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In questa home-page sono presenti oltre all'ultimo aggiornamento, che inizia appena qui sotto, anche i seguenti aggiornamenti pregressi:
 
AGGIORNAMENTO ALL'11.04.2024 AGGIORNAMENTO AL 31.03.2024 (ore 23,59) AGGIORNAMENTO AL 27.03.2024
AGGIORNAMENTO AL 23.03.2024 AGGIORNAMENTO AL 28.02.2024 AGGIORNAMENTO AL 19.02.2024

AGGIORNAMENTO AL 15.04.2024

Sulla SANATORIA PAESAGGISTICA (recte, "accertamento della compatibilità paesaggistica" ex art. 167 dlgs 42/2004):
il Mi.c. (Ministero della cultura) aggiorna la notoria (e datata) circolare 26.06.2009 n. 33
.

   La nozione di "volumi" rilevanti ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.lgs. 42/2004 (quindi, NON sanabili) comprende qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno.

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio - Definizione del termine ‘volumi’. Parere dell’Ufficio Legislativo prot. n. 19133 del 19/07/2023 (Mic, Segretariato Generale, circolare 04.09.2023 n. 38).
---------------
CIRCOLARE
   Con nota prot. n. 38406/2022 la Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio trasmetteva all’Ufficio legislativo un quesito della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio dell’Umbria (prot. n. 19276 del 29/09/2022) con riferimento, per l'oggetto, alla Circolare 26.06.2009 n. 33 di questo Segretariato Generale.
   Nel quesito la Soprintendenza evidenziava che, secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale, il divieto di creazione di volumi, di cui all’art. 167, c. 4, del D.lgs. 42/2004, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione che crei volume, senza alcuna distinzione tra volume tecnico ed altro tipo di volume, interrato o meno.
   La Direzione generale segnalava che detta interpretazione differiva dalla definizione fornita nella citata Circolare n. 33/2009 di questo Segretariato Generale, acquisito l'avviso favorevole dell’Ufficio legislativo, nella quale si escludevano espressamente i volumi tecnici dal termine di volume ex art. 167, comma 4, lett. a), del D.lgs. 42/2004.
   L’Ufficio Legislativo ha quindi reso il proprio parere con nota 19.07.2023 n. 19133 di prot. (AII.1), nel quale, dopo aver ribadito che il procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167, comma 4 e 5, ha carattere eccezionale, e dunque ammissibile solo in previsti e limitati casi minori, evidenzia che nel D.lgs. 42/2004 non si fornisce una definizione di ‘superficie utile’ e di ‘volume’, reperibile, invece, nella normativa in materia di edilizia.
   L'Ufficio legislativo ha poi illustrato i due orientamenti giurisprudenziali sulla definizione di ‘volumi’ ai sensi dell’art. 167, comma 4, del D.lgs. 42/2004.
   Secondo un primo orientamento in sede di accertamento di conformità paesaggistica, di cui all’art. 167, comma 4, del D.lgs. 42/2004, è illegittimo il diniego di nulla osta basato sull'esistenza di superficie e volumi utili senza una valutazione in concreto della natura tecnica degli impianti, destinati ad occupare i vani interessati.
   Secondo un secondo orientamento, decisamente prevalente, non assume rilievo la distinzione tra volumi tecnici e volumi di altro tipo e, a tal fine, l'Ufficio legislativo richiama la
sentenza 21.04.2022 n. 3026
del Consiglio di Stato, già citata nella suddetta nota dalla Direzione generale, per cui il divieto di creazione di volumi, di cui all’art. 167, c. 4, del D.lgs. 42/2004, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione che crei volume, senza alcuna distinzione tra volume tecnico ed altro tipo di volume, interrato o meno.
  
L'Ufficio Legislativo ha quindi concluso ritenendo il ricostruito orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa maggiormente compatibile con le esigenze di tutela del paesaggio, per cui la nozione di volumi rilevanti ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.lgs. 42/2004 comprende qualsiasi nuova volumetria, inclusi i volumi tecnici, suggerendo quindi a questo Segretariato Generale di aggiornare l'interpretazione fornita con la circolare n. 33/2009.
   L'Ufficio legislativo ha, inoltre, richiamato il D.P.R. 139/2010 ed il successivo D.P.R. 31/2017 “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”, con cui il Legislatore ha escluso l'autorizzazione paesaggistica per determinati interventi (Allegato A), mentre per altri di lieve entità ha previsto un procedimento autorizzatorio semplificato.
   Tra questi il D.P.R. 31/2017 ha previsto al punto A.31 dell’allegato le “opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime”.
Dette opere, osserva l'Ufficio legislativo, sono quindi escluse dall'ambito applicativo dell’art. 167 del D.Lgs. 42/2004, in quanto opere inidonee ad incidere negativamente sui valori del paesaggio, a prescindere da qualsiasi qualificazione o destinazione d'uso del bene realizzato.
   Ciò premesso, sentita la Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio e al fine di garantire un’applicazione uniforme della norma in questione,
si invitano i competenti Uffici di questo Ministero a volersi attenere all’interpretazione fornita dall’Ufficio Legislativo con parere 19.07.2023 n. 19133 di prot., che, per pronto riferimento, si allega alla presente.

   Ora, vogliamo ben sperare che tutte (nessuna esclusa) le Soprintendenze d'Italia operino all'unisono, nell'esprimere il proprio parere vincolante, conformandosi alla recentissima interpretazione ministeriale ut supra sicché, almeno in questo caso, non ci si nasconda dietro al solito alibi "non v'è certezza del diritto" nell'espletamento dei propri incombenti istruttori e, conseguentemente, non sortiscano più pareri tanto "variegatamente discordanti" quanto "inaccettabili".

15.04.2023 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica. DPR n. 380/2001, art. 3, comma 1, lett. d) (Mi.c., Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio - Servizio V, circolare 28.07.2022 n. 39).
---------------
La definizione di “ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R., n. 380 del 2001, è stata sottoposta recentemente a modifiche normative, dapprima dall’art. 28, comma 5-bis, lett. a), del decreto legge 01.03.2022, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 27.04.2022, n. 34 e, da ultimo, dall’art. 14, comma 1-ter, lett. a), del decreto legge 17.05.2022, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2022, n. 91.
Rispetto alle Circolari n. 38, 44 e 47 del 2021 si rende quindi necessario il seguente aggiornamento. (...continua)
.

EDILIZIA PRIVATACentro Italia, niente autorizzazione paesaggistica nei cantieri privati della ricostruzione. Lo dispone una nota del ministero della Cultura inviata alle cinque Sovrintendenze interessate.
Non sarà più necessaria l'autorizzazione paesaggistica preventiva della Sovrintendenza per la ricostruzione degli edifici danneggiati dai terremoti che hanno colpito in Centro Italia nel 2016-2017, anche che nel caso di integrale demolizione e ricostruzione, a patto ovviamente che siano però rispettata la conformità alle regole ad hoc sulla ricostruzione post sisma, le quali indicano un margine di tolleranza a volumetrie, superfici e prospetti.

A dare notizia di questa rilevante novità è la stessa struttura commissariale.
Il cambio di rotta da parte del ministero della Cultura, guidato da Dario Franceschini, è stata messo nero su bianco nella  nota 07.03.2022 n. 8510 di prot. inviata al commissario di governo e alle cinque Sovrintendenze interessate (Regione Umbria, Roma metropolitana e Rieti, Ancona e Pesaro e Urbino, Ascoli Piceno e Fermo e Macerata, Aquila e Teramo).
La non necessità dell'ok della Soprintendenza era stata argomentata lo scorso 21 febbraio da un parere (nota 22.02.2022) dell'Ufficio giuridico della stessa presidenza del Consiglio - struttura commissariale, firmata da Pierluigi Mantini e dal Consigliere Paolo Carpentieri.
«Nella nota -sottolinea la struttura per la ricostruzione affidata al commissario Giovanni Legnini- si conferma la bontà delle norme di semplificazione introdotte con le Ordinanze commissariali, poi suggellate nella normativa speciale sul sisma, e si accolgono in pieno le posizioni dell'Ufficio Giuridico del Commissario, esposte in un parere emesso pochi giorni fa
».
La circolare del ministero della Cultura del 7 marzo inviata alle Sovrintendenze
Più precisamente, nel testo inviato alle Sovrintendenze, il ministero della Cultura «conferma che "non necessitano di autorizzazione paesaggistica gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con totale demolizione e ricostruzione, conformi agli edifici preesistenti, che non prevedono incrementi volumetrici o di superfici, salve le modeste variazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica e di sicurezza degli impianti tecnologici, nonché quelle necessarie per l'efficientamento energetico dell'edificio e per l'adeguamento agli standard igienico sanitari». L'autorizzazione, aggiunge poi il Mic, non serve neanche "per le modifiche dei prospetti negli interventi di ricostruzione" previsti dalla legge sul sisma».
Il parere dell'Ufficio Giuridico del Commissario alla ricostruzione sul regime autorizzativo della ricostruzione privata. Non solo.
La struttura commissariale segnala che arrivano anche dei chiarimenti volti a evitare che «alcuni interventi di ristrutturazione post sisma, sebbene conformi, possano essere qualificati dai Comuni competenti come "nuove costruzioni" precludendo così l'accesso alle detrazioni fiscali del Superbonus al 110%».
«La normativa generale, ed in particolare la Circolare 44 del 2021 dello stesso Mic -ricorda il commissario di governo- prevede infatti che le Sovrintendenze indichino ai Comuni la necessità di qualificare come tali tutti gli interventi che comportino anche una sola modifica alla volumetria, alle superfici e ai prospetti, che invece sono contemplate dalla legge speciale per favorire ed accelerare la ricostruzione degli edifici nei centri colpiti dal terremoto» (articolo ItaliaOggi del 09.03.2022).

EDILIZIA PRIVATAMic su sisma. Sistemazione degli edifici semplificata.
La ristrutturazione degli edifici resi inagibili dal sisma del 2016 in Centro Italia non necessita dell'autorizzazione paesaggistica preventiva della Sovrintendenza quando l'intervento, anche se prevede la totale demolizione e ricostruzione, è conforme all'edificio preesistente ai sensi della normativa speciale sul sisma, che tollera leggere modifiche alla volumetria, alle superfici e ai prospetti.

Con la  nota 07.03.2022 n. 8510 di prot. trasmessa alle Sovrintendenze e al Commissario Sisma 2016, il Ministero della Cultura ha fornito un chiarimento sulle procedure per la ricostruzione degli edifici danneggiati dal terremoto.
Nella nota, i cui contenuti sono stati diffusi ieri dal Commissario Straordinario Ricostruzione Sisma 2016, si esclude che alcuni interventi di ristrutturazione post sisma, sebbene conformi, possano essere qualificati dai comuni come "nuove costruzioni" precludendo così l'accesso al Superbonus del 110%.
La normativa generale, ed in particolare la circolare 44 del 2021 dello stesso Mic, prevede infatti che le Sovrintendenze indichino ai Comuni la necessità di qualificare come tali tutti gli interventi che comportino anche una sola modifica alla volumetria, alle superfici e ai prospetti, che invece sono contemplate dalla legge speciale per favorire ed accelerare la ricostruzione degli edifici nei centri colpiti dal terremoto.
Il Mic conferma che non necessitano di autorizzazione paesaggistica gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con totale demolizione e ricostruzione, conformi agli edifici preesistenti, che non prevedono incrementi volumetrici o di superfici, salve le modeste variazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica e di sicurezza degli impianti tecnologici, nonché quelle necessarie per l'efficientamento energetico dell'edificio e per l'adeguamento agli standard igienico sanitari (articolo ItaliaOggi del 09.03.2022).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Ristrutturazione edilizia su immobili soggetti a tutela paesaggistica - Chiarimenti sull'autorizzazione paesaggistica (Mi.c., Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio - Servizio V, nota 07.03.2022 n. 8510 di prot.).
---------------
La Direzione generale scrivente ha emanato la
circolare 04.10.2021 n. 38 (e relativo allegato di cui al parere 21.09.2021 n. 26340 di prot. dell'Ufficio Legislativo), circolare 15.10.2021 n. 44 e circolare 10.11.2021 n. 47 in merito alla definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001, così come modificato dall'art. 10 del D.L. n. 76/2020.
In particolare nella Circolare n. 38, in considerazione del parere dell'Ufficio legislativo prot. 26340 del 21.09.2021, si specificava che anche nel caso di immobili ricadenti in aree di tutela paesaggistica ai sensi della Parte III del Codice: "gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria;".
(...continua).
Per quanto sopra,
in merito agli edifici privati danneggiati dal sisma 2016 e localizzati nei comuni del cratere, oltre a quanto già previsto dal Codice all'art. 149, alla luce della sopra richiamata norma speciale ed in conformità al DPR 31/2017 (All. A punto 29), non necessitano dell'autorizzazione paesaggistica:
   a)
gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con totale demolizione e ricostruzione, conformi all'edificio preesistente, che non prevedono incrementi volumetrici o di superfici, salve le modeste variazioni "necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica e di sicurezza degli impianti tecnologici, nonché quelle necessarie per l'efficientamento energetico dell'edificio ai sensi dell'art. 14, commi 6 e 7, del d.lgs. 04.07.2014 n. 102 e per l'adeguamento agli standard igienico-sanitari"; ciò evidentemente nel rispetto delle prerogative dell'autorità preposta al vincolo circa la conforme e regolare attuazione degli interventi;
   b)
le modifiche dei prospetti negli interventi di ricostruzione di cui all'ultimo periodo del comma 2 dell'art. 12 del 189/2016.
(...continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Parere in merito alla circolare della Direzione Generale, Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Ministero della Cultura del 15/10/2021, n. 44, avente a oggetto “Definizione di ristrutturazione edilizia su immobili soggetti a tutela paesaggistica”, anche con riferimento alla Circolare n. 38/2021 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Il Commissario Straordinario del Governo ai fini della ricostruzione nei territori interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24.08.2016, L’Ufficio del Consigliere Giuridico - nota 22.02.2022).
---------------
Viene richiesta dal Commissario Straordinario del Governo per la ricostruzione dei territori interessati dal sisma 2016 l’espressione di un parere dell’Ufficio giuridico, in merito alla Circolare in oggetto, per la notevole rilevanza che la disciplina della ristrutturazione edilizia su immobili soggetti a tutela paesaggistica assume nelle attività di ricostruzione post-sisma.
A riguardo occorre evidenziare in primo luogo che, ai fini del parere richiesto, non risulta rilevante la disamina delle motivazioni fornite nella circolare con riferimento alla definizione della nozione di ristrutturazione edilizia su immobili soggetti a tutela paesaggistica.
Le circolari della competente Direzione generale del Ministero della cultura hanno invero carattere generale e non riguardano gli interventi di ricostruzione nel cratere, poiché hanno ad oggetto esclusivamente il tema dell'interpretazione del nuovo testo dell'art. 3, lettera d), del testo unico dell'edilizia, di cui al dPR n. 380 del 2001, come modificato dal decreto-legge n. 76 del 2020. Le riferite circolari non si occupano, dunque, del regime speciale derogatorio, che qui di seguito per pronto riscontro si richiama, vigente per la ricostruzione nel cratere, e dunque non costituiscono ostacolo alla regolare applicazione del ripetuto regime speciale, come qui a seguire ricostruito.
È appena il caso di evidenziare come per regola generale la legge generale non deroga la legge speciale precedente (“lex posterior generalis non derogat priori speciali”), e ciò a prescindere dal fatto che, comunque, come si vedrà, è lo stesso decreto-legge n. 76 del 2020 che ha da un lato modificato la legge generale (l’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001) e, dall’altro, ha integrato, in chiave di ulteriore e maggiore semplificazione, la legge speciale della ricostruzione post-sisma del 2016.
Per quanto di competenza, si ritiene pertanto necessario e doveroso circoscrivere l’ambito interpretativo agli interventi di ristrutturazione edilizia degli edifici danneggiati dal sisma 2016, sulla base della disciplina speciale vigente, che è utile ricostruire nelle fonti.
(...continua).
Sulla base della ricostruzione del quadro normativo vigente nella legislazione speciale applicabile nei Comuni del sisma 2016, ricadenti su immobili soggetti a tutela paesaggistica, si deve pertanto ritenere che:
  
alla luce del descritto regime speciale, gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con totale demolizione e ricostruzione, conformi all’edificio preesistente, che non prevedono incrementi volumetrici o di superfici, salve le modeste variazioni “necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica e di sicurezza degli impianti tecnologici, nonché quelle necessarie per l’efficientamento energetico dell’edificio ai sensi dell’art. 14, commi 6 e 7, del d.lgs. 04.07.2014, n. 102 e per l’adeguamento agli standard igienico sanitari”, non richiedono il preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, non determinando un’alterazione dello stato preesistente, nel rispetto delle prerogative dell’autorità preposta al vincolo circa la conforme e regolare attuazione degli interventi;
  
le modifiche dei prospetti negli interventi di ricostruzione degli edifici danneggiati dal sisma 2016 non sono soggette a “speciali autorizzazioni”, ai sensi dell’art. 12, secondo comma, del decreto-legge 189/2016;
  
quanto sopra a mo’ di eccezione, in forma di lex specialis, rispetto al regime generale per cui per gli interventi di ristrutturazione edilizia, ove ricadano su immobili soggetti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, parte II e art. 136, comma 1, lett. a) e lett. b), è sempre richiesto il preventivo rilascio del nulla osta da parte della Soprintendenza competente in sede di Conferenza regionale ovvero in sede di presentazione della SCIA, e per cui gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con totale demolizione e ricostruzione su immobili soggetti ai vincoli di cui alla parte III del Codice, che prevedano incrementi volumetrici o di superfici, sono sempre soggetti al rilascio del permesso di costruire, previa acquisizione del relativo nulla osta paesaggistico da parte dell’autorità competente;
  
per gli interventi di ristrutturazione edilizia, anche con totale demolizione e ricostruzione, che abbiano ad oggetto edifici la cui realizzazione sia anteriore al 1945 ubicati nei centri e nuclei storici vincolati con provvedimento di tutela paesaggistico “specifico” -ex lettera c) dell'art. 136, del d.lgs. n. 42 del 20094- e che siano parte integrante del valore paesaggistico tutelato, ossia del "complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale", il progettista dovrà valutare con particolare attenzione e cautela l’effettiva conformità e fedeltà dell’intervento ricostruttivo, richiedendo se del caso la preventiva autorizzazione paesaggistica.
In conclusione,
agli interventi di ristrutturazione edilizia su immobili danneggiati dal sisma 2016 soggetti a tutela paesaggistica si applicano le richiamate disposizioni previste dalla legislazione speciale e dalle ordinanze commissariali, ferma restando la validità, sul piano generale, delle interpretazioni contenute nelle circolari in epigrafe per gli interventi al di fuori del cratere 2016. 

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica. DPR n. 380/2001, art. 3, comma 1, lett. d) - Criteri interpretativi. Precisazioni alla circolare 15.10.2021 n. 44 (Mi.c, Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio - Servizio V, circolare 10.11.2021 n. 47).
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In riferimento a quanto comunicato con circolare 15.10.2021 n. 44 avente ad oggetto "Definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica. DPR n. 380/2001, art. 3, comma 1, lett. d) - Criteri interpretativi. Integrazione alla circolare 04.10.2021 n. 38" ad ulteriore chiarimento si precisa che (...continua).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica. DPR n. 380/2001, art. 3, comma 1, lett. d) - Criteri interpretativi. Integrazione alla circolare 04.10.2021 n. 38 (Mi.c., Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio - Servizio V, circolare 15.10.2021 n. 44).
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In riferimento alla circolare 04.10.2021 n. 38 avente ad oggetto "Definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica. DPR n. 380/2001, art. 3, comma 1, lett. d) - Criteri interpretativi" e, in particolare, a quanto di seguito evidenziato a pag. 2:
(...continua)

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Definizione di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica. DPR n. 380/2001, art. 3, comma 1, lett. d) - Criteri interpretativi (Mi.c., Direzione Generale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio - Servizio V, circolare 04.10.2021 n. 38).
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In merito alla definizione di interventi di "ristrutturazione edilizia" su immobili soggetti a tutela paesaggistica di cui l'art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001, così come modificato dall'art. 10 del D.L. n. 76/2020, sono pervenute, da più parti, richieste di chiarimenti e contributi interpretativi.
(...continua)
Da ultimo l'Ufficio Legislativo medesimo ha formulato l'alleato parere 21.09.2021 n. 26340 di prot. indirizzato al Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili e parte integrante della presente Circolare, che conferma nella sostanza le valutazioni già espresse da questo Ufficio.
(...continua)

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Sulla legittimità dell’esclusione dalla gara d’appalto dell’impresa cui è stato revocato il controllo giudiziario.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Interdittiva e informativa antimafia – Controllo giudiziario – Revoca – Esclusione dalla gara.
Qualora sia revocato il controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, l’interdittiva antimafia riacquista efficacia, anche se la revoca del controllo giudiziario è avvenuta per il ripristino della legalità nell’impresa colpita; né tale soluzione appare in contrasto con i principi costituzionali o con quelli della C.e.d.u., attesa la conformazione, e la diversa funzione, dei due istituti dell’informativa (e iscrizione alla white list) e del controllo giudiziario.
Pertanto, è legittima l’esclusione dalla gara d’appalto, per mancanza del requisito di moralità di cui all’art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, essendo stata già sottoposta a controllo giudiziario ex art. 34-bis d.lgs. n. 159 del 2011, successivamente revocato, e non risulta iscritta nella cd. “white list”, né nell’elenco delle imprese richiedenti la detta iscrizione (1).

