 1990, confermate
dall’altrettanto sintetica pronuncia del Consiglio di Stato
n. 5707 del 2012, infatti, pare piuttosto arrestarsi ai
limiti della relativa questione, non prendendo una vera e
propria posizione in termini di inquadramento sistematico.
Nella prima, in particolare, avente ad oggetto proprio il
diniego di sanatoria del 30.10.1989, il richiamo è
all’art. 14 delle allora vigenti n.t.a. che vietano «ogni
costruzione, anche di carattere provvisorio», così creando
quel vincolo di inedificabilità assoluta sull’immobile
ostativo al rilascio della sanatoria ex art. 33, lett. a)
della l. n. 47 del 1985.
Analoga argomentazione è contenuta
nella sentenza del Consiglio di Stato, ove in maggior
dettaglio si precisa come la «sostanziale sopraelevazione
dell’edificio e […] costruzione di un nuovo vano» implica
l’operatività del richiamato vincolo di inedificabilità, che
seppure contenuto nella pianificazione urbanistica, esclude
la condonabilità ai sensi della norma poc’anzi richiamata.
La disciplina urbanistica, cioè, ammettendo sul fabbricato
esclusivamente il risanamento conservativo, non consentiva
alcun tipo di incremento volumetrico, automaticamente
riconducendo lo stesso a “nuova” costruzione, come tale
vietata. La dicitura “nuova costruzione”, cioè, pare
effettivamente utilizzata in accezione atecnica, comunque
sufficiente a motivare la reiezione di quello specifico
ricorso.
34. D’altro canto, al momento della sua realizzazione era
operante la sola previsione di cui all’art. 31 della l. n.
457 del 1978 -non a caso richiamato esso pure nelle
premesse all’atto impugnato nella versione del 2022- che ha
per la prima volta avocato alla potestà statale ambiti
lasciati fino ad allora alla libera interpretazione delle
norme tecniche e dei regolamenti edilizi comunali.
Va
peraltro ricordato che già dalla seconda metà degli anni ´80
-ferma restando la definizione di legge- si era
riscontrata finanche una frattura fra l’orientamento della
giustizia amministrativa e quello della giustizia penale in
quanto la prima riconosceva la possibilità nella
ristrutturazione di aggiungere anche un quid novi e cioè
incrementi volumetrici dell’edificio preesistente, laddove
la seconda lo negava in maniera tassativa.
34.1. D’altro canto proprio la ristrutturazione edilizia, la
cui definizione è ora contenuta nella lettera d) del comma 2
dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha subito nel
tempo una storia travagliatissima, tanto da costringere
l’interprete ad una faticosa opera di “ortopedia” e lettura
sinottica delle diverse disposizioni che si sono succedute
nel tempo al fine di stabilire quali fra gli interventi
rientranti nella detta definizione siano oggi subordinati a
permesso di costruire e quali possano invece essere
realizzati con semplice s.c.i.a.
La norma, in verità, nella
sua formulazione originaria, riprendeva e precisava in
chiave fortemente limitativa- in quanto imponeva la «fedele
ricostruzione» con «identicità» di «sagoma, volume, sedime e
materiali»- quella del 1978, tant’è che da subito è stata
oggetto di novelle caratterizzate da aperture sempre più
sviluppate.
34.2. Da ultimo, con la legge di conversione 15.07.2022,
n. 91, del decreto legge 17.05.2022, n. 50, c.d. decreto
“Aiuti”, vi sono state ricomprese anche le tipologie di
interventi demo-ricostruttivi “non fedeli” ricadenti in area
vincolata che il legislatore aveva nelle precedenti
modifiche continuato a riservare alla diversa categoria
della nuova costruzione.
35. Una volta ammesso dunque l’inquadramento della
fattispecie come ristrutturazione edilizia, viene meno
qualsivoglia astratta possibilità di ipotizzare la perdita
della proprietà, che comunque il Comune espressamente
esclude nell’atto impugnato, in maniera tuzioristica,
attribuendosi la scelta di avere valutato favorevolmente il
fattivo contributo della proprietaria, escludendone la
volontaria e quindi colpevole inottemperanza.
36. Il Collegio non ritiene comunque di addivenire ad una
soluzione diversa da quella propugnata dal primo giudice,
ancorché mutandone la motivazione, giusta il sostanziale
sviamento da parte del Comune dal potere sanzionatorio del
quale è titolare in materia urbanistico-edilizia.
37. Prive di pregio si palesano innanzi tutto le ulteriori
censure dell’appellante, atte a valorizzare il contenuto dei
vari pareri della Commissione comunale: essi, infatti, non
solo «urtano frontalmente», come riportato dal Tar contro
le statuizioni del giudice civile sul nocumento estetico al
fabbricato; ma soprattutto attengono ad un mero giudizio di
valore, basato cioè sulla personale opinione di quell’organo,
privo di specifica competenza in materia di tutela
vincolistica, circa l’opportunità di non modificare lo stato
dei luoghi, in base ad un costrutto, più empirico che
giuridico, che nel dubbio tende a considerare il rimedio
(ovvero la demolizione) peggiore del male (la conservazione
dell’illecito).
Anche a non voler considerare l’innegabile
incoerenza evolutiva degli stessi, che hanno valutato senza
soluzione di continuità richieste di riesame di un
procedimento sanzionatorio ormai concluso, proposte
edificatorie alternative alla demolizione, ovvero (ri)proposte
sub specie di s.c.i.a. (laddove per dare esecuzione ad una
demolizione non è evidentemente necessario alcun titolo, né
è pensabile inserire in tale fase una anomala legittimazione
sanante di porzione di illecito, in deroga alla -per quanto
consta in atti- immutata disciplina urbanistica sul punto),
essi non attengono agli aspetti tecnico-strutturali
dell’edificio.
Trattasi cioè di una valutazione “a tavolino”
che nulla ha a che vedere con il doveroso accertamento
dell’impossibilità, sotto il profilo tecnico, di addivenire
a demolizione, richiesto dalla norma in termini generali. La
circostanza che manchi un’indicazione espressa in tal senso,
non significa che alla disposizione possa attribuirsi un
senso diverso da quello fatto palese dal sistema, per come
sopra delineato, che vede nella monetizzazione dell’abuso un
rimedio di natura eccezionale e derogatoria alla normalità
del ripristino.
Non a caso, la differenza sostanziale tra le
varie ipotesi di fiscalizzazione degli abusi va ravvisata
negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera,
sanata solo caso in cui essa consegua all’annullamento del
titolo edilizio, cui parte della dottrina accomuna al più le
“monetizzazioni” pure alternative alla demolizione di cui
agli artt. 36-37 del T.u.e. (v. Cons. Stato, A.P., 07.09.2020, n. 17).
Nelle rimanenti ipotesi invece, in
assenza di indicazione da parte del legislatore analoga a
quella contenuta nell’art. 38, comma 2, del T.u.e, dopo non
poche oscillazioni interpretative, la giurisprudenza è
attestata nell’escludere la portata sanante del pagamento
della sanzione, ravvisandovi piuttosto una sorta di
tolleranza formalizzata di una situazione non conforme ad
ordinamento, come tale da circoscrivere a situazioni di
effettiva e oggettiva impossibilità di ripristino.
37. D’altro canto, neppure attingendo alla ipotesi di cui al
comma 4 dell’art. 33 può salvaguardarsi il procedimento
seguito.
Va infatti ricordato che in caso di opere eseguite su
immobili vincolati (comma 3) non è ammessa alcuna
fiscalizzazione, dovendo l’amministrazione competente a
vigilare sull’osservanza del vincolo ordinare sempre la
restituzione in pristino, indicando criteri e modalità per
la relativa effettuazione.
Nel caso invece di opere eseguite
su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri
storici, la individuazione della tipologia di sanzione da
applicare, reale o pecuniaria, spetta all’amministrazione
preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che
si esprime mediante un parere vincolante.
Tale tipologia di
atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a
quanto stabilito dalla suddetta amministrazione.
Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso
entro il termine previsto, la competenza si trasferisce
all’amministrazione comunale.
37.1. Anche a voler ritenere la richiesta da parte del
dirigente comunale del tutto sganciata da una preventiva
valutazione tecnica di fattibilità, comunque condizionante
il successivo parere, dalla stessa non è certo possibile
prescindere laddove si addivenga ad una decisione tutta
interna al Comune, possibile solo dopo avere interpellato le
Soprintendenze.
38. Il Collegio ben conosce al riguardo il diverso
orientamento (invero risalente) del Consiglio di Stato
secondo il quale in mancanza di uno specifico regime
vincolistico sul bene, l’intervento della Soprintendenza per
i beni storici e paesaggistici non potrebbe ammettersi se
non nei casi e nei limiti previsti dalla legge (Cons. Stato,
sez. VI, 24.02.2014, n. 855).
Quanto detto sia in
ragione dell’immediato superamento dello stesso da altro di
senso diametralmente opposto (Cons. Stato, sez. VI, 10.03.2014, n. 1084), cui il Collegio aderisce, sia in quanto nel
caso di specie è proprio il legislatore ad avere preteso,
giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio,
anche singolo, all’interno di un centro storico, che la
scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile,
ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia
rimessa all’Autorità preposta alla tutela di un vincolo,
ancorché formalmente non imposto.
D’altro canto, la
affermata insanabilità dell’opera di cui all’originario
provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla
assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli
illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica.
38.1. Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché
pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel
contempo avocando ad un proprio organismo consultivo
l’espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione,
sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun
conto dei precedenti giudicati sul punto, il Comune di
Modena ha violato l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del
2001, come lamentato dalle appellate nei motivi 2.4 e 2.5
del ricorso di primo grado (riproposti come motivo aggiunto
3.0, che richiama gli originari 2.4 e 2.5, nonché, in quanto
fonte di vizio autonomo, nei motivi aggiunti 3.2 e 3.5).
Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far
verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del
ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i
centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad
accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe
dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza,
quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per
evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a
tutela dell’assetto complessivo dei luoghi. Tertium non
datur.
39. Né infine a diverse conclusioni può condurre
l’enfatizzata difficoltà di individuazione dello “stato
legittimato preesistente” stante che la relativa dizione non
può far retroagire ad libitum l’individuazione della
consistenza di un immobile, finendo per consentire la
eventuale stratificazione di abusi edilizi che si sono
succeduti nel tempo dopo l’originaria edificazione del
manufatto principale.
40. Tale indebita lettura dello “stato legittimato”
contrasta peraltro anche con la definizione datane di
recente dal legislatore.
40.1. Lo “stato legittimo” dell’immobile, infatti, è oggi
declinato nel comma 1-bis, inserito nell’art. 9-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 dal d.l. 16.07.2020, n. 76,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120 -dunque dopo l’adozione del primo provvedimento
impugnato, ma prima del successivo– che lo individua in
«[…] quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha
previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e
da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio
che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare,
integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno
abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati
in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il
titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello
desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o
da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche,
gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro
atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la
provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato
l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero
immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali
titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.
Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano
altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del
titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile
copia».
La disposizione, già sottoposta al vaglio della
Corte costituzionale, è stata ritenuta rispettosa del
riparto costituzionale in materia edilizia in quanto si
limita ad individuare, in termini generali, la
documentazione idonea allo scopo, definendo i tratti di un
paradigma le cui funzioni –comprovate dai lavori
preparatori– sono quelle di semplificare l’azione
amministrativa nel settore, di agevolare i controlli
pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica
e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti
su beni immobili.
«Il contenuto prescrittivo di ampio
respiro e le finalità generali perseguite dalla norma
depongono a favore della sua qualifica in termini di
principio fondamentale della materia, ciò che trova conferma
nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle
“Disposizioni generali” del Titolo II della Parte I t.u.
edilizia, dedicato ai “Titoli abilitativi”» (Corte cost., 14.09.2022, n. 217).
40.2. Lo “stato legittimo dell’immobile”, dunque, riguarda
una sua condizione permanente, preesistente alla stessa
entrata in vigore della disposizione, da riferire a opere
realizzate prima del 1967, ovvero in epoca ancor più
risalente, nei centri urbani poi dotatisi di un regolamento
che richiedeva la licenza edilizia per l’edificazione, o per
cui esiste solo un principio di prova di un titolo edilizio,
il cui originale o la cui copia non è più rintracciabile (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2023, n. 3006; sez. II, 15.09.2023, n. 8339).
40.3. Laddove tuttavia, come nella specie, un titolo
edilizio esiste ed è proprio lo “scostamento” dallo stesso e
la sua richiesta di sanatoria che ha cagionato l’attivazione
del procedimento sanzionatorio, è di tutta evidenza che
“scavalcarlo”, cercando di immaginare la situazione allo
stesso preesistente non è in alcun modo ipotizzabile, salvo
introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di
tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o
meno.
41. Il Comune di Modena, facendo leva sulla mancata
descrizione di tale “fantomatico” stato dei luoghi
legittimato, cui ricondurre il ripristino della copertura,
nell’ambito dell’ingiunzione a demolire del 1990, lo ha
elevato a elemento essenziale della stessa. Con ciò pretermettendo che nella specie l’abuso non è consistito
nella realizzazione di un’opera ex novo, bensì conseguito al
rigetto di una sanatoria: ed è il contenuto di tale
richiesta ad indicare, partendo dallo stato di fatto che si
pretendeva di legittimare, lo sconfinamento rispetto al
titolo rilasciato (l’autorizzazione del 1983).
Va dunque
condivisa l’affermazione del Tar per l’Emilia Romagna
laddove evidenzia che la controversa consistenza del palazzo
negli anni 1926/1927 non inficia la certa realizzazione nel
1983 di una copertura dapprima inesistente, tant’è che la
proprietà aveva informato del relativo progetto l’assemblea
condominiale, subordinandone la realizzazione all’avallo
comunale.
42. All’accoglimento delle (correttamente) riproposte
censure di cui ai motivi aggiunti 3.0 e 3.5, non esaminate
dal primo giudice, consegue la conferma della sentenza del
Tar per l’Emilia Romagna, n. 67 del 06.02.2023, con
diversa motivazione, e il conseguente annullamento dei
provvedimenti del Comune di Modena del 17.06.2019 e del
22.08.2022.
Essi infatti sono stati adottati in
violazione dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del
2001, non risultando accertata dagli uffici tecnici comunali
l’impossibilità della demolizione, presupposto indefettibile
della fiscalizzazione dell’abuso, in alcun modo surrogabile
da giudizi di valore espressi dalla competente Commissione
sulla qualità architettonica e il paesaggio, giusta la
competenza in merito della Sola Soprintendenza (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 22.01.2024 n. 806 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Natura e presupposti della revoca di un beneficio economico
già concesso.
---------------
Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo – Revoca
– Autotutela - Sanzione.
La revoca di un beneficio economico
è espressione del potere di vigilanza accordato alla p.a.
preposta alla relativa elargizione e, al pari della
decadenza disposta dal G.S.E. in materia di energie
alternative, ha tratti comuni con l’autotutela e con
l’omonimo atto sanzionatorio ma se ne distingue in ragione
di tale esplicitata finalizzazione (1).
---------------
Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo –
Procedimento in genere – Correttezza e buona fede – Revoca –
Termine.
La reciprocità degli obblighi di
correttezza tra privato e p.a. impone al primo di fornire le
informazioni richieste in maniera chiara ed esaustiva ma non
consente alla seconda di intervenire sine die contestando la
validità di documentazione il cui controllo avrebbe potuto
essere effettuato nell’immediato.
Il potere di controllo è infatti strumentale alla corretta
elargizione di danaro pubblico, ma senza perdere di vista la
finalità del beneficio di incentivare determinate iniziative
in quanto rispondenti a finalità di pubblico interesse,
spesso oggetto di tutela anche a livello eurounitario.
Pertanto, ove esercitato senza tenere conto delle
aspettative generate nel privato che ha fatto affidamento
sulla correttezza dell’operato della p.a., che pur essendo
in condizione di farlo, non gli ha eccepito alcunché,
adottando anche atti o tenendo comportamenti indicativi di
una valutazione positiva dell’iniziativa, esso è affetto da
sviamento rispetto alle finalità pubbliche per le quali è
stato conferito (2).
---------------
(1) Conformi: Cons. Stato, Ad. plen., n. 18 del 2020.
Difformi: non risultano
precedenti difformi.
(2) Non risultano precedenti in termini (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.01.2024 n. 688 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
8. Nel merito, l’appello è fondato per le ragioni di seguito
esplicitate.
9. Innanzi tutto, il Collegio ritiene necessario inquadrare
il provvedimento adottato, denominato di “revoca” di
un beneficio economico in precedenza concesso, ancorché non
ancora erogato.
10. In relazione a tale ambito, di regola con il relativo
nomen iuris il legislatore indica l’atto caducatorio,
distinto dall’esercizio della vera e propria autotutela, col
quale si dà attuazione al potere di vigilanza conferito
strumentalmente all’amministrazione preposta all’elargizione
di risorse pubbliche per finalità via via individuate come
meritevoli dalla normativa di settore.
I tratti distintivi
della decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili
disposta dalla Società gestrice dei relativi servizi (G.S.E.),
in qualche modo contenutisticamente assimilabile, sono stati
individuati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di
Stato, distinguendoli per un verso dall’irrogazione della
sanzione e per l’altro, appunto, dall’annullamento d’ufficio
ex art. 21-novies della l. n. 241 del 1990 (Cons. Stato, A.P.,
11.09.2020, n. 18).
La revoca, infatti, consegue alla riscontrata necessità da
parte della p.a. concedente di procedere al recupero o alla
mancata liquidazione in concreto di erogazioni in generale,
in particolare se si tratta di agevolazioni di diritto UE,
erroneamente accordate in assenza del presupposto che le
legittimava ab origine.
Trattasi cioè dell’esercizio di un
potere vincolato, che elide ex tunc il beneficio assentito
sine titulo, sulla base del dato oggettivo della riscontrata
violazione della normativa di regolazione del settore senza
che ne rilevi lo stato soggettivo del beneficiario,
emergendo quindi preminente l’esigenza per la pubblica
amministrazione che neppure deve motivare specificamente le
ulteriori ragioni d’interesse pubblico concreto e attuale o
di comparazione con quello del debitore, anche quando questi
sia in buona fede, circostanza destinata caso mai ad
assumere rilievo in relazione al quomodo del recupero, non
certo nell’an (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2018, n. 6659 e 30.05.2017, n. 2614).
9.1. L’esercizio di tale potere, cioè, in quanto privo di
spazi di discrezionalità perché non rivolto al riesame della
legittimità di una precedente determinazione amministrativa
di carattere provvedimentale, ma finalizzato al controllo
circa la veridicità e la completezza delle dichiarazioni
formulate da un privato nell’ambito di un procedimento volto
ad attribuire sovvenzioni pubbliche, esula in radice dalle
caratteristiche proprie degli atti di autotutela e
dall’applicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990.
A maggior ragione, non è configurabile alcun
affidamento in capo al privato che abbia formulato
dichiarazioni incomplete o non rispondenti all’effettivo
stato dell’impianto e delle sue componenti, pur in assenza
di ogni valenza penalistica di tale condotta.
10. Nelle procedure ad evidenza pubblica, infatti, quale che
ne sia l’oggetto specifico, la completezza delle
dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché
consente, anche in ossequio al principio di buon andamento
dell’amministrazione e di proporzionalità, la celere
decisione in ordine all’ammissione del privato, in
particolare se operatore economico, per il quale il fattore
tempo assume rilievo anche in termini concorrenziali, alla
selezione.
11. Il procedimento configura cioè in capo al singolo
obblighi di correttezza, specificati con il richiamo alla
clausola generale della buona fede, della solidarietà e
dell’autoresponsabilità, che rinvengono il loro fondamento
sostanziale negli artt. 2 e 97 della Costituzione e che
impongono che egli assolva oneri di cooperazione, quale
appunto è il dovere di fornire informazioni non reticenti e
complete, di compilare moduli, di presentare la prescritta
documentazione, ecc., di regola secondo il paradigma della
dichiarazione sostitutiva di cui al d.P.R. n. 445/2000.
Conseguentemente, ove l’adempimento informativo, per come
esplicitato a monte, sia stato evaso in maniera non corretta
o non veritiera, tale mancanza non può formare oggetto di
domanda d’integrazione o di richiesta di acquisizione a
carico della P.A. in base al cd. “obbligo di soccorso” ex
art. 6 della l. n. 241/1990, prima ancora che in base alla
legislazione speciale sulla contrattualistica pubblica.
12. Rileva tuttavia il Collegio come tali principi non
possano non incontrare un limite nelle esigenze di certezza
delle situazioni giuridiche, e, soprattutto,
nell’affidamento che il privato in buona fede ripone sulla
correttezza dell’operato della p.a.
Lo stillicidio di
richieste istruttorie che caratterizza troppo spesso la
prassi operativa delle amministrazioni pubbliche, finanche
laddove un mero screening preventivo della domanda ne
consentirebbe da subito l’inquadramento in termini di
adeguatezza e completezza, è d’altro canto alla base del
lamentato fallimento di tutti i tentativi di semplificazione
posti in atto dal legislatore, stante che è proprio su tale
rilievo, vero o presunto, che si fonda la mancata
decorrenza, ad esempio, dei tempi di controllo della
regolarità di una s.c.i.a. ovvero di maturazione di un
silenzio-assenso.
13. Vero è che laddove le verifiche attengano all’erogazione
di risorse pubbliche il particolare rigore richiesto non può
che risolversi in una maggior tolleranza in ordine alle
tempistiche di verifica. Ma è evidente che le stesse,
finanche nel caso in cui ammesse sine die dalla legislazione
di settore (si pensi, ad esempio, a quanto prescritto,
sempre in materia di incentivi in ambito energetico,
dall’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011, per come
interpretato dalla già richiamata pronuncia dell’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato), non possono
consentire ad libitum adempimenti meramente formali
riducibili a semplici riscontri empirici, quali quelli
consistenti nella “spunta” delle produzioni, ovvero nella
verifica di rispondenza delle stesse ad ulteriori
prescrizioni esteriori.
Ne consegue che, ad esempio, la
carenza di allegazioni documentali non espressamente
richieste e rivelatesi rilevanti ex post per supportare le
dichiarazioni dell’istante, non può essere utilizzata a
distanza di tempo per confutarne le deduzioni in quanto non
documentate nella maniera pretesa.
Ciò laddove manchi una esplicitazione comprensibile ed inequivoca nel senso della
loro necessità, ovvero laddove il comportamento
dell’Amministrazione successivo al loro dichiarato scrutinio
abbia confortato l’utente nel senso della
efficacia/regolarità delle indicazioni fornite,
rafforzandone l’affidamento. In tale ultima ipotesi,
infatti, se non sono stati avanzati dubbi o richieste di
chiarimenti ulteriori, per non tenere conto di quelli che le
sono stati forniti l’amministrazione dovrà evidentemente
motivarne la obiettiva inadeguatezza.
14. In altri termini, la ricerca del doveroso punto di
equilibrio tra tutela dell’erario e affidamento del privato
che sulla base della preventivata acquisizione di risorse ha
concretamente investito in un’attività imprenditoriale,
confidando nel recupero ancorché parziale delle spese
affrontate, risiede nella declinazione di un efficace
sistema di controlli e verifiche da parte
dell’amministrazione. Esso cioè deve essere volto a
scongiurare o quantomeno attenuare gli effetti gravemente
afflittivi dei provvedimenti di decadenza/revoca sin da
subito, ovvero in un tempo ragionevole necessario per
l’effettuazione di verifiche di esclusiva natura
documentale, adottabili, in quanto non presupponenti
complesse verifiche ispettive, ad esempio circa la
rispondenza dello stato dei luoghi a quanto dichiarato
dall’istante.
Salvo evidentemente, come già precisato,
l’ipotesi in cui emerga la non veridicità delle affermazioni
del privato richiedente, che non può fondarvi alcun
affidamento rispetto al conseguimento di un beneficio
pubblico formalmente già concesso (Cons. Stato, A.P., 29.11.2021, n. 21), per superare la tutela dello stesso è
sempre necessaria una qualche motivazione dell’interesse
pubblico.
14. In sostanza, nel caso di esercizio del potere di
disporre la decadenza o la revoca per assenza dei necessari
presupposti degli incentivi, il legittimo affidamento
presuppone che la causa di illegittimità o irregolarità -che ha portato all’esercizio del suddetto potere- non sia
nota o comunque conoscibile sulla base dell’ordinaria
diligenza dal privato che confida nella stabilità degli atti
posti in essere dall’amministrazione.
Nel caso di specie, la
cronologia delle fasi procedimentali, una volta esclusa la
declaratoria di circostanze false, depone nel senso della
necessità di dare rilievo a tale affidamento, ingenerato
proprio dalle modalità dei controlli posti in essere dalla
Regione Calabria.
Lo sviluppo del procedimento in senso
formalmente rassicurante, infatti, conseguito proprio ad
approfondimenti specifici sul punctum pruriens della
controversia (la dimostrata disponibilità della titolarità
del bene in conformità alle clausole contrattuali) non
consente di ritenere il privato assoggettato ad libitum a
ripensamenti circa la completezza ed adeguatezza
dell’istruttoria effettuata.
15. A conferma di tale conclusione si pone da ultimo la
modifica normativa apportata all’art. 1 della l. 07.08.1990, n. 241, mediante l’inserimento del comma 2-bis ad
opera della l. 11.09.2020, n. 120, di conversione del
d.l. 16.07.2020, n. 76, ai sensi del quale «i rapporti
tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono
improntati ai princìpi della collaborazione e della buona
fede».
La disposizione ha legificato espressamente,
rafforzandone la preesistente positivizzazione, anche alla
luce dei principi di derivazione europea, il dovere di
comportamento di buona fede da parte dell’amministrazione
quale fondamento giustificante il formarsi di legittime
aspettative in capo al privato. Quanto detto non senza
ribadire che il dovere di collaborazione e buona fede è
bilaterale, ponendosi un obbligo di diligenza anche in capo
al privato, il cui affidamento deve quindi necessariamente
risultare incolpevole, come più volte precisato.
16. A conclusioni favorevoli all’appellante può tuttavia
giungersi a maggior ragione ove si acceda alla tesi che nel
caso di specie la Regione Calabria abbia esercitato il
proprio potere di autotutela sub specie di annullamento
d’ufficio, cui consegue da un punto di vista fattuale, prima
che giuridico, la “revoca” del contributo concesso.
17. In generale, va da sé, infatti, che nell’esplicare
l’attività di controllo sulla correttezza dei presupposti di
erogazione dei benefici economici, l’Amministrazione si
avveda di un proprio precedente errore valutativo, al quale
intenda porre rimedio. Il confine tra i due istituti (revoca
quale conseguenza dei poteri di controllo postumo del
possesso dei requisiti e annullamento d’ufficio della
concessione degli stessi) nella prassi non è affatto netto,
stante che le amministrazioni tendono ad utilizzare le
ragioni del secondo per supportare il primo, superando i
limiti, di tempo e di contenuto, sottesi all’esercizio dell’autotutela.
18. È chiaro infatti che ove si attinga alla categoria
concettuale dell’annullamento d’ufficio, occorre anche
garantire il rispetto di tutti i presupposti cui il
legislatore ne condiziona l’utilizzabilità, quali in primo
luogo il rispetto di un termine «ragionevole», da ultimo
quantificato in dodici mesi dall’adozione dell’atto, indi la
esplicitata comparazione tra l’interesse pubblico
all’annullamento e quello al mantenimento del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario dello
stesso.
19. La sentenza impugnata, pur omettendo totalmente
l’essenziale passaggio sistematico sotteso all’inquadramento
del provvedimento avversato, pare ricondurlo a ridetta
categoria concettuale, giusta l’insistito richiamo ai
principi di cui all’art. 21-octies, comma 2 e art.
21-novies.
A ben guardare, anzi, la affermata natura
necessitata dell’atto, tale da rendere inutile qualsiasi
apporto contributivo da parte del destinatario, evoca ancor
più specificamente quella species dell’autotutela
comunemente denominata come “doverosa” ancorché parziale,
che trova fondamento proprio nella riscontrata falsità delle
dichiarazioni del richiedente l’atto annullato (sul punto,
si veda Cons. Stato, sez. II, 02.11.2023, n. 9415, ai
cui principi si intende fare integrale richiamo).
Ma anche
in tale specifica ipotesi, l’attenuazione dell’onere
motivazionale consegue proprio alla richiamata falsità, di
per sé sufficiente ad esplicitare il pubblico interesse alla
rimozione dell’atto. Come pure precisato dall’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato, infatti, l’erronea prospettazione, da parte del privato, delle circostanze in
fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo
a lui favorevole non consente di configurare una sua
posizione di affidamento, con la conseguenza che l’onere
motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi
soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte (Cons. Stato, A.P. 17.10.2017, n. 8).
«L’interesse pubblico all’eliminazione,
ai sensi dell’ art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 , di un
titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di
falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa
o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata
rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo,
non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo
affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto
attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione
procedente» (così TAR Salerno, sez. II, 05.01.2021, n. 18, richiamata da Cons. Stato, sez. VI,
06.07.2023, n. 6615).
20. Nel caso di specie, tuttavia, il provvedimento impugnato
non reca alcun richiamo a tale presunta falsità, introdotta
nel procedimento di primo grado dalla difesa della regione
ed avallata dal Tar per la Calabria, con ciò dando luogo
ad un’inammissibile integrazione postuma della motivazione
dell’atto impugnato, basata esclusivamente sulla asserita
violazione formale dell’art. 4 dell’avviso pubblico. Sicché
neppure potrebbe dirsi soddisfatto quel minimo di obbligo
motivazionale che consente, in ragione della gravità dei
presupposti dell’esercizio dell’autotutela, di limitarsi a
tale emblematico richiamo.
21. A ben guardare, anzi, la Società ha da subito
documentato la propria (ritenuta) disponibilità del
fabbricato giusta la scrittura privata allegata alla
domanda, nonché ribadito tale impostazione reiterando la
produzione documentale in riscontro alla specifica richiesta
di integrazione istruttoria avente ad oggetto proprio la
produzione del «titolo di proprietà» (richiesta della
Regione del 27.07.2015, riscontrata il 24.08.2015).
In alcun modo, dunque, ha artefatto la descrizione della
propria situazione in concreto riferita al bene, o, peggio
ancora, falsificato la documentazione de qua. Il Collegio
non rileva infatti l’adombrata divergenza tra il negozio
prodotto nel corso di procedimento e quello acquisito
successivamente dall’Agenzia delle Entrate competente per
territorio, debitamente interpellata in merito – che
peraltro, ove sussistente, avrebbe dovuto risolversi in
un’informativa alla competente Procura della Repubblica, di
cui non è traccia in atti.
L’unica differenza “grafica”,
infatti, riguarda l’assenza del timbro a secco recante la
data di protocollazione in entrata da parte di ridetta
Agenzia nella produzione procedimentale (04.10.2014),
che tuttavia sembra piuttosto da ascrivere ad un’omissione
dell’ufficio, dato che coincidono sia il numero di
protocollo che il nominativo della funzionaria.
Individuare in tale carenza “grafica” un intento truffaldino
su un elemento che avrebbe potuto essere riscontrato
immediatamente coinvolgendo l’Agenzia delle entrate, senza
attendere di esservi indotti dall’esposto successivo, non
solo non appare plausibile, ma neppure risulta da un qualche
passaggio narrativo nell’atto impugnato.
22. Degna di rilievo appare piuttosto la rettifica
informativa da parte dell’Agenzia, che nel trasmettere la
certificazione dell’iscrizione al Comune, ne corregge
l’indicato codice identificativo per tipologia di operazione
compiuta, riportandolo alla registrazione di un preliminare
di vendita e non di un acquisto definitivo, come
rappresentato dall’amministrazione.
Ciò conferma
ulteriormente o un’istruttoria negligente, e come tale non
recuperabile in maniera postuma a discapito del beneficiario
di buona fede senza evidenziarne i passaggi motivazionali,
ovvero, più plausibilmente, la ritenuta coerenza originaria
dell’atto prodotto con le finalità della clausola, salvo
valorizzarne, ex post, la diversa stesura letterale, per
come “attenzionata” dall’associazione denunciante.
22.1. Vero è che la scrittura privata del luglio 2014
presenta molteplici profili di ambiguità contenutistica,
stante che in alcuni passaggi parla di vera e propria
vendita, utilizzando il relativo verbo all’indicativo
presente («vendono», appunto), in altri si pronuncia al
futuro laddove parla di «fabbricato promesso in vendita»
ovvero del prezzo per la «futura vendita». E tuttavia nessun
chiarimento né sulla sua esatta portata, né sulla sua
avvenuta registrazione è stato richiesto dalla Regione fino
all’attivazione del procedimento di revoca.
23. Il Collegio ritiene superflua un’esegesi puntuale della
portata letterale dell’art. 4 del bando, in particolare ove
incentrata, come pure pretenderebbe l’appellante,
sull’esatta estensione dell’ambito oggettivo della sua
operatività, tratto dalla terminologia (sicuramente non
rispondente alla lettera al quadro definitorio riveniente
dal d.P.R. n. 380 del 2001, Testo unico dell’edilizia) con
la quale vengono individuati gli interventi oggetto delle
progettualità presentate (rispettivamente, nuova costruzione
e ricostruzione previa demolizione alla lettera a) e
recupero alla lettera b).