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   (1) Cons. Stato, Ad. plen., nn. 7 e 8 del 2023; Cons. Stato, sez. III, n. 4912 del 2022;
         Difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2024 n. 3266 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1.6. I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per connessione e interdipendenza di alcune delle questioni sollevate, non sono condivisibili.
1.6.1. Occorre premettere che, a seguito dell’ammissione a controllo giudiziario la -OMISSIS- era stata sì iscritta alla cd. “white list”, bensì “subordinata[mente] al permanere del controllo giudiziario”.
A seguito della revoca disposta il 13.07.2023, dunque, veniva meno l’iscrizione alla white list e riviveva l’interdittiva antimafia, a prescindere dal fatto che la revoca fosse avvenuta per ritenuta legalità della condizione della -OMISSIS-: in tale prospettiva era dunque in sé conforme alla situazione in essere la non iscrizione della -OMISSIS- alla white list, come risultante dall’elenco acquisito dalla stazione appaltante, in ultimo al 14.09.2023.
In tale contesto, d’altra parte, come chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, il controllo giudiziario e le relative vicende sono ben distinti -sul piano funzionale, nonché in relazione ai risvolti provvedimentali ed effettuali- dall’interdittiva antimafia.
Ha affermato l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, al riguardo, che “non emerge una ricostruzione del rapporto tra l’interdittiva e il controllo giudiziario volontario in termini di pregiudizialità-dipendenza di intensità maggiore rispetto alla connessione genetica ricavabile dal più volte richiamato art. 34-bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza”; di guisa che “l’interdittiva svolge la sua funzione preventiva rispetto alla penetrazione nell’economia delle organizzazioni di stampo mafioso di tipo ‘statico’, e cioè sulla base di accertamenti di competenza dell’autorità prefettizia rivolti al passato;
- a quest’ultimo riguardo, nel condividere la funzione preventiva del sistema di informazione antimafia del codice di cui al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, il controllo giudiziario persegue anche finalità di carattere ‘dinamico’ di risanamento dell’impresa interessata dal fenomeno mafioso e quindi […], oltre al presupposto dell’occasionalità dell’agevolazione mafiosa previsto dall’art. 34-bis, comma 6, del medesimo codice, richiede una prognosi favorevole del Tribunale della prevenzione penale sul superamento della situazione che ha in origine dato luogo all’interdittiva
”.
Di qui “l’assenza di condizionamenti reciproci tra i due istituti ulteriori rispetto alla connessione genetica prevista dal più volte richiamato comma 6 dell’art. 34-bis” (Cons. Stato, Ad. plen., 13.02.2023, n. 7 e 8).
Dal che deriva che la mera revoca del controllo giudiziario non determina il venir meno dell’interdittiva (oltre che del suo apprezzamento di legittimità: Cons. Stato, III, 16.06.2022, n. 4912; 04.02.2021, n. 1049; 11.01.2021, n. 319), considerato del resto che il controllo costituisce appunto un post factum rispetto all’interdittiva (Cons. Stato, n. 1049 del 2021, cit.; n. 319 del 2021, cit.).
In tale prospettiva, emerge d’altra parte nel caso di specie come la revoca del provvedimento interdittivo sia avvenuta successivamente, solo con atto prefettizio dell’8 gennaio 2024 e a fronte della previsione delle misure di cui all’art. 94-bis d.lgs. n. 159 del 2011, con corrispondente (condizionata e speculare) iscrizione alla white list della -OMISSIS-.
Emerge dunque chiaramente, da un lato, che senz’altro è mancata l’iscrizione alla white list nel periodo qui coinvolto, successivo alla revoca del controllo; dall’altro che non è venuta meno (fino a sua revoca) l’interdittiva in sé.
Né, d’altra parte, l’accertamento compiuto dal giudice penale ai fini della revoca del controllo giudiziario assume valore di giudicato rispetto al (distinto) provvedimento d’interdittiva (cfr., espressamente, Cons. Stato, n. 4912 del 2022, cit.).
Per le stesse ragioni, non può sic et simpliciter ravvisarsi una qualche (perdurante) sospensione dell’effetto dell’interdittiva antimafia per il solo favorevole esito del controllo giudiziario.
Di qui la corretta valutazione della stazione appaltante di ravvisare una ragione escludente ex art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 e la non pertinenza del precedente di cui a CGA, n. 1004 del 2022, relativo alla diversa ipotesi in cui il controllo giudiziario (non già la sua revoca) sopraggiunga in corso di procedura.
In tale contesto, neppure può assumere rilievo la dedotta presentazione di richiesta d’iscrizione, come invocata dalla -OMISSIS-: oltre al fatto che l’effetto della stessa, affermato giusta circolare ministeriale del 23.03.2016 invocata dall’appellante (in cui si prevede che “dopo aver soddisfatto l’obbligo di consultare la white list, in tal modo accertandosi che l’impresa abbia già assolto l’onere di richiedere l’iscrizione potrà dare avvio all’iter contrattuale ricorrendo alla Banca Dati Nazionale Unica della Documentazione Antimafia”, e cioè “consulterà la Banca Dati Nazionale Unica della Documentazione Antimafia immettendo i dati relativi all’impresa, come in ogni altra situazione di ordinaria consultazione di tale piattaforma finalizzata al rilascio di documentazione antimafia”) non è pertinente rispetto all’ipotesi di sussistenza di un (valido ed efficace) provvedimento interdittivo antimafia e di una (già conformata) subordinazione dell’iscrizione alla white list alla permanenza del controllo giudiziario, va osservato che, a ben vedere, la -OMISSIS- non figurava fra le imprese richiedenti l’iscrizione alla white list, in un contesto in cui in effetti la stessa aveva già attraversato varie vicende inerenti alla documentazione antimafia ed era stata già inserita (subordinatamente alla permanenza del controllo giudiziario) alla detta white list, sicché difettava una richiesta d’iscrizione stricto sensu, agli effetti suindicati (su cui cfr. invece, in generale, l’art. 3, comma 1, d.p.c.m. 18.04.2013), venendo in rilievo semmai, nella specie, un’ipotesi di aggiornamento dell’informativa antimafia (già sfavorevole per l’impresa) ex art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, come del resto valorizzata anche in sede di accoglimento della corrispondente domanda avverso il silenzio avanzata dall’interessata davanti al Tar Campania (sentenza n. 6857 del 2023, in atti; anche l’art. 5 d.p.c.m. 18.04.2013 non è qui direttamente pertinente, atteso che l’iscrizione alla white list della -OMISSIS- nasceva già conformata in funzione della permanenza del controllo; analogamente, l’istanza del 16.05.2023 in termini di “conferma” o “permanenza” dell’iscrizione si poneva su un piano diverso rispetto a quello della nuova “richiesta” d’iscrizione ex art. 3, comma 1, d.p.c.m. 18.04.2013, così come dalla prospettiva qui fatta valere in ragione dell’esito favorevole del controllo, essendo la detta istanza anteriore al decreto di revoca del Tribunale, e rimanendo collocata, sul profilo sostanziale, in un contesto di vigenza dell’interdittiva).
Ciò a prescindere dal fatto che l’effetto d’una constatata richiesta si risolverebbe, come suesposto, nello svolgimento dei controlli attraverso la Banca Dati Nazionale Unica nei termini suindicati (cfr. anche l’art. 3-bis d.p.c.m. 18.04.2013), quando nella specie la -OMISSIS- risultava (già) attinta da interdittiva (e il che era noto all’amministrazione, tra l’altro anche comunicato in sede procedimentale della stessa interessata), di suo non superata (e, a ben vedere, revocata solo il successivo 08.01.2024).
In tale contesto, non sono dunque condivisibili le doglianze dell’appellante volte a contestare la sussistenza della causa escludente di cui all’art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, ravvisata dall’amministrazione proprio per la mancata iscrizione alla white list (in una alla contestuale interdittiva antimafia) quale carenza appunto di un requisito soggettivo in capo al concorrente ai fini della partecipazione alla gara (cfr., peraltro, Cons. Stato, III, 14.12.2022, n. 10935, che valorizza la necessaria iscrizione alla white list, nei pertinenti settori, quale requisito soggettivo di partecipazione alle gare, equiparato alle informative antimafia, ex art. 1, comma 52, l. n. 190 del 2012; analogamente, cfr. Id., V, 27.10.2023, n. 9284, anche in ordine alla corrispondente applicazione del principio di continuità dei requisiti e dell’operatività dell’eterointegrazione dei bandi al riguardo).
In tale contesto, neppure è dato ravvisare i profili d’illegittimità costituzionale richiamati dalla -OMISSIS-, neppure in relazione alla CEDU, ben collocandosi la fattispecie nel sistema delle informative antimafia, come concepito proprio in ragione della conformazione (e diversa funzione) dei due istituti dell’informativa (e iscrizione alla white list) e del controllo giudiziario, in un contesto connotato d’altra parte dall’eccezionalità delle deroghe all’inibitoria conseguente all’interdittiva (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 26.10.2020, n. 23; in generale, per gli effetti dell’interdittiva, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 06.04.2018, n. 3), oltre che dall’assenza di un giudicato d’accertamento rilevante rispetto all’interdittiva nelle valutazioni eseguite a fini di revoca del controllo (cfr. di nuovo Cons. Stato, n. 4912 del 2022, cit.).
Ancora, sono infondate le doglianze sollevate dall’appellante in relazione all’omessa considerazione, in sede procedimentale, delle osservazioni dell’interessata, atteso che la stazione appaltante aveva a ben vedere attivato un soccorso istruttorio (non già adottato un preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241 del 1990) a seguito del quale ha espresso le proprie valutazioni finali, in un contesto in cui sono comunque non condivisibili le doglianze di merito sollevate dalla -OMISSIS-.
Parimenti non conducenti sono i richiami agli altri elementi virtuosi ravvisabili in capo alla -OMISSIS- (quali il rating di legalità, l’adozione di modello ex d.lgs. n. 231 del 2001, etc.), che non valgono di per sé a superare la carenza d’iscrizione alla white list e l’interdittiva, agli effetti di cui all’art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016.
1.7. Alla luce di quanto suesposto, i motivi di doglianza sopra indicati vanno respinti, mentre è di suo privo di rilievo il sesto (con cui si deduce l’illegittimità derivata dell’aggiudicazione, ove nelle more disposta), considerato che l’amministrazione ha dato conto non essere stato adottato alcun provvedimento aggiudicativo, in un contesto in cui comunque la doglianza andrebbe rigettata, in quanto proposta appunto in via derivata.
2. In conclusione, per le suesposte ragioni, l’appello va respinto (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2024 n. 3266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa il regime edilizio cui soggiace il manufatto in questione, deve rilevarsi che la Sezione si è già pronunciata operando una distinzione «fra muro di cinta e muro di contenimento affermando che
   - solo “la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività” mentre
   - “il muro di contenimento che crei un nuovo dislivello o aumenti quello esistente costituisce una nuova costruzione, soggetta al rilascio del permesso di costruire, allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli interventi di "nuova costruzione”».
La richiamata posizione è stata in seguito confermata affermando che «la realizzazione di muri di cinta e/o contenimento di ragguardevoli dimensioni è soggetta al rilascio del permesso di costruire, inverandosi la nozione di nuova costruzione quante volte l'intervento edilizio produca un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione».
È stato, altresì, precisato che «la natura pertinenziale, che esclude la necessità del previo conseguimento del permesso di costruire, può essere riconosciuta solo con riferimento alle recinzioni, definendo come tali opere aventi “caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della mera delimitazione della proprietà».
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Con il primo motivo, l’appellante censura la sentenza ritenendola «slacciata dalle produzioni documentali agli atti» nella misura in cui non rileva la lacunosità dell’istruttoria comunale, evidenziata in sede cautelare dal Tar, che richiedeva un approfondimento circa «la natura degli abusi contestati alla luce dei motivi di ricorso proposti e con particolare riferimento alla data della realizzazione dei manufatti sanzionati, alla loro consistenza e dimensioni», salvo poi pronunciarsi pur in presenza di un riscontro istruttorio generico.
In detta sede, infatti, l’amministrazione si limitava a riferire che non era possibile datare la realizzazione dell’opera che, in ogni caso, non sembrava «risalire ad un’epoca molto remota» e che non era stato possibile procedere alla misurazione del manufatto poiché il proprietario aveva negato «l’accesso al proprio fondo»: circostanza negata dall’appellante che afferma di aver impedito unicamente il primo accesso, tentato dal personale comunale antecedentemente all’adozione dell’ordinanza impugnata perché gli incaricati si erano rifiutati di qualificarsi.
La sentenza sarebbe, pertanto da riformare, sotto un primo profilo, in ragione della mancata prova, e quindi dell’inesistenza, dei «vizi denunciati nell’ordinanza demolitoria»; sotto altro profilo violazione dell’art. 395, n. 4, c.p.c. per avere il Tar considerato come «accertato un fatto assolutamente falso».
Il motivo è infondato.
Come evidenzia la documentazione fotografica acquista agli atti, la consistenza dell’opera è chiaramente percepibile prescindendo dall’accesso all’interno dell’area di proprietà dell’appellante.
Parte del basamento in cemento che funge da supporto di una prima, parziale e più interna recinzione metallica è posto a distanza di circa un metro dal confine di proprietà segnato da una ulteriore rete metallica installata su paletti metallici infissi nel terreno, mentre altra parte del manufatto, nella specie quello di maggiore altezza, è realizzata a delimitazione della proprietà a confine con la strada in assenza di ulteriori protezioni.
Quanto percepibile dalle immagini in questione, peraltro depositate dallo stesso appellante, non contraddice la situazione di fatto descritta nel provvedimento impugnato come «muro di contenimento terra in CLS con altezze variabili sul lato nord del lotto di proprietà del Ve., con altezza massima in più punti superiore a ml. 1,50».
Il manufatto non risulta assentito con l’originaria concessione edilizia n. 56/E che, come si evince dalla allegata Relazione tecnica del 18.03.1982, si limitava a precisare che «lo spazio di proprietà circostante l’edificio in progetto, opportunamente recintato sarà sistemato a giardino», né risulta assentito con la C.I.L.A. del 05.04.2017 con la quale veniva comunicata la «realizzazione di porzione di recinzione su confine di proprietà lato Nord costituita da con rete metallica e paletti infissi al terreno» precisando, peraltro, che «l’immobile rientra nella perimetrazione tutelata quale bene paesaggistico (beni paesaggistici – Parte III – D.Lgs. n. 42/2004».
L’opera descritta nel titolo da ultimo richiamato (rete metallica e paletti infissi al terreno), integrante la già descritta recinzione esterna della proprietà, costituisce un manufatto distinto dal muro oggetto di contestazione (posto all’interno) la cui funzione di contenimento emerge dalla già richiamata documentazione fotografica che riproduce nitidamente il dislivello dell’area cortilizia dell’appellante rispetto all’area circostante.
Deve per completezza di esposizione evidenziarsi ulteriormente che l’appellante non comprova l’epoca di realizzazione del manufatto e che elementi utili alla datazione dell’opera non venivano rilevati nemmeno all’esito delle attività investigative condotte dal Comando -OMISSIS- -OMISSIS-, mediante escussione di testi, e del Comando -OMISSIS- che acquisiva documentazione fotografica dalla quale non emergeva con certezza la presenza della recinzione (-OMISSIS-).
In ogni caso, circa tale specifico profilo, non può che richiamarsi il pacifico principio per il quale «la parte ricorrente doveva comunque fornire in giudizio un principio di prova a sostegno delle proprie deduzioni, conformemente a quanto previsto per il -OMISSIS-» (Cons. Stato, Sez. II, 08.05.2020, n. 2906).
Circa il regime edilizio cui soggiace il manufatto in questione, deve rilevarsi che la Sezione si è già pronunciata operando una distinzione «fra muro di cinta e muro di contenimento affermando che solo “la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività (Sez. IV, 03.05.2011, n. 2621; sez. VI, 04.01.2016, n. 10)” mentre “il muro di contenimento che crei un nuovo dislivello o aumenti quello esistente costituisce una nuova costruzione, soggetta al rilascio del permesso di costruire, allorquando, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli interventi di "nuova costruzione”» (Cons. Stato, Sez. VI, 09.07.2018, n. 4169).
La richiamata posizione è stata in seguito confermata affermando che «la realizzazione di muri di cinta e/o contenimento di ragguardevoli dimensioni è soggetta al rilascio del permesso di costruire, inverandosi la nozione di nuova costruzione quante volte l'intervento edilizio produca un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. II, 24.03.2020, n. 2050; Cons. Stato, Sez. II, 09.01.2020, n. 212; Cons. Stato, Sez. VI, 09.07.2018, n. 4169)» (Cons. Stato, Sez. VI, 13.04.2021, n. 3005).
È stato, altresì, precisato che «la natura pertinenziale, che esclude la necessità del previo conseguimento del permesso di costruire, può essere riconosciuta solo con riferimento alle recinzioni, definendo come tali opere aventi “caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della mera delimitazione della proprietà» (Cons. Stato, Sez. VI, 09.07.2018, n. 4169).
L’opera accertata, per consistenza e caratteristiche costruttive, nonché, per l’evidente modifica della conformazione del suolo che, come anticipato, determina un evidente dislivello dell’area di proprietà rispetto al terreno circostante, rientra pertanto a pieno titolo della tipologia di manufatti per i quali è richiesto il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.04.2024 n. 3031 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È pacifico in giurisprudenza che la realizzazione di una tettoia vada configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione ogni qual volta integri un manufatto «non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera».
Estranei a detto regime sono da considerarsi unicamente le cc.dd. tettoie leggere non tamponate lateralmente su almeno tre lati, prive di autonomia e realizzate per «valorizzare la fruizione al servizio dello stabile, ponendo un riparo temporaneo dal sole, dalla pioggia, dal vento e dall'umidità che rende più gradevole per un maggior periodo di tempo la permanenza all'esterno, senza peraltro creare un ambiente in alcun modo assimilabile a quello interno, a causa della mancanza della necessaria stabilità, di una idonea coibentazione termica e di un adeguato isolamento dalla pioggia, dall'umidità e dai connessi fenomeni di condensazione».
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Come noto, la nozione di pertinenza, sul piano urbanistico-edilizio, è limitata ai soli interventi accessori di modesta entità e privi di autonoma funzionale, mentre è inconferente l'art. 3, comma 1, lett. e.6), d.P.R. n. 380/2001 (secondo cui rientrano tra gli interventi di nuova costruzione anche “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”), in quanto tale previsione non pone, essa stessa, la definizione di pertinenza, bensì la presuppone, ragione per cui la nozione di pertinenza, ai fini urbanistici, deve essere tratta aliunde, e deve rispettare le caratteristiche individuate dalla giurisprudenza.
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Con il terzo motivo l’appellante censura la sentenza nella parte in cui, pur annullando la misura demolitoria relativamente alla tettoia e al barbecue, afferma che sarebbero in ogni caso opere soggette al regime della S.C.I.A. anziché riconoscerne la riconducibilità all’edilizia libera in ragione della loro natura pertinenziale.
Il motivo è infondato.
È pacifico in giurisprudenza che la realizzazione di una tettoia vada configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione ogni qual volta integri un manufatto «non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera» (Cons. Stato, Sez. IV, 02.03.2018, n. 1309).
Estranei a detto regime sono da considerarsi unicamente le cc.dd. tettoie leggere non tamponate lateralmente su almeno tre lati, prive di autonomia e realizzate per «valorizzare la fruizione al servizio dello stabile, ponendo un riparo temporaneo dal sole, dalla pioggia, dal vento e dall'umidità che rende più gradevole per un maggior periodo di tempo la permanenza all'esterno, senza peraltro creare un ambiente in alcun modo assimilabile a quello interno, a causa della mancanza della necessaria stabilità, di una idonea coibentazione termica e di un adeguato isolamento dalla pioggia, dall'umidità e dai connessi fenomeni di condensazione» (Cons. Stato, Sez. VII, 28.08.2023, n. 7999).
Nel caso di specie la tettoia oggetto di contestazione si presenta come aperta su due lati poggiando gli altri due su murature in cls, dando vita ad un manufatto avente una propria autonomia funzionale non riconducibile al sopra illustrato concetto di pertinenzialità.
Priva di pregio è la evidenziata continenza di quanto realizzato nei limiti di cui all’art. 3 del d.P.R: n. 380/2001.
Sul punto è già stato affermato dalla Sezione che «come noto, la nozione di pertinenza, sul piano urbanistico-edilizio, è limitata ai soli interventi accessori di modesta entità e privi di autonoma funzionale, mentre è inconferente l'art. 3, comma 1, lett. e.6), d.P.R. n. 380/2001 (secondo cui rientrano tra gli interventi di nuova costruzione anche “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”), in quanto tale previsione non pone, essa stessa, la definizione di pertinenza, bensì la presuppone, ragione per cui la nozione di pertinenza, ai fini urbanistici, deve essere tratta aliunde, e deve rispettare le caratteristiche individuate dalla giurisprudenza (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 14/03/2023, n. 2660)» (Cons Stato, Sez. VI, 05.03.2024, n. 2169)
Analoghe considerazioni valgono per il barbecue avendo l’appellante realizzato un manufatto in muratura di significative dimensioni, sormontato da una copertura poggiante su pilastri metallici.
Per tali opere, in ragione della loro conformazione e dello stabile ancoraggio al suolo, come correttamente rilevato dal Tar, deve escludersi una mera funzione di arredo, protezione o riparo essendo evidente il loro impatto sul territorio che ne esclude la riconducibilità all’edilizia libera (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.04.2024 n. 3031 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è granitica nell’affermare che «l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività.
Ne consegue che non è necessario che l'amministrazione individui un interesse pubblico -diverso dalle mere esigenze di rispristino della legalità violata- idonee a giustificare l'ordine di demolizione.
Invero,
   - "L'ordine di demolizione di manufatti abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore.";
   - "L'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione"».
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Infondato è, inoltre, il dedotto difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso alla demolizione stante il tempo trascorso dalla realizzazione delle opere.
Sul punto la giurisprudenza è granitica nell’affermare che «l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 07/06/2021, n. 4319).
Ne consegue che non è necessario che l'amministrazione individui un interesse pubblico -diverso dalle mere esigenze di rispristino della legalità violata- idonee a giustificare l'ordine di demolizione (Consiglio di Stato sez. VI, 17/10/2022, n. 8808: "L'ordine di demolizione di manufatti abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore."; Consiglio di Stato sez. II, 11/01/2023, n. 360: "L'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione")
» (Cons. Stato, Sez. VI, 04.08.2023, n. 7546) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.04.2024 n. 3031 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Art. 10-bis l. n. 241/1990 – Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento – Procedure concorsuali – Inapplicabilità – Nozione di “procedure concorsuali” – Ratio dell’esclusione – Computo dei termini – Giorno del sabato – Natura di giorno lavorativo – D.P.R. n. 732/1985.
Come è noto, l’art. 10-bis, comma 1, penultimo periodo della l. n. 241/1990 esclude espressamente dall’ambito di applicazione dell’intero articolo la materia delle “procedure concorsuali”.
Nel commentare tale deroga, la giurisprudenza amministrativa ha osservato che la ratio della relativa disposizione dell'art. 10-bis risiede nel contemperamento delle esigenze della partecipazione al procedimento con quelle di speditezza ed economicità dell'azione amministrativa, sicché nella nozione di “procedura concorsuale” devono ricondursi, ai fini in questione, non solo i concorsi a pubblici impieghi o le gare, ma anche tutti quei procedimenti cui possa partecipare una pluralità di soggetti tale da poter rendere incompatibile l'instaurazione del contraddittorio procedimentale con l'Amministrazione con le esigenze di celerità della procedura stessa.
E ancora, nella stessa prospettiva la giurisprudenza ha precisato che la categoria “procedura concorsuale” di cui all’art. 10-bis deve ricomprendere anche tutte quelle procedure connotate dalla previa pubblicazione di un avviso di partecipazione, con la fissazione delle regole per ciascun partecipante e la successiva selezione delle domande, incluse, dunque, quelle dirette a selezionare i progetti da ammettere a contribuzione pubblica.
Il Collegio è consapevole che l’art. 10-bis della legge sul procedimento non sancisce espressamente la perentorietà del termine di dieci giorni da esso dettato per la produzione delle osservazioni, ragion per cui un (contenuto) superamento del termine stesso potrebbe non giustificare una sanzione di intempestività a carico delle controdeduzioni del privato.
Il punto è, però, che il procedimento oggetto del caso di specie è riconducibile, per quanto si è detto, alla categoria delle “procedure concorsuali”, nei confronti delle quali il suddetto art. 10-bis della l. n. 241/1990 è inoperante.
Da questa prima puntualizzazione può desumersi allora che:
   a) in sede di predisposizione dell’Avviso pubblico in epigrafe, sull’Amministrazione regionale non gravava alcun obbligo ex lege di prevedere una fase di contraddittorio procedimentale, con il concorrente suscettibile di esclusione dalla procedura, a mezzo di comunicazione di preavviso di esclusione, e conseguente valutazione delle osservazioni eventualmente presentate dal privato;
   b) l’autonoma previsione, con l’art. 10, comma 7, dell’Avviso pubblico qui in rilievo, di una simile parentesi di contraddittorio procedimentale, lasciava quindi l’Amministrazione del tutto libera di reputare inammissibili per tardività le osservazioni prodotte dal privato oltre il termine dei 10 giorni lavorativi, in coerenza con i principi di speditezza ed economicità dell’azione amministrativa, nonché di imparzialità e par condicio tra i concorrenti.
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In ordine al termine di 10 giorni entro cui presentare osservazioni ex art. 10-bis l. 241/1990, il Collegio ritiene che il giorno del sabato sia da considerarsi a tutti gli effetti un giorno lavorativo: sicché le osservazioni della Ge. (nella fattuspecie) sono indubbiamente tardive, per essere state trasmesse all’Amministrazione procedente il giorno successivo del termine finale del 17.12.2019.
Ai fini dell'individuazione dei giorni festivi deve, invero, farsi riferimento al D.P.R. n. 792 del 28.12.1985, alla stregua del quale:
   a) soltanto la domenica è configurabile quale giorno festivo;
   b) la giornata di sabato, invece, è una giornata lavorativa, con la sola eccezione che in essa ricada una delle festività indicate nel suddetto decreto.
In questo senso, la consolidata giurisprudenza amministrativa ha espresso sull’argomento i seguenti principi:
   “a) la regola secondo cui, in caso di scadenza di un termine in giorno festivo, la proroga dello stesso al successivo giorno non festivo rappresenta un principio di carattere generale, disciplinato dalla vigente legislazione in molteplici disposizioni (art. 2693, c. 2 e 3 c.c., art. 1187 c.c., art. 155, c. 3 e 4 c.p.c., art. 52, c. 3 c.p.a.);
   b) di pari portata non può invece essere considerata la regola di equiparazione del sabato al giorno festivo, prevista dall’art. 155 c.p.c. e dall’art. 52, c. 5 c.p.a., dovendosi alla stessa riconoscere carattere eccezionale, atteso che la sua validità è limitata ai soli atti processuali svolti fuori dall’udienza e solo per i termini che si calcolano in avanti (e non a ritroso);
(…)
      c.1) invero, ai fini dell'individuazione dei giorni festivi deve farsi riferimento al d.P.R. 28.12.1985, n. 792, alla stregua del quale la giornata di sabato, salvo che in essa ricada una delle festività indicate nel suddetto decreto, non è da considerarsi di per sé giorno festivo;
   d) del resto, in senso contrario non può deporre neanche la giurisprudenza citata dal primo giudice, secondo cui l’estensione al sabato sarebbe applicabile (oltre che agli atti processuali) anche ai termini del procedimento amministrativo, atteso che tali pronunce hanno avuto specificamente riguardo ai termini del procedimento amministrativo previsti dalla normativa per regolare l’attività dell’Amministrazione (e non, al contrario, i termini imposti al privato) e, soprattutto, hanno affermato l’applicazione del passaggio dal giorno festivo al primo giorno non festivo, in quanto espressione di principio generale, e non, anche, l’estensione di tale regola al giorno del sabato;
   e) peraltro, nel senso di escludere l’applicazione della regola al sabato è anche la costante giurisprudenza civile, non potendo neanche ritenersi contraria la pronuncia della Cassazione civile n. 24375/2010 che, nell’estendere l’applicazione della regola generale “ai rapporti con la P.A. in relazione agli obblighi derivanti da disposizioni la cui violazione comporti la irrogazione di sanzioni amministrative”, lo fa esclusivamente con riferimento ai giorni festivi e non anche al sabato”.
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16. Con la prima censura del ricorso la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della propria esclusione dalla procedura per non avere la Regione ritenuto tempestive le osservazioni da essa trasmesse il 18.12.2019 in riscontro della comunicazione dei motivi ostativi del precedente 5 dicembre.
Con un primo argomento, la Ge. sostiene che il 19.12.2019 doveva ritenersi il termine finale per la presentazione delle dette osservazioni all’Amministrazione, in quanto nel computo dei 10 giorni lavorativi assegnati al privato ai sensi dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 non avrebbero potuto includersi né i sabati né le domeniche. Di conseguenza, le sue osservazioni dovevano essere considerate tempestive, in quanto trasmesse all’Amministrazione il penultimo giorno utile.
Con un secondo argomento, la ricorrente assume che la Regione aveva erroneamente attribuito al termine dei 10 giorni lavorativi assegnato ai sensi dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 una natura perentoria, in quanto tale termine aveva invece una valenza esclusivamente ordinatoria, e pertanto la sua eventuale violazione non avrebbe potuto comunque provocare l’inammissibilità delle osservazioni prodotte dalla Ge..
17. Seppur suggestive, queste critiche non colgono nel segno.
18. Il Collegio, prima di vagliarne il merito, deve però preliminarmente rigettare l’eccezione della difesa regionale secondo cui il motivo in analisi sarebbe inammissibile, per avere la Regione comunque proceduto anche alla valutazione sostanziale delle osservazioni della Ge. di cui si tratta.
Si ricorda che con la relazione istruttoria del 04.02.2020, formante anch’essa oggetto d’impugnazione in quanto parte integrante del provvedimento regionale di esclusione, la Sviluppo Italia Molise ha rappresentato di non poter esaminare le osservazioni della ricorrente con riguardo:
   a) alla “Verifica coerenza e/o veridicità informazioni fornite e fonti di punteggio relative alla seconda fase”: in tal caso, la tardiva presentazione delle osservazioni ha impedito la verifica delle criticità relative all’assenza dello “Stato di fatto” tra gli elaborati grafici prodotti, all’incompletezza degli elaborati grafici relativi allo “Stato di progetto” e, infine, all’insufficienza e genericità delle informazioni contenute nella “relazione tecnica” di cui all’art. 10, comma 5, lettera c), dell’Avviso pubblico;
   b) alla “Valutazione di ammissibilità e di merito Imprese nuove ed esistenti”: in tal caso la tardività delle osservazioni ha impedito il superamento delle criticità in ordine alla non coerenza-non veridicità delle informazioni fornite, fonti di punteggio di cui alla griglia riportata all'articolo 10, comma 4, dell'Avviso Pubblico, nonché alla mancata osservanza dei criteri 1, 2 e 3 dell’Allegato B.
Conseguentemente, la Sviluppo Italia Molise nella propria scheda di sintesi finale ha concluso l’istruttoria nel senso dell’inammissibilità della domanda della Ge. per le seguenti ragioni: “E' stata definitivamente verificata la non coerenza–non veridicità delle informazioni fornite e fonti di punteggio di cui alla griglia riportata all'articolo 10, comma 4 dell'Avviso Pubblico e, pertanto, l'istanza è decaduta ai sensi dell'articolo 10, comma 4, dell'Avviso. L'istanza, inoltre, non ha raggiunto la soglia minima di punteggio per l'accesso alle agevolazioni, prevista dall'articolo 10, comma 6, avendo conseguito un punteggio complessivo pari a 42,40. L'istanza, pertanto, non è ammissibile al contributo ai sensi dell'articolo 5 dell'Avviso pubblico”.
Ebbene, la mancata valutazione delle osservazioni procedimentali del privato da parte della Sviluppo Italia Molise radica senz’altro, ad avviso del Collegio, in capo alla ricorrente, l’interesse alla proposizione delle censure tese a sindacare la correttezza intrinseca del rilievo della tardività delle osservazioni stesse, trattandosi di rilievo di portata preclusiva avanzato tanto dalla Sviluppo Italia Molise quanto dalla Regione Molise.
19. Venendo al merito del motivo di ricorso, il Collegio deve in primo luogo osservare che nel caso di specie il termine di 10 giorni lavorativi previsto per le osservazioni dall’art. 10, comma 7, dell’Avviso possedeva un’indubbia natura perentoria.
19.1. Le ragioni sono le seguenti.
19.2. Come è noto, l’art. 10-bis, comma 1, penultimo periodo della l. n. 241/1990 esclude espressamente dall’ambito di applicazione dell’intero articolo la materia delle “procedure concorsuali”.
Nel commentare tale deroga, la giurisprudenza amministrativa ha osservato che la ratio della relativa disposizione dell'art. 10-bis risiede nel contemperamento delle esigenze della partecipazione al procedimento con quelle di speditezza ed economicità dell'azione amministrativa, sicché nella nozione di “procedura concorsuale” devono ricondursi, ai fini in questione, non solo i concorsi a pubblici impieghi o le gare, ma anche tutti quei procedimenti cui possa partecipare una pluralità di soggetti tale da poter rendere incompatibile l'instaurazione del contraddittorio procedimentale con l'Amministrazione con le esigenze di celerità della procedura stessa (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 28.04.2011 n. 442; TAR Liguria, sez. II, 01.02.2012, n. 234; TAR Campania-Napoli, sez. III, 01.08.2023, n. 4680).
E ancora, nella stessa prospettiva la giurisprudenza ha precisato che la categoria “procedura concorsuale” di cui all’art. 10-bis deve ricomprendere anche tutte quelle procedure connotate dalla previa pubblicazione di un avviso di partecipazione, con la fissazione delle regole per ciascun partecipante e la successiva selezione delle domande, incluse, dunque, quelle dirette a selezionare i progetti da ammettere a contribuzione pubblica (cfr., per ipotesi analoghe al caso di specie, TAR Campania-Napoli, sez. III, 14.05.2015, n. 2670; Id., 01.12.2016, n. 5553; TAR Lazio-Roma, sez. I, 08.01.2019, n. 274; TAR Umbria, n. 18/2020 cit.).
19.3. Il Collegio è consapevole che l’art. 10-bis della legge sul procedimento non sancisce espressamente la perentorietà del termine di dieci giorni da esso dettato per la produzione delle osservazioni, ragion per cui un (contenuto) superamento del termine stesso potrebbe non giustificare una sanzione di intempestività a carico delle controdeduzioni del privato.
Il punto è, però, che il procedimento oggetto del caso di specie è riconducibile, per quanto si è detto, alla categoria delle “procedure concorsuali”, nei confronti delle quali il suddetto art. 10-bis della l. n. 241/1990 è inoperante.
Da questa prima puntualizzazione può desumersi allora che:
   a) in sede di predisposizione dell’Avviso pubblico in epigrafe, sull’Amministrazione regionale non gravava alcun obbligo ex lege di prevedere una fase di contraddittorio procedimentale, con il concorrente suscettibile di esclusione dalla procedura, a mezzo di comunicazione di preavviso di esclusione, e conseguente valutazione delle osservazioni eventualmente presentate dal privato (cfr. TAR Umbria, 03.01.2020, n. 18, che richiama in termini Cons. Stato, sez. VI, 06.03.2009, n. 1348; TAR Liguria, Sez. II, 15.05.2008, n. 1009; TAR Umbria, 15.06.2015, n. 289);
   b) l’autonoma previsione, con l’art. 10, comma 7, dell’Avviso pubblico qui in rilievo, di una simile parentesi di contraddittorio procedimentale, lasciava quindi l’Amministrazione del tutto libera di reputare inammissibili per tardività le osservazioni prodotte dal privato oltre il termine dei 10 giorni lavorativi, in coerenza con i principi di speditezza ed economicità dell’azione amministrativa, nonché di imparzialità e par condicio tra i concorrenti.
19.4. Tanto premesso, ad avviso del Collegio la natura perentoria del termine dei 10 giorni lavorativi previsto dall’Avviso trova giustificazione in molteplici elementi.
19.4.1. Il primo risiede nel dato testuale evincibile dalla piana lettura della lex specialis.
Secondo l’art. 10, comma 7, dell’Avviso pubblico, “Nei casi in cui non siano soddisfatti uno o più requisiti di ammissibilità e/o non sia raggiunta la soglia minima per l’accesso alle agevolazioni, pari a 60 (sessanta) punti, il RUP invia, a mezzo PEC, una comunicazione dei motivi ostativi all’ammissibilità dell’istanza ai sensi dell'art. 10-bis della Legge 241/1990. Le controdeduzioni alle comunicazioni per motivi ostativi devono essere inviate al RUP entro il termine di 10 giorni lavorativi dal ricevimento della suddetta comunicazione”.
Ora, l’uso del verbo “dovere” nell’ultimo capoverso citato è già ex se un indice della volontà dell’Amministrazione regionale di conferire al termine di 10 giorni lavorativi una connotazione perentoria.
Del resto, la sua perentorietà era stata confermata dalla stessa Amministrazione regionale nella comunicazione dei motivi ostativi del 05.09.2019, in cui si era chiarito al privato, proprio al fine di fugare qualsiasi dubbio, che “Decorso infruttuosamente il predetto termine, ovvero in caso di osservazioni ritenute non valide, verrà adottato il formale provvedimento di rigetto dell’istanza” (pag. 4).
19.4.2. Ma la perentorietà del termine di trasmissione delle osservazioni procedimentali del richiedente è ricavabile anche da elementi di ordine sistematico.
Come ha efficacemente evidenziato l’Amministrazione resistente, ritenere ammissibile la produzione delle osservazioni richieste dal RUP anche oltre siffatto termine di 10 giorni determinerebbe una violazione dei principi di imparzialità e di par condicio tra i concorrenti.
Una dilazione del termine di 10 giorni lavorativi (ritenuto, peraltro, dalla stessa Amministrazione procedente quale perentorio, e come tale percepibile da tutti i partecipanti, in linea con il piano testo dell’art. 10, comma 7, dell’Avviso) cagionerebbe una lesione della parità di trattamento tra i concorrenti, soprattutto a scapito di quelli che avevano presentato una documentazione già ab origine completa e regolare, o quantomeno si erano conformati in termini alle richieste della P.A..
Peraltro, come ben osservato dalla giurisprudenza, “tutta la disciplina delle procedure concorsuali si fonda sulla dimostrazione e comprova del possesso dei requisiti richiesti”: sicché, ove si volesse ipoteticamente attribuire rilievo al fatto del sostanziale adempimento, da parte della singola concorrente, a quanto previsto dalla legge di gara, a prescindere dalla tempestività della relativa produzione e comunicazione, “la legittimità di un provvedimento amministrativo verrebbe inficiata da fatti legittimamente ignorati dall’amministrazione, che potrebbero essere portati, in ipotesi, a sua conoscenza solo in un momento successivo all’adozione dell’atto (nello stesso senso, con riferimento alla cauzione definitiva, Consiglio di Stato, sentenza n. 738/2018), non essendovi più un limite temporale certo dopo il quale l’Amministrazione possa legittimamente provvedere alle ammissioni ed esclusioni” (cfr. TAR Lazio–Roma, sez. I-ter, 30.03.2018, n. 3572).
19.4.3. Con le suddette esigenze di garanzia della par condicio concorrono inoltre, ad avviso del Collegio, quelle inerenti alla necessaria speditezza ed economicità dell’azione amministrativa.
La previsione di un termine perentorio di trasmissione delle osservazioni procedimentali è, difatti, sicuramente la più congeniale al raggiungimento dell’obiettivo di far pervenire i finanziamenti pubblici ai soggetti istanti meritevoli in tempi celeri, e, pertanto, alla pronta realizzazione sul territorio dei progetti di potenziamento, miglioramento e riqualificazione dell’offerta turistico-ricettiva nell’ambito del Fondo Sviluppo e Coesione 2014/2020.
E tale esigenza di celerità dell’azione amministrativa è esplicitamente rimarcata dall’Avviso pubblico.
Una volta ricordato che l’articolo 10 dell’Avviso descrive una procedura di valutazione delle domande articolata in tre fasi, deve qui soggiungersi che il medesimo articolo impone all’Amministrazione procedente delle stringenti tempistiche per la definizione di ciascuna di esse:
   - per la prima e la seconda fase, “60 giorni dalla chiusura dei termini per la presentazione delle domande, con la pubblicazione, sul sito internet della Regione Molise della graduatoria, ordinata per punteggio conseguito troncato alla terza cifra decimale” (comma 4);
   - per la terza fase di valutazione, “60 giorni dall’invio dei documenti di cui al comma 5 che precede da parte dei soggetti proponenti” (comma 9).
Il ritmo serrato impresso all’attuazione della complessiva procedura riguarda però, con piena coerenza, anche la posizione dei privati richiedenti.
L’art. 5 dell’Avviso, invero, stabilisce che i programmi di investimento “ammissibili ad agevolazione” “devono essere:
   a) già “avviati successivamente alla data di presentazione della domanda di agevolazione” (comma 6);
   b) completati “entro e non oltre 36 mesi dalla data di notifica del provvedimento di concessione nella casella PEC di destinazione dell’impresa indicata nella domanda di agevolazione” (comma 7).
Tali prescrizioni della lex specialis, dunque, improntano l’intero procedimento di selezione all’obiettivo di riconoscere il contributo richiesto alle imprese vincitrici in tempi estremamente celeri. E la stessa esigenza di celerità è sottesa all’impiego del verbo “dovere” nell’art. 10, comma 7, ultimo periodo dell’Avviso, che, come si è premesso, depone appunto per la qualificazione come perentoria della scadenza dei 10 giorni lavorativi assegnata per la trasmissione delle controdeduzioni, e relativi documenti, alla comunicazione dei motivi ostativi (“Le controdeduzioni alle comunicazioni per motivi ostativi devono essere inviate al RUP entro il termine di 10 giorni lavorativi dal ricevimento della suddetta comunicazione”).
19.5. Concludendo sul punto, ad avviso del Collegio deve quindi ritenersi che le ragioni di speditezza ed economicità dell’azione amministrativa, qualificanti -come si è visto- l’intero procedimento di selezione in analisi, concorrano con i superiori valori dell’imparzialità e della par condicio nel condurre ad assegnare natura perentoria, e non già semplicemente ordinatoria, al termine di 10 giorni lavorativi dettato dall’art. 10, comma 7, dell’Avviso.
20. Sgombrato il campo da tale preliminare questione, il Collegio può ora affrontare l’ulteriore assunto della ricorrente secondo il quale le sue osservazioni del 18.12.2019 dovevano ritenersi comunque tempestive, in quanto trasmesse alla Regione il penultimo giorno utile.
Nel ricorso si sostiene che solo il 19.12.2019 sarebbe scaduto il termine finale per la trasmissione delle osservazioni all’Amministrazione, muovendo però dal presupposto della non computabilità tra i prescritti “10 giorni lavorativi” né del sabato né della domenica.
21. Questa prospettazione non può essere condivisa.
Il Collegio ritiene, infatti, che il giorno del sabato sia da considerarsi a tutti gli effetti un giorno lavorativo: sicché le osservazioni della Ge. sono indubbiamente tardive, per essere state trasmesse all’Amministrazione procedente il giorno successivo del termine finale del 17.12.2019.
Ai fini dell'individuazione dei giorni festivi deve, invero, farsi riferimento al D.P.R. n. 792 del 28.12.1985, alla stregua del quale:
   a) soltanto la domenica è configurabile quale giorno festivo;
   b) la giornata di sabato, invece, è una giornata lavorativa, con la sola eccezione che in essa ricada una delle festività indicate nel suddetto decreto.
In questo senso, la consolidata giurisprudenza amministrativa ha espresso sull’argomento i seguenti principi:
   “a) la regola secondo cui, in caso di scadenza di un termine in giorno festivo, la proroga dello stesso al successivo giorno non festivo rappresenta un principio di carattere generale, disciplinato dalla vigente legislazione in molteplici disposizioni (art. 2693, c. 2 e 3 c.c., art. 1187 c.c., art. 155, c. 3 e 4 c.p.c., art. 52, c. 3 c.p.a.);
   b) di pari portata non può invece essere considerata la regola di equiparazione del sabato al giorno festivo, prevista dall’art. 155 c.p.c. e dall’art. 52, c. 5 c.p.a., dovendosi alla stessa riconoscere carattere eccezionale, atteso che la sua validità è limitata ai soli atti processuali svolti fuori dall’udienza e solo per i termini che si calcolano in avanti (e non a ritroso);
(…)
      c.1) invero, ai fini dell'individuazione dei giorni festivi deve farsi riferimento al d.P.R. 28.12.1985, n. 792, alla stregua del quale la giornata di sabato, salvo che in essa ricada una delle festività indicate nel suddetto decreto, non è da considerarsi di per sé giorno festivo;
   d) del resto, in senso contrario non può deporre neanche la giurisprudenza citata dal primo giudice (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4752/2012; Sez. V, n. 824/2008), secondo cui l’estensione al sabato sarebbe applicabile (oltre che agli atti processuali) anche ai termini del procedimento amministrativo, atteso che tali pronunce hanno avuto specificamente riguardo ai termini del procedimento amministrativo previsti dalla normativa per regolare l’attività dell’Amministrazione (e non, al contrario, i termini imposti al privato) e, soprattutto, hanno affermato l’applicazione del passaggio dal giorno festivo al primo giorno non festivo, in quanto espressione di principio generale, e non, anche, l’estensione di tale regola al giorno del sabato;
   e) peraltro, nel senso di escludere l’applicazione della regola al sabato è anche la costante giurisprudenza civile (Cass. civ., Sez. II, 01.12.2010, n. 24375; Sez. lav., 22.07.2009, n. 17103, Sez. II, 03.03.2009, n. 5114), non potendo neanche ritenersi contraria la pronuncia della Cassazione civile n. 24375/2010 che, nell’estendere l’applicazione della regola generale “ai rapporti con la P.A. in relazione agli obblighi derivanti da disposizioni la cui violazione comporti la irrogazione di sanzioni amministrative”, lo fa esclusivamente con riferimento ai giorni festivi e non anche al sabato
” (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2019, n. 6443).
Ne consegue che, dovendosi scomputare dal calcolo dei prescritti “10 giorni lavorativi” le sole domeniche dell’8 e del 15 dicembre, le osservazioni della Ge. del 18.12.2019 risultano tardive, per essere state trasmesse all’Amministrazione solo il giorno successivo alla scadenza finale del 17.12.2019.
22. Il primo motivo di ricorso è dunque infondato in entrambi i suoi profili (TAR Molise, sentenza 02.04.2024 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rotazione obbligatoria per i lavori di uguale categoria dopo il primo affidamento. Il Tar Sicilia chiarisce la corretta interpretazione dell’articolo 49 del nuovo codice sulla necessità di variare le imprese assegnatarie degli appalti pubblici.
La locuzione, contenuta nell’articolo 49 del codice, riferita a «due consecutivi affidamenti» si interpreta nel senso che la rotazione diventa obbligatoria nell’aggiudicazione del secondo appalto e non dopo due affidamenti.

In questo senso, il TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 19.03.2024 n. 1099.
La rotazione
Il giudice siciliano affronta importanti tematiche in tema di rotazione tra l'altro, in questo caso in relazione agli appalti di lavori, chiarendo alcuni aspetti applicativi della nuova disposizione (un autentico micro-sistema normativo) oggi contenuta nell'art. 49 del nuovo codice.
In primo luogo viene in rilievo, per ciò che interessa trattare, l'interpretazione corretta della locuzione contenuta nel comma 2 della previsione secondo cui «In applicazione del principio di rotazione è vietato l'affidamento o l'aggiudicazione di un appalto al contraente uscente nei casi in cui due consecutivi affidamenti abbiano a oggetto una commessa rientrante nello stesso settore merceologico, oppure nella stessa categoria di opere, oppure nello stesso settore di servizi».
L'aspetto pratico/applicativo, posto dalla ricorrente esclusa per l'applicazione del criterio della rotazione, è se la locuzione «due consecutivi affidamenti» debba essere intesa come obbligo della stazione appaltante di escludere, per la necessità di applicare la rotazione, solo dopo che siano stati effettuati due affidamenti consecutivi (e quindi con l'impossibilità di affidare le «stesse/analoghe» prestazioni per una terza volta) o se la disposizione debba essere interpretata come in passato ovvero con obbligo di applicare la rotazione dopo il solo primo affidamento (sempre che si tratti di prestazioni analoghe).
La risposta espressa dal giudice si innesta in questa direzione.
In sentenza infatti si statuisce che i «due consecutivi affidamenti» devono essere intesi con riferimento a quello da aggiudicare e a quello «immediatamente precedente» con la conseguenza «che la disposizione vieta il secondo consecutivo affidamento (avente ad oggetto la stessa categorie di opere) e non -come ravvisato dalla parte ricorrente (.)- il «terzo» affidamento da parte dell'operatore già affidatario di due consecutivi affidamenti».
Una simile interpretazione, precisa il giudice, non si rinviene né in «elementi testuali, né (in) elementi sistematici tenuto anche conto che la disposizione si pone in linea di continuità con la precedente regolamentazione di cui alle linee guida Anac n. 4».
La continuità negli affidamenti quale presupposto per la rotazione
La sentenza tratta anche un ulteriore aspetto, stante la censura della ricorrente, relativo alla continuità degli affidamenti.
In pratica, la rotazione si applica sulla base dell'ultimo affidamento ovvero per il fatto che l'operatore economico risulti affidatario «immediatamente precedente».
Il ricorrente contestava questo fatto evidenziando che tra il precedente affidamento (che lo riguardava direttamente) e quello oggetto di contestazione (da cui veniva, appunto, escluso per l'applicazione del criterio di rotazione) la stazione appaltante aveva aggiudicato un ulteriore appalto di lavori a diverso operatore economico con le medesima categoria (OG8). Per effetto di quanto, si legge nella censura, tecnicamente non poteva essere considerato ultimo affidatario (rispetto all'appalto da aggiudicare).
La stessa stazione appaltante, e quindi il giudice, rilevano invece l'infondatezza di tale affermazione considerato che ricorrente e stazione appaltante avevano stipulato apposito atto di sottomissione relativo all'appalto di lavori, assegnato alla ricorrente, con la stessa categoria di quello in causa successivamente al precedente invece citato dal ricorrente.
Tale sequenza rendeva il ricorrente, a tutti gli effetti, l'ultimo aggiudicatario di un appalto di lavori per la categoria OG8. Conclude il giudice, replicando anche ad ulteriori censure, evidenziando che l'art. 49 non contiene alcun riferimento, per i lavori, alle classifiche ed ai sottostanti importi limitandosi a richiamare la medesima categoria di opere (da cui scaturisce l'obbligo della rotazione) con esclusione dell'obbligo dell'alternanza nel caso di «lavori oggettivamente diversi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28.02.2022)».
Irrilevante, altresì, è che l'atto di sottomissione avesse ad oggetto importi limitati (poco più di 7mila euro) visto che l'art. 49 esclude la rotazione solo per importi inferiori ai 5mila euro (comma 6) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.03.2024).
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SENTENZA
Le censure sono infondate.
3.1 L’art. 49 cit. pone il divieto di affidamento della successiva commessa “rientrate nella medesima categoria di opere”, senza alcun riferimento alle classifiche e ai sottostanti importi, e anche questa previsione riproduce quanto era già indicato al paragrafo 3.6 delle Linee Guida ANAC, n. 4 costantemente interpretato dalla giurisprudenza come regola operante sia in caso di identità, sia in caso di analogia della commessa precedente, con la sola esclusione di lavori oggettivamente diversi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28.02.2022, n. 1421; 17.03.2021, n. 2292; TAR Sicilia-Catania, Sez. II, 20.04.2022, n. 1130).
Nel caso in esame, le categorie di opere sono le medesime (circostanza questa già sufficiente ad integrare il presupposto richiesto dalla norma) e, in ogni caso, tra i due lavori (quello aggiudicato alla ricorrente e quello per cui è causa) non si rinviene alcuna “sostanziale alterità qualitativa” delle prestazioni che giustificherebbe l’esclusione del principio di rotazione, in quanto entrambi hanno ad oggetto interventi sugli argini dei fiumi.
3.2 E’, inoltre, privo di rilevanza il richiamo di parte ricorrente al comma 3° dell’art. 49 cit. che si riferisce alla facoltà della stazione appaltante di ripartire gli affidamenti in fasce che -ove previamente esercitata- comporta il divieto solo per le medesime fasce; la norma, infatti, va letta unitamente all’allegato II.1 al Codice, all’art. 1, c. 3, lett. a) e b), che -regolamentando la conduzione delle indagini di mercato- stabilisce che “Le stazioni appaltanti possono dotarsi, nel rispetto del proprio ordinamento, di un regolamento in cui sono disciplinate: a) le modalità di conduzione delle indagini di mercato, eventualmente distinte per fasce di importo, anche in considerazione della necessità di applicare il principio di rotazione degli affidamenti; b) le modalità di costituzione e revisione dell’elenco, distinti per categoria e fascia di importo”.
Nel caso in esame, tuttavia, non risulta adottato alcun regolamento per la ripartizione degli affidamenti in fasce di importo.
4. Parte ricorrente sostiene che, in ogni caso, l’atto di sottomissione (peraltro sottoscritto a ratifica di lavorazioni già eseguite) non può essere considerato come un “nuovo e autonomo contratto modificativo del precedente”, trattandosi di prestazioni comportanti un aumento di spese di “appena” € 7096,00 inferiore al cd. “quinto d’obbligo”.
Il motivo è infondato.
4.1 E’ documentato in atti che le parti abbiano sottoscritto un atto di sottomissione per concordare la realizzazione di lavorazioni “non previste nel contratto di appalto”, circostanza questa già sufficiente a far ravvisare la sopravvenienza di un nuovo contratto modificativo del precedente, mentre il richiamo al cd “quinto d’obbligo” (e alla giurisprudenza formatasi sulla diversa questione della “esigibilità” della prestazione contenuta in tale misura) non assume concreta valenza nell’economia della controversia, trattandosi di elemento neutro rispetto al principio di rotazione e alla sua ratio che, come già anticipato, è anche quella di evitare “rendite di posizione” in capo all’operatore economico che avendo già “operato” con la medesima amministrazione, soprattutto nei mercati in cui il numero di concorrenti non è elevato, ha un’esatta cognizione delle necessità ed esigenze della stazione appaltante, tale da poter agevolmente prevalere sugli altri operatori economici.
4.2 Risulta, inoltre, irrilevante anche il richiamo alla ritenuta esiguità dell’importo dei lavori di cui all’atto di sottomissione posto che il relativo importo (€ 7096,00) è superiore alla soglia fissata dall’ultimo comma dell’art. 49 del D.lgs. 36/2023 (È comunque consentito derogare all'applicazione del principio di rotazione per gli affidamenti diretti di importo inferiore a 5.000 euro), oltre la quale l’applicazione del principio di rotazione risulta obbligatoria.
4.3 Alle argomentazioni che precedono consegue il rigetto del ricorso introduttivo e del primo motivo del ricorso per motivi aggiunti.
5. Quanto alle censure mosse avverso il parere ANAC (secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti) è sufficiente osservare che non si tratta di parere di precontenzioso (e di ciò ne dà chiaramente atto il parere medesimo in premessa), ma solo di atto endoprocedimentale avente natura di parere “consultivo” recante illustrazione e interpretazione della norma, e come tale nemmeno suscettibile di diretta impugnazione.
6. Per tutto quanto sopra esposto l’esclusione della ricorrente dalla gara resiste alle censure formulate nel ricorso introduttivo e nel ricorso per motivi aggiunti e risulta conforme al principio di rotazione; inoltre, la ricorrente, legittimamente esclusa dalla procedura concorsuale, non ha un concreto interesse a contestare l’aggiudicazione della controinteressata per cui il ricorso per motivi aggiunti (limitatamente al terzo motivo) e il secondo ricorso per motivi aggiunti sono improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse (cfr. tra le tante: Cons. Stato, Sez. V, 25.03.2021 n. 2521; 12.09.2019, n. 6159; 25.06.2018, n. 3923; 23.03.2018, n. 1849; 08.11.2017, n. 5161; 1560; Sez. III, 7 marzo 2018, n. 1461; TAR Sicilia -Catania, Sez. II, 15.06.2021, n. 1952).