Ciò che viceversa appare dirimente nel caso di specie è che
24. Ciò in quanto, come ampiamente chiarito, la Regione
Calabria non solo non ha eccepito alcunché in sede di
scrutinio originario della domanda; ma neppure lo ha fatto
all’esito dell’istruttoria mirata sul punto. I successivi
controlli, egualmente con esito positivo, sono successivi a
tale integrazione documentale: in particolare l’approvazione
del QTE risale al 02.11.2015, quando cioè qualsivoglia
dubbio residuo avrebbe dovuto essere necessariamente
chiarito.
In tale atto peraltro nel richiamare nuovamente
l’art. 14 dell’avviso, laddove si ricorda che l’erogazione
delle somme concesse è subordinata alla verifica del
possesso dei requisiti di ammissibilità, la Regione fa
opportuno riferimento alle sole anomalie riscontrate in sede
di esecuzione dei lavori per controllare la rispondenza tra
quanto dichiarato negli elaborati progettuali e quanto
effettivamente realizzato.
Ciò non poteva non far presumere
esaurito il controllo di tipo documentale, con il supporto
peraltro di apposita commissione nominata all’uopo a
supporto del RUP, e quindi doverosa la motivazione delle
ragioni sottese alla sua riedizione, alla luce
dell’affidamento nel frattempo ingenerato nella controparte
e del contenuto delle osservazioni presentate in risposta
alla comunicazione di avvio del procedimento.
25. A conclusioni non dissimili deve pervenirsi laddove si
acceda alla diversa tesi dell’avvenuto esercizio del potere
di annullamento d’ufficio. Una volta escluso, in quanto né
esplicitato in motivazione, né dimostrato in atti, che vi
sia stata una falsificazione documentale per la quale va
ribadito l’obbligo di informativa all’Autorità giudiziaria
ordinaria, non possono trovare applicazione le agevolazioni
procedurali sottese all’esercizio dell’autotutela doverosa,
che peraltro non implicano, come chiarito, la totale assenza
dell’onere motivazionale.
La discrezionalità intrinseca
dell’annullamento in autotutela, dunque, non consente di
derubricare a mero vizio di forma la mancata valutazione
delle osservazioni di parte conseguite a inoltro del
preavviso, stante che le stesse attengono proprio alla
adeguatezza della produzione documentale, sia in termini
formali, sia per la loro ravvisata non ostatività, alla luce
della ratio della clausola e della sua lettura
necessariamente orientata a principi di massima
partecipazione, intrinseci alla tipologia di selezione in
atto.
Le (presunte) sopravvenienza fattuali, ovvero
l’esposto dell’associazione e i riscontri avuti circa
l’obiettività dello stesso dall’Agenzia delle entrate, nulla
aggiungono alla qualificazione delle dichiarazioni
dell’Impresa come false.
26. Anche senza approfondire lo scrutinio di lamentata
illegittimità della clausola contrattuale stessa, infatti,
se letta nell’accezione propugnata dalla Regione, certo è
che il documentato e comunicato avvio dei lavori riferito ad
un’opera, riconosciuta come di interesse pubblico, dimostra
per tabulas l’avvenuto soddisfacimento di quella
acquisizione di disponibilità che la norma voleva garantire,
ove non fosse sufficiente allo scopo l’avvenuta
registrazione dell’atto nell’ottobre del 2014, cioè a
distanza di poco più di due mesi dalla scadenza del termine
di presentazione della domanda. Le esigenze di par condicio
sottese invece al formale rispetto della clausola
restrittivamente intesa non essendo state fatte valere a
tempo debito avrebbero dovuto essere espresse nella
motivazione dell’atto in comparazione con l’interesse
dell’operatore economico alla conservazione degli effetti
del beneficio ottenuto.
27. Vuoi, dunque, che la Regione Calabria abbia fatto uso
del proprio potere di controllo delle dichiarazioni di parte
(non motivando la diversa valutazione della adeguatezza
dimostrata per acta et facta conludentia fino a quel
momento); vuoi che abbia provveduto ad annullare la
concessione in autotutela ex art. 21-novies (come
sembrerebbe ipotizzare il primo giudice, seppure omettendo
un preliminare inquadramento dell’atto impugnato), l’atto
impugnato non dà alcun conto dell’interesse pubblico sotteso
alla scelta oggetto di gravame, in comparazione con la
posizione del privato che nel frattempo, contando sulla
correttezza dell’operato dell’amministrazione, ha dato
avvio, con l’avallo della stessa e delle altre
amministrazioni coinvolte nel procedimento, ad un
investimento economico di consistenza tutt’affatto esigua.
L’atto, cioè, per la parte in cui non dimostra di essere
supportato da imperative esigenze egualmente rivolte al
raggiungimento di predetti obiettivi, appare suscettibile di
concretare non solo una lesione dell’affidamento del privato
investitore, ma anche un non consentito sviamento dalle
finalità d’interesse pubblico generale affidate alla Regione
resistente quale soggetto gestore della misura in esame.
Di
tali finalità, infatti, l’amministrazione deve tenere conto
anche nell’esercizio del potere di controllo, che seppure
intrinsecamente orientato a garantire la corretta
elargizione di risorse economiche, non può intervenire con
tempistiche e modalità che rischiano di vanificarla,
esponendo il privato investitore non all’alea che connota
qualsiasi iniziativa imprenditoriale, ma a quella,
aggiuntiva, che conseguirebbe alla legittimazione postuma
del rilievo di qualsivoglia carenza formale o procedurale in
qualsiasi momento, quand’anche fosse possibile per
l’Amministrazione rilevarla da subito, ovvero in un “tempo
ragionevole”.
28. A quanto sopra detto consegue l’accoglimento del gravame
e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tar per
la Calabria, n. 360 del 2018, del ricorso di primo grado,
con conseguente annullamento del provvedimento di revoca dei
finanziamenti concessi e in parte qua della modifica della
relativa graduatoria, oggetto di motivi aggiunti (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.01.2024 n. 688 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il consigliere comunale è obbligato ad astenersi in caso di
conflitto di interessi.
L’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è annullabile in
toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il
solo componente incompatibile.
Il Consiglio di Stato, Sez.
VII con la
sentenza
22.01.2024 n. 652,
si è pronunciato sul conflitto di interessi cui possono incorrere i
consiglieri comunali.
Il fatto
Un
cittadino aveva impugnato dinanzi al Tar la deliberazione del consiglio
comunale relativa all'approvazione di una variante allo strumento
urbanistico
comunale e aveva eccepito che il provvedimento consiliare sarebbe stato
approvato con la partecipazione di un consigliere in situazione di conflitto
di
interessi, in quanto stretto parente di proprietari terrieri interessati dal
progetto di variante strutturale e beneficiari della più favorevole
classificazione ad area residenziale di completamento.
Il Tar Piemonte ha
ritenuto la censura inammissibile per carenza di interesse, sostenendo che
anche se sussistesse il conflitto non inciderebbe sulle valutazioni espresse
in relazione all'area dell'appellante. La sentenza, impugnata dinanzi al
Consiglio di Stato, è stata integralmente riformata nel merito e
nell'eccezione.
La decisione
Il Consiglio di Stato non ha condiviso la tesi
del
giudice di primo grado, in quanto, in tema di conflitto di interessi degli
amministratori locali, deve ritenersi che l'obbligo di astensione ricorre
per il
solo fatto che i consiglieri comunali siano portatori di interessi
divergenti rispetto a quello generale affidato
all'organo di cui fanno parte. Inoltre, i soggetti interessati alle
deliberazioni assunte dagli organi collegiali di cui fanno
parte devono evitare di partecipare perché possono condizionare nel
complesso la formazione della volontà
assembleare, sicché è irrilevante l'esito della prova di resistenza.
Ne
consegue che l'atto assunto in violazione
dell'obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte
eventuale del provvedimento che riguardi il solo
componente incompatibile. Infine, a tutela dell'immagine
dell'amministrazione, rileva anche il conflitto di interessi
potenziale.
Conclusioni
Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione
di carattere speciale, oggi contenuta
nell'articolo 78 del Tuel, ma che, nel suo nucleo essenziale, è anteriore
alla stessa Costituzione, risultando enunciata
già nel Rd 148/1915 (articolo 290).
Essa sancisce espressamente l'obbligo
per gli amministratori locali di astenersi
dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri e di parenti e affini sino al
quarto grado.
Tale obbligo non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici,
se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il
contenuto della deliberazione e specifici
interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
L'obbligo di astensione è espressione di una
regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi
anche al di fuori delle ipotesi espressamente
contemplate dalla legge (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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SENTENZA
1. L’appello è fondato per le ragioni di seguito esposte.
2. Ai fini dell’accoglimento dell’appello, valenza dirimente riveste l’esame
delle deduzioni incentrate sul conflitto di interessi, contestato in ricorso
in relazione alla partecipazione alla deliberazione del consiglio comunale
n. 14 del 2011 –avente ad oggetto “esame osservazioni alla variante
strutturale al P.R.G.I. anno 2008 - adozione elaborati modificati a seguito
di accoglimento delle osservazioni”–, di una consigliera che avrebbe
avuto l’obbligo di astenersi in quanto suoi stretti congiunti (segnatamente
la madre e la nonna, i cui nominativi sono specificamente indicati) sono
proprietari di terreni, ricompresi nella medesima zona e limitrofi a quelli
dell’odierno appellante, interessati dal progetto pianificatorio, con
previsioni migliorative.
2.1. Come esposto nella narrativa in fatto, con la sentenza impugnata la
sopra indicata censura è stata dichiarata inammissibile per carenza di
interesse, sostenendosi che anche ove sussistesse il conflitto non
inciderebbe sulle valutazioni espresse in relazione all’area
dell’appellante.
2.3. Tale statuizione non può essere condivisa.
2.4. Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione di carattere
speciale, oggi compendiata nell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000
(testo unico enti locali, t.u.e.l.) ma che, nel suo nucleo essenziale, è
anteriore alla stessa Costituzione, risultando enunciata già nel r.d. n. 148
del 1915 (art. 290).
Essa sancisce espressamente l’obbligo per gli amministratori locali di
astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado.
Tale obbligo “non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere
generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una
correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e
specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
2.5. La giurisprudenza ha da tempo affermato che l’obbligo di astensione “è
espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico,
applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate
dalla legge” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 2826 del 2003).
2.6. Le condizioni più stringenti sancite dalla disposizione contenuta
nell’art. 78, comma 2, del t.u.e.l. per i regolamenti e gli atti generali
–essendo richiesta una “correlazione immediata e diretta” con
l’interesse in conflitto– rispondono tuttavia ad un’esigenza di carattere
pratico poiché, in un contesto geografico delimitato, è evenienza molto
frequente che gli amministratori locali abbiano un qualche generico
interesse nelle fattispecie sulle quali sono chiamati a deliberare.
2.7. Sussistendo una obiettiva situazione di conflitto, è poi ininfluente
che l’amministratore, o il funzionario, abbiano proceduto in modo imparziale
ovvero che non sussista prova del condizionamento eventualmente subito (Cons.
Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3744; successivamente, sez. V, sentenza n.
5465 del 2014.)
2.8. Inoltre (cfr., Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2970 del 2008):
a) l’obbligo di astensione ricorre per il solo fatto che i membri
del collegio amministrativo siano portatori di interessi divergenti rispetto
a quello generale affidato alle cure dell’organo di cui fanno parte,
risultando irrilevante, a tal fine, la circostanza che la votazione non
avrebbe potuto avere altro apprezzabile esito, che la scelta sia stata in
concreto la più utile e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico,
ovvero che non sia stato dimostrato il fine specifico di realizzare
l’interesse privato o il concreto pregiudizio dell'amministrazione (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 26.05.2003, n. 2826);
b) i soggetti interessati alle deliberazioni assunte dagli organi
collegiali di cui fanno parte devono evitare di partecipare finanche alla
discussione, potendo condizionare nel complesso la formazione della volontà
assembleare, sicché è irrilevante l’esito della prova di resistenza (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 07.10.1998, n. 1291);
c) l’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è
annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del
provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile (cfr. sez. IV,
21.06.2007, n. 3385);
d) a tutela dell’immagine dell’amministrazione, rileva anche il
conflitto di interessi potenziale, come evidenziato anche dalla
giurisprudenza costituzionale e civile (cfr. Corte cost. 28.05.1975, n. 129;
Cass. 16.09.2002, n. 13507).
2.9. L’appellante ha prodotto nel giudizio di primo grado evidenze a
sostegno della sussistenza di una correlazione immediata e diretta,
obiettivamente apprezzabile, tra il contenuto della deliberazione e gli
interessi del consigliere comunale indicato in ricorso, tale da imporre un
suo dovere di astensione.
Gli elementi prodotti, lungi dall’essere connotati da genericità, risultano
sufficienti tenuto, peraltro, conto della circostanza che gli stessi sono
rimasti insuperati, non avendo l’amministrazione comunale appellata prodotto
alcunché, in quanto non costituita né nel giudizio di primo grado né nel
presente giudizio di appello.
2.10. L’accoglimento della censura sopra indicata riveste, come sopra
anticipato, carattere dirimente ai fini dell’accoglimento dell’appello e,
dunque, della riforma della sentenza impugnata. |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono, agli edifici rurali non si possono applicare le regole
dettate per le case.
Il Tar Campania accoglie il ricorso del proprietario contro il Comune. In
questi casi si possono considerare ultimati anche gli immobili non rifiniti.
Nel caso di istanze di condono per fabbricati rurali non può applicarsi la
disciplina che riguarda gli immobili a uso residenziale che (ai fini del
condono) impone l’obbligo del completamento funzionale.
Con questa motivazione il TAR Campania (Sez. II di Salerno), con la
sentenza
22.01.2024 n. 236, ha accolto il
ricorso di una persona contro il Comune di Positano che aveva respinto due
istanze di condono e due istanze di accertamento di compatibilità
paesaggistica e ordinato la demolizione di due
livelli di un fabbricato.
La vicenda inizia quando la proprietaria della
struttura
impugna l'ordinanza del 2020 con cui il Comune di Positano ha respinto due
istanze di condono edilizio presentate nel 1986 e 2004, «nonché due istanze di
accertamento di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di
due livelli di un fabbricato della superficie complessiva di 167,24 metri
quadri».
Alla base dell'intero provvedimento, come si legge nella sentenza
«vi
è il diniego della prima domanda di condono, presentata ai sensi della legge
n. 47/1985».
Il diniego si basa sulla duplice considerazione: «l'immobile ha
uso produttivo e non risulta completato funzionalmente, così come previsto
dall'art. 31, comma 2, della predetta legge, ma realizzato solo nel rustico
e nella copertura».
Inoltre «l'istanza risulta
dolosamente infedele in quanto risultano presenti due unità immobiliari a
destinazione residenziale aventi una
superficie complessiva di metri quadri 160,08 ed un volume lordo di mc.
579,00, ubicate al piano primo e secondo
sottostrada di un fabbricato articolato su cinque livelli, in luogo
dell'abuso richiesto in condono corrispondente ad un
unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di
metri quadri 167,24 con un volume definito
di mc. 562,56».
Per i giudici il ricorso è fondato e va accolto.
«Quanto al
primo motivo di rigetto -scrivono- va
rilevato che l'opera abusiva risulta rappresentata come manufatto connesso
con la conduzione agricola articolato
su due livelli e, dunque, come fabbricato rurale, astrattamente suscettibile
di uso abitativo, ove ne possegga le
caratteristiche».
Pertanto, sottolineano i giudici «non può applicarsi la
disciplina riguardante gli immobili ad uso non
residenziale che, ai fini del condono, impone l'obbligo del completamento
funzionale». Risultato: «Ne consegue che,
ai sensi dell'art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve considerarsi
ultimato l'edificio realizzato senza titolo
abilitativo in zona agricola e mancante delle rifiniture, della
pavimentazione e degli infissi, laddove risulti eseguito il
rustico ed ultimata la copertura».
Quanto al secondo motivo, «nella domanda
di condono non è dato ravvisare
alcuna falsità, ma tutt'a più una imprecisione, avendo la ricorrente
rappresentato l'esistenza di un manufatto ...
articolato su due livelli ed essendo irrilevante, ai fini della
condonabilità dell'opera, l'eventuale (per altro, modesto)
scarto esistente tra le dimensioni indicate e quelle reali. Il Comune è
dunque tenuto a rivalutare l'istanza, partendo dalle considerazioni svolte
nella
presente decisione».
Ricorso accolto, spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
30.01.2024).
---------------
SENTENZA
La ricorrente impugna l’ordinanza n. 10275 del 20.08.2020, ord. n. 46,
con cui il Comune di Positano ha respinto due istanze di condono edilizio
presentate l’01.04.1986 ed il 19.11.2004, nonché due istanze di accertamento
di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di due livelli di
un fabbricato sito in via ... n. 124, della superficie complessiva di mq.
167,24.
Alla base dell’intero provvedimento vi è il diniego della prima domanda di
condono, presentata ai sensi della legge n. 47/1985.
Detto diniego si basa sulla duplice considerazione che:
a) l’immobile ha uso produttivo e non risulta completato
funzionalmente, così come previsto dall’art. 31, comma 2, della predetta
legge, ma realizzato solo nel rustico e nella copertura;
b) “l’istanza risulta dolosamente infedele in quanto risultano
presenti due unità immobiliari a destinazione residenziale aventi una
superficie complessiva di mq. 160,08 ed un volume lordo di mc. 579,00,
ubicate al piano primo e secondo sottostrada di un fabbricato articolato su
cinque livelli, in luogo dell’abuso richiesto in condono corrispondente ad
un unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di
mq. 167,24 con un volume definito di mc. 562,56”.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Ed invero, quanto al primo motivo di rigetto va rilevato che l’opera
abusiva risulta rappresentata come “manufatto connesso con la conduzione
agricola articolato su due livelli” e, dunque, come fabbricato rurale,
astrattamente suscettibile di uso abitativo, ove ne possegga le
caratteristiche.
Pertanto, non può applicarsi la disciplina riguardante gli immobili ad uso
non residenziale che, ai fini del condono, impone l’obbligo del
completamento funzionale.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve
considerarsi ultimato l’edificio realizzato senza titolo abilitativo in zona
agricola e mancante delle rifiniture, della pavimentazione e degli infissi,
laddove risulti eseguito il rustico ed ultimata la copertura (cfr. TAR
Umbria 06.11.2008, n. 702).
Quanto al secondo motivo, nella domanda di condono non è dato
ravvisare alcuna falsità, ma tutt’a più una imprecisione, avendo la
ricorrente rappresentato l’esistenza di un “manufatto … articolato su due
livelli” ed essendo irrilevante, ai fini della condonabilità dell’opera,
l’eventuale (per altro, modesto) scarto esistente tra le dimensioni indicate
e quelle reali.
Il Comune è dunque tenuto a rivalutare l’istanza, partendo dalle
considerazioni svolte nella presente decisione. |
TRIBUTI:
Niente riduzione dell’Imu per il fabbricato senza agibilità.
Nel caso di specie si è trattato di unità ultimate per le quali dovevano
ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di
abitabilità.
Un fabbricato nuovo che non ha l’agibilità non è inagibile e per questo non
ha diritto alla riduzione dell’Imu.
Lo afferma la quinta sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. V
civile, con l'ordinanza
sentenza 18.01.2024 n. 1955.
La riduzione
Una società di costruzioni ha proposto ricorso per la cassazione della
sentenza
con cui la Commissione tributaria regionale aveva respinto l'appello avverso
la sentenza della Commissione provinciale in rigetto del ricorso proposto
avverso un avviso di accertamento Imu.
Lamenta l'erronea esclusione della
sussistenza dei presupposti per l'applicazione della riduzione d'imposta del
50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non
utilizzati,
prevista dall'articolo 8, comma 1, del Dlgs 504/1992, il quale affida
l'accertamento della inagibilità o inabitabilità all'ufficio tecnico
comunale
con perizia a carico del proprietario o, in alternativa, a una dichiarazione
sostitutiva del contribuente.
Afferma la Suprema corte che, ai fini
dell'applicazione della riduzione, devono considerarsi inagibili o
inabitabili, e
di fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i
requisiti di
cui all'articolo 24, comma 1, del Dpr 380/2001, in base al quale la
sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli
edifici e degli impianti negli stessi installati
e, ove previsto, di rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale,
nonché la conformità dell'opera al progetto
presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione
certificata.
Talché si tratta di immobili che
presentino un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato,
pericolante, fatiscente) o un'obsolescenza
funzionale, strutturale e tecnologica non superabile con interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
I
presupposti
Partendo dall'assunto che in materia fiscale le norme che
stabiliscono esenzioni o agevolazioni sono di
stretta interpretazione è quindi non c'è spazio per ricorrere al criterio
analogico o all'interpretazione estensiva della
norma oltre i casi e le condizioni dalle stesse espressamente considerati, i
giudici della V sezione rilevano che
- da una parte l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare
costituisce di per sé presupposto sufficiente
perché sia considerata fabbricato e di conseguenza assoggettabile
all'imposta;
- dall'altra l'inagibilità (che consente la
riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo
dell'immobile, intesa come situazione
intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di
manutenzione straordinaria, e non come qualità
giuridica superabile con il rilascio del certificato di abitabilità, che non
costituisce presupposto per l'applicazione
dell'imposta.
Nel caso di specie si è trattato di immobili non inagibili o
inabitabili, ma di unità ultimate per le quali
dovevano ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il
certificato di abitabilità, per cui la Corte territoriale ha
correttamente escluso l'applicazione della riduzione prevista dalla norma
sopra citata.
La Cassazione quindi ritiene
ben fondata la motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla
mancata applicazione della richiesta riduzione d'imposta, rigettando
integralmente il ricorso (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).
---------------
SENTENZA
1.1. con il primo motivo la Società denuncia ai sensi dell'art.
360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione di norme di diritto («art.
8, I comma, del d.lgs. 504/1992 afferente alla riduzione del 50% del tributo
IMU per l’anno 2013, relativamente ad immobili invenduti ex artt. 2, I
comma, lett. A), del d.lgs. 504/1992, 2, V comma-bis, del d.l. 102/2013, ...
art. 1, comma 747, lettera B), della l. 160/2019, ... art. 13, III comma,
lett. B), del d.l. 201/2011») per avere la Commissione tributaria
regionale erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per
l’applicazione della riduzione d’imposta prevista dalle citate disposizioni,
secondo cui «la base imponibile è ridotta del 50% per i fabbricati
dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati», sebbene
Roma Capitale fosse già a conoscenza, con riguardo agli immobili tassati del
mancato rilascio, da parte del medesimo Ente territoriale, delle concessioni
edilizie in sanatoria, il che aveva impedito di ottenere il relativo
certificato di agibilità/abitabilità ed aveva precluso alla Società, impresa
di costruzioni per la vendita, la vendita dei suddetti immobili;
1.2. la doglianza è infondata;
1.3. va premesso che l’art. 13 del d.l. n. 201/2011 prevede, per quanto qui
di interesse, quanto segue: «3. La base imponibile dell'imposta
municipale propria è costituita dal valore dell'immobile determinato ai
sensi dell'articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo 30.12.1992,
n. 504, e dei commi 4 e 5 del presente articolo. La base imponibile è
ridotta del 50 per cento: ... b) per i fabbricati dichiarati inagibili o
inabitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell'anno
durante il quale sussistono dette condizioni. L’inagibilità o inabitabilità
è accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del
proprietario, che allega idonea documentazione alla dichiarazione. In
alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione
sostitutiva ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 28.12.2000, n. 445, rispetto a quanto previsto dal periodo
precedente. Agli effetti dell'applicazione della riduzione alla metà della
base imponibile, i comuni possono disciplinare le caratteristiche di
fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di
manutenzione»;
1.4. come già affermato, anche recentemente, da questa Corte (cfr. Cass. n.
5804 del 24/02/2023; Cass. n. 29966 del 19/11/2019 in motiv. anche se con
riferimento all’ICI) ai fini dell'applicazione della
riduzione de qua devono considerarsi inagibili o inabitabili, e di
fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i requisiti
di cui all'articolo 24, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e quindi nello
specifico gli immobili che presentino un degrado fisico sopravvenuto
(fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente) o un’obsolescenza
funzionale, strutturale e tecnologica
(cfr. in tal senso, Cass. n. 29966/2019 cit. in motiv., che definisce
condizione di inagibilità e inabitabilità in cui versi l’immobile l’«obiettiva
inidoneità alla sua utilizzazione a causa dell'obsolescenza o cattiva
manutenzione dello stesso o della presenza di carenze intrinseche»),
non superabile con interventi di manutenzione, ordinaria o
straordinaria;
1.5. tale interpretazione della norma non solo risulta aderente alla lettera
della norma ma trova conferma nel costante indirizzo giurisprudenziale (cfr.
Cass. nn. 15407/2017, 4333/2016, 2925/2013, 5933/2013) in materia fiscale
secondo il quale le norme che stabiliscono esenzioni o
agevolazioni sono di stretta interpretazione ai sensi dell'art 14 preleggi
sicché non vi è spazio per ricorrere al criterio analogico o
all'interpretazione estensiva della norma oltre i casi e le condizioni dalle
stesse espressamente considerati;
1.6. va peraltro evidenziato, con riguardo alla lamentata mancanza del
certificato di abitabilità degli immobili, che tale certificato non attesta
alcuna agibilità dello stesso, ma la sola idoneità igienico-sanitaria del
manufatto atta a consentirne l'uso, che non incide, però, sulla sua
esistenza (in particolare, ai fini fiscali);
1.7. pertanto,
- da una parte, l'iscrizione nel catasto
edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé presupposto
sufficiente perché l'unità sia considerata fabbricato e, di conseguenza,
assoggettabile all'imposta prevista, laddove per i fabbricati di nuova
costruzione, come nel caso in esame, i criteri alternativi dell'ultimazione
dei lavori o di utilizzazione del fabbricato assumono rilievo solo per
l'ipotesi in cui il fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto
in catasto (cfr. Cass. n.
24924/2008), mentre,
- d'altra parte, l'inagibilità (che
consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità
di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado
dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non
come qualità giuridica superabile con il rilascio del certificato di
abitabilità (secondo Cass. n.
5372/2009 «...il rilascio del certificato di abitabilità non costituisce
presupposto per l'applicazione dell'imposta, non potendosi desumere il
contrario dal tenore dell'art. 8, comma 1, del citato decreto, che si
riferisce esclusivamente all'ipotesi di fabbricati dichiarati inagibili e
inabitabili a seguito di perizia dell'ufficio tecnico comunale, e di fatto
non utilizzati»; conf. Cass. n. 12936/2019);
1.8. la Commissione tributaria regionale, nell'affermare che non era «applicabile
la invocata disposizione di cui all'articolo 8 d.lgs. 504/1992, poiché, in
disparte la mancanza di accertamenti tecnici che comprovino lo stato di
fatiscenza dedotto, in realtà non vengono in considerazione immobili
inagibili o inabitabili, ma piuttosto unità immobiliari di fatto ultimate
per le quali devono ancora essere emessi i titoli abilitanti in sanatoria e
il certificato di abitabilità», ha correttamente escluso l'applicazione
al caso concreto della disciplina agevolatrice prevista dalle norme dianzi
citate; |
EDILIZIA PRIVATA:
Scavo per la fibra ottica, non si può negare l’autorizzazione per
mancata concertazione senza interventi concomitanti.
Nel caso in cui la motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di
coordinare l’intervento con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno
programmati dall’ente.
In relazione alla posa di infrastrutture digitali per lo sviluppo della
fibra ottica è illegittimo il provvedimento dell’ente locale che nega
l’autorizzazione all’intervento di scavi sulla sede stradale per mancata
concertazione ex articolo 3 del Dm 01.10.2013, nel caso in cui la
motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di coordinare l’intervento
con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno programmati dall’ente
stesso.
È quanto
affermato dal TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la
sentenza
18.01.2024 n. 479.
Il
fatto
Nell'aprile 2023 una società inoltrava a un Comune un'istanza di
autorizzazione per scavi e opere civili ex articolo 49 del Dlgs 259/2003,
nell'ambito di un progetto per la realizzazione di un'infrastruttura di rete
a
banda ultra-larga in fibra ottica sull'intero territorio nazionale.
Stante
l'assenza di riscontro entro i termini da parte della Pa, la società
notificava
all'ente un'autocertificazione attestante l'intervenuta formazione del
silenzio-assenso. Al che il Comune, in esito alla successiva corrispondenza con
l'impresa, negava l'autorizzazione all'intervento oggetto dell'istanza e non
dava corso al rilascio dell'ordinanza viabilistica necessaria allo
svolgimento
dei lavori, disponendo altresì l'annullamento in autotutela del silenzio-assenso di cui sopra.
Nello specifico, il
provvedimento dell'ente giustificava tale annullamento con la motivazione
secondo cui la programmazione degli
interventi non è avvenuta in accordo con questa amministrazione, quale
gestore delle strade, giusto articolo 3,
comma 6, del Dm 01.10.2013, con l'effetto che l'intervento proposto
risulta «in contrasto con le previsioni () di
salvaguardia della sicurezza stradale» di cui al medesimo articolo.
In
effetti, la normativa addotta dal Comune si
addice al caso di specie in quanto il Dm 01.10.2013 disciplina i
criteri e gli aspetti generali per il posizionamento
delle infrastrutture digitali, indicando le modalità d'intervento e le
metodologie di scavo a limitato impatto ambientale
da utilizzare per favorire lo sviluppo digitale sul territorio nazionale.
In
tale contesto la società interessata ha
chiamato in giudizio il Comune e il Tar adito, in accoglimento della domanda
della ricorrente, ha annullato il
provvedimento adottato dall'ente locale.
La ratio della normativa
Questo
perché, scrivono i giudici, «la motivazione
addotta dal Comune difetta di qualsivoglia indicazione circa il necessario
presupposto fattuale, consistente nello
svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali
da parte dell'ente locale».
Il collegio ha
osservato, infatti, che soltanto nell'ipotesi di una pluralità di interventi
in corso o comunque programmati l'articolo 3
del Dm 01.10.2013 ha previsto oltretutto a livello di raccomandazione e
non di obbligo una concertazione con
l'ente gestore della strada allo scopo di coordinare l'esecuzione degli
interventi, compatibilmente con le rispettive
esigenze temporali.
In secondo luogo, la Sezione ha rilevato che né dalla
comunicazione di avvio del procedimento
di annullamento, né dalla corrispondenza intercorsa tra il Comune e
l'impresa è dato evincere che l'intervento oggetto dell'istanza sia
suscettibile di
pregiudicare gli interessi prioritari tutelati dal Dm 01.10.2013, ossia
la sicurezza stradale della circolazione, dei
lavoratori e degli utenti della strada, nonché la salvaguardia
dell'infrastruttura da realizzare (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
---------------
SENTENZA
6 - Nel merito, la domanda di annullamento avente ad oggetto il diniego
di autorizzazione emesso dal Comune il 07/07/2023 è meritevole di
accoglimento.
Ai sensi del comma 7 dell’art. 49 (ex art. 88) del d.lgs. n. 259/2003 (Opere
civili, scavi ed occupazione di suolo pubblico), “Trascorso il termine di
trenta giorni dalla presentazione della domanda, senza che l'amministrazione
abbia concluso il procedimento con un provvedimento espresso ovvero abbia
indetto un'apposita conferenza di servizi, la medesima si intende in ogni
caso accolta”.
Il provvedimento impugnato (emesso il 07/07/2023), pertanto, è intervenuto a
fronte di un provvedimento autorizzativo ormai formatosi per
silenzio-assenso (sull’istanza di Op.Fi. s.p.a. pervenuta il 05/04/2023) e
va, pertanto, annullato.
7 - Stessa sorte segue il provvedimento di autotutela emesso dal Comune di
San Nicola la Strada il 05/10/2023.
Al riguardo si rammenta che: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo
ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo
21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni
di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore
a diciotto mesi [ora, dodici] dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in
cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono
ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo”.
E’ stato affermato che “Il giudizio sulla valutazione dell’esercizio del
potere di annullamento d’ufficio si scompone in una triplice verifica in
ordine: a) alla competenza in capo all’autorità che procede
all’annullamento; b) al termine entro cui il potere è stato esercitato; c)
ai presupposti del suo esercizio (cause di illegittimità, ragioni di
interesse pubblico all’annullamento, comparazione tra gli interessi pubblici
e privati dei soggetti destinatari e di quelli comunque interessati)” - Tar
Lazio, Roma, sez. II, sent. 09/04/2021.
Questi presupposti, com’è noto, debbono ricorrere cumulativamente, nel senso
che l’illegittimità del provvedimento è condizione necessaria, ma non
sufficiente, per procedere al suo annullamento, subordinato all’esistenza di
ragioni di interesse pubblico diverse e ulteriori rispetto al mero
ripristino della legalità violata, nonché al decorso di un lasso di tempo
“ragionevole” dall’adozione dell’atto da annullare.
Ed ancora: “Il presupposto per un legittimo esercizio del potere di
annullamento d'ufficio non può ricondursi al mero ripristino della legalità,
occorrendo dare conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e
concreto alla rimozione dell'atto; occorre, inoltre, una comparazione tra
detto interesse pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse
privato, tanto più quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato
abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione del bene della
vita. Tuttavia, l'annullamento d'ufficio che intervenga entro breve tempo
dall'adozione del provvedimento annullabile, quando le situazioni giuridiche
coinvolte non si siano consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione
attenuato” (cfr TAR Lazio-Roma, sez. III, 21/12/2018, n. 12485, Tar
Puglia, Lecce, 06/06/2008, n. 1680; anche Tar Campania-Salerno, n. 1304,
25/5/2016).