PUBBLICO IMPIEGO: Controversie relative alle selezioni per incarichi a contratto.
Il TAR Sicilia-Palermo, Sez. IV, nella sentenza 13.03.2024 n. 981, sottolineando che la distinzione tra concorso pubblico e selezione pubblica è stata ampiamente chiarita dal Consiglio di Stato, ha confermato che
le procedure selettive per il conferimento degli incarichi previsti dall’articolo 110 del Tuel non sono “concorsi” in senso tecnico e proprio; pertanto, le relative controversie non appartengono alla giurisdizione amministrativa, bensì a quella del giudice ordinario.
Dal Tar è quindi stato ribadito che la procedura selettiva richiamata dal citato articolo 110 «
non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le altre) attraverso criteri predeterminati, attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi, essendo piuttosto finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall’esterno dell’incarico dirigenziale» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 21.03.2024).
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SENTENZA
   CONSIDERATO che il ricorrente principale in epigrafe:
      - in qualità di dipendente del Comune di Palermo inquadrato nella categoria D, con ricorso notificato il 24.10.2023 e depositato il 2 novembre seguente, ha impugnato, al fine dell’annullamento, previa sospensione cautelare, la determina dirigenziale del 25.07.2023, n. 8969 quale atto di indizione delle “n. 11 selezioni pubbliche per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo pieno e determinato ex art. 110, comma 1, D.Lgs. n. 267/2000”, e, in particolare, quella per il profilo di “Dirigente Ufficio Musei e Spazi Espositivi” con la quale è stato approvato il relativo avviso e gli atti presupposti, ossia: il piano triennale dei fabbisogni del personale, la programmazione di spesa anni 2024-2031 relativa all’utilizzo delle risorse previste per il personale, la direttiva del Sindaco n. 820863 del 18.07.2023 con la quale sono stati individuati i requisiti per il conferimento degli incarichi ex art. 110 del D.lgs. n. 267 del 2000 e l’art. 59 del Regolamento Comunale sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi se interpretato nel senso che la ricognizione interna della professionalità riguardi soltanto il personale dirigenziale.
È dedotta l’illegittimità degli atti impugnati per i motivi di:
   1. “Violazione e falsa applicazione degli artt. 88 e 110 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267; degli artt. 1 e 19 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165; degli artt. 1 e 3 della l. 07.08.1990 n. 241; dell’art. 59 del Regolamento sull'Ordinamento degli Uffici e dei Servizi del Comune di Palermo. Eccesso di potere per errore nei presupposti, difetto d’istruttoria, manifesta illogicità e irragionevolezza. Violazione dei principi di efficienza, efficacia ed economicità” poiché l’amministrazione comunale non ha effettuato alcuna ricognizione, in ordine al possesso dei requisiti, tra i funzionari di categoria D e in tal senso non potrebbe ostare l’art. 59 del Regolamento Comunale sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi che invero se interpretato letteralmente nel senso di ritenere riferito l’onere di preventiva ricognizione al solo personale dirigenziale, sarebbe illegittimo per violazione degli artt. 1 e 19 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 e degli artt. 1 e 3 della l. 07.08.1990 n. 241;
   2. “Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. n. 18.08.2000 n. 267; dell’art. 9-bis del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42; del D.M. 113 del 21.03.2018; del Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi. Eccesso di potere per errore nei presupposti, manifesta illogicità e irragionevolezza” poiché al fine della dimostrazione del possesso della “comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico” di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL, nonché della “comprovata qualificazione professionale” di cui all’art. 19, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, sarebbe stato necessario che la direttiva Sindacale, la successiva delibera della G.M. e l’avviso di selezione impugnati contemplassero tra i requisiti richiesti la formazione o competenza certificata in museologia e in management, l’esperienza pluriennale in un museo e, come titolo preferenziale, l’avere svolto funzioni di conservatore all’interno di un museo;
...
   RITENUTO che il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito.
La giurisprudenza è consolidata, in linea di principio, nell’affermare che la controversia in materia di selezione per il conferimento di incarichi di natura direttiva a tempo determinato ai sensi dell’art. 110 del t.u.e.l. è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, difettando tale procedura dei requisiti del concorso e connotandosi, per contro, per il carattere fiduciario della scelta , seppure motivata, da parte del Sindaco, nell’ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei sulla base dei requisiti di professionalità indicati nell’avviso.
Tale modalità selettiva si distingue dal concorso pubblico per le assunzioni ai pubblici impieghi, le cui controversie sono invece riservate, ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, alla cognizione del giudice amministrativo (Cass. Civ., Sez. Un., ordinanza n. 21600 del 04.09.2018; Consiglio di Stato, V, 24.05.2021, n. 3993; id. 04.04.2017, n. 1549; id. 03.05.2019, n. 2867; Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 16.03.2020, n. 171; id. 20.12.2021, n. 218).
In particolare, è stato osservato che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie per il conferimento di incarichi di natura direttiva "avendo l'art. 63 del D.Lgs. n. 165 del 2011, espressamente attribuito alla giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie in tema di conferimento e revoca di incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni", dovendosi considerare tali atti "come mere determinazioni negoziali e non più atti di alta amministrazione, venendo in tal caso in considerazione come atti di gestione del rapporto di lavoro rispetto ai quali l'amministrazione stessa opera con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro" (cfr. CGARS n. 171 del 16.03.2020; Cass. civ., sez. un. 20.10.2017, n 24877).
La distinzione tra concorso pubblico e selezione pubblica è stata ampiamente chiarita dal Consiglio di Stato, anche di recente, proprio con riferimento alla procedura selettiva prevista dall'art. 110 TUEL: è stato ribadito che la procedura selettiva prevista dal citato art. 110 del D.Lgs. n. 165 del 2001 "non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le altre) attraverso criteri predeterminati, attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi, essendo piuttosto finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall'esterno dell'incarico dirigenziale" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.05.2019, n. 2867; id., 04.04.2017, n. 1549; id., 29.05.2017, n. 2526).
Le predette conclusioni sono adattabili al caso de quo e il Collegio non rinviene ragioni per discostarsene, posto che il procedimento selettivo contestato è stato indetto ai sensi del menzionato art. 110, primo comma del TUEL, e “finalizzato unicamente all’individuazione della parte contraente legittimata alla stipulazione del contratto individuale di lavoro subordinato a tempo determinato” senza dare “luogo alla formazione di alcuna graduatoria di merito comparativa” con la precisazione che “Il Sindaco può riservarsi di non ricoprire alcun incarico”, e previa raccolta delle istanze di coloro che fossero in possesso, oltre che dei requisiti generali per l’ammissione ai pubblici uffici, anche di quelli “per l’accesso alla dirigenza di cui alla scheda n. 45 (Dirigente Culturale), (Allegato A) allegata al presente avviso, fissati nel Regolamento degli Uffici e dei Servizi, parte II”;
   RITENUTO che, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, il ricorso va perciò dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito, sussistendo la giurisdizione del Giudice ordinario, avanti al quale, ai sensi dell'art. 11, c.p.a., potrà essere riproposto il giudizio entro i termini di legge;

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Semplici contrasti con il candidato non causano incompatibilità per il commissario di concorso. In questo caso non scatta l’obbligo di astensione «per inimicizia grave» da parte del commissario nei confronti del candidato.
Scatta l’obbligo per il commissario di concorso di astensione «per inimicizia grave» nei confronti di un candidato, quando essa è reciproca (tra candidato e commissario), afferisce a rapporti personali (ovvero derivi da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni pubbliche esercitate da taluna delle parti in causa) e si estrinsechi in dati di fatto concreti, precisi e documentati.
Semplici episodi di «contrasto» non sono idonei a configurare una situazione di inimicizia grave, tale da imporre un obbligo di astensione del componente della commissione di concorso, specie se risalenti nel tempo e non correlate a documentate gravi conseguenze in capo a ciascuna delle parti coinvolte.