7.1 - Tanto premesso, si osserva che la motivazione del provvedimento di
secondo grado impugnato si incentra, come anticipato, sulla violazione
dell’art. 3 del d.m. 01/10/2013 (“Criteri e aspetti generali per il
posizionamento delle infrastrutture digitali”), che dispone:
“1. Le infrastrutture digitali sono installate nel rispetto di quanto
disciplinato nel decreto legislativo del 30.04.1992, n. 285 «Nuovo
Codice della Strada», nel decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n. 495 «Regolamento di esecuzione ed attuazione del Nuovo
Codice della Strada», e successive modificazioni, con particolare
riferimento alle disposizioni relative alla regolarità e sicurezza della
circolazione stradale ed alla tutela dell'infrastruttura stradale, nel
rispetto di tutte le altre norme vigenti che disciplinano la sicurezza dei
lavoratori nei cantieri stradali, nonché nel decreto legislativo 01.08.2003, n. 259 «Codice delle comunicazioni elettroniche».
2. La posa delle infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia
utilizzata e per i diversi ambiti individuati, deve avvenire, secondo quanto
disciplinato dal presente decreto, che risulta improntato al principio di
contemperare l'interesse nazionale allo sviluppo delle infrastrutture
digitali con quello di preservare la sicurezza stradale della circolazione,
sia durante i lavori sia per tutta la vita utile dell'infrastruttura
stradale, di arrecare il minor danno possibile al complesso
dell'infrastruttura salvaguardando i vincoli presenti, di contenere
qualsiasi cedimento del corpo stradale, di preservare la sicurezza dei
lavoratori e degli utenti stradali, di facilitare la circolazione veicolare
e ridurre la quantità di materiale di risulta.
3. Le infrastrutture digitali sono installate prioritariamente negli
alloggiamenti già disponibili ed appositamente predisposti nelle sedi delle
infrastrutture stradali, o comunque nei manufatti quali cunicoli, pozzetti,
cavidotti e intercapedini, già utilizzati per il passaggio di altri
sottoservizi, purché ciò risulti compatibile con le rispettive specifiche
norme di settore.
4. In assenza di alloggiamenti disponibili di cui al comma 3, la posa delle
infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, deve
prevedere un'idonea struttura di contenimento, tale da consentire in modo
agevole l'inserimento e/o lo sfilamento di cavi, in caso di manutenzioni o
guasti, al fine di evitare ulteriori successive alterazioni e danneggiamenti
alla sovrastruttura stradale.
5. Qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, devono essere adottati tutti i
possibili accorgimenti al fine di evitare i cedimenti del corpo stradale che
devono essere risanati secondo le specifiche riportate negli articoli 7, 8 e
9.
6. Al fine di ridurre complessivamente i disagi alla circolazione stradale
derivanti da interventi ripetuti sulla sede stradale, nonché di ridurre
tempi e costi per la posa delle infrastrutture digitali, la programmazione
dei relativi lavori di installazione avviene preferibilmente in
coordinamento con gli eventuali interventi di lavori stradali programmati
dall'Ente gestore della strada, compatibilmente con le rispettive esigenze
temporali. In tal caso l'Ente operatore, previo specifico accordo con l'Ente
gestore della strada in fase autorizzativa del progetto di cui all'art. 12,
provvede a sostenere soltanto gli oneri derivanti dall'installazione delle
strutture di contenimento delle infrastrutture digitali”.
7.2 - Orbene, stando a quanto esternato dal Comune, l’illegittimità
dell’assenso deriverebbe dalla mancata “concertazione” tra Op.Fi. s.p.a.
e Comune degli interventi programmati, ciò che porrebbe i lavori in
contrasto con la previsione del comma 6 dell’art. 3 cit..
La motivazione addotta dal Comune difetta, tuttavia, di qualsivoglia
indicazione circa il necessario presupposto fattuale, consistente nello
svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali
da parte dell’ente locale, la cui esistenza non è proprio allegata nell’atto
(prima ancora che comprovata). È solo per tale ipotesi, infatti, che il
legislatore, al fine di ridurre i disagi alla circolazione e tempi e costi
dell’intervento, raccomanda (e neppure impone, stando all’utilizzo
dell’avverbio “preferibilmente” e comunque facendo salva la compatibilità
“con le rispettive esigenze temporali”) di coordinare gli interventi.
D’altro canto, neanche dalla lettura della comunicazione di avvio del
procedimento di annullamento è dato evincere, nello specifico, in che
termini l’intervento progettato da Op.Fi. s.p.a. (per quanto di notevole
consistenza), collida con quelli che la norma di riferimento (art. 3 d.m.
cit.) indica come interessi da contemperare (sicurezza stradale della
circolazione, dei lavoratori e degli utenti della strada, salvaguardia
dell’infrastruttura).
7.3 - In mancanza, poi, della previa emissione di un atto autorizzativo “con
prescrizioni”, parimenti inconfigurabile si rivela la violazione del comma 4
dell’art. 12 del cd. “decreto scavi” (“Obblighi dell’ente operatore: 4.
L'Ente operatore deve osservare ed ottemperare eventuali ulteriori
prescrizioni impartite dall'Ente gestore della strada in fase autorizzativa,
dettate da ragioni di sicurezza della circolazione stradale ed in funzione
della tipologia dell'opera da realizzare”), oggetto di contestazione nella
comunicazione di avvio del procedimento, integralmente richiamata nel
provvedimento conclusivo.
In conclusione, non emergendo –con riferimento all’assenso tacito formatosi
sull’istanza della ricorrente- i profili di illegittimità enunciati dal
Comune, il provvedimento di ritiro dell’atto tacito di assenso va caducato.
7.4 - L’acclarata formazione del silenzio-assenso determina la illegittimità
anche della nota a firma del Comandante della Polizia Municipale, sorretta
dal solo presupposto dell’intervenuto avvio del procedimento di annullamento
di autotutela del silenzio-assenso.
7.5 – Va, invece, dichiarato inammissibile il gravame proposto avverso la
comunicazione di avvio del procedimento (prot. n. 23298 del 14.09.2023), trattandosi di atto endoprocedimentale privo di autonoma lesività. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti responsabili per non avere assunto tutte le iniziative
necessarie al collocamento in ferie del personale.
Il divieto di monetizzazione per dipendenti e dirigenti pubblici non è stato
infatti abrogato né disapplicato dalla sentenza della Corte di Giustizia
Europea 18.01.2024 n. C-218/22.
I dirigenti sono impegnati, in relazione alla responsabilità in caso di
monetizzazione delle ferie, ad assumere tutte le iniziative perché i
dipendenti ne fruiscano. Il divieto di monetizzazione delle ferie dei
dipendenti e dei dirigenti pubblici non è stato infatti abrogato né
disapplicato dalla sentenza
18.01.2024 - C-218/22 della Corte di Giustizia Europea (Nt+ Enti locali & edilizia del 22
gennaio).
Questa indicazione si applica in particolare per la
maturazione di responsabilità amministrativa e contabile in capo ai
dirigenti
che non danno applicazione alle sue indicazioni.
Per cui, sulla base dei
principi dettati dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza
comunitaria, i
dipendenti e dirigenti pubblici hanno diritto alla monetizzazione delle
ferie
non godute, tranne che l'ente dimostri che ciò è stato provocato
esclusivamente dalla scelta del lavoratore, ma nulla esclude che in questo
caso possa maturare responsabilità in capo al dirigente per non avere
assunto tutte le iniziative necessarie per il collocamento in ferie del
personale, anche nella fase finale del rapporto di lavoro, cioè prima del
collocamento in quiescenza.
L'articolo 5, comma 8, quarto periodo, del Dl
95/2012 stabilisce che il divieto di monetizzazione delle ferie all'atto
della conclusione del rapporto di lavoro è
sanzionato sia con il vincolo al «recupero delle somme indebitamente
erogate», sia con la maturazione di
«responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente
responsabile». La giurisprudenza comunitaria non si è
occupata di questo aspetto. Essa ha stabilito che le amministrazioni devono
assumere tutte le iniziative per fare
fruire le ferie ai propri dipendenti. Questo principio è stato ribadito
dalla citata sentenza della Corte di Giustizia
Europea, ma era già stato reso in modo consolidato dalla stessa, anche con
riferimento ai dirigenti.
Questi principi
hanno radicalmente modificato la impostazione data in precedenza dalla
nostra giurisprudenza, che stabiliva il
diritto alla monetizzazione delle ferie, in particolare per i dirigenti,
solamente nel caso in cui il lavoratore dimostrava
di avere richiesto le stesse e che l'ente aveva rigettato tali istanze per
esigenze di servizio.
Con la giurisprudenza
comunitaria si è quindi sostanzialmente ribaltato l'onere della prova: non è
il dipendente a dovere dimostrare che la
mancata fruizione delle ferie è stato provocato dal rigetto da parte
dell'amministrazione, ma è essa a dovere
dimostrare di avere assunto tutte le necessarie iniziative per la fruizione
delle stesse da parte del dipendente.
Su
questa base, nel caso in cui un ente venga condannato alla monetizzazione
delle ferie, non viene meno il dettato
sanzionatorio del decreto legge n. 95/2012, quindi la maturazione di
responsabilità amministrativa contabile da parte
dei dirigenti competenti nel caso in cui l'ente debba sobbarcarsi l'onere in
questione. Ricordiamo peraltro che, a
seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro, nelle pubbliche
amministrazioni sono state assegnati ai dirigenti i poteri e le capacità del
privato datore
di lavoro.
Da questa scelta legislativa deriva la conseguenza che i
dirigenti possono collocare anche d'autorità i
propri dipendenti in ferie, soprattutto nel caso in cui essi non le
richiedano. Questa possibilità è da considerare
ulteriormente rafforzata nel caso in cui il dipendente violi le previsioni
del d.lgs. n. 66/2003, per le quali si deve
godere di almeno 2 settimane di ferie nel corso dell'anno e di altre 2 entro
i 18 mesi successivi a quello di
maturazione delle stesse.
E le previsioni del CCNL per cui le ferie maturate nel corso dell'anno non
godute devono
esserlo entro i primi 6 mesi di quello successivo, a prescindere che il
mancato godimento sia stato provocato dalla
mancata richiesta o dal rinvio per esigenze di servizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
30.01.2024). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Rilevanza penale dei rumori provocati in ambito
condominiale.
Il bene giuridico tutelato dalla
contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. è costituito, come
emerge dallo stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento
delle attività e del riposo delle persone che il legislatore
intende presidiare da indiscriminate attività di disturbo,
le quali, tuttavia, non possono essere identificate, proprio
in ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo
soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della
fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua
abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le
quali soltanto consentono di individuare, al di là della
vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità
del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto
all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica
quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti annoverabili
in un ambito ristretto, come avviene in un condominio
costituito da più palazzine o da più appartamenti ubicati in
uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria la
produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare
la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti
dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di
propagazione, ma di una più consistente parte degli
occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti,
soltanto un illecito civile foriero di un eventuale
risarcimento del danno e non certamente una condotta
penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen.
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità
del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti
potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano
lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento
sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non
solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini
residenti in appartamenti diversamente ubicati
nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale
da superare i limiti della normale tollerabilità di
emissioni provenienti da immobili contigui (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2024 n. 2071 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
Il ricorso deve ritenersi meritevole di accoglimento.
A dispetto della anodina enunciazione, posta a chiusura
della pur diffusa motivazione spesa dal Tribunale tarantino,
secondo cui i rumori provenienti dall’abitazione degli
imputati “erano stati percepiti anche da altri condomini”,
tuttavia non emerge da alcun precedente passaggio della
sentenza impugnata, contenente la disamina delle acquisite
risultanze istruttorie, in qual modo fossero interessati
dalla fonte sonora, costituita da rumori dei tacchi delle
scarpe, così come da spostamenti di sedie o trascinamento di
mobili sul pavimento che avvenivano pressoché
quotidianamente specie nelle primissime ore del mattino,
soggetti diversi dalle due condòmine residenti
nell’appartamento posto al secondo piano, sottostante a
quello dei coniugi Ma..
Occorre considerare che il bene giuridico tutelato dalla
contravvenzione in esame è costituito, come emerge dallo
stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento delle attività
e del riposo delle persone che il legislatore intende
presidiare da indiscriminate attività di disturbo, le quali,
tuttavia, non possono essere identificate, proprio in
ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo
soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della
fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua
abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le
quali soltanto consentono di individuare, al di là della
vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità
del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto
all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica
quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti
annoverabili in un ambito ristretto, come avviene in un
condominio costituito da più palazzine o da più appartamenti
ubicati in uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria
la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a
turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti
dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di
propagazione, ma di una più consistente parte degli
occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti,
soltanto un illecito civile foriero di un eventuale
risarcimento del danno e non certamente una condotta
penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen. (cfr.
Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Vírgillito, Rv. 257345,
secondo cui perché sussista la contravvenzione di cui
all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si
svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di
rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e
le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento
sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di
una più consistente parte degli occupanti il medesimo
edificio; nonché Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, Iori, Rv.
251406; Sez. 1, n. 18517 del 17/03/2010, Oppong, Rv. 247062;
Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, Costantini, Rv. 209694).
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità
del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti
potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano
lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento
sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non
solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini
residenti in appartamenti diversamente ubicati
nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale
da superare i limiti della normale tollerabilità di
emissioni provenienti da immobili contigui (cfr. in termini
Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv.
273216).
Ciò premesso, il ragionamento probatorio svolto dal giudice
di merito si sviluppa intorno alle dichiarazioni rese dalla
sola Emanuela Pulpito, abitante nell’appartamento
sottostante a quello degli imputati, che riferisce di rumori
provenienti al mattino preso dal piano di sopra che, avuto
riguardo alle loro stesse caratteristiche, sono privi della
potenzialità diffusiva idonea ad integrare la rilevanza
penale del fatto.
E’ evidente infatti che il ticchettio dei
tacchi delle scarpe così come lo strusciamento dei mobili
sul pavimento, per quanto foriero di disturbo per gli
abitanti al piano inferiore in ragione del piano di
calpestio dell’uno coincidente con il soffitto dell’altro,
non possano propagarsi oltre l’unità immobiliare del piano
inferiore, risultando pertanto insuscettibili di concreta
percezione da parte degli altri soggetti residenti nella
zona o comunque anche solo di altri condomini abitanti in
appartamenti ubicati nel medesimo edificio condominiale.
D’altra parte le suddette dichiarazioni non risultano
accompagnate a quelle di nessun altro condomino dello
stabile, né corroborate da eventuali denunce o lagnanze di
altri soggetti ivi residenti, neppure risultando essere
stato effettuato alcun accertamento concreto vuoi con
l’acquisizione di deposizioni di altri testi aliunde
residenti, vuoi tramite perizia, vuoi per effetto di altri
elementi di fatto globalmente valutati in ordine al
superamento dei limiti della normale tollerabilità.
In
difetto del necessario nesso di consequenzialità logica tra
il disturbo arrecato alle condomine del piano sottostante e
il disturbo alla pubblica quiete, mancano pertanto gli
elementi fondanti l’affermazione di responsabilità dei
prevenuti, tenuto conto che le lamentele del singolo possono
al più configurare un illecito civile ai sensi dell’art. 844
cod. civ., ma non valgono ad integrare la materialità della
contravvenzione de qua che si perfeziona quando le emissioni
abbiano l’effetto di arrecare disturbo a una cerchia più
ampia di persone, anche a prescindere da quelle che se ne
siano in concreto lamentate.
Come infatti chiarito da questa stessa Corte «in tema di
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone,
l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso,
integra:
A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10,
comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si
verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di
emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in
materia;
B) il reato di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti
eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così
in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
C) il reato di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen.,
qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o
prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del
mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai
valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione
dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995» (così Sez. 3,
n. 56430 del 18/07/2017, Vazzana, Rv. 273605, nonché il più
recente arresto di questa stessa Sezione menzionato dalla
difesa n. 49467 del 28.10.2022, non mass.).
Fuoriuscendosi nel caso di specie dalle ipotesi sub A e sub
C, neppure menzionate nell’editto accusatorio, difetta
quanto all’ipotesi di cui all’art. 659 primo comma cod. pen.
il disturbo alla pubblica quiete, ricorrente solo
allorquando il rumore molesto è percepito o comunque è
percepibile da un numero indistinto di persone e non già,
come accertato nel presente processo, dai componenti, anche
a prescindere dalla mancata escussione della teste
Ta., di un solo nucleo familiare residente nella
medesima unità abitativa.
Non potendo pertanto ritenersi il fatto criminoso
sussistente ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., la
sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio,
stante la rinuncia di entrambi i ricorrenti alla
prescrizione. Consegue all’epilogo decisorio anche la revoca
delle statuizioni civili. |
APPALTI:
Sottosoglia, esclusione automatica solo con richiamo negli atti
di gara.
Il Tar Campania sulle offerte anomale nel nuovo codice: bisogna indicare
anche il metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia.
Con l’ordinanza
16.01.2024 n. 133 il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, prende in
considerazione le disposizioni codicistiche, confermate rispetto a quanto
già previsto dai decreti legge emergenza (in particolare il Dl 76/2020, art.
1, comma 3), tra le più rilevanti ovvero l’esclusione automatica nel
sottosoglia in caso di appalto –lavori o servizi- da aggiudicarsi al minor
prezzo privo di interesse transfrontaliero (in caso di competizione con
almeno 5 partecipanti).
La richiesta del provvedimento cautelare
La ricorrente chiede
al giudice la sospensione dell'efficacia del provvedimento di esclusione per
anomalia dell'offerta mai ricevuto. La particolarità del caso preso in esame
è
che, nonostante la chiara previsione del nuovo codice con l'art. 54 e quindi
dell'esclusione automatica dell'offerta anomala, la stazione appaltante
stabiliva che avrebbe proceduto alla verifica della potenziale anomalia ai
sensi dell'art. 110, comma 2, del codice.
Il giudice, ritenendo fondato il c.d. periculum vitae per il ricorrente, sospende l'efficacia del provvedimento di
esclusione fornendo delle condivisibili indicazioni circa l'applicabilità
delle
nuove norme in tema di esclusione automatica.
Più nel dettaglio
nell'ordinanza si rileva che la sussistenza del fumus si basa sulla mancata
indicazione «nella lettera di invito () e nel
bando di gara/capitolato tecnico» dell'esclusione automatica delle offerte
anomale, ai sensi dell' art. 54, comma 1,
del nuovo codice dei contratti.
Operando in quest'ambito, rimarca il
giudice, la stazione appaltante risulterebbe
obbligata nel caso di aggiudicazione al minor prezzo con appalto nel
sottosoglia europea privo di interesse
transfrontaliero «in deroga a quanto previsto dall'articolo 110» con esplicitazione negli atti di gara - all'esclusione
automatica delle offerte che risultassero anomale, qualora il numero delle
stesse ammesse sia pari o superiore a
cinque.
Altro obbligo della stazione appaltante, definito non surrogabile precisa il
giudice, è la necessità di
individuare, sempre negli atti di gara il metodo per l'individuazione delle
offerte anomale, scelto fra quelli descritti
nell'allegato II.2, ovvero lo selezionano in sede di valutazione delle
offerte tramite sorteggio tra i metodi compatibili
dell'allegato II.2»)».
Questo dettaglio non risultava conosciuto dall'operatore (in realtà neppure
il contenuto del
provvedimento adottato) che, pertanto ha beneficiato della sospensione
dell'efficacia del provvedimento di
esclusione dalla procedura di gara.
Il nuovo codice
La lettura espressa nell'ordinanza, in tema di obblighi del Rup
della stazione appaltane a procedere, nel caso specifico, con l'esclusione
automatica emerge anche dalla relazione
tecnica che accompagna il nuovo codice. In questa si legge, infatti, che
«ove i contratti di importo inferiore alle
soglie di rilevanza europea relativi ad appalti di lavori o servizi siano
aggiudicati con il criterio del prezzo più basso e
non presentino un interesse transfrontaliero certo, le stazioni appaltanti,
in deroga all'art. 110, prevedono negli atti di gara l'esclusione automatica
delle offerte che
risultino anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o
superiore a cinque».
Secondo gli estensori, la
previsione rispecchierebbe «la disciplina già contenuta nell'art. 1, comma
3, ultimo periodo, del decreto-legge n.
76/2020, che diviene, con la disposizione in esame, disciplina a regime e
non più transitoria».
Gli estensori
privilegiano, quindi, una decisione automatica di esclusione in luogo di
una, lunga, previa valutazione di congruità
sulla convenienza economica determina da ribassi spesso frutto di
comportamenti strumentali. Il giudice ricorda
che la stessa Direttiva Europea 2014/2024, «fornisce indicazioni chiare
sulla gestione del rischio di anomalia delle
offerte imponendo alle stazioni appaltanti di valutare questo rischio e
fornendo agli operatori economici la
possibilità di presentare i loro giustificativi».
Per effetto di tale pregiudiziale la scelta degli estensori viene limitata
al
sottosoglia comunitario per cui si è deciso di mantenere un sistema di
esclusione automatica, ma limitatamente a
quelle situazioni con un numero di offerte sufficientemente elevato (almeno
cinque) per cui il processo di
valutazione dell'anomalia sia più lungo e costoso per le stazioni appaltanti
in ragione della maggior complessità
intrinseca dei contratti (quindi, per appalti di lavori e servizi, ma non di
forniture).
La disciplina dell'art. 54, per la sua
portata generale, è applicabile alle ipotesi di procedura negoziata, ma
anche al caso in cui si ricorra alla procedura
ordinaria, nel caso previsto dall'art. 50, comma 1, lett. d).
Si esclude invece esplicitamente, per fugare ogni dubbio, l'affidamento
diretto con richiesta di più preventivi (comma 1, secondo periodo).
L'aspetto, però, di maggior delicatezza sembra essere determinata dal comma
2 dell'articolo che «contiene la parte più innovativa della disposizione», rappresentata dalla introduzione dell'obbligo per le stazioni appaltanti
di prevedere negli atti di indizione della procedura da aggiudicare con il
criterio del prezzo più basso (e quindi fin dall'avviso a manifestare
interesse o nel bando purché non determinato da interesse transfrontaliero),
oltre alla opzione per l'esclusione automatica delle offerte, anche il
metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia, individuato a
scelta delle medesime stazioni appaltanti tra uno dei tre indicati
nell'allegato II.2.
Questa precisazione, effettivamente, rappresenta anche la debolezza della
previsione visto che la sua mancata previsione/richiamo non può condurre ad
esclusione automatica salvo che si affermi, ufficialmente, che l'articolo 54
è eteroingrativo (imponendosi, quindi, alla stazione appaltante in caso di
omesso richiamo negli atti di gara) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per realizzare la mansarda serve sempre il permesso edilizio.
Il Consiglio di Stato esclude le tesi che vorrebbero qualificare l’opera
come una manutenzione o una ristrutturazione edilizia
Il residente di un comune campano ha
presentato una Scia in sanatoria,
versando 516 euro di sanzione, per regolarizzare un intervento considerato
«alla stregua di un intervento di ristrutturazione o di manutenzione della
copertura del preesistente piano primo mansardato».
Intervento che ha
portato alla realizzazione di uno spazio abitabile di 500 mq. Sulla base dei
riscontri effettuati nel cantiere dai vigili urbani il comune ha emesso
un'ordinanza di demolizione ritenendo che gli interventi fossero privi del
necessario titolo edilizio.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza al Tar,
sostenendo che stava eseguendo «mere opere di manutenzione consistenti
nel rifacimento parziale della copertura del primo piano». Il Tar ha invece
dato credito al rapporto dei vigili urbani che hanno descritto nel dettaglio
una
«sopraelevazione» tesa a realizzare appunto «una mansarda a quota di piano
primo di un fabbricato preesistente».
Il Consiglio di Stato - Sez. VII, nella
sentenza 15.01.2024 n. 488, non ha potuto che respingere
l'appello, ricordando che «la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando
viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle
caratteristiche
fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente
trasformato, con conseguente creazione non
solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume
complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di
un disegno sagomale con connotati diversi da quelli della struttura
originaria (allungamento delle falde del tetto,
perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.),
l'intervento rientra nella nozione di nuova
costruzione».
Pertanto, nel caso specifico, concludono i giudici della
VII Sezione di Palazzo Spada, «la
realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato
preesistente di 500 mq non può qualificarsi come ristrutturazione edilizia
perché comporta la creazione di nuovi volumi» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024).
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SENTENZA
6. Le censure sono infondate.
6.1 La descrizione delle opere contenuta nell’ordinanza di demolizione e nel
verbale di sequestro datato 13.08.2015 smentisce la tesi difensiva secondo
cui si tratterebbe di mere opere di manutenzione consistenti nel rifacimento
parziale della copertura del primo piano oggetto di SCIA in sanatoria
presentata in data 14.10.2015.
6.2 Per contro, le opere abusive accertate in sede di sopralluogo dei Vigili
Urbani consistevano in una “sopraelevazione realizzata in legno, tegole
di copertura, a falde inclinate, grondaia perimetrale, pali e travi in
legno, parziale chiusura perimetrale con tavelle, guaina di calpestio. Alla
stessa si accede con torrino scala. La detta sopraelevazione è di circa mq.
500 (cinquecento) con altezza di colmo ml 3,50 ed altezza laterale di circa
ml 2,50 il tutto in corso di realizzazione”.
6.3 Come osservato dal giudice di primo grado,
è evidente che la
realizzazione di una sopraelevazione per una superficie e un’altezza pari a
quelli accertate non può essere considerata alla stregua di un intervento di
ristrutturazione o di manutenzione della copertura del preesistente piano
primo mansardato.
6.4 Per giurisprudenza costante,
la ristrutturazione edilizia sussiste solo
quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle
caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato
totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un
apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo
dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati
diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del
tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione (Cons. Stato
Sez. VI, 13.01.2021, n. 423).
Ne discende che
la realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di
un fabbricato preesistente di 500 mq non può qualificarsi come
ristrutturazione edilizia perché comporta la creazione di nuovi volumi (Cons.
Stato sez. VII 01.08.2023, n. 7453).
7. A diverse conclusioni non conducono né la perizia giurata a firma del
geom. Be.Fr. (in diparte i profili di inammissibilità della medesima in
quanto depositata solo in appello, sub doc. n. 2) né la sentenza penale di
assoluzione emessa dal Tribunale di Napoli nei confronti del signor
-OMISSIS- e citata da parte appellante.
7.1 Da un lato, la perizia giurata, pretermettendo totalmente lo
stato di fatto così come accertato nel verbale di sequestro, si limita a
richiamare la perizia tecnica e gli elaborati grafici allegati all’istanza
di concessione in sanatoria nonché la descrizione delle opere contenuta
nella SCIA in sanatoria presentata il 14.10.2015, concludendo che “gli
interventi sopra descritti non hanno comportato alcun aumento di superficie
e volumetria rispetto a quella esistente e assentita con C.E. in sanatoria”.
7.2 La relazione tecnica, fondandosi sul mero confronto tra le opere oggetto
di concessione in sanatoria e le opere sopravvenute così come descritte
dall’istante nella SCIA presentata, non è idonea a smentire le circostanze
di fatto accertate dagli operatori di Polizia Municipale i quali hanno anche
puntualizzato che le opere erano ancora “in corso di realizzazione”
al momento del sopralluogo (13.08.2015).
7.3 Dall’altro lato, la sentenza n. -OMISSIS- non reca alcun
accertamento, suscettibile di efficacia extrapenale (art. 654 c.p.p.), in
ordine all’affermata legittimità delle opere realizzate poiché si limita ad
assolvere il signor -OMISSIS- dal reato di cui all’art. 44, lett. b), d.p.r.
380/2001 unicamente per la mancata prova che l’imputato fosse proprietario
dell’immobile o committente delle opere abusivamente realizzate, come
confermato anche dal fatto che era stata la signora -OMISSIS-, in qualità di
proprietaria, a presentare la SCIA in sanatoria (pag. 3 sentenza n.
-OMISSIS-, doc. 1 allegato alla memoria di primo grado del 30.01.2019).
7.4 Le considerazioni sopra svolte confermano, pertanto, la legittimità
dell’ordinanza di demolizione poiché avente ad oggetto opere integranti una
nuova costruzione per le quali è necessario il permesso di costruire. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non
necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando
che la partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare
alcun esito diverso.
Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e di carattere reale e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né
una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione.
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga
adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, atteso
che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in
alcun modo legittimare.
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente
ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata
conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide
sul dovere di disporne la demolizione.
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8. La natura vincolata dell’ordine di demolizione determina l’infondatezza
delle censure relative alla violazione dell’obbligo di comunicazione di
avvio del procedimento e al difetto di motivazione in ordine all’interesse
pubblico perseguito in comparazione con quello del privato.
8.1 Sotto il primo profilo, in disparte la circostanza che gli
appellanti si limitano a contestare l’omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento senza specificare quale apporto partecipativo avrebbero potuto
fornire per superare le riscontrate illegittimità, è dirimente osservare che
l’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della
previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando che la
partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare alcun
esito diverso (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2022, n.
3707; sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
8.2 Sotto il secondo profilo, si richiama l’orientamento della
giurisprudenza che, nel solco dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria
n. 9/2017 e ribaditi di recente dall’Adunanza Plenaria n. 16/2023, ha
costantemente rilevato che l’ordine di demolizione è atto vincolato e di
carattere reale e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (cfr., ex multis,
Cons. Stato sez. II, 11.01.2023, n. 360; sez. VI, 17.10.2022, n. 8808).
8.3 Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione
venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso,
atteso che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
in alcun modo legittimare (Ad. Plen. 9/2017, sez. II, 11.01.2023, n. 360;
sez. VI, 26.09.2022, n. 8264).
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente
ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata
conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide
sul dovere di disporne la demolizione (Ad. Plen. 16/2023).
9. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, l’appello deve essere
respinto in quanto infondato (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 15.01.2024 n. 488, no - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Controversie inerenti la mobilità interna.
Il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con
sentenza 13.01.2024 n. 32
ha ricordato che le controversie che hanno a oggetto la contestazione degli
atti di mobilità interna (trasferimento ad altra unità organizzativa), anche
quando impugnati congiuntamente all'atto programmatorio presupposto (Piao),
sono di competenza del giudice ordinario.
Infatti, in questi casi,
l'interesse personale, diretto, concreto e attuale ad agire azionato e
dunque il petitum sostanziale del ricorso non è costituito da una
generica ed astratta pretesa alla legalità della gestione delle risorse
umane da parte dell'ente datore di lavoro, bensì dalla volontà del
ricorrente di conservare l'assegnazione precedentemente ottenuta e, quindi,
di far valere una situazione giuridica soggettiva legata al rapporto di
lavoro in essere con l'amministrazione, sotto il profilo del diritto alla
sede di servizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
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SENTENZA
2. – Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, come da eccezione sollevata dal Comune di Gaeta, venendo in
questione una vicenda contenziosa inerente la gestione privatistica del
rapporto di lavoro di un dipendente comunale, sotto il profilo del suo
trasferimento da un ufficio dell’ente ad un altro.
Infatti, ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, “1.
Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte
le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di
quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le
controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca
degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle
concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e
corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti.
Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li
disapplica, se illegittimi. L’impugnazione davanti al giudice amministrativo
dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di
sospensione del processo”.
Sul punto, costituisce ormai ius receptum che, dopo l’approvazione
della graduatoria finale del concorso pubblico, “si apre la fase
esecutiva nella quale si configurano attività che attengono allo svolgimento
privatistico del rapporto di lavoro” (TAR Lazio, Roma, sez. V,
14.12.2023 n. 18972; sez. I, 28.03.2023 n. 5327; TAR Sardegna, sez. I,
08.09.2020 n. 483); nel contesto di tale fase i comportamenti e le
determinazioni dell’Amministrazione sono espressione del potere negoziale
che la stessa esercita nella veste e con la capacità del privato datore di
lavoro (Cass. civ., sez. un., 07.07.2014 n. 15428; sez. un., 23.09.2013 n.
21671; sez. un., 06.07.2006 n. 15342).
Inoltre, osserva il collegio che “la giurisdizione deve essere
determinata sulla base della domanda, dovendosi guardare, ai fini del
riparto […] tra giudice ordinario e giudice amministrativo, non già alla
prospettazione compiuta dalle parti, bensì al petitum sostanziale, da
identificare, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che
si chiede al giudice, quanto, soprattutto, in funzione della causa petendi,
ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, da
individuarsi con riguardo ai fatti allegati” (Cass. civ., sez. un.,
22.09.2022 n. 27748; TAR Lazio, Roma, sez. V, 14.12.2023 n. 18972).
Ebbene, nella vicenda che ci occupa -OMISSIS- non ha impugnato soltanto il
PIAO civico, ma anche e soprattutto le note municipali prot. n.-OMISSIS- del
30.01.2023 e prot. n. -OMISSIS- del 02.02.2023, con le quali è stato
concretamente disposto il suo trasferimento ad altra unità organizzativa,
rispetto alle quali il suddetto piano costituisce un atto amministrativo
presupposto.
In tal senso, l’interesse personale, diretto, concreto ed attuale ad agire
azionato in questa sede dal ricorrente –e dunque il petitum
sostanziale del ricorso– non è costituito da una generica ed astratta
pretesa alla legalità della gestione delle risorse umane del Comune
resistente, bensì nella volontà di -OMISSIS- di conservare l’assegnazione
precedentemente ottenuta e, quindi, di far valere una situazione giuridica
soggettiva legata al rapporto di lavoro in essere con l’Amministrazione
civica, sotto il profilo del diritto alla sede di servizio.