Sono queste le conclusioni cui giunge il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con sentenza 07.03.2024 n. 656, che ha visto protagonista il Comune del capoluogo lombardo.
L'articolo 11 del Dpr 487/1994, nella versione aggiornata dal Dpr 82/2023, stabilisce che i componenti delle commissioni di concorso non devono trovarsi in situazioni di incompatibilità tra essi e i candidati, ai sensi dell'articolo 51 del codice di procedura civile. Il predetto articolo 51 individua tra cause di incompatibilità la «grave inimicizia» nei confronti di un candidato.
Sulla scorta del dettato normativo richiamato un candidato ha ritenuto di impugnare, innanzi al giudice amministrativo, la procedura concorsuale indetta dal Comune deducendo l'esistenza di una situazione di conflitto di interessi in capo ad un componente della commissione in regione della sussistenza di cattivi rapporti tra questi e suo padre (rappresentate sindacale dell'ente).
Il dissapore tra i due era nato a seguito di una denuncia di querela di diffamazione, poi archiviata, del commissario nei confronti del padre del ricorrente, per fatti risalenti ad alcuni anni fa ed inerenti a vicende legate all'attività lavorativa presso la stessa amministrazione. 
Il giudice amministrativo, richiamando consolidati approdi giurisprudenziali, ha precisato che per configurarsi l'obbligo di astensione «per inimicizia grave» nei confronti di un candidato, quando essa sia reciproca (ovvero intercorrenti tra candidato e commissario e non anche quelli tra il componente della commissione ed un parente del candidato), trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali (ovvero afferisce a vicende estranee allo svolgimento delle funzioni pubbliche esercitate da taluna delle parti in causa) e si estrinsechi in dati di fatto concreti, precisi e documentati (pertanto, la mera presentazione di una denuncia penale o, comunque, il compimento di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale non risultano inidonee ad esprimere un livello di conflittualità, concreto e attuale) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.03.2024).
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SENTENZA
13. Con il secondo mezzo, la ricorrente deduce l’esistenza di una situazione di conflitto di interesse in capo al Presidente della Sottocommissione di esame n. 3, determinata dalla sussistenza di cattivi rapporti tra questi e il padre della ricorrente, rappresentante sindacale.
In particolare, risulta documentato in atti che il Presidente della Sottocommissione di esame n. 3 ha sporto, nel 2013, una querela per diffamazione contro il padre della ricorrente, poi archiviata con provvedimento del 26.12.2013; quest’ultimo, nel 2017, ha formalizzato un atto di diffida nei confronti del Presidente della Sottocommissione per violazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 165/2001 e del D.Lgs. n. 81/2008, dei cui esiti non vi è traccia in atti.
Sulla base di tali elementi, pertanto, il Presidente della Sottocommissione avrebbe dovuto astersi dall’esaminare la ricorrente data la sussistenza di gravi ragioni di convenienza e la grave inimicizia nei confronti del padre della candidata, come previsto all’art. 51 c.p.c.
Inoltre, poiché gli altri membri della commissione giudicatrice sono entrambi in posizione gerarchicamente subordinata al Presidente, che riveste la carica di dirigente, sarebbero state violate le disposizioni di legge che ne dovrebbero garantire l’imparzialità e la serenità di giudizio.
Le censure sono complessivamente infondate.
13.1 Dal tenore complessivo degli scritti difensivi, si può ritenere che la ricorrente articoli le proprie doglianze evocando due distinte ipotesi di conflitto di interessi, che, pur trovando entrambe la propria collocazione all’interno della disposizione di cui all’art. 51 c.p.a., si mantengono autonome nei presupposti e vanno, conseguentemente, analizzate separatamente.
Va ricordato che le cause di incompatibilità di cui alla citata previsione, pur disciplinando espressamente il dovere di astensione del giudice, sono estensibili a tutti i campi dell’azione amministrativa e, pertanto, trovano applicazione come paradigma normativo di riferimento anche alle commissioni giudicatrici di pubblici concorsi, quale applicazione diretta dell’obbligo costituzionale d’imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 16.01.2024, n. 535; Id., 02.04.2014, n. 1577; Id., 24.01.2013 n. 477).
L’art. 51, comma 1, num. 3), c.p.c. stabilisce l’obbligo di astensione nel caso in cui il soggetto giudicante o il coniuge abbiano “grave inimicizia (…) con una delle parti”. È poi ammessa, secondo il disposto di cui al comma 2, la possibilità di astensione facoltativa “in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza”.
14. Quanto alla prima ipotesi, ritiene il Collegio che nella fattispecie non sussistano gli elementi necessari per configurare in capo al Presidente della Sottocommissione esaminatrice un obbligo di astensione “per inimicizia grave” nei confronti dell’odierna ricorrente.
Secondo i consolidati approdi giurisprudenziali, da cui il Collegio non rinviene ragione per discostarsi, l’“inimicizia grave” cui fa riferimento la norma deve “essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivare da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni ed estrinsecarsi in dati di fatto concreti, precisi e documentati” (Cons. di Stato, Sez. V, 20.12.2018 n. 7170).
Inoltre, “(...) deve configurarsi come autonomamente insorta da rapporti interpersonali legati a vicende della vita estranee alle funzioni pubbliche esercitate da taluna delle parti in causa (Consiglio di Stato, Sez. VI, Consiglio di Stato sez. VI, 06.04.2022, n. 2552; Consiglio di Stato sez. VI, 10.01.2022, n. 163)” (Cons. Stato, Sez. VII, 16.11.2022, n. 10098).
14.1 Nel caso di specie, sono richiamati essenzialmente due episodi di “contrasto” posti a fondamento del predetto obbligo di astensione, i quali, tuttavia, non consentono di configurare una situazione di “inimicizia grave” tale da imporre un obbligo di astensione.
Trattasi, difatti, di situazioni non solo risalenti nel tempo e non correlate a documentate gravi conseguenze in capo a ciascuna delle parti coinvolte –la denuncia per diffamazione è stata archiviata e non si conoscono gli sviluppi successivi alla diffida–, ma anche riguardanti esclusivamente i rapporti intercorrenti tra il Presidente della Sottocommissione e il padre della ricorrente, cioè una relazione non presa in considerazione dal dettato dell’art. 51 c.p.a. e, pertanto, non rientrante tra le ipotesi tassative descritte dalla predetta norma.
Inoltre, la vicenda penale alla quale fa riferimento la ricorrente e la successiva diffida non originano da rapporti privati, ma attengono a vicende riconducibili all’ambito dell’attività di servizio.
14.2 Del resto, come più volte sottolineato dalla giurisprudenza, la mera presentazione di una denuncia penale o, comunque, il compimento di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale non sono sufficienti a integrare la fattispecie in discussione, poiché risultano inidonee a esprimere un livello di conflittualità -concreto e attuale nel senso prima indicato- tale da imporre l’obbligatoria astensione del soggetto giudicante (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 16.01.2024, n. 353; Id., Sez. IV, 08.05.2023, n. 4597).
Per contro, l’eccessiva dilazione delle cause di astensione si porrebbe in contrasto con il corretto esercizio dell’azione amministrativa nell’ambito delle procedure a carattere selettivo.
Difatti, come chiarito dalla giurisprudenza, la tassatività della cause di astensione e la necessità di una loro rigorosa applicazione servono a evitare sia che la presentazione ad arte di denunce possa in astratto estendere all’infinito i doveri di astensione e le cause di incompatibilità, con il rischio di paralisi o di ritardi nell’attività amministrativa degli uffici, sia che il denunciante, per tale via, ottenga che le proprie istanze non vengano decise da soggetti a qualunque titolo poco graditi, incidendo così sull’esercizio del pubblico potere (CGARS, Sez. Giurisd., 11.02.2022 n. 190; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 24.10.2022, n. 2988).
Deve dunque escludersi, alla luce di quanto precede, l’esistenza di un obbligo di astensione per inimicizia grave di cui all’art. 51, comma 1, c.p.c.
15. Ciò posto, occorre adesso verificare se possa rinvenirsi nel caso in esame la sussistenza di un conflitto di interessi o di “gravi ragioni di convenienza” tali da richiedere l’astensione del Presidente della Sottocommissione che ha esaminato la ricorrente.
Va premesso che, oltre all’art. 51, comma 2 c.p.c., l’astensione per “gravi ragioni di convenienza” è espressamente prevista per i pubblici dipendenti, con identica locuzione, all’art. 7 del D.P.R. n. 62/2013. L’art. 6-bis della Legge n. 241/1990 stabilisce, inoltre, un obbligo di astensione “in caso di conflitto di interessi”, corredato dal dovere di segnalare “ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. Similmente l’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede la verifica o la dichiarazione di situazioni, “anche potenziali”, di conflitto di interesse.
15.1 Ritiene il Collegio che, alla luce del quadro regolatorio sopra sinteticamente tratteggiato, le circostanze allegate dalla ricorrente non costituiscano gravi ragioni di convenienza rilevanti ai sensi dell’art. 51, comma 2, c.p.c. e dell’art. 7 del D.P.R. n. 62/2013, né conducano ad affermare la sussistenza di un “conflitto di interessi” in capo al Presidente della Sottocommissione.
16. Sul piano interpretativo, le nozioni sopra richiamate sono state oggetto di un’ampia ricostruzione all’interno del parere della Sezione Consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato, n. 667/2019, reso in esito all’Adunanza di Sezione del 31.01.2019, che, sebbene relativo alle procedure di affidamento di contratti pubblici, può essere richiamato anche in questa sede in considerazione della natura generale e sistematica delle questioni definitorie ivi affrontate.
16.1 In detta sede, quanto al concetto di conflitto di interessi (i.e. di conflitto di interessi “attuale”), è stato chiarito che esso si configura “come una condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse funzionalizzato”.
Inoltre, perché il conflitto sorga, è necessario “che si sia alla presenza di veri e propri interessi, (...) vale a dire che effettivamente sussista un bisogno da soddisfare e che tale soddisfazione sia raggiungibile effettivamente subordinando un interesse all’altro. Vengono quindi in rilievo non già situazioni astratte e meramente potenziali, ma concrete, specifiche e attuali”.
16.2 Diversamente, il conflitto di interessi potenziale ricorre in presenza di condizioni che “per loro natura, pur non costituendo allo stato una delle situazioni tipizzate, siano destinate ad evolvere in un conflitto tipizzato”.
E ciò vale in relazione sia alle ipotesi che fondano l’obbligo di astensione –nella fattispecie, come sopra evidenziato, si tratterebbe dell’“inimicizia grave”– sia a quelle situazioni che possano per sé favorire l’insorgere di una condizione di “non indipendenza e imparzialità in relazione a rapporti pregressi, solo però se inquadrabili per sé nelle categorie dei conflitti tipizzati (…) Entrambi i tipi di situazione, quelle che evolvono de futuro verso il conflitto e quelle favorenti de praeterito il conflitto, costituiscono la declinazione delle gravi ragioni di convenienza di cui agli art. 7 e 51 citati in cui si risolvono, ed anche del “potenziale conflitto” di cui agli articoli 6-bis e 53 citati. In sostanza la qualificazione “potenziale” e le “gravi ragioni di convenienza” sono espressioni equivalenti perché teleologicamente preordinate a contemplare i tipi di rapporto destinati, secondo l’id quod plerumque accidit, a risolversi (potenzialmente) nel conflitto per la loro identità o prossimità alle situazioni tipizzate”.
Pertanto, “possono configurarsi ipotesi di potenziale conflitto di interessi, con conseguente obbligo di astensione, solo quando ragionevolmente l’organo amministrativo chiamato a svolgere una determinata attività si trovi in una posizione personale e/o abbia relazioni con terzi che possono, anche astrattamente, inquinare l’imparzialità dell’azione amministrativa, con riferimento alla potenzialità del verificarsi di una situazione tipizzata di conflitto”.
16.3 In sostanza, può affermarsi la presenza di un conflitto di interessi attuale quando ricorra in concreto una delle cause tipiche di astensione obbligatoria, mentre il “conflitto di interessi potenziale”  coincidente con le “gravi ragioni di convenienza”– si manifesta in presenza circostanze idonee a evolvere in una situazione tipica di astensione obbligatoria oppure nel caso di vicende pregresse, comunque tali da integrare a suo tempo una situazione tipizzata di conflitto, che possano favorire l’insorgere di una condizione di non indipendenza e imparzialità dell’organo giudicante (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 03.05.2023, n. 7450).

ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittime le ordinanze sindacali sugli orari di chiusura diurna delle sale giochi.
Quando si tratta di misure sproporzionate e inadeguate rispetto all’obiettivo da perseguire, cioè il contrasto al fenomeno della ludopatia.
Libertà di impresa e potere regolatorio dei Comuni in materia di orari delle attività produttive. Tema sempre vischioso e spesso foriero di contenziosi giurisdizionali fra le imprese, che puntano a una propria organizzazione aziendale libera da limitazioni pubblicistiche, e Comuni che, invece, tendono a dire la loro per tutelare interessi generali.
Sullo sfondo, la tutela della concorrenza che costituisce uno dei pilastri basilari su cui poggia il diritto e l'economia dell'Unione Europea, sul presupposto che solo il libero gioco delle forze e dei soggetti operanti sul mercato opportunamente vigilato dalle istituzioni europee e dagli stati membri, contribuisca a una crescita ordinata e proficua dell'Unione stessa.
Essa, fra l'altro, impone agli Stati membri di astenersi dall'adozione di atti legislativi o provvedimenti amministrativi che risultino elusivi dei principi in tema di libera concorrenza, in particolare vietando interventi e misure incompatibili con gli stessi e che non si giustifichino, a seguito di un ponderato bilanciamento di interessi, con la necessità di tutelare altri valori dichiarati preminenti (per esempio, la tutela della salute, dell'ambiente eccetera).
In tema di orari di svolgimento delle attività produttive, in particolare, l'articolo 31 del Dl 201/2011 (Salva Italia) convertito dalla legge 214/2011, ha modificato l'articolo 3, comma 1, lettera d-bis), del del Dl 223/2006, convertito dalla legge 248/2006 (Decreto Bersani), stabilendo- di fatto- che le attività commerciali possano essere svolte senza particolari limiti, fra cui il rispetto degli orari di apertura, se non per la motivata necessità di tutelare interessi sensibili come il diritto alla salute e dunque per contrastare la ludopatia, cioè la dipendenza da gioco patologico.
È proprio questo il limite che i Comuni non possono superare e cioè la proporzionalità, l'adeguatezza e la ragionevolezza dei propri atti regolatori.
Cosa che evidentemente non è accaduta per un Comune della Liguria che si è visto annullare dal Consiglio di Stato-Sez. V (sentenza 06.03.2024 n. 2196) l'ordinanza sindacale con cui aveva consentito il gioco lecito in sale giochi, bar e tabaccherie esclusivamente nella tarda serata e nella notte, vietandolo invece dalle ore 7,00 alle 19,00. Finendo per incidere sfavorevolmente, in particolare, sui titolari di tabaccherie tenute a rispettare un orario diurno di apertura, comportando conseguentemente a loro danno una drastica limitazione dell'orario di funzionamento e, invece, una ingiustificata disparità di trattamento a favore delle sale giochi e sale scommesse che, al contrario delle tabaccherie, sono attive abitualmente di notte o comunque nei tardi orari serali.
In altre parole, secondo Palazzo Spada, il provvedimento comunale si è risolto in una misura sproporzionata e inadeguata rispetto all'obiettivo da perseguire, cioè il contrasto al fenomeno della ludopatia, tenendo anche conto del fatto che la decisione dell'orario notturno in cui concentrare le giocate finisce per determinare il minor controllo del territorio e delle fasce di popolazione più esposte.
I Comuni, insomma, in coerenza con la giurisprudenza costituzionale sviluppatasi dopo la sentenza n. 220 del 2014 e con quella amministrativa, possono si limitare con apposite ordinanze sindacali ex articolo 50, comma 7, del Dlgs 267/2000, purché coerenti con i criteri di proporzionalità e ragionevolezza, gli orari di apertura di talune attività commerciali, come le sale giochi e quelle in cui sono stati installati apparecchi da gioco lecito ex articolo 110, comma 6, del Tulps, ma solo per la motivata necessità e la concreta possibilità di tutelare interessi sensibili come il diritto alla salute e dunque per contrastare la ludopatia.
Diversamente si tratta di misure irragionevoli e viziate da eccesso di potere (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici, ecco come riconoscere la situazione di «frontistanza».
Il Tar Latina annulla l’improcedibilità di una Dia decisa da un comune a causa dell’errata applicazione dell’articolo 9 del Dm 1444/1968.
Un ente locale laziale ha recentemente imparato dal Tar a riconoscere la situazione di “frontistanza” tra due edifici. L’occasione è arrivata dalla dichiarazione di improcedibilità di una Dia per la presunta violazione dell’articolo 9 del Dm 1444 sulle distanze. Il ricorso è stato accolto dai giudici della Seconda Sezione del Tar Latina, i quali hanno annullato l’atto del comune.
La vicenda riguarda un ampliamento di un edificio (in virtù del piano casa Lazio), che viene però negato di fatto dal Comune per una serie di motivi tra cui appunto la violazione dell'articolo 9 del Dm 1444, «essendo rilevabile una costruzione di terzi la cui parete frontistante è posta alla distanza di circa ml. 5,50 da questo».
A sostegno della sua decisione, l'ente locale ricorda l'orientamento della giurisprudenza sulle distanze legali in edilizia, come consolidatosi a seguito di varie pronunce. Peccato però che abbia sbagliato nell'individuare la fattispecie.
Il Tar concede che «effettivamente la giurisprudenza formatasi in ordine al rispetto della previsione in materia di distanza tra edifici antistanti e relative pareti finestrate è estremamente restrittiva e severa».
«Nondimeno -si legge nella sentenza 28.02.2024 n. 173- la tesi dei ricorrenti secondo cui nella fattispecie non ricorrerebbe il presupposto applicativo dell'articolo 9 risulta persuasiva data la particolarità del caso in cui il preesistente edificio è collocato su un piano diverso e a quota più alta rispetto a quello di progetto cosicché può essere escluso che i due edifici siano antistanti o frontistanti».
Più in generale, i giudici ricordano quanto chiarito dalla Cassazione (a partire dalla nota pronuncia n. 3043/2020) sul fatto che «la nozione di frontistanza ricorre nella situazione di edifici che, da bande opposte rispetto alla linea di confine, presentino le rispettive facciate che si fronteggino almeno per un segmento, di guisa che, supponendo di farle avanzare, in modo lineare e non radiale (o a raggio) come invece previsto in materia di vedute (art. 907 c.c.), e precisamente in linea ortogonale tra i diversi fronti, si incontrino almeno in quel segmento. Se tale possibilità di fronteggiamento non esiste, non si lede alcuna norma sulle distanze fra costruzioni».
Nel caso specifico «ipotizzando il movimento lineare delle due facciate nel senso descritto il loro incontro non si verifica perché l'immobile di progetto è interamente sottoposto a quello preesistente e quindi l'articolo 9 non è applicabile» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.03.2024).
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SENTENZA
Il ricorso è fondato.
In sintesi va rilevato per quanto concerne l’edificio n. 1 che sono pienamente condivisibili le argomentazioni dei ricorrenti in ordine alla violazione dell’articolo 3 della legge regionale n. 21 del 2009.
L’articolo 3 della legge infatti prevede che gli interventi in essa previsti siano attuabili in deroga alle disposizioni degli strumenti urbanistici vigenti e adottati, ponendo come unico limite in ordine alle distanze le previsioni dell’articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 che si riferiscono alle distanze tra fabbricati e non rispetto alle strade o ai confini.
Il comune ha ritenuto –erroneamente– che la deroga agli strumenti urbanistici prevista dall’articolo 3 riguardasse “esclusivamente il maggior carico insediativo derivante dalla premialità volumetrica concessa dalla legge” ma così non è; la deroga infatti si riferisce in genere a altezze, distanze, superfici e volumi e trova il suo limite, come riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale che si è più volte occupata di leggi regionali in materia, nel rispetto della normativa sui cd. standard recata dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (cfr. ad es. Corte Costituzionale n. 119 del 23.06.2020 che ha respinto un’eccezione di legittimità costituzionale relativa a una norma della regione Veneto relativa proprio alla espressa previsione di deroga alla disciplina in materia di distanze fissata da strumenti urbanistici).
Diverso discorso va fatto per l’edificio 4.
In questo caso il comune ritiene non assentibile il progetto perché:
   a) nella parte in cui è prevista la costruzione in aderenza con un altrui fabbricato verrebbero chiuse delle aperture (il provvedimento precisa che di queste aperture i ricorrenti avrebbero sostenuto l’illegittimità che non sarebbe stata accertata);
   b) l’ampliamento nella parte in cui andrebbe a confinare con uno spazio non interessato da costruzione violerebbe l’articolo 9 del D.M. n. 1444 citato perché verrebbe a trovarsi alla distanza di m. 5,50 da una costruzione di terzi.
I ricorrenti al riguardo rilevano che:
   a) in ordine alle aperture che verrebbero chiuse, che la chiusura di queste luci è stata concordata con lo stesso proprietario confinante (il controinteressato -OMISSIS-) e che tale circostanza era stata segnalata al comune, che l’ha ignorata, negli elaborati presentati;
   b) in ordine alle distanze tra pareti finestrate, il problema in realtà nemmeno si pone in quanto “l’ampliamento sarà edificato in aderenza con il muro dell’immobile confinante e rimarrà al di sotto del piano di edificazione di quest’ultimo. Per cui non si pone né un problema di pareti finestrate antistanti né un problema di distanze dall’immobile confinante”.
Il comune, in ordine al secondo profilo, richiama la giurisprudenza formatasi in materia secondo la quale la distanza minima tra pareti finestrate –la cui prescrizione è pacificamente inderogabile– “va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89)” evidenziando che “tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383; Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731)”, risultando “sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n. 20574)”.
Il Collegio ritiene che le argomentazioni dei ricorrenti siano fondate.
Per quanto concerne il primo profilo infatti è documentato (ed era stato documentato al comune in sede di procedimento) che la chiusura delle luci per l’edificazione dell’ampliamento sul confine è oggetto di una specifica pattuizione tra gli interessati e ciò evidentemente elimina in radice ogni questione.
Per quanto riguarda invece il secondo profilo si tratta di questione più problematica dato che deve riconoscersi che effettivamente la giurisprudenza formatasi in ordine al rispetto della previsione in materia di distanza tra edifici antistanti e relative pareti finestrate è estremamente restrittiva e severa in ragione della ratio della disposizione (che, come noto, è quella di evitare la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario).
Nondimeno la tesi dei ricorrenti secondo cui nella fattispecie non ricorrerebbe il presupposto applicativo dell’articolo 9 risulta persuasiva data la particolarità del caso in cui –come è rappresentato negli elaborati grafici– il preesistente edificio è collocato su un piano diverso e a quota più alta rispetto a quello di progetto cosicché può essere escluso che i due edifici siano antistanti o frontistanti; sul punto la Cassazione ha avuto modo di chiarire che “
la nozione di frontistanza ricorre nella situazione di edifici che, da bande opposte rispetto alla linea di confine, presentino le rispettive facciate che si fronteggino almeno per un segmento, di guisa che, supponendo di farle avanzare, in modo lineare e non radiale (o a raggio) come invece previsto in materia di vedute (art. 907 c.c.), e precisamente in linea ortogonale tra i diversi fronti, si incontrino almeno in quel segmento. Se tale possibilità di fronteggiamento non esiste, non si lede alcuna norma sulle distanze fra costruzioni” (Cassazione civile, sez. II, 10.02.2020, n. 3403, id., 03.10.2018, n. 24076).
Nella fattispecie –ipotizzando il movimento lineare delle due facciate nel senso descritto– il loro incontro non si verifica perché l’immobile di progetto è interamente sottoposto a quello preesistente e quindi l’articolo 9 non è applicabile.