Sul punto, giurisprudenza che il collegio intende condividere ha già
affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia relativa
all’assegnazione del dipendente a una diversa unità organizzativa nel
rispetto della categoria e del profilo professionale di appartenenza, in
quanto gestita con i poteri del privato datore di lavoro e non comportante
alcuna modificazione del rapporto di impiego tra le parti (TAR Marche, sez.
I, 07.03.2014 n. 327).
Pertanto, atteso che le citate note dirigenziali del 30.01.2023 e del
02.02.2023, cioè gli atti direttamente lesivi della posizione del
ricorrente, sono state assunte con le capacità e i poteri del privato datore
di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, la
cognizione sull’eventuale esistenza di patologie che ne inficino la
legittimità è devoluta al giudice ordinario in funzione di giudice del
lavoro, ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 165 cit., cui è anche attribuito il
potere di disapplicare eventualmente il PIAO in quanto atto amministrativo
presupposto rilevante.
È, dunque, innanzi al giudice ordinario che -OMISSIS- potrà riproporre la
domanda nei termini di legge, ai sensi degli artt. 59, l. 18.06.2009 n. 69 e
11 cod. proc. amm. e secondo i principi affermati dalle sentenze della Corte
costituzionale 12.03.2007 n. 77 e della Corte di cassazione, sezioni unite,
22.02.2007 n. 4109. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Depuratore comunale e responsabilità del sindaco.
La decisione consapevole di fare
funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica
una condotta positiva di disturbo e molestia a livello
igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di
cautele idonee ad impedire il versamento.
Quello di cui all’articolo 674 cod. pen. è reato di pericolo
per la cui integrazione non occorre un effettivo nocumento
alle persone, essendo sufficiente «l'attitudine a cagionare
effetti dannosi», sussistente nel caso di uno scarico di
acque altamente tossiche e maleodoranti, avvenuto in luogo
pubblico (fattispecie relativa alla condotta di un sindaco
il quale non aveva evitato che i reflui provenienti
dall’impianto di depurazione comunale finissero in mare in
assenza di idonea depurazione, così imbrattando le acque
marine) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2024 n. 1451 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Quanto al primo profilo, mediante il quale è stata
lamentata la errata applicazione dell'art. 674 cod. pen., a
causa della affermazione della idoneità lesiva della
condotta nonostante il mancato accertamento della dannosità
per le persone di quanto sversato in mare, occorre
premettere i principi della giurisprudenza, che questo
Collegio richiama ritenendoli pienamente condivisibili.
2.1. La Corte ha reiteratamente affermato (Sez. 3, n. 49213
del 06/11/2014, Ingianni) che l’ipotesi contravvenzionale in
esame è qualificata come reato di pericolo, cosicché per la
sua configurazione è necessaria esclusivamente l'astratta
attitudine delle cose gettate o versate a cagionare effetti
dannosi ed è sufficiente la colpa, configurabile in tutti i
casi in cui venga riscontrata l'attivazione di impianti
pericolosi ovvero venga accertata la colposa omissione di
cautele atte ad impedire il verificarsi della situazione di
pericolo.
Ancòra, Sez. 3, n. 46237 del 30/10/2013, Semplici, ha
precisato che è necessario e sufficiente accertare «la
potenziale offensività del rifiuto o del refluo e che il
getto avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo
privato di comune o altrui uso (cfr. Cass. sez. 3, sentenza
n. 25037 del 25/05/2011 Ud. dep. 22/06/2011 Rv. 250618; cfr.
anche, con riferimento alla normativa preesistente, Sez. 1,
sentenza n. 13278 del 10/11/1998 Ud, dep. 17/12/1998 Rv.
211869)», allargando altresì, nel tempo, l’ambito della
nozione di «molestia», ravvisata ad esempio anche in caso di
«mutevole colorazione del mare» causata dai reflui di un
impianto di depurazione comunale, risultando palese ed
intrinseco il turbamento che suscita nella comunità la
visione del mare di un colore diverso da quello suo proprio
(Sez. 3, n. 10034 del 07/01/2014, Calabrò, secondo cui
«costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle
persone preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla
salute»).
Si è poi precisato che «la decisione consapevole di fare
funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica
una condotta positiva di disturbo e molestia a livello
igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di
cautele idonee ad impedire il versamento» (Sez. 3, n. 48406
del 18/10/2019, Livello, Rv. 278259 – 01; Sez. 3, n. 6419
del 07/11/2007, Costanzach, Rv. 239058 – 01).
Recentemente, la Corte (Sez. 3, n. 21034 del 05/05/2022, Ali
Spa, n.m.), ha chiarito che quello di cui all’articolo 674
cod. pen. è reato di pericolo per la cui integrazione non
occorre un effettivo nocumento alle persone, essendo
sufficiente «l'attitudine a cagionare effetti dannosi»,
precisando che non può non essere ricompresa una situazione,
ove esiste uno scarico di acque altamente tossiche e
maleodoranti, avvenuto in luogo pubblico.
2.2. Per quanto concerne il merito del ricorso, il Collegio
osserva come nella giurisprudenza consolidata della Corte (Sez.
3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01;
Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01), in caso
di c.d. «doppia conforme», ai fini del controllo di
legittimità sul vizio di motivazione, la struttura
giustificativa della sentenza di appello si salda con quella
di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando
le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a
quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti
ai passaggi logico giuridici della prima sentenza,
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi
di prova posti a fondamento della decisione. Le motivazioni
dei due provvedimenti in questo caso (v. Sez. 1, n. 8868
dell’08/08/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del
05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145) si integrano a formare un
corpo unico.
Si è dunque, anche nel caso di specie, in presenza di
«doppia conforme», con il conseguente obbligo per il
ricorrente di confrontarsi in maniera puntuale con i
contenuti delle due sentenze, circostanza, nel caso di
specie, non sussistente.
Ciò premesso, il motivo è in parte qua inammissibile,
essendo volto, peraltro in modo generico, privo di confronto
critico con la motivazione della sentenza impugnata, a
censurare sul piano del merito un accertamento di fatto, in
ordine a detta idoneità lesiva dei reflui, di cui è stata
accertata la presenza in mare nel corso di reiterate
ispezioni ed analisi effettuate nel corso degli anni, che
hanno evidenziato il superamento dei parametri COD e BOD,
oltre l’assenza di misuratori di portata, pozzetti di
ispezione e registri di carico e scarico dei rifiuti
prodotti e smaltiti (pag. 6-7 sentenza di primo grado).
A ciò il Collegio aggiunge che non vi è dubbio che il mare
territoriale (v. Sez. U. Civili, n. 2735 del 02/02/2017, Rv.
642419 - 02) sia una res communis omnium, rispetto al quale
sussiste un diritto di uso comune a tutti i componenti della
collettività uti cives, ragion per cui l’immissione in mare
di sostanze inquinanti in misura superiore ai limiti
consentiti cagiona un concreto pericolo di cagionare effetti
dannosi alla salute nei confronti di un numero indeterminato
di persone.
3. Del pari inammissibili sono le censure che si ricollegano
alla qualifica di sindaco del ricorrente.
3.1. In ordine alla posizione del sindaco e alle
responsabilità che ad essa conseguono, il Collegio premette
che secondo la giurisprudenza della Corte il d.lgs. n. 267
del 2000, art. 107, comma 1, stabilisce che ai dirigenti
degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui
i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo
spettano agli organi di governo, mentre la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai
dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di
controllo (v. Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Fasulo, Rv.
256638 – 01).
La richiamata disposizione è stata più volte oggetto di
esame da parte della giurisprudenza di questa Corte con
specifico riferimento alla materia dei rifiuti, contigua
rispetto a quella oggetto del presente procedimento.
Si è
infatti chiarito che gli organi di governo, in base alla
disciplina sugli enti locali, hanno un dovere di controllo
limitato al corretto esercizio della funzione di
programmazione generale (e, quanto al sindaco, dei compiti
di ufficiale del governo), restando esclusa la
responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da
problemi di carattere tecnico-operativo, ancorché non
meramente esecutivo, riguardanti difficoltà meramente
contingenti e di ordinaria amministrazione nonché la
sorveglianza dell'operato del personale dipendente, che
restano di competenza del dirigente amministrativo di
settore (Sez. 3 n. 23855,
07.05.2002, conf. Sez. 3 n.
8530, 04.03.2002).
Tuttavia, questa Corte (Sez. 3, n. 2478 del 09/10/2007, dep.
2008, Gissi, Rv. 238593 – 01) ha precisato che,
se è vero
che l'art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti
amministrativi dell'ente di autonomi poteri organizzativi,
permane comunque in capo al sindaco, quale figura
politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il
dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività
autorizzate (in tal senso Cass. Sez. 3, n. 28674 del 2004 Rv.
229293).
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano
note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali
emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la
salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Sez. 3, n.
37544 del 27/06/2013, Rv. 256638; Sez. 3, n. 18024 del
30/03/2023, Di Palma, n.m.).
Sussistono, quindi, da un lato, delle attribuzioni dirette
del sindaco (quale quella di programmazione e, in materia di
rifiuti, quella di ordinanza); dall’altro, un obbligo
generale di vigilanza e controllo, a fronte di situazioni
particolarmente gravi e reiterate nel tempo, quale quella in
esame.
3.2. Nel caso di specie, le due conformi pronunce di merito
sottolineano la risalenza nel tempo del problema, la sua
gravità e la sua perduranza.
A pagina 7 della sentenza di primo grado si chiarisce, ad
esempio, che le deposizioni dei testi Sa. (ARPA), Ar.
e Ad. (Capitaneria di Porto) e i certificati di analisi
in atti, evidenziavano i superamenti dei limiti tabellari
per i parametri COD e BOD anche nel 2015, 2016 e 2018, ossia
anche dopo l’elezione del Vi..
Analogamente, a pag. 4-5 della prima sentenza si dà conto di
come nel 2018 si sia verificato un corposo carteggio tra la
Regione e il Comune sul tema, sia stata fissata una
conferenza di servizi, e di come nella nota del 18.05.2018 (ossia quando il vinci ricopriva la carica di sindaco)
la Regione esprimesse rilievi critici proprio sulle «scelte
operate dal RUP Geom. Sa. e dal sindaco del Comune di
Saponara».
A fronte di tale, precisa, motivazione, il ricorrente da un
lato omette di indicare in modo preciso quali interventi
avrebbe posto in essere per fronteggiare il problema (essi
sono solo genericamente indicati a pag. 2 del ricorso) e, dall’altro, omette di confrontarsi con i dati precisi
offerti dalle due sentenze, da cui emerge la prosecuzione
dell’inquinamento ben oltre la data di assunzione della
carica sindacale e la comunicazione nelle sedi istituzionali
di tale perduranza.
Ed infatti, a fronte di una motivazione precisa sia in
ordine alla prosecuzione delle criticità dopo l’assunzione
della carica sindacale da parte del ricorrente, certificate
da rapporti analitici e debitamente rappresentate anche in
conferenza di servizi, che alla precisa comunicazione di
tali criticità agli organi comunali, il ricorso si limita ad
una generica censura di tipo «contestativo», senza opporre
una critica precisa che «attacchi» i motivi del
provvedimento impugnato, risultando così inammissibile per
difetto di specificità estrinseca. |
APPALTI:
Manodopera, mai ribassabili le spese individuate come
«incomprimibili» nel bando.
Resta la possibilità di giustificare che il ribasso complessivo dell’importo
derivi da una più efficiente organizzazione aziendale: il ragionamento del
Tar Campania compatibile con le disposizioni del nuovo codice.
Il giudice campano (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
11.01.2024 n. 147) viene chiamato a
verificare la legittimità di un provvedimento di esclusione determinato dal
non consentito ribasso degli oneri della manodopera (e sicurezza) indicati
dalla stazione appaltante riguardo ad un appalto bandito sotto l’egida del
pregresso codice.
La sentenza contiene, però, indicazioni utili anche in
relazione al nuovo impianto normativo.
La questione
Il ricorrente impugna la
propria esclusione in relazione ad un appalto di servizi pulizia,
manutenzione
e custodia dell'area cimiteriale, fondata, in particolare, su un ribasso
«abnorme» rispetto ai soli importi ribassabili ovvero la sola parte composta
«dalle spese per i materiali e le attrezzature, per 5.844,15, il rimborso
spese
generali, per 7.017,77 e l'utile d'impresa, pari ad 5.380,29».
In questo
modo la
percentuale del ribasso determinava praticamente l'azzeramento di queste
voci (raggiungendo la soglia del 92,77). Evidentemente, l'offerta è stata
considerata anomala e inaccettabili le stesse giustificazioni.
Da qui, la
censura del ricorrente che ha strutturato il proprio ricorso evidenziando
che
la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare la percentuale di ribasso
non alla sola componente del costo dell'appalto preso in considerazione (che
si potrebbero sintetizzare come spese
generali e la percentuale di utile) ma anche alle altre componenti ovvero
«l'importo per il costo del personale, pari ad
38.961 e quello per la sicurezza, pari ad 1.980, per complessivi 40.941,00».
In pratica, la stazione appaltante avrebbe
dovuto prendere in considerazione (applicare il ribasso offerto), secondo la
ricorrente, anche questi importi e, in
questo modo, la percentuale di ribasso si sarebbe attesta sul 28,95%
risultando non anomala.
La sentenza
Il Tar si
sofferma, dapprima, sul procedimento di verifica della potenziale anomalia
dell'offerta evidenziando che l'analisi -che deve essere presidiata dal Rup-, «costituisca espressione della
discrezionalità tecnica, di cui l'amministrazione è
titolare per il conseguimento e la cura dell'interesse pubblico ad essa
affidato dalla legge (Consiglio di Stato sez. V,
14.06.2021, n. 4620, cfr. Consiglio di Stato sez. V, 01.06.2021, n.
4209)».
Le risultanze del procedimento,
quindi, sono sottratte ad un «sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che non sia manifestamente
inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o
travisamento dei fatti». Giungendo, quindi, alla parte
centrale della censura la possibilità o meno di ribassare il costo della
manodopera-, in sentenza si rileva che
«qualora la lex specialis di gara abbia nettamente distinto una parte del
valore del contratto di appalto come spesa
incomprimibile (quella afferente al costo del personale) ed abbia
specificato, con riferimento alla restante parte della base d'asta,
l'offerta del massimo ribasso, solo su questo costo l'operatore sia
legittimato a proporre la sua offerta in
ribasso».
Ed è ciò che è effettivamente avvenuto con la gara di in cui, la
stazione appaltante, ha evidenziato i costi
incomprimibili come richiesto dalla pregressa disciplina e, in modo più
chiaro, con l'attuale codice-, richiedendo il
ribasso solo sulla parte «comprimibile» e su questa «i singoli concorrenti
avrebbero dovuto operare il ribasso». Il
ribasso offerto, invece, secondo la pretesa della ricorrente, incideva anche
sugli oneri della manodopera e sugli oneri
della sicurezza violando le prescrizioni della legge di gara.
Pertanto la
decisione, sul procedimento di verifica della
potenziale anomalia, è tutt'altro che privo di fondamento illogico.
Il
ragionamento espresso, prima dalla stazione
appaltante e poi confermato dal giudice, pare coerente anche con il nuovo
disposto contenuto nel comma 14
dell'articolo 41 del nuovo codice in cui per i soli contratti di lavori e
servizi, «per determinare l'importo posto a base di
gara, la stazione appaltante o l'ente concedente individua nei documenti di
gara i costi della manodopera» che, con
gli oneri della sicurezza, devono essere «scorporati dall'importo
assoggettato al ribasso». Fermo restando la
possibilità, da intendersi in senso generale, dell'operatore economico «di
dimostrare che il ribasso complessivo
dell'importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale».
Una
corretta interpretazione impone quindi alla
stazione appaltante di specificare, come anche avviene nel bando tipo n.
1/2023 dell'Anac, che gli oneri della
manodopera non sono ribassabili direttamente ma qualora, si potrebbe dire in
via indiretta, si incida anche su questi,
l'offerente solo per questo non può essere escluso ma deve essere chiamato a
certificare l'esistenza di una
maggiore «efficienza» rispetto al modello richiesto dalla stazione
appaltante con la legge di gara (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni culturali, anche orti e case rustiche possono essere
soggetti a vincolo.
Lo segnala una sentenza del Tar Liguria rigettando il ricorso dei
proprietari
Un frutteto, un orto e una casa rustica possono essere dichiarati beni
culturali.
È quanto statuisce il TAR Liguria (Sez. I con
sentenza
11.01.2024 n. 16) che ha confermato la legittimità di un decreto
del Presidente della Commissione Regionale per il patrimonio culturale della
Liguria che ha qualificato tali beni come soggetti a vincolo culturale.
La sentenza è
interessante perché, oltre ad affrontare il tema sempre molto complicato
della presunzione di vincolo dei beni appartenenti ad enti pubblici
ribadisce
l'ampia discrezionalità di cui dispone il Ministero dei Beni Culturali nella
valutazione della presenza o meno di interesse culturale e sostiene che la
valutazione connessa ai beni appartenenti ad un ente pubblico afferisce alla
verifica di un interesse culturale minore.
Andando con ordine, la vicenda da
cui scaturisce la pronuncia riguarda un compendio immobiliare di proprietà
della Siae che, in qualità di ente pubblico economico, intendendo procedere
alla sua vendita ha chiesto l'attivazione della verifica di interesse
culturale
del compendio, ai sensi dell'articolo 12 del Codice dei Beni Culturali.
La
verifica è terminata con la dichiarazione di vincolo, contestata dagli
attuali
proprietari avanti al Tar sulla base di motivazioni volte a confutare la
ricostruzione ministeriale di sussistenza di
effettivo interesse culturale. Il Tar ha rigettato la richiesta sulla base
di molteplici argomentazioni, di cui la principale
è la ampia discrezionalità della scelta dell'amministrazione. Infatti,
secondo i giudici liguri, le valutazioni sottese alla
dichiarazione di interesse culturale sono molto ampie, attraversano diversi
campi del sapere e si basano su un
apprezzamento delle qualità di un bene connotato da una grande
discrezionalità tecnica.
Il giudizio che presiede alla
dichiarazione di interesse culturale, e quindi all'imposizione di un
vincolo, implica l'applicazione di cognizioni
specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell'arte,
dell'architettura, dell'archeologia e di altre discipline
caratterizzate da canoni elastici e mobili e, quindi, da grandi margini di
opinabilità.
Queste considerazioni quindi
portano a considerare che anche beni che tradizionalmente non vengono
ricondotti al novero dei beni culturali
(come un frutteto, un orto o un bene rustico) possono validamente presentare
un interesse culturale che non può
essere escluso a priori. Per esempio, in relazione ai terreni oggetto di
giudizio, l'interesse culturale nasce dal fatto
che essi presentano una stretta connessione con un bene cinquecentesco
(oggetto di vincolo precedentemente)
sia dal punto di vista morfologico che storico testimoniale.
Questo basta a
considerare la legittimità della
dichiarazione di vincolo, anche in ragione del fatto che secondo il Tar la
discrezionalità del Ministero in caso di beni
appartenenti ad enti pubblici è anche maggiore rispetto alle valutazioni che
sono condotte sui beni dei privati. Infatti,
mentre per i beni del demanio o del patrimonio pubblico l'articolo 10, comma
1, lett. A), del Codice dei Beni Culturali
postula la sussistenza di un interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico quindi per dirla con le parole del Tar la
sussistenza di un interesse semplice, per i beni di proprietà privata l'art.
10, comma 3, richiede il riscontro di un
interesse particolarmente importante o eccezionale.
Questo costituirebbe,
quindi, un ulteriore motivo a supporto
della legittimità del decreto di vincolo la cui valutazione era chiamata ad
accertare un interesse semplice data la
natura giuridica della Siae.
Si ricorda, sul punto che per costante
giurisprudenza la valutazione dell'amministrazione
può essere censurata soltanto se la decisione risulti in contrasto con la
realtà fattuale, ovvero sia irragionevole,
incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico, ponendosi al di fuori
della naturale ed intrinseca opinabilità del
sapere che definisce il carattere culturale del bene (Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI,
04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.01.2024).
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SENTENZA
3. Tanto premesso, gli atti impugnati non risultano affetti dai vizi
censurati con il I) mezzo di gravame.
Occorre rammentare che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10,
comma 1, lett. a), e 12 del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali),
tutti i beni mobili e immobili di proprietà di soggetti pubblici o di enti
privati non lucrativi, realizzati da autore non più vivente ed esistenti da
oltre settant’anni, sono sottoposti ad una misura di salvaguardia,
consistente nell’applicazione del vincolo di tutela sino al compimento della
verifica circa la sussistenza o meno di uno specifico interesse culturale
(artistico, storico, archeologico o etnoantropologico).
Come rilevato in dottrina, si tratta di una presunzione iuris tantum
di culturalità, per cui tali beni sono provvisoriamente soggetti al sistema
codicistico di protezione fino allo scrutinio ad hoc dell’interesse
culturale da parte degli organi competenti, d’ufficio o su istanza degli
enti proprietari: in caso di verifica positiva, il bene rimane
definitivamente vincolato; diversamente, l’esito negativo dell’accertamento
comporta la fuoriuscita del cespite dal regime di tutela (in argomento cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. VI, 12.02.2015, n. 769; TAR Abruzzo,
L’Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 28).
3.1. Ciò posto, contrariamente a quanto argomentato da SIAE e dai signori Bo.,
il rustico è stato verosimilmente costruito anteriormente al 1950 ed è,
pertanto, un bene ultrasettantennale, con conseguente operatività della
richiamata disciplina.
In proposito, non è significativa la circostanza che l’unità immobiliare sia
stata per la prima volta iscritta in catasto nel 1959, poiché in passato
accadeva sovente che i piccoli fabbricati rurali non venissero accatastati
al momento della loro realizzazione (v. sul punto TAR Liguria, sez. I,
18.05.2022, n. 395; TAR Liguria, sez. I, 28.09.2020, n. 642).
Per contro, dalla documentazione versata in atti emergono plurimi indizi
della risalenza della costruzione ad un periodo antecedente al 1959 e, in
generale, agli anni ’50:
- nel rogito notarile di compravendita stipulato fra SIAE ed i
signori Bo., all’art. 9, la procuratrice speciale della parte venditrice ha
dichiarato che il manufatto è stato edificato anteriormente al 1942 (v. doc.
1 interventori);
- nella relazione di regolarità edilizia e catastale richiamata nel
prefato atto notarile l’ing. Ol., in qualità di tecnico di SIAE, ha
rappresentato che il rustico è stato originariamente realizzato quale
manufatto di servizio per la conduzione del fondo agricolo e, in seguito,
utilizzato come dependance della villa per il personale di sorveglianza; ha
aggiunto che, probabilmente, è stato eretto dopo il 1940 e che ha assunto la
consistenza attuale prima del 1967 (v. produzione interventori del
10.07.2023);
- nel 1959 Fr.Ci. era morto da tempo (essendo mancato il
20.11.1950), mentre Ro.La. aveva ottantadue anni, in quanto nata il
01.08.1877 (v. atto di donazione rep. n. 61952 notaio Ca. di Genova). Ora,
appare poco plausibile che una donna ultraottuagenaria intraprenda
l’edificazione di un nuovo fabbricato, viepiù se si considera che, quasi
sicuramente, nel 1959 la vedova del musicista aveva già maturato la
decisione di donare il compendio immobiliare a SIAE o, comunque, stava
vagliando tale opzione; viceversa, è assai probabile che il manufatto sia
stato accatastato in tale momento proprio per procedere alla liberalità in
favore dell’ente ricorrente.
3.2. In secondo luogo, si rivela manifestamente infondato l’assunto secondo
cui l’avversato decreto di vincolo sarebbe stato emanato senza accertare
previamente l’interesse culturale dei beni.
Come dimostrato dall’Amministrazione resistente, infatti, il procedimento di
verifica di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 è stato correttamente
esperito, secondo l’iter divisato dagli artt. 40, 41 e 47 del d.p.c.m. n.
169 del 02.12.2019.
In particolare, come accennato (supra, § 2), la Soprintendenza Archeologia,
Belle Arti e Paesaggio ha svolto l’istruttoria ed ha proposto alla
Commissione per il patrimonio culturale della Liguria il riconoscimento
dell’interesse per il terreno-frutteto lato ovest, il rustico a monte ed il
terreno-orto a nord-est, esprimendosi invece in senso contrario per le due
unità immobiliari facenti parte dell’edificio a schiera a ponente della
villa (v. nota Soprintendente in data 03.08.2021 e relativi allegati, sub
doc. 4 resistente).
La Commissione regionale ha accolto la proposta soprintendentizia (v.
verbale CO.RE.PA.CU. del 04.08.2021, sub doc. 4 resistente) e, con il
decreto in questa sede impugnato, il Segretario regionale del Ministero
della Cultura, nella sua qualità di Presidente della predetta Commissione,
ha dichiarato l’interesse culturale dei beni in parola.
3.3. Infine, la mancata inclusione delle pertinenze nella dichiarazione di
interesse culturale del 2001, avente ad oggetto esclusivamente “Villa
Cilea con giardino”, non configura una situazione di affidamento
tutelabile.
Come si è detto, infatti, tutti i beni ultrasettantennali appartenenti ad
Amministrazioni ed enti pubblici sono soggetti a protezione ex lege,
che viene meno soltanto all’esito negativo della procedura di verifica
dell’interesse culturale prevista dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n.
42/2004.
Dunque, poiché per i beni in discussione non era mai stata compiuta la
valutazione di interesse culturale (cfr. doc. 3 resistente), il relativo
potere non si è consumato: onde l’eventuale convinzione soggettiva di SIAE
circa l’avvenuta maturazione di una preclusione all’imposizione del vincolo
culturale costituisce il frutto di un errore di diritto, insuscettibile di
fondare un legittimo affidamento.
Tale conclusione risulta viepiù avvalorata dal fatto che il decreto del 2001
è stato emanato sotto l’egida del previgente d.lgs. n. 490/1999, il quale
non contemplava il meccanismo della presunzione di interesse culturale, ma
si basava sulla predisposizione di elenchi descrittivi dei beni da parte
degli stessi enti pubblici proprietari.
Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo il
provvedimento del 2001 non ha escluso il rilievo culturale delle pertinenze
di “Villa Cilea” (e, quindi, con l’atto del 2021 l’Amministrazione non ha
compiuto alcun revirement), ma, anzi, nel primo decreto di vincolo
risulta precisato che l’esplicitazione del carattere storico-artistico
dell’edificio padronale veniva effettuata nelle more della compilazione, a
cura di SIAE, della lista di tutti i propri beni culturali, rispondendo
all’esigenza di sottoporre immediatamente a tutela la villa (all’evidente
scopo di evitare che potesse “sfuggire” alla protezione, a causa di
una catalogazione non esaustiva).
In altri termini, l’interesse culturale dei beni immobili in contestazione
non è mai stato disconosciuto dal Ministero della Cultura e, quindi, al
momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 i beni medesimi sono
passati in regime di tutela provvisoria, poi sfociata nel provvedimento
definitivo odiernamente oppugnato (per un caso simile cfr. Cons. St., sez.
VI, 08.03.2023, n. 2482).
4. Si rivelano inaccoglibili anche le doglianze mosse con il II) motivo
del ricorso.
4.1. L’Amministrazione può assoggettare a tutela culturale i beni di
proprietà di un ente pubblico in uno spettro di situazioni più ampio
rispetto all’ipotesi di cespiti appartenenti a privati: infatti, per i beni
del demanio e del patrimonio pubblico l’art. 10, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 postula la sussistenza di un “interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico”, vale a dire di un interesse
culturale, per così dire, semplice; diversamente, per quelli in proprietà
privata l’art. 10, comma 3, richiede il riscontro di un interesse “particolarmente
importante” o “eccezionale” (sul punto v. Cons. St., sez. VI,
08.03.2023, n. 2482, cit.).
Orbene, alla data della contestata dichiarazione di interesse culturale,
SIAE era titolare del diritto dominicale sul rustico e sul podere limitrofo,
avendo stipulato con il signor Bo. soltanto il contratto preliminare, che,
come noto, produce effetti meramente obbligatori. Pertanto, il provvedimento
di vincolo non può reputarsi sproporzionato, giacché è stato lo stesso
legislatore che, nel delineare i tratti del potere conformativo attribuito
all’Autorità tutoria, ha stabilito di fare scattare la tutela dei beni degli
enti pubblici in presenza di un interesse culturale di minore intensità
rispetto a quello prescritto per i beni privati.
4.2. Secondo l’elaborazione pretoria, la nozione di bene culturale non si
presta ad una definizione tassativa e puntuale, ma costituisce un concetto
aperto, il cui contenuto viene riempito dalle elaborazioni di diversi campi
del sapere, afferenti alle scienze non esatte.
In ragione delle peculiarità epistemologiche insite nell’apprezzamento della
qualitas culturale di un bene, il giudizio che presiede alla
dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia
discrezionalità tecnica, poiché implica l’applicazione di cognizioni
specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell’arte,
dell’architettura, dell’archeologia e di altre discipline caratterizzate da
canoni elastici e mobili e, quindi, da lati margini di opinabilità.
Ne consegue che la valutazione dell’Amministrazione può essere censurata
soltanto se la decisione risulti in contrasto con la realtà fattuale, ovvero
sia irragionevole, incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico,
ponendosi al di fuori della naturale ed intrinseca opinabilità del sapere
che definisce il carattere culturale del bene (in argomento cfr., ex
aliis, Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI,
04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747).
Alla stregua delle tracciate coordinate ermeneutiche, ritiene il Collegio
che il giudizio dell’Amministrazione resistente circa la valenza culturale
di tutti i beni facenti parte del compendio immobiliare dei Cilea (con
l’unica eccezione della casa in cui viveva la governante) si basi su dati
oggettivi, risponda ai criteri delle scienze storiche ed artistiche, nonché
risulti ragionevole e congruo.
Invero, la relazione allegata al decreto di vincolo (doc. 3 ricorrente)
illustra, con adeguato corredo motivazionale, il valore culturale della
tenuta terriera composta dall’edificio principale, dai terreni pertinenziali
e dal fabbricato minore a monte. In proposito, appaiono particolarmente
significativi i seguenti passaggi della relazione storico-artistica:
- la dimora nobiliare denominata “Villa Cilea” è costituita da una
“massiccia struttura architettonica…a parallelepipedo”: la villa presenta un
nucleo originario presumibilmente cinquecentesco, come si evince dalla
presenza di volte e peducci nelle coperture delle sale, ed è stata
ristrutturata ed ampliata nella seconda metà del XIX secolo; le numerose
stanze sono abbellite da affreschi ottocenteschi, alcuni dei quali opera
dell’importante pittore Luigi De Servi. Nella residenza varazzina, di
proprietà della famiglia Lavarello dalla seconda metà del 1800, il
compositore e la consorte vissero dal loro matrimonio nel 1909 fino alla
morte, animando un “vivace salotto intellettuale frequentato da artisti e
uomini di cultura”;
- “i terreni di pertinenza, posti sui lati ovest, nord ed est,
mantengono tra loro, e con l’edificio stesso, una strettissima connessione
sia dal punto di vista morfologico (come chiaramente leggibile nel rilievo
planimetrico della proprietà, che evidenza come tutte le porzioni siano
ancora armonicamente tra loro collegate), che storico testimoniale (ad
esempio, la presenza di una porzione residuale di sistemazione a limonaia
nel terreno ad est, o il sistema di percorsi progettato per superare il
dislivello con il terreno ad ovest)”;
- anche il fabbricato di servizio, che insiste sul terreno a nord
“in diretta corrispondenza visiva con la Villa”, costituisce memoria della
tenuta agricola, alla cui gestione era strumentale: invero, seppure alla
fine dell’Ottocento il tracciato ferroviario ha tagliato in due il fondo,
“le porzioni residuali di terreno…costituiscono ancora un elemento unitario
con la Villa, da preservare sia in termini di testimonianza di quel
paesaggio agrario di villa ormai quasi del tutto scomparso…sia in termini di
risorsa ambientale”;
- pertanto, “la Villa, unitamente al giardino che la circonda su
tre lati verso mare e ai terreni di pertinenza, nonostante i mutamenti
urbanistici intervenuti nell’area e un uso, anche incongruo, in epoca
recente di alcune porzioni di terreno, costituisce, nel suo complesso, un
rilevante esempio di villa suburbana d’impianto ligure caratterizzata da una
forte relazione con il paesaggio di mare in cui è immersa”.
Dunque, l’Autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale ha
descritto le caratteristiche della villa, con le sue peculiarità
architettoniche ed artistiche ed il contesto storico di riferimento, nonché
la consistenza dell’intero compendio, evidenziando la connessione
morfologica e funzionale tra l’edificio padronale e le altre porzioni
immobiliari: l’Amministrazione ha, quindi, delineato in modo puntuale e
secondo i pertinenti criteri tecnici la rilevanza ed il significato di
“Villa Cilea” e delle sue pertinenze.
Per contro, non appaiono meritevoli di condivisione le critiche levate dalla
ricorrente e dagli interventori, giacché:
- il fatto che il rustico non presenti i medesimi caratteri
tipologici della villa non scalfisce le considerazioni dell’organo tutorio
in merito all’interesse culturale dell’intero complesso immobiliare, in
quanto testimonianza storica di una tenuta ligure suburbana, degna di
particolare considerazione perché fu residenza del maestro Cilea e della
moglie. È parimenti irrilevante che l’area a nord-est, acquistata nel 2022
dai signori Bo., non ospitasse un parco in senso stretto (id est un vasto
giardino con piante ornamentali), bensì un terreno coltivato ad ortaggi ed
un lungo pergolato con vigneto, giacché, come dato atto dallo stesso perito
degli interventori, la villa svolgeva anche funzione di presidio agricolo
del territorio (cfr. pagg. 4 e 22 della relazione dell’arch. Be. in data
24.03.2023, sub doc. 3 interventori): donde la legittimità della decisione
dell’Amministrazione di tutelare, insieme alla dimora padronale, anche le
sue pertinenze, quali vestigia di un paesaggio agreste a ridosso del mare
oggi introvabile;
- rappresenta un’opinione meramente soggettiva, inammissibilmente
patrocinata come alternativa alla valutazione dell’Autorità tutoria, la tesi
attorea secondo cui la costruzione della ferrovia (a fine ’800) e,
successivamente, la demolizione della galleria con la sovrastante terrazza
(intorno al 1950), con trasformazione del sedime in una strada urbana,
avrebbero comportato il venir meno dell’originario nesso tra la villa ed i
cespiti a monte, i quali risulterebbero ormai suddivisi in due parti
distinte e disomogenee. In realtà, appare assolutamente attendibile
l’apprezzamento della resistente secondo cui il collegamento tra le suddette
porzioni del compendio sia stato fisicamente conservato attraverso la
passerella pedonale che mette in comunicazione la villa con l’area a
settentrione (rustico e podere), come si evince dalla documentazione
fotografica in atti (v. doc. 11 ricorrente, nonché le fotografie a pag. 8
della relazione dell’Amministrazione descrittiva dello stato dei luoghi e le
fotografie inserite quali tavole nn. 10-11 nella relazione dell’arch. Be.
in data 24.03.2023; cfr., altresì, le fotografie della proprietà Bo. a pagg.
7-8 della relazione dell’Amministrazione, raffiguranti il vialetto che
attraversa il terreno piantumato con alberi ed ortaggi, costituendo traccia
dell’asse del preesistente pergolato);
- l’assunto per cui il fabbricato rurale ed il terreno non
sarebbero fruiti da oltre un secolo come, rispettivamente, manufatto di
servizio ed orto retrostante alla villa è smentito dall’atto notarile con
cui la vedova Cilea, nel febbraio 1960, cedette gli immobili a SIAE: invero,
la donazione in blocco dei beni costituenti la tenuta, con riserva
dell’usufrutto non solo sulla villa ma sull’intero fondo, dimostra che,
ancora a tale data, tutte le porzioni costituivano un unicum (e
verosimilmente rimasero tali almeno fino alla morte della donante
usufruttuaria, avvenuta nel 1970).
Infine, si rivela fuori fuoco l’argomento dell’esponente secondo cui
difetterebbero i requisiti elaborati dalla giurisprudenza per qualificare
gli immobili come pertinenze urbanistiche della villa, vale a dire il
collegamento con l’edificio principale, la mancanza di un autonomo valore di
mercato e la modestia delle dimensioni.
Infatti, la nozione urbanistico-edilizia di pertinenzialità copre un ambito
assai circoscritto e, pertanto, non coincide con quella civilistica di
destinazione durevole a servizio o ad ornamento del bene principale ex art.
817 cod. civ. (cfr. TAR Liguria, sez. I, 29.08.2020, n. 596), né, a
fortiori, con la nozione rilevante ai fini della tutela del patrimonio
culturale, che si configura ancora più lata, ai sensi dell’art. 9 Cost. (cfr.
Cons. St., sez. VI, 11.11.2019, n. 7715).
E ciò a prescindere dalla circostanza che il legame strumentale ed
ornamentale delle varie porzioni immobiliari con la dimora padronale,
esistente al tempo in cui il luogo era abitato dai coniugi Cilea, risulta
tuttora leggibile, come ben lumeggiato nella relazione storico-artistica. |
PUBBLICO IMPIEGO:
I compensi professionali dell’avvocato pubblico sono parte della
retribuzione.
I regolamenti che disciplinano l’erogazione degli onorari vanno redatti nel
rispetto della legge.
La Sezione lavoro del TRIBUNALE civile di Latina, con
sentenza 11.01.2024 n. 11, ha stabilito il principio di diritto
secondo il quale i compensi professionali, percepiti dagli avvocati,
dipendenti di una Pubblica amministrazione, non possono essere esclusi dal
trattamento economico complessivo percepito in virtù del rapporto di lavoro.
Il fatto
Dinanzi al Tribunale di Latina, in funzione di giudice del lavoro, viene
proposta
la domanda di annullamento e/o revoca di un decreto ingiuntivo emesso
dallo stesso Tribunale, con il quale è stato ingiunto al Comune di Latina di
pagare in favore di un avvocato, in servizio presso l'avvocatura comunale,
una somma di danaro a titolo di compensi professionali maturati per lo
svolgimento delle attività defensionali in costanza di rapporto di lavoro.
Il
Comune opponente ritiene di non dover corrispondere detta somma in base
al vigente Regolamento dell'Avvocatura comunale in quanto i compensi
professionali erano stati espressamente esclusi dalle voci che compongono
il trattamento economico complessivo annuale dell'Avvocato Dirigente.
La decisione
Il Tribunale di Latina ha ritenuto
che i compensi professionali,
maturati dagli avvocati pubblici, non possano restare al di fuori del
trattamento economico complessivo, a
differenza di quanto regolamentato dal Comune datore di lavoro, la cui
posizione è in contrasto con la fonte
normativa di primo grado ovvero l'articolo 9 del Dl 90/2014 convertito dalla
legge 114/2014.
Il decreto Renzi ha
chiarito che i compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni
pubbliche agli avvocati dipendenti delle
amministrazioni stesse, sono computati ai fini del raggiungimento del limite
retributivo. Tali compensi, sia per spese
compensate che per spese recuperate, possono essere corrisposti in modo da
attribuire a ciascun avvocato una
somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
Il giudice del
lavoro ha disapplicato il
regolamento comunale contestato dall'avvocato dipendente, nella parte in cui
prevede l'esclusione dei compensi
professionali dal computo del trattamento annuo complessivo proprio per il
netto contrasto dello stesso con il citato
articolo 9 del Dl 90/2014.
Conclusioni
Il giudice del lavoro nel condividere
le cadenze argomentative espresse in
materia dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa secondo cui il fatto
che il legislatore, all'articolo 9, comma 7,
del Dl 90/2014 abbia utilizzato proprio la locuzione trattamento economico,
per di più rafforzata dall'aggettivo
complessivo, non lascia spazio a dubbi sul fatto che in esso vadano
ricompresi anche gli onorari.
Qualora il
legislatore avesse inteso far riferimento solo a una porzione del
trattamento economico dell'avvocato dipendente
avrebbe utilizzato una differente locuzione come trattamento economico
fondamentale o fare riferimento ad altre
nozioni specifiche quali quelle di retribuzione ordinaria o stipendio
tabellare ovvero in alternativa avrebbe ancora
potuto espressamente escludere i compensi professionali dalla nozione di
trattamento economico rilevante ai fini
della determinazione del tetto.
I regolamenti che disciplinano l'erogazione
dei compensi professionali vanno redatti nel rispetto della
legge e debbono collocarsi nel perimetro normativo ben delineato dal
legislatore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Consulta: l’irretroattività della norma peggiorativa si estende
anche ai contratti pubblici.
La Corte costituzionale ha affermato che il principio è “generale” e non
vale solo per il diritto penale. Ed ha bocciato la Finanziaria 2001 nella
parte in cui -retroattivamente- escludeva l’operatività delle maggiorazioni
Ria dei dipendenti pubblici per il triennio 1991-1993.
Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale
valore di civiltà giuridica, anche al di là della materia penale.
È questo l’importante approdo teorico cui giunge la Corte costituzionale,
con la
sentenza 11.01.2024 n. 4 (redattore Marco D’Alberti) affrontando
il caso di una norma peggiorativa rispetto al precedente regime economico in
materia di anzianità dei dipendenti pubblici.
La Consulta ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo
51, comma 3, della legge 23.12.2000, n. 388, che era intervenuto,
in via retroattiva, per escludere l'operatività di maggiorazioni alla
retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione
al triennio 1991-1993, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che
stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il
menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.
Il Consiglio di Stato, che ha poi rimesso la questione alla Consulta, doveva
infatti decidere sull'appello contro la sentenza del Tar Lazio (n.
9255/2014), che aveva respinto il ricorso proposto da
seicentocinquantotto dipendenti del Ministero della difesa per il
riconoscimento di maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità
(RIA), ai sensi dell'articolo
9, commi 4 e 5, del Dpr 17.01.1990, n. 44 maturate nel 1991, 1992
e 1993, facendo valere la proroga al 31.12.1993 disposta dalla legge
14.11.1992, n. 438.
Il Tar Lazio (sentenza
n. 9255 del 2014) aveva rigettato le pretese dando atto della
sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge n. 388 del 2000 che ha
espressamente escluso che la proroga al 31.12.1993 dell'intera disciplina
contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 potesse estendere anche il termine per
la maturazione dell'anzianità di servizio ai fini dell'ottenimento della
maggiorazione della RIA.
La sentenza odierna ha innanzitutto chiarito che il
controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene ancor più
stringente qualora l'intervento legislativo incida su giudizi ancora in
corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo
un'amministrazione pubblica, essendo precluso al legislatore di risolvere,
con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno
sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio.
Al fine di verificare se l'intervento legislativo
retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l'esito di
giudizi pendenti, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere in piena
sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU uno scrutinio che assicuri
una particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del
potere legislativo, tenendo conto delle concrete tempistiche e modalità
dell'intervento del legislatore.
Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che solo
imperative ragioni di interesse generale possono consentire un'interferenza
del legislatore su giudizi in corso e che i principi dello stato di diritto
e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il
massimo grado di circospezione possibile.
E, prosegue la decisione, nel caso in esame non emerge, né dai lavori
preparatori, né dalle relazioni tecnica e illustrativa, alcuna ulteriore
ragione giustificatrice dell'intervento legislativo retroattivo rispetto
all'esigenza di assicurare un risparmio della spesa pubblica, in
considerazione di orientamenti giurisprudenziali che stavano riconoscendo
tutela alle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle
amministrazioni pubbliche di appartenenza.
Di qui la sua illegittimità costituzionale per violazione tra l'altro dei
principi della certezza del diritto e dell'equo processo, di cui agli artt.
3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.
La sentenza ribadisce e rafforza la costruzione di una solida sinergia fra
principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU e fra la
Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo, nell'ottica di un rapporto di
integrazione reciproca (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La terzietà dell'Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD).
«Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa
individuazione dell'ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione
sul
piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il
dipendente, sicché lo stesso non va confuso
con la imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo
rispetto al lavoratore ed alla amministrazione
potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da
plurime garanzie poste a difesa del
dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle
parti del rapporto che, in quanto tale, non
può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle
due tesi che si pongono a confronto».
È quanto ricordato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell'ordinanza
10.01.2024 n. 1016, evidenziando il
carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i
procedimenti disciplinari (articoli 55 e 55-bis del Dlgs 165/2001).
In estrema sintesi, l'interpretazione dell'art.
55-bis, comma 2, non può essere ispirata ad un
eccessivo formalismo, ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella
di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
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ORDINANZA
3. I due motivi, da trattare congiuntamente, per la loro stretta
connessione, sono infondati e il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
3.1. La Corte territoriale si è attenuta ai principi più volte affermati in
questa sede di legittimità, laddove ha osservato che «Le argomentazioni
dell’appellante … configurano l’UPD come organo terzo di garanzia del
pubblico dipendente secondo una prospettazione che non si riscontra
nell’interpretazione di tale norma come data dalla giurisprudenza» (pag.
5 della motivazione).
In termini generali, si deve qui ricordare che «Il principio di terzietà,
sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei
procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto
ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non
va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto
terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie
poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro,
ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo
essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi
che si pongono a confronto» (Cass. n. 1753/2017, ex multis).
Si aggiunga che «Il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge
sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dall’art. 55,
co. 1, e 55-bis, co. 4 (ora co. 2) d.lgs. 165/2001 va riferito al principio
di terzietà … senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle
regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il
funzionamento dell’U.P.D.» (Cass. n. 20721/2019, ex multis).
In estrema sintesi, «l’interpretazione dell'art. 55-bis, comma 4, non può
essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la
sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti
pubblici» (Cass. n. 3467/2019; conf., ex multis, Cass. n.
19672/2019).
3.2. In tale contesto, non può essere condivisa la tesi di parte ricorrente
secondo cui l’indicazione dell’Ufficio I quale «ufficio competente per i
procedimenti disciplinari» (contenuta nella circolare n. 11 del
09.10.2010) non avrebbe potuto essere ritenuta sufficiente quale adempimento
dell’obbligo di individuazione di cui all’art. 55-bis, comma 2, del d.lgs.
n. 165 del 2001. Infatti, la disposizione di legge, in base alla sua
ratio, come sopra riportata, non richiede la costituzione di un apposito
ufficio, che si occupi esclusivamente dei procedimenti disciplinari, né
l’individuazione esplicita di una determinata figura quale responsabile
dell’ufficio o di altre figure quali componenti di un obbligo
necessariamente collegiale.
Dalla sentenza impugnata risulta che la sanzione per cui è causa venne
adottata dal Direttore dell’Ufficio I, ovverosia dalla figura di vertice
dell’ufficio individuato come UPD, il che rappresenta la più ragionevole
attuazione della previsione generica contenuta nell’atto di individuazione e
la migliore garanzia di difesa per l’incolpato.
3.3. Allo stesso modo, la necessaria terzietà dell’UPD non può essere intesa
in senso talmente rigoroso da considerare un vizio –e tanto meno un vizio a
pena di nullità della sanzione– il fatto che l’atto di incolpazione sia
stato emesso, in temporanea assenza del direttore dell’Ufficio I e del suo
vicario, da un dirigente di grado superiore in funzione di sostituzione
gerarchica.
Si tratta comunque di un soggetto non appartenente alla struttura nella
quale opera il ricorrente, sicché, a prescindere da qualsiasi valutazione
sulla legittimità della sostituzione, non vi è motivo di pensare –né il
ricorrente ha in qualche modo allegato– che il suo intervento abbia impedito
all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa.
3.4. Infine, non coglie nel segno la censura relativa alla pretesa non
corrispondenza tra la struttura prevista per l’organo giudicante,
asseritamente collegiale, e l’emissione del provvedimento disciplinare da
una singola persona fisica.
Infatti, manca la necessaria premessa dell’individuazione di una norma
procedimentale che prevedesse la composizione collegiale dell’organo
giudicante. Mancanza cui il ricorrente pretende di rimediare desumendo la
regola della collegialità dal semplice fatto (da lui allegato e non
contestato dal MAECI) che alla sua audizione erano presenti tre esponenti
dell’Ufficio I. Il che però evidentemente non basta per dire che le tre
persone fossero tutte componenti dell’organo giudicante e che fossero
presenti a tale titolo, piuttosto che con una mera funzione di assistenza al
direttore dell’Ufficio I. |
EDILIZIA PRIVATA:
Permessi, illegittimo il ripensamento della Pa in autotutela dopo 12 mesi.
Il principio emerge dalla sentenza con cui il Tar Lazio ha accolto il
ricorso di un proprietario.
L’annullamento in autotutela di un provvedimento autorizzativo edilizio deve
avvenire in tempi ragionevoli e, comunque, non oltre i 12 mesi.
È quanto emerge dalla
sentenza 09.01.2024 n. 378 con cui è stato accolto il ricorso di
una persona dal TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, contro il Comune di
Montefiascone.
La vicenda ha origine quando il Comune di Montefiascone dispone
l'annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all'immobile del
ricorrente «in quanto tutti rilasciati in assenza di autorizzazione
paesaggistica». Dal Comune anche l'ordinanza di demolizione
dell'immobile e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi. C'è quindi
il ricorso al Tar.
Nella ricostruzione della vicenda si ripercorre il percorso che inizia con
l'acquisto dell'immobile nel 2003 «unitamente alla concessione edilizia»
del 2002 e della variante del 31 dicembre dello stesso anno «rilasciate
dal Comune per la costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato
residenziale ed agricolo». A marzo del 2023 il Comune notifica la
comunicazione di «avvio del procedimento avente per oggetto: presunte
violazioni alla normativa urbanistica edilizia». A seguire l'ordinanza e
quindi il ricorso.
A sostegno delle proprie domande, il proprietario, evidenzia «che il
Comune non gli aveva mai comunicato l'avvio del procedimento di annullamento
d'ufficio dei titoli edilizi, essendosi limitato ad informarlo, con nota del
07.03.2023, solo dell'esistenza di controlli di natura edilizia ed
urbanistica».
Oltre a sottolineare che «la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica
avrebbe potuto condizionare, al più, l'efficacia del titolo edilizio, non
potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del titolo medesimo»
ha anche rimarcato che «l'annullamento d'ufficio dei precedenti titoli
edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di
legge previsto dall'art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di
specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza
alcuna spiegazione da parte dell'amministrazione circa le eventuali ragioni
del superamento di tale termine».
Per i giudici il ricorso è fondato, in particolare nella parte in cui «si
censura la tardività dell'annullamento in autotutela».
«È noto infatti che, ai sensi dell'art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990
(nella sua versione vigente dal 31.07.2021 da ultimo modificata
dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni
dalla L. 29.07.2021, n. 108) -scrivono i giudici-, Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione
dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo
20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo».
Risultato: «Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti
titoli edilizi si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato,
senza tuttavia che ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate
con la medesima ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi». Ricorso
accolto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024).
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SENTENZA
1. Con ordinanza n. 2 del 29.03.2023, il Comune di Montefiascone disponeva
l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all’immobile
distinto in catasto al foglio 53, p.lla 526, e, segnatamente, della c.e. n.
51 del 13.02.1997, del p.d.c. n. 373 del 19.12.2001, del p.d.c. n. 269 del
10.10.2002, del p.d.c. n. 342 del 31.12.2002, in quanto tutti rilasciati in
assenza di autorizzazione paesaggistica (ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004).
Ordinava altresì la demolizione dell’immobile e la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi.
Nella medesima ordinanza, peraltro, il Comune rilevava talune difformità
(accertate nel sopralluogo del 13.07.2022) rispetto all’ultimo titolo
edilizio costituito dal p.d.c. n. 342 del 31.12.2002.
2. Con ricorso notificato all’amministrazione resistente in data 05.06.2023
e depositato in data 30.06.2023, il ricorrente allegava:
- di avere acquistato, in data 14.01.2003 (con atto a rogito del
notaio Adriano Castaldi, rep. n. 6485, racc. n. 2933), da Mocini Marisa il
terreno ubicato nel Comune di Montefiascone e distinto in catasto al foglio
n. 53, p.lle 417 (ex 384/b), 418 (ex 384/c) e 422 (ex 385/c), unitamente
alla concessione edilizia n. 269 del 10.10.2002 ed alla successiva
concessione in variante n. 342 del 31.12.2002, rilasciate dal Comune per la
costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato residenziale ed agricolo;
- che, in data 07.03.2023, il Comune di Montefiascone gli
notificava una comunicazione di avvio del procedimento avente per oggetto: “presunte
violazioni alla normativa urbanistica edilizia relativamente a fabbricato
sito in Loc. Cerchiare distinto al N.C.E.U. Fg. 53 P.lla 526 di proprietà
del Sig. Ch.Ma.”;
- in data 29.03.2023 il Comune emetteva la suddetta ordinanza n. 2,
impugnata;
- che, in data 03.05.2023, l’arch. Vi.Bi., in qualità di
tecnico-progettista, destinatario della suddetta ordinanza n. 2/2023,
proponeva un’istanza di revoca dell’ordinanza medesima, sulla base dei
motivi ivi indicati;
- che, con nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023, il Comune
riscontrava la suddetta richiesta di revoca, confermando l’ordinanza in
questione.
Tanto premesso, chiedeva l’annullamento della suddetta ordinanza n. 2 del
29.03.2023 e della suddetta nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023; nonché, in
via subordinata, la condanna del Comune a risarcire il danno cagionatogli,
determinato nella somma di € 139.644,25, oltre interessi e rivalutazione
(ovvero nella diversa somma, maggiore o minore, accertata in corso di
causa), a titolo di danno patrimoniale, oltre ad un’ulteriore somma
corrispondente al 10% del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ., a titolo di danno non patrimoniale.
A sostegno delle proprie domande, proponeva i seguenti motivi di ricorso.
2.1. “Violazione degli artt. 7 e 8, L. n. 241/1990. – Circa
la natura discrezionale e mai vincolata dei procedimenti di autotutela. –
Circa l’omessa specificazione dell’oggetto del procedimento. – Eccesso di
potere per difetto di istruttoria e motivazione carente”.
Evidenziava il ricorrente che il Comune non gli aveva mai comunicato l’avvio
del procedimento di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, essendosi
limitato ad informarlo, con nota del 07.03.2023, solo dell’esistenza di
controlli di natura edilizia ed urbanistica.
Argomentava che il Comune aveva erroneamente ritenuto di poter ridurre il
provvedimento in questione ad attività vincolata, ignorando che il potere di
autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale
dell’amministrazione.
2.2. “Violazione dell’art. 21-nonies, D.P.R. n. 380/2001. –
Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione carente. –
Violazione degli artt. 9-bis e 31, D.P.R. n. 380/2001”.
Deduceva il ricorrente che il provvedimento di autotutela era viziato
dall’assenza di tutti i requisiti che condizionano il potere di annullamento
d’ufficio (illegittimità del provvedimento ampliativo della sfera giuridica
privata; termine ragionevole, non superiore a dodici mesi; sussistenza delle
ragioni di interesse pubblico; comparazione con gli interessi dei
destinatari e dei controinteressati).
Argomentava, in particolare, che la mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica avrebbe potuto condizionare, al più, l’efficacia del titolo
edilizio, non potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del
titolo medesimo.
Illustrava, inoltre, che l’annullamento d’ufficio dei precedenti titoli
edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di
legge previsto dall’art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di
specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza
alcuna spiegazione da parte dell’amministrazione circa le eventuali ragioni
del superamento di tale termine.
Evidenziava ancora che il Comune non aveva motivato circa le ragioni di
interesse pubblico sottese al ritiro in autotutela, omettendo di comparare
l’interesse pubblico con gli interessi dei privati destinatari del
provvedimento in autotutela.
Aggiungeva che, se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata
avesse realmente costituito l’obiettivo essenziale dell’azione
amministrativa, il Comune avrebbe dovuto sperimentare la possibilità di
sottoporre i permessi di costruire e le concessioni edilizie a valutazione
paesaggistica, anziché optare per l’annullamento dei titoli edilizi.
...
6. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Ritiene in particolare il Collegio la fondatezza del secondo motivo,
nella parte in cui si censura la tardività dell’annullamento in autotutela.
È noto infatti che, ai sensi dell’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990
(nella sua versione –vigente dal 31.07.2021– da ultimo modificata
dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni
dalla L. 29.07.2021, n. 108), «Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole
comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo
20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo».
La giurisprudenza ha anche chiarito che «È illegittimo
l'annullamento d'ufficio di un permesso di costruire in sanatoria -adottato
anteriormente alla riforma dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, operata
dalla l. n. 124/2015- emanato oltre il termine di diciotto mesi a decorrere
dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, in assenza di
condotte integranti i presupposti giuridici che autorizzano il superamento
di tale termine.
Infatti, il temine di diciotto mesi, se, per un verso, non può
applicarsi in via retroattiva -nel senso di computare anche il tempo decorso
anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 124/2015- per un altro
verso, non può che cominciare a decorrere dalla entrata in vigore della
nuova disposizione anche in relazione a provvedimenti emanati anteriormente.
In ogni caso, quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del
termine, la novella vale come prezioso indice ermeneutico ai fini dello
scrutinio dell'osservanza di tale regola»
(Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2020, n. 3787).
Applicando analogamente al caso di specie il principio giurisprudenziale
innanzi enunciato, si osserva che la novella del citato art. 21-nonies è
entrata in vigore il 31.07.2021, mentre il provvedimento impugnato è stato
emanato in data 21.03.2023, ben oltre il suddetto termine di 12 mesi, e
senza alcuna motivazione sulle eventuali ragioni di tale superamento.
Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti titoli edilizi
si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato, senza tuttavia che
ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate con la medesima
ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi.
Tali difformità infatti restano sottoposte al regime previsto dalla legge
per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, ovvero in
totale o parziale difformità da esso. |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura rigidamente vincolata dell’ordine di demolizione
comporta, sul piano del quantum di motivazione richiesto, che
l’amministrazione non debba esplicitare le ragioni di pubblico interesse
sottese all’intervento repressivo, né compiere alcuna comparazione con
l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora sia decorso un notevole
lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo, infatti, la
prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo determinare il
radicarsi in capo al privato, il quale non è stato destinatario di alcun
provvedimento favorevole, di una posizione di legittimo affidamento
meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai
proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente
generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso
di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere
il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o
illegittimamente trattata.
---------------
Va disattesa la censura concernente l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento dovendosi, sul punto, richiamare il granitico orientamento
giurisprudenziale che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il
provvedimento con il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva
di titolo edilizio, “trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge”.
---------------
3.3. Restano dunque da esaminare le doglianze relative a pretesi vizi propri
del provvedimento sanzionatorio (lett. c) dei motivi di ricorso rubricata “Sui
vizi propri del provvedimento impugnato”), che vanno anch’esse
disattese.
3.3.1. Palesemente infondata è la prima censura, con cui il
ricorrente deduce il difetto di motivazione e la violazione del principio
del legittimo affidamento, per aver il Comune adottato l’ingiunzione a
demolire a distanza di un lungo lasso di tempo e senza indicare “il
pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse
privato”.
Vale osservare, in proposito, che la natura rigidamente vincolata
dell’ordine di demolizione comporta, sul piano del quantum di
motivazione richiesto, che l’amministrazione non debba esplicitare le
ragioni di pubblico interesse sottese all’intervento repressivo, né compiere
alcuna comparazione con l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora
sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso (cfr.,
tra le moltissime, Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9, i cui principi
sono stati di recente ribaditi da Ad. Plen. 11.10.2023, n. 16; Cons. St.,
Sez. VI, 05.01.2024, n. 236; Cons. St., Sez. VII, 02.11.2023, n.
-OMISSIS-31; TAR Lazio, Sez. II-quater, 04.12.2023, n. 18165; id.,
30.12.2023, n. 20019).
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo,
infatti, la prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo
determinare il radicarsi in capo al privato, il quale non è stato
destinatario di alcun provvedimento favorevole, di una posizione di
legittimo affidamento meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai
proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente
generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso
di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere
il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o
illegittimamente trattata (cfr. Cons. St., Sez. VII, 28.08.2023, n. 8003;
TAR Lazio, Sez. II-quater, 14.06.2021, n. 7058).
...
3.3.3. Va, infine, disattesa anche la terza censura, concernente
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, dovendosi sul punto
richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale, ampiamente condiviso
dalla Sezione (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. II-quater,
22.12.2023, n. 19525; id., 25.01.2023, n. 1283; id., 30.11.2022, n. 15976),
che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il provvedimento con
il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva di titolo edilizio,
“trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un procedimento di
natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato dalla legge” (così Cons. St., Sez. VII, 21.08.2023, n.
7832; cfr. anche, ex plurimis, tra le più recenti, Cons. St., Sez.
VI, 22.12.2023, n. 11137; Cons. St., Sez. VII, 12.12.2023, n. 10722) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza
08.01.2024 n. 288 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze, 1444 derogabile solo in caso di gruppi di edifici
previsti in un piano particolareggiato. La Cassazione precisa che la deroga
prevista dall’art. 9, comma 3, non può valere per un solo fabbricato
inserito in un contesto edificato.
«Agli effetti dell'art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444
del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un
apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona,
finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico
generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici
previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione
contestuale di gruppi di edifici, e cioè di una pluralità di nuovi
fAbbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l'ipotesi della
realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto
di un isolato già edificato».
In attesa che veda la luce il nuovo Testo unico edilizia, cui sta lavorando
il governo insieme ai vari portatori di interesse, la questione delle
distanze legali resta, come è noto, saldamente ancorata ai paletti fissati
dal Dm 1444, le cui possibilità di deroga da parte delle Regioni sono
altrettanto saldamente contenute entro precisi limiti.
Con l'ordinanza 04.01.2024 n. 236
la Corte di Cassazione, Sez. II civile, è entrata nel merito di una deroga
consentita dalla stessa norma statale.
Prendendo spunto da una controversia sorta in un comune calabrese, i giudici
della II Sezione civile hanno colto l'occasione di chiarire la differenza
tra l'inserimento di più edifici (previsti dal piano particolareggiato) e la
realizzazione di un singolo fabbricato.
Il Tribunale di Reggio Calabria ha condannato la società immobiliare che
aveva realizzato un edificio costruito in zona B per la violazione delle
distanze legali -intimando la demolizione o l'arretramento- in quanto non
riconducibile (diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente) alla deroga
prevista nell'articolo 9, comma 3, del 1444.
L'appello è stato respinto dalla Corte d'appello. L'esito negativo è stato
confermato dalla Corte di Cassazione.
Nella sua difesa, la società immobiliare si è ancorata alla deroga prevista
al comma 3 dell'articolo 9, secondo cui «sono ammesse distanze inferiori
a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche».
La norma richiamata, spiegano i giudici della Cassazione, «riguarda
soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi
tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe
facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata. Nel caso in esame,
la Corte d'appello ha negato che si fosse in presenza di un gruppo di
edifici inclusi in un medesimo piano particolareggiato, ovvero di
costruzioni facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata».
Più chiaramente, specificano i giudici, «l'ultimo comma dell'art. 9 del
d.m. 444/1968 contempla, quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra
fabbricati, la realizzazione contestuale di gruppi di edifici e cioè di una
pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in
lottizzazioni convenzionate, ipotesi estranea al caso in esame, in cui si è
avuta la realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito nel
contesto di un isolato già edificato» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
29.01.2024). |
APPALTI:
Alle procedure di affidamento di contratti finanziati con le
risorse del PNRR indette successivamente al 01.07.2023 si
applica il nuovo Codice dei contratti pubblici.
---------------
CONTRATTI pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione- Appalti PNRR-Normativa applicabile.
E’ soggetta alla disciplina di cui al
d.lgs. n. 36 del 2023 la procedura di gara avviata nel mese
di agosto del 2023, come è desumibile dai seguenti articoli
del predetto decreto legislativo:
- 229, comma 2, secondo cui “le disposizioni del codice, con i
relativi allegati, acquistano efficacia il 01.07.2023”;
- 226, comma 2, lett. a), il quale prevede che, “a decorrere dalla
data in cui il codice acquista efficacia ai sensi dell’art.
229, comma 2, le disposizioni di cui al decreto legislativo
n. 50 del 2016 continuano ad applicarsi esclusivamente ai
procedimenti in corso. A tal fine, per procedimenti in corso
si intendono: a) le procedure e i contratti per i quali i
bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano stati pubblicati prima della data in cui il
codice acquista efficacia”;
- 225, comma 8, che stabilisce che “in relazione alle procedure di
affidamento e ai contratti riguardanti investimenti
pubblici, anche suddivisi in lotti, finanziati in tutto o in
parte con le risorse previste dal PNRR e dal PNC, nonché dai
programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell’Unione
europea, ivi comprese le infrastrutture di supporto ad essi
connesse, anche se non finanziate con dette risorse, si
applicano, anche dopo il 01.07.2023, le disposizioni di cui
al decreto-legge n. 77 del 2021, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 108 del 2021, al decreto-legge
24.02.2023, n. 13, nonché le specifiche disposizioni
legislative finalizzate a semplificare e agevolare la
realizzazione degli obiettivi stabiliti dal PNRR, dal PNC
nonché dal Piano nazionale integrato per l'energia e il
clima 2030 di cui al regolamento (UE) 2018/1999 del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11.12.2018”.
Con particolare riferimento a tale ultima disposizione, il
collegio rileva che essa si limita a stabilire la perdurante
vigenza delle sole norme speciali in materia di appalti PNRR
(tra cui gli artt. 47 e ss. del d. l. n. 77 del 2021) ma non
anche degli istituti del d.lgs. n. 50 del 2016 in esso
sporadicamente richiamati; la contraria opzione ermeneutica,
seguita dalla circolare del MIT del 12/07/2023 (richiamata
dalla “premessa” del disciplinare di gara), collide con il
ricordato disposto del comma 2 dell’art. 226 del d.lgs. n.
36 del 2023, che sancisce l’abrogazione del d.lgs. n. 50 del
2016 a decorrere dal 01.07.2023 senza alcuna eccezione, e
con il comma 5 della medesima disposizione, secondo cui
“ogni richiamo in disposizioni legislative, regolamentari o
amministrative vigenti al decreto legislativo 18.04.2016, n.
50 del 2016, o al codice dei contratti pubblici vigente alla
data di entrata in vigore del codice, si intende riferito
alle corrispondenti disposizioni del codice o, in mancanza,
ai principi desumibili dal codice stesso”
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 03.01.2024 n. 134 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La Sezione non ignora il consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di
impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere
va di regola documentato con riferimento alla titolarità di
aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo
scopo di evitare che un eccessivo allargamento della
legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non
previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è
affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune
interessato possano impugnare anche parti del piano non
riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove
dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul
godimento e sul valore di esse.