APPALTI: Offerte anomale, nessun obbligo di confronto Rup-impresa prima dell’esclusione. Il Tar Liguria chiarisce che con il nuovo codice le intelocuzioni con il concorrente si concentrano nella presentazione dei giustificativi
Il procedimento di verifica della potenziale anomalia, disciplinato nell’art. 110 del nuovo codice, non prevede –oltre alla produzione delle giustificazioni del Rup-, alcun obbligo di fasi di interlocuzione che rimangono solo eventuali.

In questo senso il TAR Liguria, Sez. I, sentenza 28.02.2024 n. 165.
Il caso
La vicenda trattata dal giudice ligure riveste una indubbia rilevanza pratica relativamente al corretto esperimento del (sub)procedimento di competenza del Rup, di verifica della potenziale anomalia dell'offerta.
Nel caso trattato, in relazione ad una gara di importo soprasoglia, la commissione rilevava alcune potenziali anomalie e trasmetteva gli atti al Rup il quale procedeva con la richiesta delle giustificazioni ex art. 110 (a 11 candidati).
A questa richiesta seguiva un riscontro di sei candidati di cui tre posizionati nelle prime tre posizioni della graduatoria di aggiudicazione. Non irrilevante il fatto che fin dalla legge di gara la stazione appaltante, in relazione all'eventuale sub procedimento in commento, precisava che in nessun caso si sarebbero avviate «interlocuzioni o (richiesta di) chiarimenti ulteriori rispetto alla richiesta di giustificazioni da parte del Rup sulle offerte ritenute anomale».
Inoltre, nella richiesta di giustificazioni, il Rup precisava che «in caso di mancata o parziale presentazione di quanto richiesto, si procederà all'esclusione di codesta impresa». Veniva pertanto nominata apposita commissione tecnica per la verifica ex art. 110 del nuovo codice dei contratti.
In seguito alle verifiche, emergeva -per ciò che qui interessa trattare- che la potenziale aggiudicataria presentava, in realtà, delle giustificazioni non complete omettendo la presentazione del documento richiesto relativo all'analisi dei prezzi.
A questa constatazione faceva seguito l'esclusione di questo operatore economico che impugnava oltre all'aggiudicazione anche, evidentemente, il provvedimento di estromissione dalla procedura. Tra le censure, il ricorrente valorizza la violazione dell'art. 110, comma 2, del nuovo codice e dei principi in materia di soccorso istruttorio non avendo, il Rup, proceduto ante esclusione dalla gara ad avviare «un contraddittorio finalizzato ad integrare le giustificazioni ritenute incomplete».
La sentenza
Il rilievo non persuade il giudice.
In sentenza si precisa, infatti, che con la nuova disposizione -a differenza del pregresso codice- il legislatore «per esigenze di celerità delle procedure di affidamento» concentra «le interlocuzioni con l'offerente nella fase della richiesta di giustificazioni e della presentazione delle stesse» in un termine perentorio non superiore a 15 giorni, «non prevedendo interlocuzioni ulteriori».
Se è vero che fasi di interlocuzioni non si possono escludere, è altresì vero che in mancanza di una previsione espressa dette fasi si pongono «come eccezione alla regola generale» risultando condizionate «al rispetto dei principi di autoresponsabilità, efficienza (art. 1, L. n. 241/1990), risultato (art. 1 D.lgs n. 36/2023)».
Si tratterebbe, quindi, di un momento puramente eventuale presidiato dal Rup e condizionato da esigenze specifiche. In difetto, rinviando la decisione (sulla possibile esclusione) con richieste ulteriori e/o interlocuzioni, si violerebbe la par condicio.
Nel caso di specie, inoltre, e non a caso le precise indicazioni nella legge di gara, la procedura di aggiudicazione era impostata per assicurare l'aggiudicazione secondo la massima tempestività possibile trattandosi di appalto Pnrr.
Il giudice, opportunamente, indica i diversi motivi per cui la pretesa illegittimità non persuade, in particolare: avviare una fase di interlocuzione per acquisire nuovi documenti non prodotti in fase di richiesta, confligge con il principio di autoresponsabilità dell'operatore economico. Ed in questo senso ampia giurisprudenza in cui si precisa che chi decide di competere in una gara pubblica è chiamato ad una osservanza stringente del principio di autoresponsabilità che impone un grado di professionalità e di diligenza superiore rispetto alla media che non riguarda solo l'esecuzione del contratto, ma anche le fasi prodromiche e genetiche (Tar E. Romagna, n. 707/2023).
L'aver omesso documenti espressamente richiesti sostanzia una violazione rilevante del principio in parola; nel caso di specie, procedimento di verifica di potenziale anomalia, il RUP non avrebbe neppure potuto attivare il soccorso istruttorio integrativo visto che tale strumento non è utilizzabile per supplire ad elementi mancanti relativi alle offerte tecniche ed economica e, secondo la recente giurisprudenza, neppure per sopperire ad omissioni dovute alla violazione del principio di autoresponsabilità e di diligenza (Tar V. d'Aosta n. 25/2023); né si sarebbe potuto avviare il soccorso istruttorio specificativo ovvero quella ordinaria fase di interlocuzione che consente un ambito di azione limitato alla richiesta di meri chiarimenti ma non anche la possibilità di presentare nuova documentazione e/o modifiche dell'offerta.
Del resto, conclude la sentenza, in una simile situazione (in cui risultava omessa la produzione di un documento fondamentale), il soccorso procedimentale/specificativo «non avrebbero potuto supplire a tali omesse produzioni di dati e di documenti» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.03.2024).
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SENTENZA
26) Con il SECONDO MOTIVO (dei secondi motivi aggiunti) il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 110, comma 2, del D.lgs. n. 36/2023 e dei principi in materia di soccorso istruttorio, con conseguente illegittimità del provvedimento espulsivo perché non preceduto da un contraddittorio finalizzato ad integrare le giustificazioni ritenute incomplete.
Il motivo è infondato.
26.1) L’invocato art. 110, comma 2, del D.lgs. n. 36/2023, a differenza del Codice del 2006, per esigenze di celerità delle procedure di affidamento, ha concentrato le interlocuzioni con l’offerente nella fase della richiesta di giustificazioni e della presentazione delle stesse nel termine perentorio non superiore a 15 giorni, non prevedendo interlocuzioni ulteriori.
E’ vero che tale norma non vieta ogni confronto sui profili ritenuti critici, ma quest’ultimo, in mancanza di una previsione espressa, si pone come eccezione alla regola generale e soggiace al rispetto dei principi di autoresponsabilità, efficienza (art. 1, L. n. 241/1990), risultato (art. 1 D.lgs n. 36/2023), “par condicio competitorum”, di soccorso istruttorio e procedimentale di cui all’art. 101 del D.lgs. n. 36/2023, nonché alla disciplina speciale prevista per gli appalti finanziati con i fondi del PNRR.
26.2) Inoltre il caso di specie è caratterizzato dall’omessa allegazione dei documenti giustificativi dell’offerta anomala relativa alla parte essenziale delle giustificazioni costituita dall’Analisi dei prezzi, correttamente richiesta dal RUP per la verifica di congruità dell’offerta caratterizzata dal notevole ribasso proposto del 43,74%.
In tale situazione l’applicazione dei suddetti principi porta a ritenere legittima l’impugnata esclusione dell’offerta per le seguenti plurime ragioni.
   i) In primo luogo il supplemento interlocutorio per supplire alla mancata produzione documentale confligge con il principio di autoresponsabilità dell’operatore economico.
La giurisprudenza ha precisato, infatti, che “Le imprese partecipanti alle selezioni per gli affidamenti di appalti pubblici sono chiamate all’osservanza stringente del principio di autoresponsabilità che impone un grado di professionalità e di diligenza superiore rispetto alla media che non riguarda solo l’esecuzione del contratto, ma anche le fasi prodromiche e genetiche” talché “i concorrenti non possono pretendere di scaricare sull’amministrazione problemi che essi stessi potrebbero risolvere utilizzando la diligenza esigibile da un operatore qualificato, qual è l’impresa che partecipa ad una gara pubblica. Ne consegue che nessun onere di accertamento dell’esistenza del requisito, al di là di quello dichiarato in sede di gara, esistesse in capo alla stazione appaltante” (TAR Emilia Romagna-Bologna 707/2023; TAR Lombardia-Milano 2598/2021; TAR Piemonte, n. 616/2022).
In base a tale principio l’omessa trasmissione di una parte fondamentale dei documenti giustificativi –specie in relazione al notevole ribasso offerto- costituisce una violazione così rilevante dei principi di autoresponsabilità e diligenza (la quale, per gli operatori economici, è superiore a quella richiesta al quisque de populo), da non poter essere colmata mediante supplementi istruttori o interlocutori che, come detto, costituiscono uno strumento eccezionale perché determinano la rimessione in termini di uno o più concorrenti nel subprocedimento di verifica dell’anomalia, a fronte di altri candidati che hanno depositato giustificazioni chiare e complete nel rispetto del termine perentorio previsto dall’art. 110 del nuovo Codice.
   ii) Nella fattispecie, trattandosi di appalto finanziato con fondi del PNRR, l’ipotizzato supplemento partecipativo contrasta anche con i principi di massima celerità della conclusione delle singole fasi della procedura, in ragione dei meccanismi che prevedono la perdita dei finanziamenti assegnati in caso di ritardi rispetto ai termini prefissati.
   iii) La SA non avrebbe potuto neppure attivare il soccorso “istruttorio” previsto dall’art. 101, commi 1 e 2 perché tale strumento non è utilizzabile per supplire ad elementi mancanti relativi alle offerte tecniche ed economica e, secondo la recente giurisprudenza, neppure per sopperire ad omissioni dovute alla violazione (avvenuta, come si è detto, nel caso di specie) del principio di autoresponsabilità e di diligenza dei partecipanti, atteso che “Per quanto possa ampliarsi la portata applicativa del potere generale di soccorso istruttorio, ... occorre pur sempre individuare dei limiti al suo esercizio, i quali sono segnati dai principi generali di autoresponsabilità” (TAR Valle d’Aosta n. 25/2023; TAR Lombardia-Milano n. 1795/2023).
   iv) Infine non sarebbe stato praticabile neppure lo strumento (facoltativo) del soccorso “procedimentale” di cui all’art. 101, comma 3, del D.lgs n. 36/2023 che consente alla SA di chiedere spiegazioni anche in merito alle offerte tecnica ed economica, sempre che tali chiarimenti non modifichino l’offerta.
In particolare detti chiarimenti sono ammessi quando le giustificazioni, sebbene complete, lascino un margine di dubbio, mentre nel caso di specie le giustificazioni sono caratterizzate da una ampia e decisiva carenza documentale, non colmabile da parte di alcun chiarimento.
In tale situazione il soccorso procedimentale sarebbe stato inutile perché la ricorrente non ha fornito dati poco chiari, ma ha omesso di fornire intere categorie di dati e giustificazioni, sicché eventuali chiarimenti richiedibili con tale strumento istruttorio non avrebbero potuto supplire a tali omesse produzioni di dati e di documenti.
Ne consegue che la SA ha legittimamente omesso di richiedere integrazioni o chiarimenti.

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Va rilevato come la clausola di immediata eseguibilità (apposta ai sensi dell’art. 134 del TUEL) rende efficace la delibera indipendentemente dalla pubblicazione.
Invero, l'art. 134, comma 4, del TUEL, nella parte in cui dispone che nel caso di urgenza le deliberazioni del Consiglio comunale o della Giunta possono essere dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, è norma che tende a salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale -dal giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione- che potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per il pubblico interesse di volta in volta perseguito.

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6. L’appello è infondato.
7. Quanto ai motivi con i quali si ripropongono, in critica alla sentenza, vizi formali o procedimentali della deliberazione del Consiglio Metropolitano 30.05.2017, n. 81, va rilevato come la clausola di immediata eseguibilità (apposta ai sensi dell’art. 134 del TUEL) rende efficace la delibera indipendentemente dalla pubblicazione (in termini si veda, per tutte, TAR Piemonte, sez. I, 06/02/2015, n. 258, secondo cui l'art. 134, comma 4, del TUEL, nella parte in cui dispone che nel caso di urgenza le deliberazioni del Consiglio comunale o della Giunta possono essere dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, è norma che tende a salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale -dal giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione- che potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per il pubblico interesse di volta in volta perseguito) (Consiglio d Stato, Sez. II, sentenza 03.04.2024 n. 3044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: I pareri, previsti per l'adozione delle deliberazioni comunali (prima ex art. 53, l. 08.06.1990, n. 142, e poi ex art. 49, d.lgs. 18.08.2000 n. 267) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse.
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il Segretario Comunale –ai sensi degli artt. 49, comma 2, e 97, comma 4, lett. b), del T.U.E.L.– ha una competenza generale a rilasciare tanto il parere di regolarità tecnica, quanto quello di regolarità contabile, sulle proposte di deliberazione del Consiglio e della Giunta Comunale.
A tal riguardo, è stato specificato –proprio in relazione a un Segretario Comunale in quiescenza, incaricato di presiedere la Commissione giudicatrice in una procedura di gara– che chi rivesta tale qualifica “è da considerare una sorta di peritus peritorum nell’ambito del ruolo della dirigenza del comparto enti locali (visto che, soprattutto nei Comuni di piccole e medie dimensioni, il segretario comunale deve sovrintendere a tutti i servizi e spesso dirigerli in prima persona in caso di vacanze organiche).
 Ad ogni buon conto, un segretario comunale è per definizione competente a valutare i profili di ordine giuridico-amministrativo di una gara ad evidenza pubblica” .
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6.5 Resta da vagliare, sempre nell’ambito del primo motivo di ricorso, il profilo concernente la competenza del Vice Segretario a rilasciare il parere di regolarità tecnica sulla proposta della delibera della Giunta Comunale n. 45 del 2023.
Sul punto, è sufficiente precisare –in conformità a un indirizzo costante della giurisprudenza, evidenziato dalla stessa Amministrazione resistente– che “i pareri, previsti per l'adozione delle deliberazioni comunali (prima ex art. 53, l. 08.06.1990, n. 142, e poi ex art. 49, d.lgs. 18.08.2000 n. 267) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all’individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 08.04.2014, n. 1663; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 14.01.2010, n. 56; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 06.06.2008, n. 625).
Donde l’inammissibilità della censura per difetto di interesse, posto che quand’anche si ritenesse che la delibera della Giunta Comunale n. 45 del 2023 qui impugnata fosse stata preceduta da una proposta con parere di regolarità tecnica viziato o addirittura inesistente, comunque detto provvedimento non sarebbe, di per sé solo, illegittimo.
D’altronde, la doglianza è financo infondata, posto che il Segretario Comunale –ai sensi degli artt. 49, comma 2, e 97, comma 4, lett. b), del T.U.E.L.– ha una competenza generale a rilasciare tanto il parere di regolarità tecnica, quanto quello di regolarità contabile, sulle proposte di deliberazione del Consiglio e della Giunta Comunale.
A tal riguardo, è stato specificato –proprio in relazione a un Segretario Comunale in quiescenza, incaricato di presiedere la Commissione giudicatrice in una procedura di gara– che chi rivesta tale qualifica “è da considerare una sorta di peritus peritorum nell’ambito del ruolo della dirigenza del comparto enti locali (visto che, soprattutto nei Comuni di piccole e medie dimensioni, il segretario comunale deve sovrintendere a tutti i servizi e spesso dirigerli in prima persona in caso di vacanze organiche). Ad ogni buon conto, un segretario comunale è per definizione competente a valutare i profili di ordine giuridico-amministrativo di una gara ad evidenza pubblica” (TAR Marche, Sez. I, 18.01.2022, n. 46) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 30.11.2023 n. 1779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Giusta un consolidato orientamento giurisprudenziale, “il difetto di motivazione del requisito dell’urgenza di una delibera del Consiglio o della Giunta non determina l’illegittimità dell’intero provvedimento ma solo il differimento dei suoi effetti giuridici a far data dal termine di dieci giorni dalla sua pubblicazione”.
Il che è conseguenza del fatto che “tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identific[a] con essa. In altri termini, il legislatore non ha ritenuto che la clausola di immediata eseguibilità costituisca un attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale –basata sul requisito dell'urgenza– dell’amministrazione procedente".
Pertanto, la doglianza è inammissibile per difetto di interesse, dato che se anche la delibera giuntale non fosse stata dichiarata immediatamente eseguibile, comunque la stessa sarebbe diventata esecutiva dopo il decimo giorno successivo alla sua pubblicazione: termine, quest’ultimo, che costituisce dies a quo per la proposizione del ricorso giurisdizionale.
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7. Il secondo motivo di ricorso è parimenti infondato.
Come sopra evidenziato, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 in relazione alla delibera della Giunta Comunale n. 45 del 2023: ciò sulla base della mancata motivazione in ordine all’urgenza, richiesta dall’art. 134, comma 4, del T.U.E.L., al fine della dichiarazione di immediatamente eseguibilità.
Basti qui richiamare le conclusioni cui giunge un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “il difetto di motivazione del requisito dell’urgenza di una delibera del Consiglio o della Giunta non determina l’illegittimità dell’intero provvedimento ma solo il differimento dei suoi effetti giuridici a far data dal termine di dieci giorni dalla sua pubblicazione” (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 16.03.2018, n. 656).
Il che è conseguenza del fatto che “tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identific[a] con essa. In altri termini, il legislatore non ha ritenuto che la clausola di immediata eseguibilità costituisca un attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale –basata sul requisito dell'urgenza– dell’amministrazione procedente" (cfr. TAR Liguria, Sez. II, 09.01.2007, n. 2).
Pertanto, la doglianza è inammissibile per difetto di interesse, dato che se anche la delibera giuntale non fosse stata dichiarata immediatamente eseguibile, comunque la stessa sarebbe diventata esecutiva dopo il decimo giorno successivo alla sua pubblicazione: termine, quest’ultimo, che costituisce dies a quo per la proposizione del ricorso giurisdizionale.
D’altro canto, la censura risulta financo infondata, siccome –come sopra precisato– la validità del provvedimento impugnato e degli atti che in esso trovano presupposto non viene intaccata dall’apposizione di una dichiarazione di immediata esecutività rilasciata in assenza dei presupposti dell’urgenza (cfr., da ultimo, TAR Piemonte, Sez. II, 11.04.2023, n. 320) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 30.11.2023 n. 1779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il difetto di motivazione del requisito dell'urgenza di una delibera del Consiglio o della Giunta non determina l'illegittimità dell'intero provvedimento ma solo il differimento dei suoi effetti giuridici a far data dal termine di dieci giorni dalla sua pubblicazione.
Ciò dipende dal fatto che “tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa. In altri termini, il legislatore non ha ritenuto che la clausola di immediata eseguibilità costituisca un attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale -basata sul requisito dell’urgenza– dell’amministrazione procedente”.