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano
dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel
suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo
dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di
istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in
discorso (i.e. di zonizzazione acustica), quindi, non si presta ad una risposta univoca, in
ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla
giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato
impugnato con riferimento alla classificazione acustica
impressa ad un'area industriale di proprietà della
ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo
l'impresa programmare l'attività produttiva secondo
parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la
destinazione e l'utilizzo dell'area.
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti
le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una
classificazione negativa, è stato affermato che, anche in
materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i
cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare
anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro
proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie
incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori
laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il
piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione
di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali
difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
---------------
5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto
assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6,
L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza
fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il
richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di
inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione
acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione
dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola
documentato con riferimento alla titolarità di aree
direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo
scopo di evitare che un eccessivo allargamento della
legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non
previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è
affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune
interessato possano impugnare anche parti del piano non
riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove
dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul
godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons.
Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano
dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel
suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo
dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di
istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in
discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in
ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla
giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato
impugnato con riferimento alla classificazione acustica
impressa ad un'area industriale di proprietà della
ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo
l'impresa programmare l'attività produttiva secondo
parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la
destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti
le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una
classificazione negativa, è stato affermato che, anche in
materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i
cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare
anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro
proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie
incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori
laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il
piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione
di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali
difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons.
Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301) (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 02.01.2024 n. 42 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rumore. Regolamentazione emissione dei rumori da parte dei
Comuni.
L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995,
n. 447, prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un
rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico,
hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al
rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'art. 3,
comma 1, lett. a), secondo gli indirizzi determinati dalla
regione di appartenenza, ai sensi dell'art. 4, comma 1,
lett. f) …”.
La citata norma consente (e non obbliga) i Comuni, il cui
territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico,
ambientale e turistico, di attuare una più specifica
regolamentazione dell'emissione dei rumori, e, in questo
ambito, di disciplinare l'esercizio di professioni, mestieri
ed attività rumorose anche con l'istituzione di fasce orarie
in cui soltanto possano essere espletati, e di prendere così
in considerazione, oltre al dato oggettivo del superamento
di una certa soglia di rumorosità, anche gli effetti
negativi di quest'ultima sulle occupazioni o sul riposo
delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o
privata.
La norma in commento consente e non obbliga i Comuni ad
individuare una più specifica regolazione delle immissioni,
fermo restano l’impossibilità di diminuire i limiti di
emissione sonora prescritti dalla citata normativa (Consiglio
di Stato, Sez. VII,
sentenza 02.01.2024 n. 42 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
---------------
5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto
assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6,
L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza
fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il
richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di
inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione
acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione
dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola
documentato con riferimento alla titolarità di aree
direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo
scopo di evitare che un eccessivo allargamento della
legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non
previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è
affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune
interessato possano impugnare anche parti del piano non
riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove
dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul
godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons.
Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano
dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel
suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo
dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di
istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in
discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in
ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla
giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato
impugnato con riferimento alla classificazione acustica
impressa ad un'area industriale di proprietà della
ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo
l'impresa programmare l'attività produttiva secondo
parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la
destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti
le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una
classificazione negativa, è stato affermato che, anche in
materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i
cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare
anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro
proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie
incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori
laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il
piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione
di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali
difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons.
Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301).
5.2. L’appello deve essere, tuttavia, respinto.
L'onere della classificazione acustica del territorio spetta
ex lege ai Comuni, che esprimono una funzione lato sensu
pianificatoria, inserita in un nucleo particolarmente ampio
di discrezionalità amministrativa, sicché l'ambito del
sindacato del giudice amministrativo si presenta ristretto e
sostanzialmente limitato ad un riscontro ab externo del
rispetto dei canoni di logicità formale (Cons. Stato, Sez.
IV, 11.01.2018, n. 135).
Il sindacato giurisdizionale sul piano di classificazione
acustica, come per gli altri atti di pianificazione del
territorio, incontra necessariamente precisi limiti al fine
di non sconfinare nel merito delle scelte discrezionali
adottate dall'amministrazione; tale sindacato è ammesso,
infatti, nei soli casi di gravi illogicità, irrazionalità
ovvero travisamenti sintomatici della sussistenza del vizio
di eccesso di potere (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez.
IV, 31.12.2009, n. 9301).
Non si tratta, quindi, di
sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se
queste scelte siano assistite da una credibilità razionale
supportata da valide leggi scientifiche e correttamente
applicate al caso di specie (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.07.2023, n. 6451; id. Sez. III, 11.12.2020, n.
7097).
In proposito giova richiamare quanto affermato da questo
Consiglio (Cons. Stato, Sez. IV, 12.12.2019, n. 8443),
secondo cui in materia di zonizzazione acustica del
territorio, le scelte dell'amministrazione non possono
sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica,
ma devono tener conto del disegno urbanistico voluto dal
pianificatore, ovverosia delle preesistenti destinazioni
d'uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto.
Da un lato, rileva l'interesse pubblico generale alla
conservazione del disegno di governo del territorio
programmato dal pianificatore, il quale riflette un ben
preciso interesse della comunità ad un certo utilizzo del
proprio territorio, sul quale la medesima è stanziata.
Da un altro lato, rileva l'interesse dei privati alla
conservazione delle potenzialità connesse alla titolarità
dei diritti sui beni immobili e derivanti dalle pregresse e
già effettuate scelte di pianificazione, le quali devono
poter essere attuate pro futuro, avendo una natura
tipicamente programmatoria.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante,
non può essere dato rilievo esclusivo agli usi effettivi "in
atto" sul territorio, perché essi si limitano a
rappresentare (staticamente) la realtà dell'uso del
territorio, trascurando l'aspetto dinamico del suo governo.
Ed è su tale dinamicità che si regge, invece, la ratio della
disciplina legislativa statale e di quella regionale,
entrambe sostanzialmente rivolte a perseguire l'obiettivo
del contemperamento tra due interessi generali: quello della
pianificazione urbanistica e quello della tutela
dall'inquinamento acustico.
5.3. Il Piano di cui trattasi, a pag. 22 e ss., una volta
riepilogati i criteri in base ai quali si è proceduto alla
zonizzazione acustica del territorio Comunale, assegna le
classi acustiche alle diverse aree del territorio. Più
segnatamente:
- “le aree ricadenti nelle classi II, III e IV
presentano delle caratteristiche intermedie rispetto alle
aree di cui sopra (n.d.r. aree ricadenti nelle classi I e
V). Sono aree prevalentemente residenziali (classe II), aree
di tipo misto (classe III) aree di intensa attività umana
(classe IV)”;
- “per l’individuazione delle classi II, III e
IV non è sufficiente la sola analisi dello strumento
urbanistico, che non riesce a dare questo quadro completo
del reale assetto del territorio delle classi II, III e IV,
è quindi il risultato di una analisi di vari fattori
(“analisi parametrica”) a cui si rimanda (da pag. 25 a pag.
35 del Piano di Classificazione Acustica), quali la densità
abitativa, la presenza di attività produttive, la presenza
di servizi, ovvero di parametri o indici i cui valori
possono essere ricavati dai dati ISTAT”;
- “attraverso
questa analisi parametrica è possibile attribuire alla
stessa classe acustica porzioni di territorio con
caratteristiche di utilizzo assai differenti; l’attribuzione
di aree ad una stessa classe acustica presuppone identità di
requisiti acustici, non necessariamente identità di
paramenti urbanistici. Le classi acustiche, infatti, a
differenza della zona di PRG, non presentano una
correlazione univoca con le destinazioni d’uso delle
relative porzioni di territorio”.
Nel Piano di Classificazione Acustica, dunque, il Comune di
Ponza ha tenuto conto delle peculiari aree di interesse
naturalistico presenti sull’isola (si veda pag. n. 30 del
Piano).
5.4. L’appellante afferma che alla Piazza Giancos non poteva
essere attribuita la classe acustica III e IV (quest’ultima
nel periodo estivo), in quanto trattasi di un’area che
sarebbe circondata da villini residenziali, confinante con
il mare e attraversata da una strada a traffico locale che
peraltro viene limitato (con ordinanza comunale) nel periodo
estivo.
Tuttavia, come precisato dalla Commissione Acustica nei
verbali di riunione del 27.11.2014 e del 05.03.2015,
l’area in argomento, è attraversata dalla viabilità
principale e di collegamento sia con la località Santa Maria,
sia con l’abitato della località Le Forna. Inoltre, la
piazza di cui trattasi si trova a meno di 1 km dal Porto di
Ponza e costituisce un luogo intensamente frequentato nel
periodo estivo dai numerosi turisti che affollano l’isola in
quanto situata in pieno centro urbano.
Dagli stessi verbali si evince che l’attribuzione a Piazza
Giancos della classe acustica III nel periodo invernale e
della classe acustica IV nel periodo estivo è stata motivata
in quanto “risponde ai requisiti di equilibrio tra le
esigenze di chi risiede e quelle proprie del sistema
turistico locale e pertanto la classe II aree destinate ad
uno prevalentemente residenziale non risulta pertinente.
Inoltre l’area è attraversata dalla viabilità principale e
di collegamento con la località Santa Maria, nonché con
l’abitato di Le Forna. Si fa presente infine che le attività
ludiche nel periodo estivo risultano regolate dalla attuale
normativa su pubblici spettacoli e il rispetto della quiete
pubblica”.
5.5. L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995, n. 447,
prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un
rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico,
hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al
rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'articolo
3, comma 1, lettera a), secondo gli indirizzi determinati
dalla regione di appartenenza, ai sensi dell'articolo 4,
comma 1, lettera f) …”.
La citata norma consente (e non
obbliga) i Comuni, il cui territorio presenti un rilevante
interesse paesaggistico, ambientale e turistico, di attuare
una più specifica regolamentazione dell'emissione dei
rumori, e, in questo ambito, di disciplinare l'esercizio di
professioni, mestieri ed attività rumorose anche con
l'istituzione di fasce orarie in cui soltanto possano essere
espletati, e di prendere così in considerazione, oltre al
dato oggettivo del superamento di una certa soglia di
rumorosità, anche gli effetti negativi di quest'ultima sulle
occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla
tranquillità pubblica o privata (Cons. St., Sez. V, 28.02.2011, n. 1265).
Quanto sopra, fermo restando i
limiti all’immissioni sonore previste dalla l. n. 447 del
1995, i quali non possono comunque essere diminuiti (Cass.
civile, sez. I, 01/09/2006, n. 18953).
Non si può, pertanto, configurare la paventata violazione di
legge in quanto la norma in commento consente e non obbliga
i Comuni ad individuare una più specifica regolazione delle
immissioni, fermo restano l’impossibilità di diminuire i
limiti di emissione sonora prescritti dalla citata
normativa.
5.6. Né sono stati forniti elementi per affermare che le
impugnate scelte dell’amministrazione sarebbero il frutto di
una ritorsione del Comune, a seguito di precedenti azioni
giudiziarie intercorse tra le parti.
L’appello deve essere, pertanto, respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla
raccolta differenziata e contributo di costruzione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R.
n. 380 del 2001 stabilisce che il contributo di costruzione
non è dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le
opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Va evidenziato il carattere eccezionale e derogatorio delle
ipotesi di concessione edilizia gratuita, a fronte del
principio generale che è, invece, quello della sua
onerosità, cosicché l’esenzione dal contributo concessorio
riguarda ipotesi tassative e da interpretare in senso
restrittivo. Per poter beneficare della esenzione dal
contributo di costruzione debbono concorrere requisiti di
carattere oggettivo e soggettivo.
Nel caso di specie (impianto di recupero dei rifiuti
proveniente dalla raccolta differenziata) viene in rilievo
un impianto di proprietà della società appellante,
realizzato per l’esercizio di un’attività imprenditoriale,
che solo indirettamente assolve anche ad una finalità di
interesse generale.
Sono proprio la natura privata
dell’impianto della società appellante e il fine lucrativo
da questa perseguito ad evidenziare la mancanza del
requisito soggettivo che la giurisprudenza ha individuato,
accanto a quello oggettivo, per poter beneficiare
dell’esenzione dal contributo di costruzione (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.12.2023 n. 11239 -
massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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8. Con il primo motivo, la società appellante deduce:
error in judicando per violazione degli artt. 16 e 17
del d.P.R. n. 380/2001, degli artt. 208 e 266 del d.lgs. n.
152/2006 e del d.lgs. n. 847/1964; omessa pronuncia; difetto
di motivazione.
8.1. Dopo aver richiamato l’art. 17, comma 3, lett. c), del
d.P.R. n. 380/2001, la società appellante evidenzia che la
predetta norma prevede l’esenzione dal pagamento degli oneri
di urbanizzazione in due ipotesi:
a) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti;
b) per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in
attuazione di strumenti urbanistici.
Contesta quindi le conclusioni del giudice di prime cure che
ha ritenuto che, venendo in rilievo l’ampliamento di un
impianto industriale di proprietà privata, nel caso di
specie mancherebbe sia il requisito soggettivo, sia il
requisito della destinazione dell’opera all’utilizzo
dell’intera collettività, con la conseguenza che la società
non potrebbe beneficiare della esenzione dal contributo
concessorio di cui all’art. 17, terzo comma, lettera c), del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
8.2. Sostiene che la sentenza sia viziata per essersi il
giudice pronunciato extra petita.
Fa rilevare che il primo motivo di ricorso di primo grado
era incentrato sulla violazione dell’art. 17, comma 3, lett.
c), del d.P.R. n. 380/2001 sotto diverso profilo, in quanto
l’esonero dal pagamento degli oneri è riconosciuto dal
legislatore anche in favore dei privati che realizzino
direttamente le opere di urbanizzazione; sul punto, invece,
il Tar Lecce non si sarebbe pronunciato.
Evidenzia inoltre che nella sentenza impugnata il giudice di
primo grado ha ritenuto che l’impianto della Un.Se. s.n.c. non potesse, tuttavia, essere considerato
“un’opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di
previsioni localizzative già contemplate dagli strumenti
urbanistici, ma invece di un’opera assentita (in
accoglimento di apposita istanza presentata dal soggetto
privato interessato) in variante “puntuale” al Programma di
Fabbricazione vigente nel Comune di San Marzano di San
Giuseppe, ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n.
447”.
Di contro, sostiene che l’impianto della Un.Se.,
per espressa definizione normativa, deve considerarsi
un’opera di urbanizzazione.
La legge n. 847/1964 prevede, all’art. 1, lett. c), che le
opere di urbanizzazione secondaria sono indicate al
successivo articolo 4; detto articolo, alla lett. g),
individua quale opera di urbanizzazione secondaria i centri
sociali e le attrezzature culturali e sanitarie.
L’art. 266, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 (T.U.
ambientale) stabilisce espressamente che “Nelle attrezzature
sanitarie di cui all’articolo 4, comma 2, lettera g), della
legge 29.09.1964, n. 847, sono ricomprese le opere,
le costruzioni e gli impianti destinati allo smaltimento, al
riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali,
pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree
inquinate”.
Essendo quello della appellante un impianto di recupero dei
rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata esso
dovrebbe essere considerato come opera di urbanizzazione
secondaria.
8.3. Richiama, altresì, l’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006, a
norma del quale l’approvazione del progetto costituisce
variante allo strumento urbanistico e comporta la
dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità
dei lavori.
La previsione normativa secondo la quale l’approvazione del
progetto di realizzazione di un impianto di recupero e/o
smaltimento rifiuti costituisca anche variante allo
strumento urbanistico, troverebbe la sua ratio nella
inesistenza di previsioni di piano urbanistico comunale che
individuino le aree destinate alla realizzazione di impianti
di recupero e/o smaltimento rifiuti.
La predetta previsione normativa permette la localizzazione
dei predetti impianti anche in una zona che, secondo le
previsioni urbanistiche, non la tollererebbe,
subordinatamente al riscontro ed alla valutazione di
compatibilità in concreto da parte dell’amministrazione.
Fa rilevare inoltre che l’impianto Un.Se. oggetto
del presente giudizio non è stato approvato ai sensi
dell’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, bensì ai sensi dell’art.
208 del T.U. dell’Ambiente.
8.4. Il motivo è infondato.
8.5. L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del
2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è
dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato il carattere
eccezionale e derogatorio delle ipotesi di concessione
edilizia gratuita, a fronte del principio generale che è,
invece, quello della sua onerosità, cosicché l’esenzione dal
contributo concessorio riguarda ipotesi tassative e da
interpretare in senso restrittivo (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. II, n. 2921 del 2021; Sez. IV, n. 3405 del 2020; Sez.
V, n. 51 del 2006).
8.6. Recentemente questa Sezione ha avuto modo di ribadire
che per poter beneficare della esenzione dal contributo di
costruzione debbono concorrere requisiti di carattere
oggettivo e soggettivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 17.05.2023 n. 4907).
Nel caso di specie viene in rilievo un impianto di proprietà
della società appellante, realizzato per l’esercizio di
un’attività imprenditoriale, che solo indirettamente assolve
anche ad una finalità di interesse generale.
Sono proprio la natura privata dell’impianto della società
appellante e il fine lucrativo da questa perseguito ad
evidenziare la mancanza del requisito soggettivo che la
giurisprudenza ha individuato, accanto a quello oggettivo,
per poter beneficiare dell’esenzione dal contributo di
costruzione.
8.7. Gli elementi sopra richiamati impediscono di
considerare un soggetto privato, quale l’odierna appellante,
alla stregua di una longa manus dell’ente pubblico, anche in
ragione della mancanza di un vincolo giuridico idoneo a
sancire il necessario legame con l’ente istituzionalmente
competente che la giurisprudenza ha individuato, ad esempio,
nella presenza di un provvedimento concessorio nel caso di
soggetto privato concessionario di opera pubblica.
In una fattispecie quale quella dedotta in giudizio lo
sgravio sarebbe privo di giustificazione poiché il beneficio
in questione se, da un lato, trova, in via generale, il suo
fondamento nella meritevolezza della finalità di interesse
pubblico perseguita, dall’altro, non può al contempo
risolversi in una agevolazione per chi, svolgendo attività
di impresa per fini di lucro, beneficerebbe in tal modo
della eliminazione di un costo di produzione, conseguendo
conseguentemente un maggior guadagno.
Ciò quanto meno in una
ipotesi -come quella in contestazione- in cui l’opera è
primariamente finalizzata a consentire una attività
commerciale e, solo indirettamente, assolve ad una finalità
di interesse pubblico che comunque non rappresenta la causa
principale che muove il soggetto attuatore il quale riveste
una posizione giuridica soggettiva contrapposta rispetto a
quella del Comune. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Consiglieri comunali, vietate le richieste d’accesso agli atti
«esplorative».
Il diritto di visionare atti e documenti non può tradursi in strategie
ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione del materiale di
proprio effettivo interesse e utilità
Secondo il TAR Lombardia-Milano
(Sez. I -
sentenza
29.12.2023 n. 3222)
il diritto del consigliere comunale di visionare atti e documenti non può
tradursi in strategie ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione
del materiale di proprio effettivo interesse e utilità. Diversamente la
richiesta va respinta.
Nella
vicenda il consigliere aveva formulato richiesta di accesso a ben 678
documenti. E l'Amministrazione aveva rigettato la sua richiesta.
Per il
consigliere il rifiuto di consegnare gli atti richiesti era ingiustificato
poiché
l'amministrazione non disponeva di alcuna valutazione discrezionale in
ordine alla verifica della sussistenza di un suo interesse all'accesso;
doveva
invece prendere atto della mera circostanza che il richiedente era un
consigliere comunale in carica e che intendeva esercitare il suo ruolo di
controllo in pieno.
Ecco perché gli doveva essere consegnato tutto quanto
richiesto. E ciò soprattutto perché i documenti in questione non risultavano
pubblicati nella pagina Amministrazione Trasparente del sito web dell'ente e
quindi non erano consultabili. Ma il Tar lombardo non ha condiviso il punto
di
vista del consigliere coinvolto.
I consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. L'accesso
agli atti esercitato dal consigliere comunale ha natura e caratteri diversi
rispetto alle altre forme di accesso,
esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d'utilità all'espletamento
delle sue funzioni.
Ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole
sulle questioni di competenza del
Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale.
Tuttavia per il Tar milanese tali prerogative non sono assolute e vanno
bilanciate con l'imprescindibile esigenza di
non bloccare la macchina amministrativa.
Su queste basi se per un verso sul
consigliere comunale non può gravare
alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso
che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio delle sue funzioni; per altro verso
compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio
interesse. Attività propedeutica connaturata
alle modalità dell'accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative
sebbene il diritto sia esercitato da
soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata.
Né può valere
la possibilità di soddisfare tale esigenza
in modo semplificato mediante l'utilizzo di mezzi informatici in quanto in
ogni caso sussiste il limite funzionale
imposto dalla legge a tutela dell'ordinato svolgimento dei servizi pubblici
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.02.2024).
---------------
SENTENZA
3. Venendo al merito il ricorso è infondato.
3.1 L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere
dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
3.2 In primo luogo occorre precisare che secondo la
giurisprudenza (Consiglio di
Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032) l’accesso agli
atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267
del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso,
esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al
fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere
tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale.
3.3 Per tali ragioni, da un lato sul consigliere
comunale non può gravare (e ciò sin da prima dell’introduzione
nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso civico generalizzato) alcun
particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che,
diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente,
attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra
parte dal termine «utili», contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n.
267 del 2000, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso
dei Consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà
l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l’esercizio delle funzioni.
3.4 Venendo al caso di specie, benché il Consorzio in questione, in quanto
ente partecipato rientri tra gli enti dipendenti dal Comune di Monza, e
quindi sia soggetto all’accesso dei consiglieri comunali, l’istanza è
infondata.
Infatti la giurisprudenza
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032)
ha chiarito che l’unico limite all’accesso del consigliere comunale è
configurabile, in termini generali, “nell’ipotesi in cui
lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi
dell’attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità
e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai
quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull’attività
dell’amministrazione (Cons. Stato,
IV, 12.02.2013, n. 846)” (Cons. Stato, V, 02.03.2018, n. 1298)”.
Nel caso di specie il grande numero di atti richiesti,
estesi all’intera attività dell’ente, costituisce un atto di controllo
generalizzato del Consorzio che fuoriesce dalle funzioni svolte dal
consigliere comunale, il quale esercita l’accesso per “l’espletamento del
proprio mandato”. In tale ambito rientra la possibilità di richiedere il
testo integrale degli atti e documenti in possesso dell’ente, ma non rientra
la possibilità di richiedere in sostanza tutti gli atti prodotti dall’ente,
volendo altrimenti il consigliere sostituirsi agli organi dello stesso ente
nello svolgimento dei controlli sull’ente stesso.
Compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio
interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che
non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia
esercitato da soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata.
Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato
diniego, secondo cui il rilascio di tutte le determine e tutti i contratti
prodotti dal Consorzio negli ultimi due anni si traduce in un accesso
generalizzato e indiscriminato a tutta l’attività dell’ente stesso.
Né in senso opposto può valere la possibilità di soddisfare tale esigenza in
modo semplificato mediante l’utilizzo di mezzi informatici, in quanto il
limite imposto dalla legge non è solo funzionale all’ordinato svolgimento
dei servizi ma attiene anche al corretto rapporto tra ente dipendente e
componenti di un organo dell’ente vigilante.
Va rigettato da ultimo il profilo di gravame con cui si lamenta la
violazione dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990 per omessa notifica del
preavviso di rigetto; tanto, in applicazione della irrilevanza dell’apporto
procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990.
Secondo consolidati approdi giurisprudenziali, l’istituto
partecipativo pretermesso va interpretato non in senso formalistico, ma
avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua
inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico
rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto
preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del
provvedimento finale, quando, come nella fattispecie in esame, il giudice
non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso
sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(Consiglio di Stato, Sez. II, n. 1081/2020). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: A
casa il sindacalista
che sparla sui social.
Licenziato
il sindacalista che sparla dell'azienda sui social network. I post del
rappresentante dei lavoratori su Facebook non hanno alcuna seria finalità
divulgativa e sono inutilmente volgari: risulta escluso il legittimo diritto
di critica nei confronti del datore laddove le espressioni utilizzate sono
finalizzate soltanto a ledere il decoro e la reputazione dell'impresa e del
suo fondatore.
Così la Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, nell'ordinanza
22.12.2023 n. 35922.
Libertà costituzionale
Diventa definitiva la decisione che ritiene sussistente la giusta causa nel
recesso datoriale. Il sindacalista come lavoratore è soggetto allo stesso
vincolo di subordinazione dei colleghi, ma come rappresentante dei colleghi
si pone su di un piano paritetico con il datore: la tutela degli interessi
collettivi dei lavoratori è una libertà garantita dall'articolo 39 della
Costituzione e non può essere subordinata alla volontà dell'azienda.
Nessun
dubbio, poi, che a ogni lavoratore sia garantito il diritto di critica,
anche aspra, nei confronti del datore. Ma ciò non consente di ledere
l'immagine dell'azienda sul piano morale facendo riferimento a fatti non
oggettivamente certi e comprovati.
Correttezza formale
I post del sindacalista danno l'idea che in azienda si respiri un «clima
torbido»: agitano lo spettro di pressioni e minacce contro chi si iscrive
alla sua organizzazione, che diversamente dalle altre «non si fa
corrompere». E annunciano lo showdown («tutta la m. viene a galla?»).
Soprattutto contengono epiteti offensivi e frasi volgari, del tutto
gratuite, nei confronti del vertice e del fondatore della società.
All'epoca, poi, il profilo Facebook del lavoratore è aperto: i messaggi sono
dunque visibili a tutti.
Anche l'attività sindacale incontra i limiti della
correttezza formale imposti dall'esigenza di tutelare la persona umana,
anch'essa garantita dalla Costituzione: il lavoratore può essere sanzionato
in via disciplinare se all'impresa o ai dirigenti sono attribuite qualità
apertamente disonorevoli o rivolti riferimenti denigratori non provati
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2024). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che
consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della
comunicazione da parte del destinatario.
Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un
indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non
inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria
vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della
comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di
averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia
pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la
“ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo
Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno
rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria”.
---------------
11. Sul tema della richiesta di audizione, occorre considerare che il
sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che
consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della
comunicazione da parte del destinatario.
12. Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un
indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non
inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria
vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della
comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di
averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia
pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e
che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare
notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da
eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail
ordinaria” (Cass.
sentenza 31.05.2023 n. 15345, in motivazione pag. 7-8, § 3.5)
13. Non possono invocarsi, in relazione alla trasmissione tramite e-mail, i
principi enunciati a proposito della spedizione di una raccomandata o di un
telegramma (secondo cui “La produzione in giudizio di un telegramma, o di
una lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento,
costituisce prova certa della spedizione, attestata dall'ufficio postale
attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione
dell'arrivo dell'atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi
dell'art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della
suddetta spedizione e sull'ordinaria regolarità del servizio postale e
telegrafico”, Cass.
ordinanza 10.01.2019 n. 511), in ragione della non equiparabilità
dei sistemi di gestione dei rispettivi servizi (servizio di posta
elettronica e servizio postale).
Neppure è pertinente il richiamo alle pronunce sulle comunicazioni inoltrate
a mezzo telefax (secondo cui “Una volta dimostrato l'avvenuto corretto
inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del
destinatario, deve presumersene il conseguente ricevimento e la piena
conoscenza da parte di costui, restando, pertanto, a suo carico l'onere di
dedurre e dimostrare eventuali elementi idonei a confutare l'avvenuta
ricezione”, v. Cass. sentenza 24.05.20198 n. 14251; n. 18679 del 2017;
n. 349 del 2013), dato il diverso modo di operare di quest’ultimo
meccanismo, che consente al mittente di verificare la avvenuta trasmissione
con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario (in
tal senso, Cass. n. 349 del 2013 cit.).
14. Difetta quindi la prova, nel caso di specie, della ricezione da parte
della società della richiesta di audizione inviata tramite e-mail,
risultando insufficiente la avvenuta dimostrazione dell’invio della
richiesta medesima; dal che discende l’insussistenza del vizio di violazione
dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 1335 c.c. (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza
22.12.2023 n. 35922). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ricalcolo degli oneri, termini differenti per urbanizzazione e
costo di costruzione.
Il Consiglio di Stato chiarisce che il termine decennale per il Comune parte
in un caso dal rilascio del permesso, nell’altro dalla fine dei lavori.
Fin quando perdura il diritto del Comune di ri-conteggiare l’importo del
contributo di costruzione?
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
19.12.2023 n. 11022,
ritorna su un argomento molto articolato e controverso (tanto da necessitare
di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria nel 2018) per chiarire che il
termine di prescrizione decennale entro cui il Comune può far valere un
diritto al riconteggio è diverso a seconda che si tratti della quota
relativa a
oneri di urbanizzazione o a quella afferente il costo di costruzione.
Ma
andiamo con ordine: il contributo di costruzione è la prestazione
patrimoniale imposta dalla legge a fronte del rilascio di un permesso di
costruire ed è disciplinato dall'articolo 16 del Testo Unico dell'Edilizia,
che lo
definisce come il contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, enucleando così le due
principali voci di costo che lo compongono.
Il conteggio del contributo
avviene sulla base di parametri regolamentari e tabellari prestabiliti
(regionali
o comunali) e può essere rideterminato solo in caso di errori di calcolo da
parte del Comune. Il termine per l'accertamento di eventuali errori di
calcolo è di dieci anni (termine ordinario di
prescrizione), decorso il quale non è più possibile richiedere una
rettifica. Ma qual è il momento da cui inizia a
decorrere il termine?
Il termine di dieci anni scatta quando il diritto di
credito del Comune diventa esigibile, ossia può
essere fatto valere e, per individuare il momento di decorrenza, occorre
tenere distinte le due voci del contributo
sopra indicate (oneri e costo). Infatti, la peculiarità della prescrizione
connessa al contributo di costruzione sta nel
fatto che sono due i momenti in cui il relativo credito diviene esigibile,
essendo differenti i momenti di esigibilità della quota afferente agli oneri
di urbanizzazione e di quella relativa al costo di costruzione.
La prima è regolata dal
comma 2, del TUE che lo La quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto
del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può
essere rateizzata: il credito è esigibile quindi
al rilascio del permesso. La seconda trova la sua disciplina nell'art. 16,
comma 3, d.P.R. 380/2001 che stabilisce la
quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto
del rilascio, è corrisposta in corso d'opera,
con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta
giorni dalla ultimazione della costruzione.
Pertanto, come affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento,
la prescrizione decennale del diritto
di credito, in caso di errore nel calcolo al momento del rilascio del
permesso di costruire, decorre differentemente a
seconda che si tratti della quota oneri o della quota costo. Nel primo caso
i dieci anni vanno contati dal momento
del rilascio del permesso, nel secondo dal termine di fine lavori (o in
quello più breve, se la quota inerente il costo è stata versata prima).
Si
tratta di due momenti che possono divergere anche di molto: infatti, la
conclusione dei lavori può avvenire anche a
distanza di un quinquennio (a volte anche di più, se i termini vengono
prorogati) rispetto al momento del rilascio del
titolo.
Si tratta quindi di valutazioni non immediate, che necessitano di
analisi puntuali della storia autorizzativa di un
determinato cantiere, valutando le date di comunicazione di fine lavori, se
vi sono state proroghe, se sono
intervenute varianti e di quale natura ecc, restando inteso che questa
indagine puntuale dovrà essere eseguita solo
per la seconda parte del contributo, atteso che l'identificazione del
termine di decorrenza decennale è molto più
semplice per la voce oneri, corrispondente alla data di rilascio del titolo
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ricalcolo degli oneri concessori, i 10 anni per la prescrizione
decorrono dalla fine lavori.
Palazzo Spada riforma una sentenza del Tar Puglia che aveva indicato invece
come dies a quo il giorno del rilascio del titolo. Confermata
l’irretroattività delle tariffe.
Una controversia con al centro il costo di costruzione richiesto da un
Comune pugliese, relativamente al rilascio del permesso edilizio per una
nuova costruzione, offre al Consiglio di Stato (Sez. IV - sentenza
19.12.2023 n. 11022)
l’occasione per precisare due questioni importanti -il termine da cui
decorrono i 10 anni per la prescrizione e l’irretroattività delle tariffe-
rettificando le conclusioni del Tar Puglia.
La questione verte sulla rideterminazione del contributo al costo di
costruzione da parte del Comune a distanza di anni dal pagamento versato
dall'operatore economico e corrispondente alla somma inizialmente calcolata
dall'Ente.
Nella vicenda specifica, i momenti rilevanti ai fini della valutazione del
Consiglio di Stato sono i seguenti:
- il 14.12.2006 il Comune informa
l'interessato circa l'esito positivo della pratica edilizia e invita al
pagamento di 14.270 euro di oneri concessori (immediatamente versati);
- il 15.01.2007 il Comune rilascia il permesso di costruire; il 14.05.2009
il Comune rilascia un permesso di costruire in variante senza alcuna
richiesta di ulteriori oneri (ritenendo che le variazioni fossero entro la
fascia di esonero del 20% di modifica rispetto al progetto originario);
- il 02.03.2017 il Comune dice che si era sbagliato nel calcolo e chiede
all'interessato una integrazione di quasi 28.400 euro, calcolata in base
alle delibere regionali entrate in vigore tra il 2006 e il 2010).
L'impresa
impugna quest'ultimo provvedimento al Tar e avvia il contenzioso. Il Tar
Puglia accoglie il ricorso dell'impresa ritenendo fondato un motivo ritenuto
dirimente dai giudici, e cioè che il credito del Comune fosse caduto in
prescrizione, essendo passati più di 10 anni tra la data del rilascio del
permesso di costruire (15.01.2007) e la richiesta di integrazione in
base al nuovo calcolo (02.03.2017).