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8. Con il quinto motivo del ricorso per motivi aggiunti si lamenta violazione dell’art. 134, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 e dell’art. 3 della L. n. 241/1990.
Le ricorrenti lamentano l’illegittimità della DGC n. 202/2017 di cui sopra, nella parte in cui, all’ultimo punto del deliberato, reca la dichiarazione di immediata eseguibilità, in ragione dell’urgenza, ai sensi dell’art. 134 del TUEL, la quale, costituendo una scelta discrezionale, non sarebbe adeguatamente motivata.
La doglianza non merita accoglimento.
Basti qui richiamare le conclusioni cui giunge un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “il difetto di motivazione del requisito dell'urgenza di una delibera del Consiglio o della Giunta non determina l'illegittimità dell'intero provvedimento ma solo il differimento dei suoi effetti giuridici a far data dal termine di dieci giorni dalla sua pubblicazione” (TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 16/03/2018, n. 656).
Ciò dipende dal fatto, evidenziato anche dalla giurisprudenza citata nel ricorso, che “tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa. In altri termini, il legislatore non ha ritenuto che la clausola di immediata eseguibilità costituisca un attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale -basata sul requisito dell’urgenza– dell’amministrazione procedente” (TAR Liguria Genova Sez. II, 09/01/2007, n. 2).
Ne deriva che la validità del provvedimento impugnato non viene intaccata dalla apposizione di una dichiarazione di immediata esecutività
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2023 n. 320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Petrulli, L’autonomia concettuale e la differenziazione decisionale fra autorizzazione paesaggistica e titoli edilizi.
   La distinzione concettuale fra autorizzazione paesaggistica e titoli edilizi
In linea di principio, l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico–edilizio; i due atti di assenso, quello paesaggistico e quello edilizio, operano su diversi piani, essendo posti a tutela di interessi pubblici diversi, seppur parzialmente coincidenti [1].
L’autorizzazione paesaggistica ed il titolo edilizio rispondono ad interessi pubblici distinti e tipizzati: l’uno valuta, in forza d’apprezzamento tecnico discrezionale, la compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto, mentre l’altro, con autonoma e specifica istruttoria, accerta la conformità urbanistico-edilizia del manufatto
[2].
Il parametro di riferimento per la valutazione dell’aspetto paesaggistico non coincide con la disciplina urbanistico–edilizia, ma nella specifica disciplina dettata per lo specifico vincolo; il fatto che sono stati rilasciati i titoli edilizi, pur in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, non può in alcun modo legittimare anche sotto il profilo paesaggistico il fabbricato; tale esito si porrebbe in contrasto con il principio espresso dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 196/2004), secondo la quale l’interesse paesaggistico deve essere sempre valutato espressamente anche nell’ambito del bilanciamento con altri interessi pubblici, nonché con la giurisprudenza del Consiglio di Stato che, nelle materie che coinvolgono interessi sensibili, quale quello paesaggistico, limita l’istituto del silenzio-assenso solo al ricorrere di previsioni normative specifiche e nel rispetto di tutti i vincoli ordinamentali; esiste un principio di autonomia anche tra l’illecito urbanistico-edilizio e l’illecito paesaggistico, come anche un’autonomia tra i correlati procedimenti e regimi sanzionatori
[3].
Per giurisprudenza consolidata, la disciplina urbanistica e quella paesaggistica si completano al fine di garantire una tutela integrata del territorio, ed il titolo paesaggistico è atto presupposto e necessario per il valido ed efficace rilascio del titolo edilizio: “a norma dell’art. 146 co. 4, DLgs. n. 42/2004 l’autorizzazione paesaggistica anche in sanatoria (cd. accertamento di compatibilità paesaggistica), costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio: essa dà luogo ad un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e valutazioni urbanistiche, in modo tale che questi due apprezzamenti sono destinati ad esprimersi sullo stesso oggetto in stretta successione provvedimentale, con la conseguenza che l’autorizzazione paesaggistica va acquisita prima di intraprendere il procedimento edilizio, il quale non può essere definito positivamente per l’interessato in assenza del previo conseguimento del titolo di compatibilità paesaggistica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.02.2016 n. 521 e 27.11.2010 n. 8260; TAR Umbria, Sez. I, 04.08.2011 n. 261)
[4].
Peraltro, i lavori eseguiti in assenza del titolo paesaggistico sarebbero in ogni caso suscettibili di atti inibitori e sanzionatori
[5], in quanto realizzati in violazione del divieto di cui all’art. 146, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto Legislativo n. 42/2004).
  
La differenziazione in merito al soggetto/ufficio decidente
Come è noto, la competenza amministrativa in materia paesaggistica è posta dalla legge in capo alla Regione (Art. 146, comma 1, del Codice dei beni culturali e del paesaggio), che può delegarla agli enti territoriali sub regionali solo qualora le condizioni di legge siano rispettate (anche in ossequio al principio di adeguatezza, previsto dall’art. 118, comma 1, della Costituzione); in particolare, gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre “di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia” (art. 146, comma 6, del Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Secondo la giurisprudenza
[6], è necessario assicurare:
   - che in seno all’autorità normalmente incaricata di procedere alla valutazione in materia ambientale, sussista adeguata separazione funzionale rispetto agli Uffici preposti a funzioni urbanistiche, in modo tale che l’entità amministrativa interna deputata a compiti ambientali e paesaggistici disponga di un’autonomia adeguata, la quale implichi, segnatamente, che essa abbia a disposizione (anche) mezzi amministrativi e risorse umane propri, così da poter svolgere adeguatamente i compiti attribuiti in materia ambientale;
   - una distinzione effettiva tra uffici, non limitata alla sola distinzione di attività o funzioni.
Una doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. (e oggi è confermata dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) e che è rimarcata dalla costante giurisprudenza specie costituzionale
[7]: la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (come richiesto dall’art. 146, comma 4, del Codice, secondo cui “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”); in sostanza, in relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, del Codice, deve essere assicurata non solo la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico, ma anche la separazione organizzativa [8].
Conseguentemente, il medesimo soggetto non può contemporaneamente decidere su titolo edilizio ed autorizzazione paesaggistica.
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[1] TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. 08.11.2023, n. 2490.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 20.01.2023, n. 682.
[3] TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sent. 05.06.2023, n. 3458.
[4] TAR Campania, Napoli, sez. III, sent. 14.06.2022, n. 4000.
[5] TAR Sardegna, sez. I, sent. 26.09.2023, n. 680.
[6] Consiglio di Stato, sez. II, sent. 18.03.2024, n. 2613.
[7] Corte Cost., sent. 24.07.1972, n. 141 e sent. 23.11.2011, n. 309.
[8] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 05.06.2015, n. 2784: “Va però precisata la fondatezza anche della censura d’appello che lamenta l’illegittimità della commistione dell’attività a tutela del paesaggio e quella della trattazione delle pratiche edilizie: il Comune […] ha provveduto all’istituzione del Servizio Autorizzazioni Paesaggistiche nell’ambito del Coordinamento Edilizia Privata: il che però non è sufficiente, perché è necessaria una distinzione formale tra uffici, non basta una distinzione di attività.
Infatti ai sensi dell’art. 146, comma 6, del Codice dei beni culturali e del paesaggio gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre “di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”.
Non è sufficiente dunque rilevare che stando agli ordini di servizio […] e dalla nota interna […] nessuno degli istruttori paesaggisti svolge, né ha svolto prima, attività istruttorie urbanistico-edilizie.
La doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. (e oggi è confermata dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) e che è rimarcata dalla costante giurisprudenza specie costituzionale (a muovere da Corte cost., 24.07.1972, n. 141 e, ad es., a Corte cost., 23.11.2011, n. 309): la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4, prevede che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”; cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in condizione di non subire incidenze gerarchiche o condizionamenti di sorta.
In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, d.lgs. n. 42 del 2004, va assicurata sia la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico sia la separazione organizzativa suddetta”
(11.04.2024 - tratto da e link a www.ediliziaurbanistica.it).

APPALTI: Il direttore dei lavori negli appalti pubblici, focus su modalità di nomina e compiti.
Il direttore dei lavori riveste un ruolo di estrema importanza nel contesto dell’edilizia, sia in ambito privato che pubblico. Nominato dal committente, questo professionista assume la responsabilità di vigilare sull’esecuzione delle opere, garantendo che tutto avvenga secondo i dettami del progetto e nel rispetto delle normative vigenti.
La sua attività non si limita alla mera supervisione, ma include anche la verifica della qualità dei materiali impiegati e delle lavorazioni eseguite.
In pratica, il direttore dei lavori funge da punto di riferimento per tutte le fasi del processo costruttivo. Deve garantire che le diverse imprese coinvolte operino in armonia e rispettino le scadenze previste, pianificando le attività in modo efficiente e gestendo le eventuali problematiche che possono emergere durante l’esecuzione dei lavori.
In questo articolo approfondiremo le modalità di nomina fornendo anche indicazioni utili sui compiti di questa figura.
  
La nomina del direttore dei lavori
La nomina del direttore dei lavori è un passaggio fondamentale nei contratti di appalto, sia nel settore privato che in quello pubblico. Nel settore privato, la sua designazione può essere facoltativa, ma diventa obbligatoria nel settore pubblico, in quanto essenziale per garantire la corretta esecuzione delle opere, secondo quanto stabilito dall’articolo 114, comma 2, del nuovo codice appalti.
Le stazioni appaltanti, in veste di committente, devono nominare il direttore dei lavori prima dell’avvio della procedura di affidamento, su proposta del Responsabile Unico del Procedimento (RUP).
Una volta nominato, il direttore può essere affiancato da un ufficio di direzione dei lavori, composto da uno o più direttori operativi e ispettori di cantiere, a seconda della complessità dell’intervento.
Secondo quanto stabilito dall’articolo 114, comma 6, del D.Lgs. 36/2023, le stazioni appaltanti devono scegliere il Direttore tra i membri del loro personale. Tuttavia, in mancanza di personale idoneo, è possibile assegnare l’incarico a:
   - Personale degli uffici consortili di progettazione e direzione dei lavori;
   - Personale proveniente da organismi di altre pubbliche amministrazioni;
   - Prestatori di servizi di ingegneria e architettura;
   - Società di professionisti.
Tuttavia, affinché tali soggetti siano eleggibili, devono soddisfare determinati requisiti professionali, tra cui:
   - Essere iscritti negli appositi albi professionali;
   - Possedere i requisiti specificati nell’art. 80 del d.lgs. 50/2016;
   - Avere i requisiti di qualificazione stabiliti dal decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 263/2016.
La nomina va eseguita con una lettera di incarico che rappresenta il documento contrattuale stipulato tra il committente e il direttore dei lavori.
Questo documento regola in modo dettagliato i seguenti aspetti:
   - Le prestazioni richieste al professionista e quelle escluse;
   - Le modalità operative per lo svolgimento dell’incarico;
   - I termini entro i quali l’incarico deve essere adempiuto;
   - La determinazione del compenso spettante al direttore dei lavori;
   - Gli obblighi specifici a carico del committente;
   - La copertura assicurativa prevista durante l’attività di direzione dei lavori;
   - La procedura per la risoluzione delle eventuali controversie che potrebbero insorgere nel corso dell’incarico.
  
Formazione per il Direttore dei Lavori
Un requisito importante per poter ricoprire il ruolo di direttore dei lavori è la conoscenza del quadro legislativo e delle norme tecniche che regolano il settore dell’edilizia.
Dato il recente aggiornamento normativo, dovuto all’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, è consigliabile, se non essenziale, che i Direttori dei Lavori acquisiscano familiarità con le modifiche e le nuove disposizioni introdotte che, anche se non radicali, hanno apportato cambiamenti che è necessario conoscere.
Il modo più semplice per acquisire tali conoscenze è partecipare ad eventi formativi mirati che permettano di consolidare le competenze esistenti e di comprendere appieno gli adattamenti richiesti dalle nuove regolamentazioni. Per chi fosse interessato a questi aggiornamenti, consigliamo quindi di frequentare un convegno, un seminario specifico, oppure un corso aggiornato sulla direzione dei lavori.
  
Compiti del direttore dei lavori
Nel contesto dei contratti, il direttore dei lavori agisce sotto la guida del Responsabile Unico del Procedimento (RUP), assicurando che le direttive impartite siano seguite scrupolosamente. Oltre a occuparsi degli aspetti tecnici, il direttore dei lavori si adopera anche per garantire la corretta gestione degli aspetti contabili e amministrativi, garantendo così un’efficace conduzione del progetto.
È sua responsabilità supervisionare l’intero ufficio di direzione dei lavori, coordinando le attività e mantenendo un costante dialogo con l’appaltatore per quanto riguarda gli aspetti tecnico-edilizi ed economici del contratto.
Nello specifico, in base all’art. 114, comma 3, del nuovo codice, assume una serie di compiti fondamentali per garantire il corretto svolgimento dell’intervento, tra cui:
   - Controllo tecnico, contabile e amministrativo dell’esecuzione dei lavori per assicurare la conformità al progetto e al contratto.
   - Utilizzo di strumenti digitali di gestione informativa, come previsto nell’allegato I.9, e nomina di un coordinatore dei flussi informativi nel caso di utilizzo del Building Information Modeling (BIM).
   - Coordinamento delle diverse figure coinvolte nell’opera.
   - Supervisione dell’intero ufficio di direzione dei lavori.
Inoltre, il direttore dei lavori ha responsabilità specifiche, tra cui:
   - Accettazione dei materiali e verifica delle caratteristiche meccaniche in conformità alle norme tecniche.
   - Verifica della documentazione relativa agli obblighi nei confronti dei dipendenti.
   - Controllo della validità del programma di manutenzione e dei manuali d’uso e di manutenzione.
   - Segnalazione delle inosservanze relative al subappalto al Responsabile Unico del Procedimento (RUP).
Infine, se possiede i requisiti necessari, il direttore dei lavori può svolgere le funzioni di coordinatore per l’esecuzione dei lavori. In caso contrario, le stazioni appaltanti devono prevedere la presenza di almeno un direttore operativo con i requisiti richiesti dalla normativa sulla sicurezza (11.04.2024 - tratto da e link a www.ediliziaurbanistica.it).

GIURISPRUDENZA

PATRIMONIO: Legittimazione dell’uso civico, l’autorità pubblica gode di ampia discrezionalità. Prevale sempre l’interesse pubblico alla conservazione del demanio collettivo e il vincolo ambientale e paesistico.
Il provvedimento di legittimazione all’uso civico costituisce espressione di un potere ampiamente discrezionale, dinanzi al quale il cittadino non vanta alcun diritto, in quanto prevale sempre l’interesse pubblico alla conservazione del demanio collettivo e il vincolo ambientale e paesistico.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 23.02.2024 n. 1800.
Il caso
È stato impugnato il provvedimento con cui un Comune ha respinto la richiesta di legittimazione e conseguente affrancazione dal gravame di uso civico e quello con cui il dirigente dell'Utc ha respinto la richiesta di accordo bonario.
Il Tar ha respinto il ricorso ritenendo il ricorrente privo dei requisiti necessari e non avendo egli dato prova di essere in possesso del requisito della occupazione decennale delle terre prescritto dall'articolo 9 della legge n. 1766 del 1927, che individua le seguenti condizioni:
   a) che l'occupatore vi abbia apportato sostanziali e permanenti migliorie;
   b) che la zona occupata non interrompa la continuità dei terreni;
   c) che l'occupazione duri almeno da dieci anni.
La sentenza è stata appellata per non aver considerato quale prova del possesso un contratto di affitto che dimostrerebbe la certezza della data in ordine alla piena disponibilità del terreno e per l'incompetenza del dirigente a pronunciarsi sulla domanda di legittimazione.
Gli usi civici
Nel dichiarare l'appello infondato, la V sezione del Consiglio di Stato propone una breve quanto utile premessa sugli usi civici, che spettano a una collettività e a ciascuno dei suoi componenti organizzata e insediata su di un territorio al fine di trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque nonostante la loro titolarità formale in capo a differenti soggetti pubblici o privati.
La materia è disciplinata dalla citata legge del 1927 e dalla n. 168 del 2017, che detta le norme in materia di domini collettivi, materia progressivamente mutata nel tempo verso l'estinzione dell'uso civico, liberando il fondo dal peso per riespandere la piena proprietà, tanto da sfumarne la declinazione originaria ed evidenziandone la rilevanza sotto il profilo ambientale inteso quale forma di comproprietà assistita da un peculiare regime di tutela di tipo conservativo.
Questo implica che nell'alternativa tra reintegrazione a favore dell'amministrazione e legittimazione a favore dell'occupante abusivo la seconda sia da ritenersi del tutto eccezionale, posto che realizza un effetto ablativo in favore dell'occupante e una sottrazione di beni pubblici alla soddisfazione di esigenze di rilievo pubblicistico. E che l'interesse pubblico alla reintegrazione non necessita di una particolare motivazione, atteso che il relativo provvedimento si configura come atto vincolato.
La discrezionalità
Applicati al caso di specie, questi principi spingono i giudici a dichiarare pienamente legittimi il provvedimento impugnato che ha respinto l'istanza di legittimazione e conseguente affrancazione dal gravame di uso civico e la sentenza appellata che ne ha ritenuto la legittimità, in quanto l'articolo 3, comma 3, della legge 168/2017 ormai afferma che il regime giuridico dei domini collettivi è quello dell'inalienabilità, dell'indivisibilità, dell'inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale.
Ma anche perché il provvedimento di legittimazione ha natura concessoria e presenta profili di ampia discrezionalità dell'autorità pubblica, in particolare del comune, a cui è demandata l'istruttoria volta ad accertare la sussistenza dei requisiti di legge nonché dell'interesse pubblico alla concessione della legittimazione e l'assenza di altri motivi ostativi (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.03.2024).
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SENTENZA
Giunge in decisione l’appello proposto dal sig. An. De Si. per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sezione staccata di Latina, n. 215 del 2020, che ha respinto il suo ricorso per l’annullamento del provvedimento prot. n. 11363 del 22.02.2019, con il quale il comune di Fondi ha respinto la richiesta di legittimazione e conseguente affrancazione dal gravame di uso civico prot. n. 48831 del 09.08.2018 dallo stesso presentata.
Il sig. An. De Si., che aveva presentato in data 27.07.2018 istanza per la legittimazione del possesso e la conseguente affrancazione del gravame di uso civico dei terreni siti in agro del comune di Fondi, in catasto al foglio di mappa n 86, p.lla n. 930 e p.lla n. 578 ex part. 95, ha impugnato il provvedimento con cui il comune di Fondi ha respinto l’istanza con la motivazione che il ricorrente “non risulta essere in possesso dei requisiti necessari”.
Con motivi aggiunti il ricorrente ha impugnato il provvedimento del 09.09.2019 con il quale il
dirigente UTC ha rigettato la richiesta di accordo bonario dallo stesso formulata in attesa della definizione del ricorso e, nel richiamare la sentenza n 76/2014 del Commissariato Regionale per la Liquidazione degli Usi Civici di Roma, comunicava “che l’ente non può esimersi da quanto disposto nella sentenza n 76/2016 e pertanto procederà alla reintegra del terreno demaniale”.
La sentenza impugnata ha respinto il ricorso ritenendo che il ricorrente non avesse dato prova di essere in possesso del requisito, prescritto dall’art. 9 della legge n. 1766 del 1927, della occupazione decennale delle terre oggetto delle istanze rigettata con i provvedimenti impugnati.
L’appellante deduce l’erroneità della sentenza per l’omessa considerazione delle prove acquisite in ordine al possesso del terreno, ed in particolare per avere l’appellante corredato l’istanza con un contratto di affitto del 04.08.2000, registrato il 21.02.2001, che, ancorché non opponibile al comune di Fondi, dimostrerebbe la certezza della data in ordine alla piena disponibilità del terreno da parte dello stesso; deduce, inoltre, la carenza ed illogicità della motivazione della sentenza in ordine alla eccepita incompetenza del dirigente a pronunciarsi sulla domanda di legittimazione, l’erronea e falsa applicazione della legge n. 168/2017 e la non opponibilità della sentenza n. 76/2014 resa dal Commissariato agli Usi Civici, per violazione del contraddittorio.
Il Comune eccepisce in via preliminare la carenza di interesse a ricorrere dell’appellante, in considerazione dell’impossibilità di ottenere la legittimazione, non essendo più consentite le procedure liquidatorie di cui alla precedente legge n. 1766 del 1927 che comunque non potrebbero intaccare il vincolo paesaggistico.
Nel merito, evidenzia che il provvedimento di legittimazione costituisce espressione di un potere ampiamente discrezionale, dinanzi al quale il cittadino non vanta alcun diritto, rientrando nella facoltà dell’amministrazione decidere di non concedere la legittimazione anche in presenza di tutti i requisiti di legge, in quanto prevale sempre l’interesse pubblico alla conservazione del demanio collettivo nonché, per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 168/2017, il vincolo ambientale e paesistico.
In ogni caso, non sussisterebbe il requisito dell’occupazione decennale in capo al De Si., per essere stato, il terreno de quo, arbitrariamente occupato dai signori Ca.Ma.Cl., Ca.Ro., Ca.Ro. e Ca.Le., come accertato con sentenza del Commissariato agli usi Civici n. 76/2014, passata in giudicato, che ne aveva disposto la reintegra in favore del comune di Fondi.
L’appello è infondato nel merito, potendosi prescindere dall’esaminare l’eccezione preliminare di inammissibilità per carenza di interesse sollevata dal Comune.
Le censure di appello saranno trattate congiuntamente in considerazione della loro stretta connessione.
Deve premettersi che “
Per “usi civici” possono intendersi i diritti spettanti ad una collettività –ed a ciascuno dei suoi componenti, che può quindi esercitarlo uti singulus– organizzata ed insediata su di un territorio, il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque, nonostante la loro titolarità formale in capo a differenti soggetti pubblici o privati” (Cass. Civ., III, 28.09.2011, n. 19792).
La materia degli usi civici è disciplinata da una complessa normativa, risalente ad epoche molto diverse, essenzialmente dalla legge 16.06.1927, n. 1766 e dalla legge 20.11.2017, n. 168.
Dall’analisi delle succitate disposizioni emerge un’evoluzione normativa in materia di usi civici e domini collettivi -categoria di non agevole inquadramento teorico-pratico- in relazione al graduale processo di trasformazione dell’istituto in considerazione del cambiamento del contesto economico-sociale e degli orientamenti della giurisprudenza.
La tradizionale funzione degli usi civici consiste nell’assicurare agli appartenenti alle collettività locali utilità derivanti dalla terra, ai fini del loro sostentamento.
L’istituto è stato, in seguito e progressivamente, inciso da esigenze di riforma, tendenti all’estinzione dell’uso civico, liberando il fondo dal peso e realizzando, in questo modo, la riespansione del regime di piena proprietà. Ed invero, la finalità della legge n. 1766 del 1927 consisteva proprio nell’individuazione degli usi civici ai fini della liquidazione degli stessi da parte del proprietario, mediante riconoscimento di un indennizzo.
La riflessione sull'individuazione dell'interesse protetto a fondamento dell’istituto dell’uso civico ha posto in evidenza un rilevante mutamento di pensiero, riscontrandosi nelle applicazioni giurisprudenziali la giustificazione del regime vincolato in forza della prevalenza del pubblico interesse sotteso all'imposizione dell’uso civico.
Come osservato dalla Corte costituzionale (18.07.2014, n. 210), le trasformazioni socio-economiche intervenute nel secondo dopoguerra hanno progressivamente sfumato la declinazione originaria degli usi civici, evidenziandone la rilevanza sotto altri punti di vista, in particolare quello ambientale. 
Ed invero, il legislatore, nella più recente disciplina in materia di domini collettivi (legge n. 168 del 2017), afferma che con l'imposizione del vincolo paesaggistico l'ordinamento garantisce l'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire, tra l'altro, alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio (cfr. art. 3, comma 6, l. n. 168 del 2017).
Il legislatore include, dunque, i beni collettivi nell'ambito del patrimonio naturale, economico e culturale inteso quale forma di comproprietà assistita da un peculiare regime di tutela di tipo conservativo.
L’istituto degli usi collettivi ha subito, dunque, un totale rivolgimento culturale, atteso che dalla sostanziale liquidazione degli usi civici così come disciplinata dalla legge n. 1766 del 1927 si è passati alla loro costituzionalizzazione con la legge n. 168 del 2017, che ha messo in risalto i capisaldi della più moderna tutela dei beni pubblici collettivi, fondata sui principi di indisponibilità, imprescrittibilità e non usucapibilità.
Ed invero, come ribadito più volte dalla giurisprudenza, nell'alternativa tra reintegrazione a favore dell’amministrazione e legittimazione a favore dell’occupante abusivo la seconda è da ritenersi opzione da adottare in via del tutto eccezionale, atteso che la legittimazione realizza un effetto ablativo in favore dell’occupante abusivo, una sottrazione di beni pubblici alla soddisfazione di esigenze di rilievo pubblicistico, mentre mediante la reintegrazione l’amministrazione si riappropria dei fondi per una più corretta e funzionale gestione degli stessi; per questo, l’interesse pubblico alla reintegrazione è in re ipsa e non necessita di una particolare motivazione, atteso che il provvedimento di reintegra si configura come atto vincolato.
Ne consegue che il provvedimento impugnato in primo grado, che ha respinto l’istanza di legittimazione e conseguente affrancazione dal gravame di uso civico dei terreni siti in agro del comune di Fondi, nonché la sentenza appellata, che ne ha ritenuto la legittimità, resistono alle censure dedotte in gravame, anche in relazione alla carenza di prova della detenzione dei predetti beni da parte dell’appellante, che non può essere ricondotta al contratto di affitto triennale registrato il 21.02.2001, tra l’altro nullo in quanto avente ad oggetto un bene demaniale.
Ed invero, dalla documentazione versata in atti si evincono numerosi elementi contrari, e in particolare:
   a) la sentenza definitiva del Commissariato agli usi civici n. 76/2014, con la quale è stata accertata la natura di demanio civico collettivo del terreno e secondo cui la materia degli usi civici è ormai completamente regolata dalla legge 20.11.2017, n. 168, il cui articolo 3, comma 3, afferma che il regime giuridico dei domini collettivi è quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo pastorale e che non sono più consentite le procedure liquidatorie di cui alla precedente legge n. 1766 del 1927, ivi compresa la legittimazione; dalla sentenza stessa emerge, inoltre, l’occupazione arbitraria dei fondi da parte di altri soggetti (i signori Ca.Ma.Cl., Ca.Ro., Ca.Ro. e Ca.Le.);
   b) la sentenza n. 2/2020 dello stesso Commissariato, che ha dichiarato inammissibile l’opposizione di terzo proposta dall’appellato.
Né rileva il fatto che tale ultima sentenza è stata oggetto di appello, atteso che la mera proposizione del gravame non refluisce ex se nella sua inattendibilità.
Inoltre, né l'alienazione né la legittimazione rappresentano un obbligo per l'Amministrazione, non potendosi configurare alcun diritto soggettivo in tal senso in capo all'occupante abusivo.
Ed invero, quella del privato alla legittimazione consiste in una semplice aspettativa, come affermato più volte dalla costante giurisprudenza, secondo cui la domanda di legittimazione di un fondo di uso civico introduce una questione di interesse legittimo, poiché il provvedimento amministrativo di legittimazione dell'avvenuta occupazione di terre di demanio civico ha natura concessoria e presenta, quindi, profili di ampia discrezionalità dell'autorità pubblica, la quale deve costantemente porre in considerazione preminente l’interesse pubblico, quand’anche ricorrano le condizioni stabilite dall'art. 9 della legge n. 1766/1927.
E’, infine, infondata anche la censura che concerne l’erroneità della sentenza per carenza di motivazione sulla dedotta asserita incompetenza del Comune a pronunciarsi sulla istanza di legittimazione, atteso che, come statuito dalla sentenza appellata: “l’art. 4 della L.R. 27/1/2005 n. 6, che ha sostituito l’art. 4 della L.R. 3.1.1986, n. 1 stabilisce che “Sono attribuiti ai comuni le cui collettività sono titolari dei diritti di uso civico le funzioni ed i compiti amministrativi concernenti la liquidazione dei diritti stessi gravanti su terreni privati”, che “Per la liquidazione dei diritti di uso civico sui terreni di cui al comma 1, l'accertamento dei valori è effettuato nel rispetto dei criteri stabiliti dagli articoli 5, 6 e 7 della L. n. 1766/1927” e che “Ai fini della determinazione del valore, i comuni si avvalgono del proprio ufficio tecnico o possono nominare tecnici iscritti all'albo regionale dei periti, degli istruttori e dei delegati tecnici”.
All’ente comunale è, dunque, demandata l’istruttoria volta ad accertare la sussistenza dei requisiti di legge nonché dell'interesse pubblico alla concessione della legittimazione e l’assenza di altri motivi ostativi.
Alla luce delle suesposte considerazioni l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza appellata di reiezione del ricorso di primo grado.