I giudici della IV Sezione del Consiglio di Stato, contestano questa
conclusione, e individuano un diverso termine
da cui far decorrere i 10 anni per la prescrizione. Il nuovo termine viene
individuato nel 20.06.2009, che coincide
con la data di ultimazione dei lavori.
La sentenza spiega che «il termine di
prescrizione -per effetto del combinato
disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001-
inizia a decorrere da quando il diritto diventa
definitivamente esigibile, ossia scaduti i sessanta giorni dalla ultimazione
della costruzione, ovvero dalla
comunicazione della fine dei lavori».
«In altri termini -si legge sempre
nella pronuncia n. 11022/2023 del 19.12.scorso- la Sezione ritiene di potere affermare il principio per cui la
prescrizione del diritto di credito sotteso alla
riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il
diritto diventa esigibile e pertanto il termine di
prescrizione inizia a decorrere:
i) per gli oneri urbanizzazione, dal
momento in cui viene rilasciato o comunque si
forma il titolo edilizio;
ii) per il costo di costruzione, dalla
comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il
disposto dell'art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001».
In conclusione, Palazzo
Spada accoglie l'appello del Comune pugliese, di cui viene riconosciuto
l'errore nel calcolo, sempre però nel rispetto della non retroattività delle
tariffe,
che vanno sempre applicate, ratione temporis, a quelle «vigenti al
momento della comunicazione di fine lavori», cioè,
nel caso specifico, sempre alla data del 20.06.2009 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.01.2024).
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SENTENZA
8. L’appello è fondato, nei sensi che seguono.
9. Il quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento in tema di
contributo di costruzione e di interruzione della prescrizione è
riassumibile come segue.
9.1. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 30.08.2018, n. 12, ha affermato i seguenti principi:
a)
gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e
liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n.
380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una
potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa
alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio
del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un
rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al
termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né
la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241
del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge
per gli atti provvedimentali manifestazioni di attività autoritativa;
b)
la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può
pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato,
l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato,
richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine
di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del
titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua
il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo
nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo,
munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f),
c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero
accertamento;
c)
l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con
atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di
diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del
1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa
fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto
dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti
alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio
riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle
parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato
da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà
luogo alla semplice rettifica;
d)
la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che
in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione
nell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad
una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la
predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo
di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono
vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione,
consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte
dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi
in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con
l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175
e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione
del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio
vantato dal Comune.
9.2 In tema di contributo di costruzione, fatto salvo quanto si dirà
appresso, la giurisprudenza amministrativa ha, inoltre, affermato che:
a)
il dies a quo per il decorso del periodo di tempo ai fini della
prescrizione decennale, coincide con la data di rilascio del titolo
edilizio;
b)
il contributo di costruzione può essere rideterminato solo in
caso di errori di quantificazione (calcolo) da parte del Comune, è inoltre
necessario che il ricalcolo sia effettuato secondo la tariffa vigente al
momento del rilascio del permesso di costruire
(Cons. Stato, sentenza n.
18/2018);
c)
dal momento del rilascio del titolo abilitativo, il Comune ha
dieci anni di tempo per accertare eventuali errori di calcolo e chiedere una
integrazione del contributo;
d)
si applica, quindi, il termine ordinario per la prescrizione,
decorso il quale non è più possibile richiedere una rettifica;
e)
il contributo di costruzione previsto dall’art. 16, comma 9, t.u.,
è determinato periodicamente dalle Regioni per i nuovi edifici, mentre il
Comune è competente a definire il costo per i soli edifici esistenti (art.
16, comma 10, t.u.), per cui:
i)
i costi-base fissati con delibera regionale
si applicano direttamente;
ii)
le delibere con cui i Comuni determinino i
costi in misura differente da quanto deciso dalla Regione, avvalendosi di
facoltà previste da leggi regionali, hanno carattere eventuale e non
condizionano l’immediata vigenza e operatività del costo-base fissato dalla
Regione;
iii)
tali delibere si applicano comunque solo ai nuovi permessi, ma
solo per la parte di incremento o diminuzione rispetto al costo-base fissato
con atto regionale; in altri termini, nel caso di contributo di costruzione
per nuove costruzioni, il principio di irretroattività delle delibere
comunali sopravvenute opera sì, ma solo per il costo in aumento o in
riduzione
(Cons. Stato, sez. IV, n. 2821/2017).
9.3) Sul piano più strettamente normativo, vengono in rilievo, invece, le
seguenti norme:
a)
art. 2943 c.c., secondo cui la prescrizione è interrotta, oltre
che dalla notificazione dell’atto con cui si inizia un giudizio o dalla
domanda proposta nel corso di un giudizio, anche da ogni atto che valga a
costituire in mora il debitore;
b)
art. 1219 c.c., ai sensi del quale la costituzione in mora deve
consistere in una intimazione o richiesta fatta per iscritto;
c)
art. 16, comma 2, d.P.R. 380/2001 a mente del quale “La quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune
all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta
dell'interessato, può essere rateizzata”;
d)
art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001 giusta il quale “La quota di
contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del
rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della
costruzione”.
10. Sulla scorta del prefato quadro giurisprudenziale e normativo è
possibile dunque affermare che:
a) le pretese economiche avanzate da parte appellante (afferenti il
costo di costruzione) hanno consistenza di diritti soggettivi;
b) conseguentemente, deve escludersi l’applicazione della
disciplina sull’annullamento o revoca in autotutela degli atti
amministrativi,
c) tali pretese, inerenti al costo di costruzione, sono soggette
alla prescrizione ordinaria decennale, allo stesso modo che per gli oneri di
urbanizzazione;
d) il legislatore garantisce che la prescrizione non opera qualora
sopraggiunga una causa che faccia venire meno l'inerzia del titolare,
presupposto stesso dell'istituto. È idoneo, pertanto, a interrompere la
prescrizione qualsiasi atto stragiudiziale che individui la persona del
debitore e contenga la richiesta scritta di adempiere (v. Corte di
Cassazione,
ordinanza 10.03.2022
n. 7835).
11. Nel caso di specie:
- il permesso di costruire n. 2/2007 veniva rilasciato il 15.01.2007;
- la società corrispondeva i relativi oneri concessori per il
rilascio del suddetto titolo edilizio;
- in data 14.05.2009, con provvedimento n. 8/2009, il comune
rilasciava alla società il permesso di costruire in variante al titolo
edilizio n. 2/2007;
- con nota prot. n. 685/17 del 02.03.2017, notificata il
successivo 07.03.2017, il Comune –sul presupposto che il permesso del
2007 è stato “assorbito e sostituito, mediante il rilascio alla medesima
società, del successivo permesso di costruire n. 08/2009, in variante al
precedente, in esecuzione del quale l’intervento edilizio è stato realizzato
e completato”– richiedeva alla appellata una integrazione del costo di
costruzione pari ad € 28.384,04.
Conseguentemente può affermarsi che:
- la variante del 2009, in ragione di quanto assentito (si veda la
documentazione depositata agli atti dal comune), ha natura sostanziale con
le conseguenze anche in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione;
- trattandosi di questione afferente il costo di costruzione, il
termine di prescrizione –per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001– inizia a decorrere da
quando il diritto diventa definitivamente esigibile, ossia scaduti i
sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione, ovvero dalla
comunicazione della fine dei lavori.
12. In altri termini, sul punto, la Sezione ritiene di potere affermare il
principio per cui
la prescrizione del diritto di credito sotteso alla
riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il
diritto diventa esigibile e pertanto il termine di prescrizione inizia a
decorrere:
i) per gli oneri urbanizzazione, dal momento in cui viene
rilasciato o comunque si forma il titolo edilizio;
ii) per il costo di
costruzione, dalla comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il
disposto dell’art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001.
13. Ebbene, nel caso di specie consta che la comunicazione di ultimazione
dei lavori sia stata effettuata in data 20.06.2009, con la conseguenza
che alla data del 07.03.2017 (di notifica del provvedimento di ricalcolo)
il termine prescrizionale non poteva ritenersi ancora decorso.
14. Va solo soggiunto che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio
il
contributo previsto dall’art. 16 t.u. è suscettibile di rideterminazione in
due casi:
a) quando intervenga la scadenza del permesso di costruire con un
suo rinnovo o una variante al titolo edilizio che incrementi il carico
urbanistico
(cfr. sez. IV, 27.04.2012, n. 2471; sez. IV, n. 1504/2015,
cit.), come avvenuto nel caso di specie;
b) quando, nell’adozione del provvedimento di determinazione, vi
sia stato un errore nel calcolo del contributo rispetto alla situazione di
fatto e alla disciplina vigente al momento
(cfr. sez. IV, n. 6033/2012, cit.).
Nel caso di specie non v’è dubbio che il comune sia anche incorso in un
errore di calcolo con l’atto del 2009, errore che poi ha proceduto a
rettificare senza aver ancora consumato il termine di prescrizione.
15. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è fondato nei
limiti ora indicati e salvo quanto ora si preciserà a seguito dei motivi
riproposti con la memoria di costituzione della parte appellata. |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi, sanzioni possibili anche senza parere della commissione
edilizia.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato respingendo il ricorso di un
proprietario.
L’omessa acquisizione del parere della commissione edilizia comunale non
inficia l’adozione di provvedimenti sanzionatori di opere abusive, neppure
in sede di rigetto di istanze di condono o sanatoria, atteso che tale parere
non è obbligatorio. Milita in tal senso l’art. 4, comma 2, del Testo
unico edilizia, che attribuisce ai comuni la «facoltà» di istituire la
commissione edilizia, e che assegna ad essa il ruolo di « organo
consultivo». Ciò fermo restando che
l'art. del 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso
di
costruire) del suddetto decreto non prevede l'acquisizione del parere della
commissione prima dell'emissione della sanzione pecuniaria in luogo del
ripristino.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la
sentenza
15.12.2023 n. 10871 che ha confermato la pronuncia del Tar Veneto n. 759/2019.
L'antefatto
La ricorrente aveva proposto ricorso al Tar del Veneto contro il
provvedimento con cui il Comune di Mogliano Veneto le aveva intimato, in
luogo del ripristino, il pagamento della somma di 30.872,00, quale sanzione
amministrativa per opere abusive realizzate su un immobile di proprietà,
deducendone l'illegittimità per violazione dell'articolo 93, comma 1, ultimo
periodo, della legge regionale 27.06.1985, n. 61, secondo cui: «Il
provvedimento di demolizione o di irrogazione
delle sanzioni è emanato dal Sindaco, rispettivamente con ordinanza o con
ingiunzione, previo parere della
Commissione Edilizia Comunale».
Ricorso che il Tar aveva dichiarato
infondato e in parte inammissibile.
La
sentenza del Consiglio di Stato
Dinanzi al Consiglio di Stato la ricorrente
aveva riproposto quanto sostenuto nel
primo grado di giudizio ed evidenziato che la sanzione pecuniaria non
risultava correttamente commisurata al valore
dell'immobile quale derivante dall'abuso. Tesi che non colto nel segno.
L'Alto Collegio ha confermato l'orientamento secondo il quale:
- il parere reso dalla commissione edilizia
sulla domanda di condono è un atto
«meramente endoprocedimentale non necessario, tanto da non essere
considerato, in quanto tale, oggetto di
autonoma impugnazione» (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4208 del
2016);
- nel procedimento per la
concessione in sanatoria, il parere della commissione edilizia comunale «non
è obbligatorio, tenuto conto
dell'assenza di una specifica previsione al riguardo e della specialità del
procedimento in questione rispetto a quello
ordinario di rilascio della concessione edilizia» (Consiglio di Stato, Sez.
VI, sentenza n. 6042 del 2013; cfr. di recente
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 504 del 2020, che ritiene tale
parere «non necessario e comunque ininfluente
in mancanza dei presupposti per accedere al condono»);
- l'articolo 4, comma
2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere
facoltativa per i comuni l'istituzione della commissione edilizia, ha
introdotto un principio fondamentale in materia
del territorio al quale deve sottostare la normativa regionale, con la
conseguenza che la norma regionale, laddove
preveda l'obbligatorietà del parere deve intendersi implicitamente abrogata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 6042 del 2013).
L'orientamento è
condiviso dai Tribunali amministrativi regionali. Basta
citare, inter alia, la giurisprudenza del Tar Campania- Napoli (sentenze: n.
2103/2015; n. 1399/2015; n. 17938/2010;
2010, n. 17398/2012) e del Tar Puglia-Lecce (sentenza n. 1666 del 2012),
secondo cui:
- le sanzioni per opere
edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza di presupposti
stabiliti dalla legge, non necessitano della
preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia;
- non è
necessario il parere della commissione edilizia
comunale, sia in tema di provvedimenti sanzionatori come in tema di
decisioni su istanze di sanatoria (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
12.02.2024).
---------------
SENTENZA
9. Con la seconda censura, gli appellanti deducono l’error in
iudicando in cui sarebbe incorso il Tribunale adito, nella parte in cui
ha ritenuto infondato il primo motivo ricorso, relativo alla omessa
acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale.
Ciò in quanto, l’art. 93 della L.R. n. 16 del 2003, vigente all’epoca dei
fatti, prevedeva che qualsiasi provvedimento repressivo di abuso, fosse esso
l’ordine di demolizione ovvero l’applicazione della sanzione pecuniaria,
dovesse essere preceduto dal parere della Commissione Edilizia Comunale.
9.1. La doglianza è infondata.
A tale proposito è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, secondo cui il parere reso dalla Commissione
Edilizia sulla domanda di condono è un atto meramente endoprocedimentale non
necessario, tanto da non essere considerato, in quanto tale, oggetto di
autonoma impugnazione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4208 del 2016).
In ogni caso, laddove non acquisito, la mancanza dello stesso non vizia
l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, neppure ai fini del rigetto
di istanze di condono o sanatoria, non essendo un atto presupposto ai fini
dell’adozione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4962 del 2016).
Pertanto, nel procedimento per la concessione in sanatoria, il parere della
Commissione Edilizia Comunale non è obbligatorio (essendo al più
facoltativo), tenuto conto dell’assenza di una specifica previsione al
riguardo e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello
ordinario di rilascio della concessione edilizia, sicché la mancanza di tale
parere non è censurabile (Cons. Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013; Cons.
Stato, sez. VI, n. 2038 del 2012).
Né si può predicare che il giudicante abbia omesso di tenere conto della
peculiarità della normativa regionale veneta, tenuto conto che l’art. 4
d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere per i comuni facoltativa l’istituzione
della Commissione Edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in
materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa
regionale, ai sensi dell’art. 117 Cost. (Cons. Stato, sez. IV, n. 4783 del
2008).
Al riguardo è già stato affermato che le norme regionali in materia devono
essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi
generali introdotti dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia edilizia n. 380 (Cons. Stato, sez. IV, n. 4793
del 2008), per cui la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
norma legislativa regionale, laddove prevede l’obbligatorietà del parere
della Commissione Edilizia, deve intendersi implicitamente abrogata (Cons.
Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013).
Nondimeno, l’Amministrazione ha osservato che la Commissione Edilizia
Comunale, come evidenziato nella relazione del Funzionario Comunale Ing.
Cu., rilasciata in ossequio all’ordinanza del TAR Veneto n. 847 del 2018, si
è in effetti pronunciata in due occasioni sulla sanzione poi irrogata alla
ricorrente, e nella seduta del 02.05.2002 si è espressa dando: “parere
favorevole” alla sanatoria ordinaria “limitatamente alle varianti
interne e spostamenti di volumetria”, mentre ha espresso “parere non
favorevole per quanto riguarda l’innalzamento della struttura di copertura e
della valesana, in quanto in contrasto con l’art. 11 N.T.A. P.R.G.”; la
Commissione Edilizia Comunale, infatti, ha concluso “vista la perizia
asseverata prodotta dalla Ditta, dalla quale si evince la compromissione
della parte conforme nel caso di demolizione della parte difforme, ritiene
di procedere all’irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 93
L.R. 61/1985”. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità assoluta.
Il vincolo cimiteriale determina una
situazione di inedificabilità ex lege e integra una
limitazione legale della proprietà a carattere assoluto,
direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in
maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il
regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di
immobili che si trovino in un particolare rapporto di
vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici.
Esso ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle
esigenze immediate della pianificazione urbanistica e si
impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente
da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali
non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere
sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.12.2023 n. 10798 - massima tratta da e link
a https://lexambiente.it). |
VARI: Eredi
risarciti anche se la vittima non indossava cinture di sicurezza.
Risarcimento pieno agli eredi anche se la vittima non indossava la cintura
di sicurezza al momento dell'incidente stradale. E ciò perché con ogni
probabilità sarebbe morta ugualmente, anche se avesse utilizzato il
dispositivo di protezione: il giudice del merito, dunque, non può ridurre il
ristoro del danno patito in prima persona dai familiari del de cuius senza
verificare l'effettiva incidenza che ha avuto sull'evento-morte la
trasgressione della regola cautelare ascritta alla vittima.
Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza
12.12.2023 n. 34625.
Accolto il ricorso di vedova, figli e nipoti della vittima: sbaglia la Corte
d'appello ad accogliere in parte il gravame dell'assicurazione addebitando
all'interessato il 20% della colpa nel sinistro perché non indossava la
cintura. In sede penale è accertata la responsabilità dell'altro conducente
per omicidio colposo, aggravato dallo stato di ebbrezza.
Trova ingresso la
censura che fa leva sulla consulenza tecnica svolta dal pm nel processo
penale: nello scontro l'auto della vittima si deforma al punto che
l'abitacolo si contrae, rendendo «inevitabile la compressione del torace» da
parte del volante; l'uomo, insomma, sarebbe deceduto «con altissima
probabilità» anche indossando la cintura.
È vero: il risarcimento ai
congiunti superstiti deve essere ridotto in misura corrispondente alla
percentuale di colpa ascrivibile al de cuius. Ma la condotta della vittima
deve risultare colposa per essere apprezzata come concausa del danno patito
dagli eredi, riducendo quindi il risarcimento.
E per ritenersi tale deve
aver effettivamente inciso sulla dinamica del sinistro: il che si verifica
solo quando l'evento-morte è il concretizzarsi del rischio specifico che
l'osservanza della regola cautelare tendeva a evitare.
Insomma: è integrata
la violazione dell'art. 2054 Cc denunciata dagli eredi perché la Corte
d'appello si accontenta della violazione dell'art. 172 Cds senza verificare
se e quanto l'inosservanza dell'obbligo d'indossare la cintura abbia inciso
sulla morte, valutando l'attendibilità delle prove utilizzate. Parola al
rinvio
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2024). |
APPALTI:
Criterio di aggiudicazione per gli appalti con
caratteristiche standardizzate e ad alta intensità di
manodopera: la parola alla Corte di giustizia UE.
La V sezione del Consiglio di Stato sottopone alla
valutazione pregiudiziale della Corte di giustizia UE la
disciplina dettata dall’art. 95 del codice dei contratti
pubblici del 2016, che vieta il criterio di aggiudicazione
del minor prezzo per gli appalti ad alta intensità di
manodopera, anche nell’ipotesi in cui si tratti di appalto
con caratteristiche standardizzate per il quale risulti
accertato, in concreto, che le istanze di tutela dei
lavoratori sono state rispettate.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica
amministrazione – Appalti ad alta intensità di manodopera –
Contemporanea sussistenza delle caratteristiche
standardizzate – Criterio di aggiudicazione – Minor prezzo –
Esclusione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
UE.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia UE la seguente questione pregiudiziale:
se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di
servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché il
principio euro-unitario di proporzionalità e l’art. 67,
paragrafo 2, della direttiva 2014/24/UE ostino
all’applicazione di una normativa nazionale in materia di
appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art.
95, commi 3, lett. a), e 4, lett. b), del dlgs 18.04.2016, n. 50, nonché nell’art. 50, comma 1,
del medesimo dlgs, come anche derivante dal principio di
diritto enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato nella sentenza 21.05.2019, n. 8, secondo la quale, in
caso di appalti aventi ad oggetto servizi con
caratteristiche standardizzate ed al contempo ad alta
intensità di manodopera, è vietata all’amministrazione
aggiudicatrice la previsione, quale criterio di
aggiudicazione, di quello del minor prezzo, anche
nell’ipotesi in cui la legge di gara abbia cura di prevedere
il ribasso sul solo aggio o utile potenziale di impresa, con
salvezza dei costi per la manodopera. (1)
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la V
sezione del Consiglio di Stato interroga la Corte di
giustizia UE circa la compatibilità, con il diritto
euro-unitario, della previsione nazionale, contenuta
nell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, che vieta il
criterio di aggiudicazione del minor prezzo per gli appalti
ad alta intensità di manodopera, anche laddove si tratti di
servizi con caratteristiche standardizzate (connotati, cioè,
come afferma l’ordinanza in epigrafe, “da elevata
ripetitività e priv[i] di elementi personalizzabili”) e
anche nell’ipotesi in cui non sussistano dubbi in ordine
all’effettivo raggiungimento dell’obiettivo che la norma,
nell’imporre il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, ha inteso perseguire (la tutela delle garanzie
dei lavoratori).
La controversia portata al giudizio della V
sezione è stata originata da un appalto bandito dal
Ministero della difesa per il servizio di manovalanza,
connessa ai trasporti, per le esigenze centrali e
periferiche dell’amministrazione.
Trattandosi di servizio
con caratteristiche standardizzate, il disciplinare aveva
stabilito il criterio di aggiudicazione del minor prezzo
(mediante ribasso sull’aggio posto a base di gara): ciò,
sulla base dell’art. 95, comma 4, lettera b), del codice del
2016, a norma del quale tale criterio “può” essere
utilizzato, per l’appunto, “per i servizi e le forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta
intensità di manodopera…”.
La ratio di questa previsione –come non manca di evidenziare la sezione V, con l’ordinanza
in epigrafe– risiede in ragioni di economicità e speditezza
nella procedura, posto che si ha a che fare con prestazioni
connotate da elevata ripetitività per le quali “è
difficilmente immaginabile un apporto del concorrente tale
da alterare l’aspettativa a una prestazione uniforme” ed è
quindi ridondante la previsione di un confronto competitivo
sulla migliore qualità tecnica delle varie offerte.
Su
ricorso dell’impresa seconda classificata, il
Tar per il
Lazio, sez. I-bis, con sentenza 11.04.2023, n. 6259, ha
annullato l’intera gara, rilevando la violazione della norma
menzionata, nella parte in cui essa (a seguito di
integrazione introdotta con il decreto-legge n. 32 del 2019,
convertito in legge n. 55 del 2019) stabilisce l’eccezione
per gli appalti ad alta intensità di manodopera, imponendo
dunque per questi ultimi il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, pur se in presenza delle
caratteristiche standardizzate.
Nello stesso senso si pone
anche la previsione del comma precedente a quello poc’anzi
citato, a norma del quale (lettera a) “Sono aggiudicati
esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità/prezzo: a) i contratti relativi […]
ai servizi ad alta intensità di manodopera”, come definiti
art. 50, comma 1, secondo periodo, del codice stesso (“I
servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei
quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per
cento dell'importo totale del contratto”).
Per tali
contratti la stessa norma impone l’inserimento, nei bandi di
gara, negli avvisi e negli inviti, di “specifiche clausole
sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del
personale impiegato” e pone, quale condizione indefettibile,
l’applicazione dei contratti collettivi di settore: dal che
si apprezza la ratio perseguita dal legislatore italiano,
che è quella di prevenire facili situazioni di sfruttamento
dei lavoratori proprio mediante la necessaria comparazione
qualitativa delle offerte, escludendo la possibilità di
aggiudicare l’appalto sulla base del solo ribasso.
II. – L’impresa aggiudicataria, vistasi annullata l’intera
gara dal Tar, ha dunque proposto appello al Consiglio di
Stato, sottoponendo al giudice di secondo grado il possibile
contrasto della normativa italiana con i principi del
diritto UE, nella parte in cui si rende necessario il
ricorso al (ben più impegnativo) criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa pur laddove l’appalto, anche
se connotato da alta intensità della manodopera, risulti
regolato in modo tale da non far sorgere dubbi sul rispetto
delle garanzie dei lavoratori.
Il collegio accoglie
favorevolmente la prospettazione della parte e solleva la
relativa questione pregiudiziale, argomentando, in sintesi,
quanto segue:
a) l’art. 95, comma 4, lettera b), del d.lgs.
n. 50 del 2016 stabilisce un’apposita eccezione alla
generale facoltà, per l’amministrazione, di prevedere il
criterio del minor prezzo per i servizi e le forniture
aventi caratteristiche standardizzate: l’eccezione (come già
detto) riguarda i servizi ad alta intensità di manodopera
per i quali, come conferma il comma 3, lettera a), non può
prescindersi dalla previsione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa;
b) l’Adunanza plenaria, con
sentenza 21.05.2019, n. 8 (in Foro it., 2019, III, 365,
in Urb. appalti, 2019, 631, con nota di PAGANI, in Guida al
dir., 2019, 26, 82, con nota di PONTE, ed in Riv. corte
conti, 2019, 3, 294, con nota di LONGHI, nonché oggetto
della
News US n. 64 del 29.05.2019, alla quale si
rimanda per i necessari approfondimenti), ha evidenziato
che:
b1) la ratio dell’imposizione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, per gli affidamenti di
servizi ad alta intensità di manodopera, è quella di
perseguire gli obiettivi –preminenti, secondo la
Costituzione e il diritto UE, nel settore dei contratti
pubblici– di tutela del lavoro;
b2) detti obiettivi non
possono essere sacrificati alle esigenze di carattere
tecnico e alle determinazioni discrezionali
dell’amministrazione; di conseguenza, ancor prima che ciò
fosse chiarito dal legislatore con la (di poco) successiva
novella del 2019, l’Adunanza plenaria ha affermato il
principio di diritto secondo cui “gli appalti di servizi ad
alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma
1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti
pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del
miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi
abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del
comma 4, lett. b), del medesimo codice”;
c) proprio in
applicazione di tale principio, nel caso di specie, il Tar per il Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla
seconda classificata, annullando l’intera gara;
d) tuttavia,
nel caso di specie, l’appalto bandito dal Ministero della
difesa presenta le seguenti caratteristiche:
d1) per un
verso, esso riguarda operazioni meramente materiali e di
movimentazione di colli, che sono ripetitive e
standardizzate, per cui non si apprezza alcuna effettiva
necessità di far luogo all’acquisizione di offerte tecniche
differenziate, ciò che comporterebbe un inutile aggravio
della procedura di gara;
d2) per altro verso, il ribasso in
sede di offerta doveva avvenire, da parte degli offerenti,
non su un prezzo base comprensivo dei costi della
manodopera, quanto piuttosto, esclusivamente, sull’aggio, da
calcolarsi già al netto dei costi della manodopera;
d3) il
ribasso, quindi, poteva avvenire solo sull’utile potenziale
di impresa, con invarianza dei costi per la manodopera: ciò
che lascia, dunque, intatte le garanzie connesse alle
necessarie tutele dei lavoratori impiegati nell’appalto;
e) nell’ordinamento UE sono rinvenibili, in proposito, i
seguenti indicatori normativi:
e1) anzitutto, vi è l’art.
67, paragrafo 2, ultimo capoverso, della direttiva
2014/24/UE, a norma del quale “Gli Stati membri possono
prevedere che le amministrazioni aggiudicatrici non possano
usare solo il prezzo o il costo come unico criterio di
aggiudicazione o limitarne l'uso a determinate categorie di
amministrazioni aggiudicatrici o a determinati tipi di
appalto”;
e2) tale previsione –osserva il collegio
rimettente– andrebbe letta conformemente al principio di
proporzionalità, che è un principio generale del diritto
dell’Unione, secondo il quale le norme stabilite dagli Stati
membri, nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni della
direttiva 2014/24/UE, non dovrebbero andare oltre quanto
necessario per raggiungere gli scopi perseguiti da quest’ultima;
e3) l’obiettivo di favorire la migliore qualità delle
prestazioni costituisce, parimenti, un’indicazione
fondamentale del diritto UE, specialmente alla luce di
quanto afferma il Considerando n. 92 della direttiva
menzionata, in base al quale “Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero essere incoraggiate a scegliere
criteri di aggiudicazione che consentano loro di ottenere
lavori, forniture e servizi di alta qualità che rispondano
al meglio alle loro necessità”;
e4) in tale contesto, non
può dimenticarsi la risoluzione del 25.10.2011, sulla
modernizzazione degli appalti pubblici (2011/2048(INI)),
prodromica all’approvazione delle direttive del 2014, con la
quale il Parlamento europeo, pur ritenendo che “il criterio
del prezzo più basso non debba più essere il criterio
determinante per l’aggiudicazione di appalti e che sia
necessario sostituirlo in via generale con quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa in termini di
benefici economici, sociali e ambientali, tenendo conto dei
costi dell’intero ciclo di vita dei beni, servizi o lavori
di cui trattasi”, sottolineava, comunque, “che una simile
soluzione non esclude il criterio del prezzo più basso quale
criterio decisivo in caso di beni o servizi altamente
standardizzati”;
f) nel trasporre dette indicazioni nel
diritto interno, il legislatore italiano ha bensì sancito il
divieto di utilizzare il criterio del prezzo più basso per
la specifica tipologia dei servizi ad alta intensità di
manodopera (art. 95, comma 4, lettera b, del d.lgs. n. 50
del 2016), ma ciò anche nell’ipotesi in cui l’appalto
presenti, al contempo, caratteristiche standardizzate,
laddove cioè non rilevano gli aspetti qualitativi delle
prestazioni; simile previsione, tuttavia, appare eccedere
quanto necessario per conseguire gli obiettivi, prima
ricordati, perseguiti dalla direttiva e si pone, pertanto,
in contrasto con il principio di proporzionalità;
g) tale
ultimo principio, nel caso di specie, assume particolare
pregnanza alla luce:
g1) sia delle previsioni della legge di
gara, che stabilivano come criterio di aggiudicazione quello
del maggior ribasso, da calcolarsi esclusivamente
sull’aggio, con salvezza dei costi per la manodopera;
g2)
sia del fatto che il rispetto delle condizioni economiche e
di sicurezza del lavoro è già stato accertato dalla stazione
appaltante, in sede di subprocedimento di verifica
dell’anomalia delle offerte, nonché dallo stesso Giudice
nazionale (essendo già stati respinti –con parallela
sentenza non definitiva della medesima Sezione– i motivi,
introdotti dal ricorrente fin dal primo grado, e riproposti
con appello incidentale, con i quali era stata revocata in
dubbio la legittimità dell’offerta dell’aggiudicataria
proprio in relazione alla violazione dei minimi salariali);
h) i vantaggi tipici, collegati alla tutela dei lavoratori,
che normalmente derivano dall’impiego del criterio di
aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(oggetto di indiscusso favor nella disciplina UE), appaiono
pertanto ugualmente raggiunti; e ciò, proprio all’esito
dell’accertamento, in sede amministrativa e giurisdizionale,
che non si è avuta alcuna violazione delle tutele che devono
assistere le prestazioni di lavoro;
i) a giudizio del
Collegio, pertanto, appare sproporzionato l’obbligo della
previsione del criterio di aggiudicazione del miglior
rapporto qualità/prezzo, non venendo in considerazione
possibili aspetti di miglioramento tecnico che avrebbero
potuto, in tesi, caratterizzare le offerte aventi ad oggetto
prestazioni standardizzate; in definitiva, la preferenza del
diritto UE per il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa pare non sposarsi, nella fattispecie de qua, con
le ragioni che dovrebbero sostenerlo, con la conseguenza che
l’imposizione di quel criterio appare misura palesemente
eccessiva, sproporzionata ed ingiustificata.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
j)
nell’affermare il principio secondo cui “Gli appalti di
servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt.
50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei
contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio
del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi
abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del
comma 4, lett. b), del medesimo codice”, poi recepito dal
legislatore nazionale con le previsioni del decreto-legge n.
n. 32 del 2019, come convertito), l’Adunanza plenaria, nella
richiamata sentenza n. 8 del 2019, ha tra l’altro osservato
che:
j1) il ricorso a criteri di aggiudicazione degli
appalti pubblici basati non sul solo prezzo, e quindi non
orientati in via esclusiva a fare conseguire
all’amministrazione risparmi di spesa, ma idonei a
selezionare le offerte anche sul piano qualitativo, può
essere funzionale, tra le altre ipotesi, alla tutela delle
condizioni economiche e di sicurezza del lavoro;
j2) il
ricorso a criteri in grado di valorizzare aspetti di
carattere qualitativo è motivato dall’esigenza di assicurare
una competizione non ristretta al solo prezzo, foriera del
rischio di ribassi eccessivi e di una compressione dei costi
per l’impresa aggiudicataria che possa andare a scapito
delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro e dei
costo per la manodopera, in contrasto con gli obiettivi di
coesione sociale propri degli obiettivi di “crescita
inclusiva” enunciati in sede europea;
j3) nella medesima
direzione convergono imperativi di matrice costituzionale,
espressi dal principio secondo cui l’iniziativa economica
non può svolgersi in contrasto “con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana” (art. 41, comma 2, Cost.), finalizzato a
conciliare le esigenze della crescita economica, per la
quale l’intervento pubblico mediante l’affidamento di
contratti d’appalto costituisce un rilevante fattore, con
quelle
di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle
loro condizioni contrattuali;
j4) il comma 3 dell’art. 95
del d.lgs. n. 50 del 2016 si pone ad un punto di convergenza
di valori espressi in sede costituzionale e facoltà
riconosciute a livello europeo ai legislatori nazionali, per
la realizzazione dei quali nel codice dei contratti pubblici
il criterio di aggiudicazione del miglior rapporto
qualità/prezzo è stato elevato a criterio unico ed
inderogabile di aggiudicazione per appalti di servizi in cui
la componente della manodopera abbia rilievo preponderante;
k) sui criteri di aggiudicazione nel codice appalti del
2016, cfr.
Cons. Stato, Ad. plen., 26.04.2018, n. 4 (in
Urbanistica e appalti, 2018, 6, 785, con nota di MEALE,
nonché oggetto della
News US in data 10.05.2018), che ha
statuito, con un importante obiter dictum, quanto segue: “è
noto che il d.lgs. n. 163/2006 (come anche la legislazione
antecedente) si fondava sul principio dell’equiordinazione
dei metodi di aggiudicazione, la cui scelta restava rimessa
alla responsabile discrezionalità della stazione appaltante
(art. 81, commi 1 e 2 del predetto d.lgs. 12.04.2006, n.
163) mentre il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50 [...] ha introdotto all’art. 95
una rilevante novità sistematica (sulla scorta del
considerando 89 della direttiva 24/2014, laddove si afferma
che l’offerta ‘economicamente’ più vantaggiosa è ‘sempre’
quella che assicura il miglior rapporto tra qualità e
prezzo), esprimendo un indiscutibile favor per il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa e prevedendo un
‘sistema di gerarchia’ tra i metodi di aggiudicazione”;
l)
sui criteri di aggiudicazione, in dottrina, per un’ampia
ricostruzione, anche in chiave storica, delle ragioni che
hanno indotto il legislatore del 2016 a considerare
tassativo il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso
(come eccezione, cioè, rispetto alla regola ordinaria della
selezione dell’offerta che presenta il miglior rapporto
qualità-prezzo), cfr.:
l1) R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti
pubblici, Bologna, 2017, 1330 ss., la quale individua tali
ragioni, in particolare, nelle seguenti: “promozione delle
qualità delle prestazioni, tutela dell’ambiente, esigenze
sociali volte a evitare l’impiego di manodopera a basso
costo o sotto costo”;
l2) L. GILI, La nuova offerta
economicamente più vantaggiosa e la discrezionalità
amministrativa a più fasi, in Urbanistica e appalti, 2017,
24 ss., specificamente a commento dell’art. 95 del d.lgs. n.
50 del 2016, anche alla luce delle Linee guida n. 2 del 21.09.2016, dell’ANAC (concernenti proprio il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la connessa
discrezionalità rimessa alla stazione appaltante);
m) le
richiamate Linee guida, in particolare, hanno precisato che:
m1) per prestazioni “a caratteristiche standardizzate”
devono ritenersi quelle che non sono modificabili su
richiesta della stazione appaltante oppure rispondono a
determinate norme nazionali, europee o internazionali;
m2)
sono ad “elevata ripetitività” quelle prestazioni che
soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla
normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo
approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la
continuità della prestazione;
m3) le stesse Linee guida hanno anche precisato che la ratio
delle due ipotesi di aggiudicazione al minor prezzo, di cui
all’art. 95, comma 4, lettere b) e c), del codice del 2016,
sarebbe quella di consentire alla stazione appaltante di
evitare oneri, in termini di tempi e costi, di un confronto
concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo,
quando i benefici derivanti da tale confronto sono nulli o
ridotti (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 05.12.2023 n. 10530 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio-assenso scatta anche se l’attività del privato non è
conforme alla norma.
Pure in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge
e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
Il silenzio-assenso nei confronti della Pubblica amministrazione (anche
nella materia edilizia) si rafforza sempre di più e vale anche nei casi in
cui l’attività del privato non sia conforme alle norme.
Con la
sentenza
30.11.2023 n. 10383 della IV Sez., il Consiglio di Stato
consolida la svolta operata nel 2022 (sentenza n. 5746) per cui anche in
edilizia vale il silenzio-assenso previsto dall'articolo 20 della legge
241/1990 con il solo decorso del termine a disposizione della Pa per
provvedere sull'istanza del privato. E questo, pur in assenza dei requisiti
di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per
ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
In tale ultimo caso la Pa dovrà piuttosto adottare, in autotutela, un
provvedimento di annullamento del silenzio illegittimamente formatosi
osservando, tuttavia, i relativi presupposti previsti dall'articolo 21-nones
della legge 241/1990 e cioè il termine massimo di dodici mesi per provvedere
e soprattutto l'interesse pubblico alla rimozione di quello che è ormai un
atto formatosi. Risulterebbe invece illegittimo l'atto con cui la Pa,
tardivamente, ritenga l'istanza del privato priva dei requisiti di validità
previsti dalla normativa di settore.
In altre parole, perché si formi il silenzio-assenso invocato, per il
privato sarà sufficiente soltanto il decorso del termine assegnato all'ente
dalla normativa di riferimento per determinarsi in relazione al tipo di
istanza del privato, anche in presenza di una domanda non conforme a legge.
Sarà comunque necessario che l'istanza sia aderente al modello normativo
astratto prefigurato dal modello normativo astratto prefigurato dal
legislatore. Questo, in nome della semplificazione amministrativa e dello
snellimento burocratico, ritenuti una delle cause di mancanza di certezza
dei tempi per l'avvio di un'attività del privato, specie di quelle
produttive. Ma anche nell'ottica del principio di leale collaborazione,
legittimo affidamento e buona fede cui sono informate le relazioni tra
cittadini, operatori economici e Pubblica amministrazione ai sensi
dell'articolo 1, comma 2-bis, della legge 241/1990, come modificato dal
decreto legge Semplificazioni 76/2020.
Insomma, il silenzio-assenso è un principio generale posto a tutela della
celerità dell'azione amministrativa e della semplificazione dei rapporti con
i cittadini, principio che risponde a quello di buon andamento previsto
dall'articolo 97 della Costituzione, e la cui applicazione non può essere
subordinata alla preventiva verifica, da parte della Pa, della ricorrenza di
tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo
abilitativo richiesto.
Non si tratta quindi di valutare se la domanda, in astratto, sia assentibile
in quanto in possesso di tutti i requisiti ma piuttosto se la domanda
possieda quel minimum di elementi essenziali per il suo esame e non
rappresenti erroneamente i fatti. In tali condizioni è l'Amministrazione che
deve concludere il procedimento nei tempi prefissati dalla legge.
Già in precedenza, i giudici di Palazzo Spada avevano motivato la nuova tesi
sulla base di una serie di indici normativi e cioè: l'espressa previsione di
cui all'articolo 21-nonies, comma 1 della legge 241/1990 dell'annullabilità
d'ufficio anche nel caso in cui il «provvedimento si sia formato ai sensi
dell'art. 20», che presuppone evidentemente che la violazione di legge
non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i
canoni generali) in termini di illegittimità dell'atto; l'articolo 2, comma
8-bis, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dal decreto-legge n. 76 del
2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), nella parte in cui afferma
che «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai
pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate
dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera
c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, [] sono inefficaci, fermo restando
quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le
condizioni», conferma che, decorso il termine, all'Amministrazione
residua soltanto il potere di autotutela; l'articolo 20, comma 2-bis,
prevedendo che «Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale
a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli
effetti comunque intervenuti del silenzio-assenso, l'amministrazione è
tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica,
un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto
dell'intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo»,
stabilisce, al fine di ovviare alle perduranti incertezze circa il regime di
formazione del silenzio-assenso, che il privato ha diritto ad
un'attestazione che deve dare unicamente conto dell'inutile decorso dei
termini del procedimento (in assenza di richieste di integrazione
documentale o istruttorie rimaste inevase e di provvedimenti di diniego
tempestivamente intervenuti); l'abrogazione dell'articolo 21, comma 2, della
legge n. 241 del 1990 che assoggettava a sanzione coloro che avessero dato
corso all'attività secondo il modulo del silenzio-assenso, «in mancanza
dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in area tutelata, sì al silenzio-assenso se
c’è l’ok paesaggistico.
Il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tar Toscana censurando un
comune che aveva preteso l’attivazione della conferenza di servizi.
Il proprietario di un edificio nel comune di Monte Argentario ha chiesto il
rilascio del permesso di costruire per un intervento in variante a un
precedente intervento già assentito. Insieme alla richiesta il proprietario
ha presentato anche la relativa autorizzazione paesaggistica, ottenuta dal
Comune stesso. Decorso il termine per il silenzio-assenso, il proprietario
ha chiesto il rilascio della relativa attestazione (ex articolo 20 del Dpr
380).
A
quel punto il Comune ha comunicato all'interessato il diniego del permesso
di costruire, sostenendo che «in presenza di beni insistenti in area
vincolata il silenzio-assenso non può formarsi, nemmeno nel caso in cui le
autorizzazioni e i nulla osta necessari siano stati già acquisiti» e che
invece
si sarebbe dovuta attivare una conferenza di servizi. Da qui il ricorso al
Tar
da parte dell'interessato.
Il primo giudice ha accolto il ricorso e ha annullato
gli atti del Comune con la pronuncia n. 79/2023. I giudici della III
Sezione
del Tar Toscana hanno osservato che effettivamente il comma 8
dell'articolo 20 del Dpr 380 «prevede la formazione del silenzio-assenso
sulle
domande di rilascio del permesso di costruire, fatti salvi i casi in cui,
per la
presenza di vincoli, la pratica edilizia debba essere corredata da
autorizzazioni e nulla osta, per l'acquisizione dei
quali si prevede l'attivazione di una conferenza di servizi ex art. 14 della
l. n. 241/1990».
Tuttavia, i giudici rilevano
anche che «nel caso in esame la domanda di permesso di costruire in variante
presentata dal ricorrente è stata
corredata da tutti i documenti prescritti dalla legge». Lo stesso
richiedente, infatti, aveva ottenuto dal Comune
l'autorizzazione paesaggistica «con la quale si attesta la compatibilità
paesaggistica e ambientale dell'intervento
con il vincolo operante sull'area».
«Non occorreva quindi acquisire alcun
ulteriore atto di assenso, da parte di altre
amministrazioni», conclude il Tar. Peraltro, aggiungono i giudici,
«l'indizione di una conferenza di servizi, in tale
contesto, non solo non avrebbe avuto alcuna utilità, ma avrebbe determinato
un ingiustificato aggravamento del
procedimento, in evidente contrasto con la finalità di semplificazione
propria degli istituti e degli strumenti previsti
dal legislatore di cui si è dato conto».
La sentenza del Tar Toscana è stata confermata anche il Consiglio di Stato
-Sez. IV-
che, con la
sentenza 21.11.2023 n. 9969
ha respinto l'appello del Comune di Monte Argentario.
A fronte del previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, dicono i
giudici di Palazzo Spada «il diniego comunale
di attestazione sull'assunto della assoluta inconfigurabilità del
silenzio-assenso per il solo fatto della pertinenza
dell'intervento ad area soggetta a vincolo rappresenta una errata
applicazione del comma 8 dell'articolo 20 del Dpr
380 e una illegittima limitazione dell'operatività dell'istituto del
silenzio-assenso, che producono l'effetto abnorme di
frustrare le finalità di semplificazione e di accelerazione dell'agire
amministrativo alla base della stessa disposizione normativa citata, nonché
le
esigenze di certezza delle situazioni giuridiche all'origine delle più
recenti modifiche apportate ad essa ed alla legge
n. 241 del 1990».
«Non può, peraltro, diversamente opinarsi -concludono i
giudici- invocando sia la disciplina
speciale scandita nella legge n. 47 del 1985 in materia di condono sia la
dequotazione della funzione della
conferenza di servizi richiamata dall'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
cui modulo procedimentale trova la sua
ragion d'essere nella concreta necessità di acquisire assensi e nulla osta
di altri enti affidatari di interessi pubblici
coinvolti nell'azione amministrativa».
Particolarmente severo il giudizio
sull'operato del Comune. Quest'ultimo,
rilevano i giudici, «ha basato il diniego di attestazione esclusivamente
sull'inapplicabilità del silenzio-assenso in
presenza di vincoli, senza fare alcun cenno ad altri possibili ostacoli alla
realizzazione dell'intervento di cui all'istanza
di permesso in variante, come la contrarietà al regolamento comunale, mentre
le eventuali ragioni di contrasto con
la disciplina urbanistico-edilizia avrebbero dovuto essere da esso
attentamente valutate entro il termine previsto
dalla legge per la conclusione del procedimento, rappresentando ora, per
come esposte, in mancanza di qualsiasi
esercizio del potere di autotutela contro il provvedimento formatosi per
silentium, un'inammissibile motivazione postuma» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.11.2023). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Concorsi, diritto d’accesso alle videoregistrazioni degli orali
in meeting room.
In quanto documento informatico detenuto da una Pa e concernente attività
pubblicistica dalla stessa posta in essere.
La nozione di documento amministrativo ai sensi della storica disciplina
sull’accesso agli atti ricomprende anche le riproduzioni audio o audiovideo
della prova orale di un pubblico concorso nel caso in cui siano state
effettuate.
A ciò conseguendo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 17.11.2023 n. 9896 che essendo la prova orale
riconducibile al procedimento selettivo, la sua riproduzione deve ritenersi
accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una Pa e
concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere. E senza che
possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di
documenti non aventi a oggetto un tradizionale atto o incartamento formato
dalla Pa.
Per il massimo giudice amministrativo la normativa è infatti assolutamente
esplicita nel riferirsi a documentazione che sia anche solo detenuta e non
necessariamente compilata dalla Pa.
Peraltro, a ben vedere, le prove concorsuali orali sono certamente atti del
procedimento selettivo al pari delle prove scritte; pertanto, così come è
consentito l'accesso a queste ultime, allo stesso modo non si vede perché
non debbano esserlo anche a quelle orali, qualora siano state
videoregistrate o comunque memorizzate.
Il ricorrente in qualità di lavoratore socialmente utile della cosiddetta
platea storica aveva partecipato alle prove selettive da bando. Nella
vicenda il disciplinare della procedura concorsuale riservata ai Lsu aveva
attribuito a un istituto in controllo pubblico il compito di assistere le
amministrazioni interessate nello svolgimento delle procedure concorsuali;
mettendo a disposizione delle Commissioni esaminatrici il portale delle
candidature e apposite meeting room (stanze virtuali) per lo svolgimento
della prova orale.
Fornendo, oltre all'assistenza per la prova, anche un manuale d'uso della
procedura telematica secondo quanto previsto dal formulario tecnico della
procedura selettiva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Secondo il Consiglio di Stato anche con riferimento alle riproduzioni audio
e video delle prove orali, sussiste l'interesse concreto del candidato di
accedervi per specifiche esigenze difensive; dovendo peraltro riconoscersi
nella maggioranza dei casi l'inesistenza di motivi ostativi all'ostensione.
Su queste basi il giudice amministrativo ha pertanto consentito al
ricorrente di accedere -a sue spese- a un campione significativo delle
riproduzioni audio e audiovideo delle prove orali dei candidati collocati
utilmente in graduatoria; che tuttavia egli stesso dovrà indicare, fino a un
numero massimo di dieci prove d'esame, alle Amministrazioni intimate e
detenenti la documentazione.
A giudizio del Collegio di palazzo Spada la speciale documentazione in
argomento non ottenuta dall'interessato con le istanze presentate alla Pa
non può essere sottratta all'accesso richiesto, sussistendo l'evidente
collegamento tra l'interesse alla conoscenza del candidato che richiede la
visione e la documentazione oggetto della relativa istanza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.01.2024). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Esposito,
Diritto di panorama, godere di una bella vista da casa è un
diritto inviolabile: ecco come puoi difenderlo e in quali
casi.
Il diritto di panorama consente al
proprietario dell’immobile di godere della vista panoramica
dalla propria abitazione. Vediamo come funziona e quali
differenze esistono rispetto al diritto di veduta.
È noto che le abitazioni che hanno una veduta panoramica
sono generalmente più apprezzate, tanto da avere un valore
maggiore anche sul mercato immobiliare.
In quest’ottica, il c.d. “diritto di panorama” non
solo esiste, ma può essere tutelato dal proprietario
dell’abitazione ogniqualvolta –soprattutto in contesti
urbani– subisca delle limitazioni derivanti, ad esempio,
dalla costruzione di edifici vicini o dalla presenza di
alberature.
Ma andiamo con ordine.
Il nostro Codice Civile, in realtà, non riconosce
espressamente il diritto di panorama: si tratta, infatti, di
una figura di elaborazione giurisprudenziale.
L’origine del diritto di panorama può essere ricondotta,
infatti, ad una interpretazione “estensiva” dell’art.
907 c.c. che regola il diritto di veduta, ossia il
diritto del proprietario di un fondo (termine, questo, che
ricomprende anche le abitazioni) di affacciarsi su quello
del vicino senza incontrare ostacoli prima di una
determinata distanza (c.d. distanza legale).
Viceversa, il diritto di panorama è decisamente più ampio: è
il diritto di guardare verso l’orizzonte senza incontrare
ostacolo alcuno in modo da avere –appunto– pieno godimento
del panorama.
Il diritto di panorama, al pari del diritto di veduta, si
configura come una servitù negativa.
In generale, l’art.
1027 c.c. definisce la servitù come il peso o la
limitazione imposta ad un fondo, detto servente, per
l’utilità di un altro fondo, detto dominante, che appartiene
ad un’altra persona.
In particolare, poi, la “servitù negativa” derivante
dal diritto di panorama (e di veduta) implica che il
proprietario del fondo dominante ha il potere di vietare al
proprietario del fondo servente la realizzazione di opere
permanenti che possano pregiudicare la particolare visuale e
attrattiva dell’immobile.
Come sopra accennato, il diritto di panorama è di creazione
giurisprudenziale. È necessario, quindi, prendere le mosse
dalle sentenze che lo hanno riconosciuto al fine di
individuare i requisiti necessari per la sua esistenza.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile con la recente
ordinanza 22.06.2023 n. 17922,
ha ribadito che il diritto di panorama, inteso come servitù
negativa, può essere acquistato
(i) per contratto,
(ii) per destinazione del padre di famiglia e
(iii) per usucapione,
necessitando ai fini dell’accertamento della sua
costituzione “non solo della destinazione conferita
dall’originario unico proprietario o dell’esercizio
ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma
anche della dimostrazione di opere visibili e permanenti
ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta”.
Quindi, come ci si può tutelare in presenza di costruzioni
e/o alberature che ledano il diritto di panorama?
Innanzitutto il titolare del diritto di panorama
(proprietario del fondo dominante) potrà richiedere al
proprietario del fondo servente di rispettare il proprio
diritto, invitandolo a far cessare la turbativa (ad esempio,
potando o spostando gli alberi che ostacolano il panorama).
In assenza di uno spontaneo riscontro, tuttavia, l’unica
strada da intraprendere rimane quella giudiziale.
In tal senso, l’art.
1079 c.c. prevede che “il titolare della servitù può
farne riconoscere in giudizio l'esistenza contro chi ne
contesta l'esercizio e può far cessare gli eventuali
impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione
delle cose in pristino, oltre al risarcimento dei danni”.
L’onere probatorio, quindi, è posto a carico del
proprietario del fondo dominante che dovrà dimostrare sia
l’esistenza del diritto di panorama, sia l’esistenza sul
fondo servente di opere permanenti e visibili ulteriori che
pregiudicano il godimento della vista panoramica.
...
Articoli correlati
Art. 907 Codice Civile - Distanza delle costruzioni
dalle vedute
Art. 1027 Codice Civile - Contenuto del diritto
Art. 1079 Codice Civile - Accertamento della servitù e
altri provvedimenti di tutela (03.02.2024 -
tratto da e link a www.brocardi.it).
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ORDINANZA
3.– Con il secondo motivo la ricorrente si duole,
ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della
violazione o falsa applicazione degli artt. 1058 e 1061 c.c.
nonché dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale
ritenuto integrata la lesione di un non meglio specificato
diritto alla vista del panorama –diritto di servitù ben
distinto da quello di veduta–, pur essendo mancato, in
entrambi i gradi di giudizio, qualsiasi accertamento in
ordine ai fatti costitutivi di tale presunta servitù, sia
quanto alla sua costituzione per contratto, sia quanto alla
sua costituzione per usucapione o per destinazione del padre
di famiglia.
Obietta, ancora, l’istante che, a monte, non sarebbero stati
mai nemmeno allegati i fatti costitutivi di tale servitù di
panorama a cura della Cu., non esistendo alcun titolo, né
negoziale né di altro tipo, da cui si potesse ricavare
l’esistenza di una simile servitù.
D’altronde, secondo la ricorrente, l’esistenza della servitù
di panorama non si sarebbe potuta desumere dalla particolare
amenità del luogo in cui si trovava la proprietà Cu., ovvero
Positano, una delle più belle e caratteristiche località
della costiera amalfitana.
Osserva, in ultimo, l’istante che, in ordine al ben distinto
diritto di veduta, sarebbe già passata in giudicato
l’affermazione circa l’inesistenza della violazione di cui
all’art. 907 c.c.
3.1.– La doglianza è fondata.
Ora, la panoramicità del luogo consiste in una situazione di
fatto derivante dalla bellezza dell’ambiente e dalla visuale
che si gode da un certo posto, che può trovare tutela nella
servitù altius non tollendi, non anche nella servitù
di veduta, che garantisce il diritto affatto diverso di
guardare e di affacciarsi sul fondo vicino (Cass. Sez. 2,
Ordinanza 14.05.2019 n. 12793;
Sez. 1,
Sentenza 26.05.2017 n. 13368;
Sez. 2, Sentenza n. 8518 del 31/03/2017; Sez. 2, Sentenza n.
2973 del 27/02/2012; Sez. 2, Sentenza n. 8572 del
12/04/2006).
La servitù di veduta panoramica è configurata, pertanto,
quale servitù volta ad assicurare la particolare amenità del
fondo dominante per la visuale di cui esso gode, con
impedimento della costruzione di opere in assoluto, o oltre
determinate soglie, attraverso parte o tutto il fondo
servente, in ciò differenziandosi dalla servitù di veduta,
che invece è compatibile con la costruzione di opere a
distanza legale.
Il diritto di veduta panoramica si risolve, dunque, –secondo
la giurisprudenza– in una servitù, in ragione dei casi,
non aedificandi o altius non tollendi (Cass. Sez.
2, Sentenza n. 1206 del 13/02/1999; Sez. 2, Sentenza n.
10250 del 20/10/1997; Sez. 2, Sentenza n. 6683 del
13/06/1995).
Nondimeno, il diritto di veduta consistente nella fruizione
di un piacevole panorama –che si pretende, nella
fattispecie, leso dalla collocazione di una pensilina in
plastica, posta sul terzo livello del fabbricato, a
copertura di un sottostante balcone, con relativa turbativa
del diritto di fruire della vista del panorama di Positano–
esige che di esso sia previamente accertata l’esistenza.
Ebbene, la veduta panoramica può essere acquistata, oltre
che in via negoziale (a titolo derivativo), anche per
destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a
titolo originario), necessitando, tuttavia, tali modi di
costituzione non solo, a seconda dei casi, della
destinazione conferita dall’originario unico proprietario o
dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti
alla servitù, ma anche di opere visibili e permanenti,
ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta.
Nella fattispecie, di tali modi di acquisto la sentenza
d’appello non dà atto, sicché essa deve essere cassata.
E ciò perché l’esistenza del diritto di veduta del panorama
non può essere riconosciuta, indicandone la fonte nella mera
preesistenza della visuale rispetto all’opera contestata.
Ove bastasse, ai fini di ritenere validamente costituita la
servitù di veduta panoramica, la mera esistenza in fatto di
detta veduta, prima che l’opera contestata ne compromettesse
l’esercizio, sarebbe leso il principio della tipicità dei
modi di acquisto dei diritti reali.
Dovrà essere il Giudice del rinvio a verificare se sia stato
o meno dimostrata in atti la legittima costituzione di tale
diritto di veduta panoramica. |
VARI: Il
figlio non va mantenuto oltre i 34 anni anche se disoccupato.
La corte fissa la «dead line» oltre la quale per nessun motivo il giovane ha
diritto all'assegno da parte del genitore: non dovrà mantenerlo, infatti,
oltre i 34 anni, e ciò anche se è disoccupato.
Con l'ordinanza
10.01.2023 n. 358, i
giudici della Corte di Cassazione, Sez. I civile, hanno accolto il ricorso di un padre che si opponeva all'obbligo di
mantenere la figlia ultraquarantenne.
Ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli
maggiorenni non indipendenti economicamente, il giudice di merito è tenuto a
valutare, con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto
all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del
suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale
obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo, poiché
il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un
progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue
capacità, inclinazioni e aspirazioni
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2024).
---------------
MASSIMA
È principio di diritto quello secondo cui, in tema di filiazione, la
maggiore età, tanto più quando è matura, implichi l'insussistenza del
diritto al mantenimento.
La capacità di mantenersi e l'attitudine al lavoro sussistono sempre, in
sostanza, dopo una certa età (34 anni), che è quella tipica della
conclusione media di un percorso di studio anche lungo, purché proficuamente
seguito, e con la tolleranza di un ragionevole tasso di tempo ancora per la
ricerca di un lavoro.
Sicché, è onere del figlio maggiorenne ormai divenuto adulto provare non
solo la mancanza di indipendenza economica che è la pre-condizione del
diritto preteso, ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la
ricerca di un lavoro
(tratta da www.ordineavvocatinapoli.it) |
URBANISTICA:
Osserva la Corte costituzionale come la
pianificazione sia diretta, “al di là di letture
minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e
armonico del territorio, nonché a realizzare finalità
economico-sociali della comunità locale, in attuazione di
valori costituzionalmente tutelati”.
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la
pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed
armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali
vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela
di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti
climatici.
Difatti, secondo la più recente evoluzione
giurisprudenziale, all’interno della pianificazione
urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
---------------
2.2. Col secondo motivo, rubricato (“eccesso di
potere per violazione, falsa, mancata e/o sviata
applicazione dei principi sulla riduzione del consumo di
suolo libero di cui agli artt. 1 e 2 della l.r. 28.11.2014,
n. 31 – contraddittorietà tra atti amministrativi -
travisamento dei fatti – difetto assoluto di istruttoria –
illogicità - difetto ed erroneità della motivazione”),
si deduce il travisamento dei fatti e difetto di istruttoria
perché il Comune non avrebbe considerato la reale situazione
effettiva delle aree, caratterizzate dalla presenza di
inerti e dalla necessità di effettuare opere di bonifica.
Inoltre, il Comune avrebbe fatto erronea applicazione della
L.R. n. 31/2004 e non avrebbe considerato che il consumo di
suolo si determinerebbe solo nel caso di trasformazione per
la prima volta di una superficie agricola, mentre l’area dei
ricorrenti –in quanto compromessa– avrebbe dovuto essere
considerata come “suolo già consumato”.
...
4. Parimenti infondato è il secondo motivo, con cui
si deduce il travisamento dei fatti poiché, essendo l’area
occupata da inerti e necessitante una bonifica, il Comune
non avrebbe potuto attribuire una destinazione a verde
all’area e avrebbe anzi dovuto considerarla come “suolo
già consumato” ai sensi della L.R. n. 31/2004.
4.1. Come il TAR ha già avuto modo di osservare in relazione
al medesimo Pgt del Comune di Milano (cfr. sentenza Sez. II,
10.01.2022, n. 45), “la Relazione al D.d.P. del P.G.T.
offre esaustive spiegazioni della scelta di politica
urbanistica intrapresa sul tema del contenimento del consumo
del suolo e sull’incremento delle aree verdi.
In particolare, il Piano ‘non genera nuove volumetrie
rispetto al PGT 2012, ma tutela 1,7 milioni di m² dalla
possibile urbanizzazione attraverso il ridimensionamento
delle previsioni insediative e il vincolo a destinazione
agricola di 3 milioni di m² (metà delle quali sottratte a
nuova edificazione), riducendo così del 4% il consumo di
suolo’. L’obiettivo dell’Amministrazione è quello di
‘costruire e rafforzare reti e relazioni ambientali che,
mediante politiche di risparmio di suolo e di paziente
riconquista di quello già sfruttato, si insinuano tra il
costruito attraverso interventi puntuali di riconnessione di
spazi pubblici e privati, di riforestazione, di
‘rigenerazione ambientale’ di luoghi degradati e
frammentati’ […].
Le esigenze di tutela ambientale non involgono solo il tema
del consumo del suolo ma assumono anche una prospettiva più
ampia mirando ‘alla riduzione e minimizzazione delle
emissioni di carbonio, [al] miglioramento del drenaggio e
microclima urbano, [alla] realizzazione di infrastrutture
verdi con l’obiettivo di ridurre l’immissione di acque
meteoriche nel sistema fognario, la mitigazione delle isole
di calore e l’innalzamento degli standard abitativi agendo
sull’aumento del verde urbano’ […]. L’utilizzo della
pianificazione urbanistica per il raggiungimento di tali
obiettivi non è, certo, un fuori d’opera”.
4.2. Al contrario, osserva la Corte costituzionale come la
pianificazione sia diretta, “al di là di letture
minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata
della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo
complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare
finalità economico-sociali della comunità locale, in
attuazione di valori costituzionalmente tutelati (da ultimo,
Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 09.05.2018, n.
2780, 22.02.2017, n. 821 e 10.05.2012, n. 2710)” (Corte
Costituzionale, sentenza 16.07.2019, n. 179).
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la
pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed
armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali
vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela
di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti
climatici, come esposto, del resto, dalla giurisprudenza
della Sezione (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia
– sede di Milano, Sez. II, 29.5.2020, n. 960; id.,
14.11.2020, n. 2491).
Difatti, secondo la più recente evoluzione
giurisprudenziale, all’interno della pianificazione
urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656; TAR per la
Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 14.02.2020, n. 309).
4.3. In quest’ottica, la censura non deve essere accolta, in
quanto la pianificazione si pone in linea con strategie più
ampie di tutela dei valori richiamati. Infatti, lo strumento
approvato prevede “la riduzione della superficie
urbanizzabile da circa 3,5 mln di m² a circa 1,8 mln di m²,
con un risparmio di suolo pari a circa 1,7 mln di m²”.
Ciò comporta “una consistente riduzione dell’indice di
consumo di suolo, che scende al 70%, quattro punti
percentuali in meno rispetto alle previsioni del PGT 2012”.
Tale riduzione scaturisce anche “dall’eliminazione degli ATU
e dal sensibile ridimensionamento delle previsioni legate ai
PA Obbligatori”.
Le linee generali del piano trovano, quindi, specifica
declinazione ed attuazione con riferimento al comparto in
esame, ove la presenza della “pertinenza indiretta” è
funzionale alla realizzazione dell’area ecologica proprio
perché volta all’acquisizione di un’area inquinata e alla
sua trasformazione in area a verde fruibile, congiungendo in
continuità l’area verde di collegamento tra il Parco Nord e
i Giardini di Via Pedroni e il Parco di Villa Litta (in cui
l’area di proprietà dei ricorrenti è rappresenta quale verde
di nuova previsione nella parte inferiore del NIL Affori).
A fronte di ciò, la riconversione di aree già urbanizzate in
suolo libero non può, quindi, considerarsi estranea alle
ragioni su cui riposano le previsioni contenute nella L.r.
n. 31/2014 in quanto le esigenze ambientali non sono
preservate solo mediante il riuso del patrimonio esistente
ma anche (se non a fortiori) mediante la restituzione
a superficie libera di una superficie già consumata (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.09.2022 n. 2053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi,
la prescrizione del reato «abbatte» l'ordine di demolizione.
L'estinzione del reato comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca
dell'ordine di demolizione. Sono definibili abusi edilizi gli «interventi
eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali».
Definizione
Più precisamente, l'articolo 31 del Dpr 380 del 2001 definisce gli abusi
edilizi quali gli: «interventi eseguiti in totale difformità dal permesso
di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o
di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione
di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire
un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile».
Sospensione
L'azione penale relativa alle violazioni edilizie, va detto, che rimane
sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di
sanatoria, eventualmente, intrapresi. Il rilascio in sanatoria del permesso
di costruire, infatti, estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti.
Azione penale
Per le opere abusive di cui trattasi, ad ogni buon conto, è previsto che il
giudice penale, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo
44 del Dpr 380/2001, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti eseguita.
La sentenza
Ora, la Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la
sentenza
12.03.2021 n. 9915, ha ribadito il principio per cui l'estinzione per
prescrizione del reato di costruzione abusiva dichiarata dal giudice
dell'appello comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca
dell'ordine di demolizione impartito con la sentenza di primo grado.
Il meccanismo
Tale meccanismo si applica alle sole sentenze di condanna per il reato di
cui all'articolo 44 del Testo unico edilizia, come disposto dall'articolo
31, comma 9, del citato testo normativo (in punto si veda, Corte di
Cassazione 8409/2007 del 30.11.2006).
Conclusione
Nel caso trattato -in effetti, per come è dato leggere- la sentenza
impugnata aveva omesso di disporre, a fronte della intervenuta estinzione
del reato di cui all'articolo 44 citato, la revoca dell'ordine di
demolizione e la restituzione in pristino dello stato dei luoghi.
Pe cui, a
fronte di quanto sopra, il giudice di legittimità ha, in punto, annullato
senza rinvio limitatamente alla mancata revoca la già menzionata misura
demolitoria e disposto di conseguenza
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 15.03.2021). |
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