LAVORI PUBBLICI: Appalto integrato, legittimo richiedere uno staff di progettazione nel bando. Tar Sicilia: la stazione appaltante può indicare anche gli schemi organizzativi e contrattuali in cui devono essere inquadrati i rapporti con il progettista.
Nella gara per l’affidamento di un appalto integrato è legittima la clausola del Disciplinare di gara con cui si richiede ai concorrenti di possedere una struttura operativa minima per lo svolgimento dell’attività di progettazione, indicando nel contempo gli schemi organizzativi e contrattuali in cui devono essere inquadrati i rapporti con il progettista.
Una clausola di questo tenore non può essere considerata irragionevolmente limitativa della concorrenza, né si può sostenere che la stessa introduca una causa di esclusione dalle gare ulteriore rispetto a quelle previste dal D.lgs. 36/2023, in violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'articolo 10, e debba quindi essere ritenuta nulla.

Si è espresso in questi termini il TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 23.02.2024 n. 703, che offre interessanti indicazioni sui requisiti che possono essere richiesti ai progettisti in sede di gara per l'affidamento di un appalto integrato, in linea con le previsioni contenute nel D.lgs. 36.
Il fatto
Un ente appaltante aveva indetto una procedura di gara per l'affidamento di un appalto avente ad oggetto la progettazione esecutiva e l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione di un edificio.
Trattandosi appunto di un appalto integrato il Disciplinare regolava puntualmente i requisiti richiesti ai concorrenti ai fini di dimostrare che gli stessi possedevano anche i requisiti per lo svolgimento dell'attività di progettazione.
Nello specifico, la relativa clausola del Disciplinare stabiliva che i concorrenti dovessero dimostrare di avere una struttura operativa minima dedicata alla progettazione, indicando anche tre diverse modalità le uniche consentite - attraverso cui doveva strutturarsi il rapporto tra concorrente e progettista.
Le tre modalità erano così individuate:
   a) rapporto di lavoro subordinato, cioè il progettista doveva essere un dipendente del concorrente;
   b) raggruppamento temporaneo tra concorrente e progettista, in cui il progettista assume il ruolo di mandante;
   c) rapporto di lavoro parasubordinato, cioè il progettista ha un rapporto di consulenza/collaborazione con il concorrente, di carattere continuativo e su base annua.
In sede di svolgimento della gara, la stazione appaltante rilevava che un concorrente non aveva dato evidenza di quanto previsto nella richiamata clausola, e aveva quindi attivato il soccorso istruttorio. In tale sede il concorrente produceva un atto di impegno a costituirsi in raggruppamento temporaneo con il progettista, che aveva tuttavia una data di sottoscrizione successiva al termine di scadenza per la presentazione delle offerte. Riteneva quindi che non fosse soddisfatto il requisito richiesto dal Disciplinare di gara e procedeva all'esclusione del concorrente stesso.
Contro il provvedimento di esclusione veniva proposto ricorso al giudice amministrativo. Sosteneva il ricorrente che la stazione appaltante avrebbe errato nel valutare la disciplina prevista per la qualificazione dei progettisti nell'appalto integrato, con la conseguenza di formulare in sede di soccorso istruttorio richieste irragionevoli e contrarie alla legge. Infatti, risalendo a monte, una corretta considerazione del dettato normativo porterebbe a ritenere che la clausola del Disciplinare di gara che regolava la qualificazione dei progettisti doveva considerarsi nulla (o almeno illegittima) in quanto introduttiva di una causa di esclusione non prevista dall'ordinamento dei contratti pubblici, in violazione dell'espresso divieto -sancito appunto a pena di nullità- dall'articolo 10 del D.lgs. 36.
In sostanza, la previsione delle modalità indicate dalla richiamata clausola che dovevano necessariamente disciplinare il rapporto tra concorrente e progettista avrebbero surrettiziamente introdotto una causa di esclusione non prevista dall'ordinamento, rendendo la stessa nulla, anche in relazione alla indebita limitazione alla libertà organizzativa dei concorrenti.
Il Tar Sicilia: i requisiti dei progettisti nell'appalto integrato
Il Tar Sicilia ricorda preliminarmente che la clausola del Disciplinare di gara era chiara nel prevedere l'esclusione dei concorrenti che non avessero dimostrato di poter contare sui requisiti di progettisti esclusivamente secondo una delle modalità indicate.
Di conseguenza, considerata la natura immediatamente escludente di tale clausola, la stessa avrebbe dovuto essere oggetto di impugnazione immediata da parte del concorrente che ne avesse voluto contestare la legittimità. Cosa che non è avvenuta nel caso di specie.
Questa obiezione potrebbe essere superata solo aderendo alla ricostruzione alternativa prospettata dal ricorrente, secondo cui la clausola in discussione andrebbe considerata nulla e non solo illegittima - in quanto posta in violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione sancito dall'articolo 10 del D.lgs. 36.
Occorre infatti ricordare l'orientamento espresso dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato secondo cui la clausole del disciplinare di gara ritenute nulle devono essere considerate con non apposte, non essendovi quindi alcun onere di impugnazione immediata da parte dei concorrenti.
In questa prospettiva, la questione da affrontare è se una clausola come quella formulata dalla stazione appaltante nel caso di specie possa considerarsi nulla per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione.
Per dare risposta a tale questione, il giudice amministrativo parte dalla previsione contenuta all'articolo 44, comma 3 del D.lgs. 36.
Secondo l'esplicita formulazione della norma, in caso di appalto integrato i concorrenti devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, in una delle tre seguenti modalità:
   a) possiedono in proprio tali requisiti (in quanto titolari di Soa per progettazione ed esecuzione);
   b) si avvalgono di progettisti qualificati, da indicare in sede di offerta;
   c) partecipano in raggruppamento con progettisti qualificati.
Questa prima disposizione va interpretata in chiave sistematica, cioè alla luce di altre norme del D.lgs. 36 relative alla qualificazione dei concorrenti.
In questa logica, viene in rilievo in primo luogo la previsione dell'articolo 10, comma 3, che consente agli enti appaltanti di fissare in sede di gara requisiti di qualificazione attinenti e proporzionati all'oggetto del contratto, tenendo presente l'interesse pubblico alla più ampia partecipazione. Ed in questo senso si esprimono anche gli articoli 100 e 103.
Nella stessa direzione si muove la previsione contenuta nell'Allegato II.12 relativo alla qualificazione dei concorrenti secondo cui ai fini dell'affidamento di un appalto integrato il concorrente che intenda partecipare con la Soa di progettazione e costruzione deve dimostrare la presenza di uno staff tecnico di progettazione composto da professionisti in possesso di determinati titoli.
Sulla base di questo quadro normativo complessivo, il giudice amministrativo ha ritenuto che l'ente appaltante abbia legittimamente specificato i requisiti di progettazione da richiedere ai concorrenti e le modalità con cui dimostrarli.
In particolare, sia i requisiti in sé che le modalità di dimostrazione degli stessi appaiono attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto, considerato che l'ente appaltante gode comunque di ampi margini di discrezionalità nel definirli, nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità.
In particolare, è legittima la richiesta da parte dell'ente appaltante ai concorrenti di disporre di una struttura operativa minima dedicata allo svolgimento dell'attività di progettazione, specificando in questo modo la mera indicazione nominativa -il minimo richiesto dalla norma- ritenuta dall'ente appaltante non sufficiente ai fini di dimostrare un'adeguata qualificazione.
A sostegno di questa conclusione il Tar Sicilia richiama anche il principio generale della fiducia, sancito dall'articolo 2 del D.lgs. 36.
Esso impone che l'esercizio dei poteri amministrativi nel settore dei contratti pubblici sia fondato sulla reciproca fiducia tra ente appaltante e operatori economici.
E' infatti anche sulla base di questo principio che deve ritenersi legittima la scelta dell'ente appaltante di introdurre una clausola che non consentisse la partecipazione alla gara di concorrenti per i quali vi fosse il dubbio sull'affidabilità e stabilità del rapporto intercorrente con i progettisti.
In sostanza, secondo il giudice amministrativo l'ente appaltante ha esercitato la sua discrezionalità amministrativa nello specificare i requisiti che dovevano essere posseduti dai progettisti e in particolare le modalità con cui dimostrare il rapporto tra concorrente e progettista.
Di conseguenza, ciò che può eventualmente venire in considerazione è un uso illegittimo di tale discrezionalità, ma in nessun modo si può porre un tema di nullità della clausola, non essendo configurabile alcuna violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione.
Una qualificazione speciale per l'appalto integrato
La pronuncia in commento offre una declinazione specifica del principio che impone nell'appalto integrato che i concorrenti siano qualificati anche per l'attività di progettazione da svolgere.
Viene riconosciuta all'ente appaltante la possibilità non solo di richiedere ai concorrenti la garanzia in merito alla disponibilità di una struttura minima di progettazione, ma anche quella di vincolare secondo parametri predefiniti il rapporto che deve legare il concorrente con i professionisti che fanno parte di questa struttura.
Secondo la previsione normativa dell'articolo 44, comma 3, questo rapporto può trovare espressione o nella costituzione di un raggruppamento tra concorrente esecutore e progettista, ovvero tramite l'indicazione del progettista da parte del concorrente.
Ciò che la sentenza del Tar Sicilia afferma è che nel caso dell'indicazione del progettista, legittimamente l'ente appaltante può imporre che la stessa sia accompagnata dall'evidenza del rapporto di lavoro parasubordinato che lo lega al concorrente. Su questo aspetto la soluzione appare corretta.
Qualche riflessione in più si pone in relazione all'altra ipotesi prevista dal Disciplinare di gara, che impone la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra progettista e concorrente qualora quest'ultimo intenda qualificarsi in autonomia.
In questo caso infatti il concorrente è in possesso della Soa per progettazione ed esecuzione, per il cui ottenimento ha già dimostrato di avere la disponibilità di uno staff tecnico di progettazione. Per cui il vincolo imposto dal Disciplinare si configura come un'ulteriore garanzia in merito al fatto che il progettista continua a far parte di tale staff, o che comunque vi sia un altro progettista qualificato che ha un rapporto di lavoro subordinato con il concorrente (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.03.2024).
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SENTENZA
4. Il provvedimento di esclusione della ricorrente è motivato essenzialmente dalla violazione dell’art. 9 del Disciplinare secondo cui: “il rapporto tra l’operatore economico che partecipa alla procedura di gara e il soggetto incaricato di svolgere l’incarico può configurarsi esclusivamente quale:
   - rapporto di lavoro subordinato (se tale soggetto è dipendente dell’operatore economico che partecipa alla presente procedura);
   - raggruppamento temporaneo di imprese/professionisti (se tale soggetto assume il ruolo di mandante nel R.T.P);
   - rapporto di lavoro parasubordinato (se tale soggetto e l’operatore economico che partecipa alla procedura intrattengono un rapporto di lavoro qualificabile come consulenza/collaborazione continuativa stabile e su base annua)
”.
Conseguentemente, con il verbale di gara n. 4 del 18.12.2023 l’Amministrazione ha deliberato di escludere l’esponente dal prosieguo della gara, sul rilievo per cui Conpat avrebbe “prodotto, in sede di soccorso istruttorio, un atto di impegno a costituirsi in raggruppamento temporaneo, riportante data e sottoscrizione successiva alla scadenza del termine perentorio per la presentazione delle offerte. A tal proposito, si precisa che trattasi di requisito espressamente previsto al punto n. 9 (pag. 14) del Disciplinare di gara, nonché oggetto di chiarimenti forniti dalla Stazione Appaltante, prima della scadenza del termine utile per presentare offerta, a riscontro di specifico quesito proposto da altro O.E., tramite il Portale, con PEC, contenente le risposte a tutti i quesiti avanzati dagli OO.EE. interessati a partecipare alla gara, inviata anche a CONPAT SCARL”.
Ciò posto, per stessa ammissione della ricorrente, l’art. 9 del Capitolato citato ha una portata “automaticamente e rigidamente escludente che scoraggia la partecipazione alla gara e limita ultroneamente la platea dei partecipanti, mediante l’imposizione di una condizione “più restrittiva” -rispetto a quella prevista dalla normativa vigente- non ammessa dalla legge e, ancor più, contraria al principio del favor partecipationis, a logica ed a ragionevolezza” (pag. 10 del ricorso introduttivo).
Pertanto, seguendo il granitico insegnamento della giurisprudenza amministrativa (di recente, TAR Roma, sez. III, 08/05/2023, n. 7668) e come condivisibilmente sostenuto dalle resistenti, la ricorrente avrebbe dovuto immediatamente impugnare detta prescrizione di gara, anche alla luce dei diversi chiarimenti sul punto forniti ai concorrenti dall’Amministrazione (18.10.2023, 08.11.2023 e 13.11.2023, tutti comunicati prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte).
Quanto detto rende inesorabilmente il ricorso in parte tardivo in quanto proposto il 17.01.2024, oltre il termine decadenziale di trenta giorni di cui all’art. 120 c.p.a., decorrenti dal 13.10.2023, data di pubblicazione del bando nella GURI o, al limite, decorrente dalla data dell’ultimo chiarimento.
4.1. A tale rilievo la ricorrente obietta però che tale clausola sarebbe in realtà nulla per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui agli artt. 3, 10, 68 del D.lgs. 36/2023.
Infatti, a suo dire, quand’anche si accedesse alla tesi secondo cui sarebbe proprio la lex specialis a condurre all’esclusione del concorrente per non aver prodotto la documentazione a comprova del rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato tra il soggetto esecutore dei lavori e il soggetto incaricato del servizio di progettazione, ovvero per non aver indicato progettisti che si trovano in detto rapporto, allora si dovrebbe convenire circa la nullità di tale previsione concorsuale, nella misura in cui si presta all’introduzione ingiustificata di cause d’esclusione non previste dal Codice dei contratti, in violazione del principio di tassatività dettato dall’art. 10 del D.lgs. 36/2023, dando ingresso ad una necessaria configurazione del rapporto tra operatore economico (impresa), incaricato dell’esecuzione dei lavori, e l’operatore economico (professionale), incaricato del servizio di progettazione, non rispettosa del principio di libertà organizzativa previsto dalla normativa vigente.
Al riguardo, la ricorrente richiama l’orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria secondo cui “al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara –non vi sia l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso: tale clausola– in quanto inefficace e improduttiva di effetti - si deve intendere come ‘non apposta’, a tutti gli effetti di legge. […] Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente” (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sentenza n. 22 del 16.10.2020).
4.2. Pertanto, ove la clausola del bando fosse effettivamente nulla per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, se ne dovrebbe dedurre la ritualità della sua impugnazione e la sua scrutinabilità in questa sede. Per contro, ove la suddetta clausola fosse invece frutto di una legittima attività discrezionale dell’amministrazione, la stessa potrebbe essere al massimo annullabile in s.g., ma comunque soggetta ai termini di impugnazione validi per le gare d’appalto di cui all’art. 120 c.p.a.
Delimitato così il campo della successiva delibazione, deve essere quindi analizzata funditus la natura della clausola in contestazione prevista dall’art. 9 del Disciplinare, in particolare verificando la sua aderenza ai dettami di cui all’art. 44, comma 3, del nuovo codice degli appalti secondo cui: “gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, oppure avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione”.
È parere del Collegio che l’amministrazione abbia legittimamente specificato il contenuto della norma ora richiamata, non discostandosi dai principi in essa tracciati, né ampliando illegittimamente il numero delle cause di esclusione previsto ex lege.
A tal proposito, la norma deve essere interpretata in chiave sistematica, facendo richiamo ad altre norme dello stesso codice principiando proprio dall’art. 10, comma 3, il quale prevede che: “Fermi i necessari requisiti di abilitazione all’esercizio dell’attività professionale, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono introdurre requisiti speciali di carattere economico-finanziario e tecnico-professionale, attinenti e proporzionati all’oggetto del contratto, tenendo presente l’interesse pubblico al più ampio numero di potenziali concorrenti”. Al riguardo l’art. 100 del codice disciplina i c.d. “Requisiti di ordine speciale” e l’art. 103 disciplina i “Requisiti di partecipazione a procedure di lavori di rilevante importo”.
Come evidenziato dalla Difesa erariale, poi, l’art. 100, al secondo comma, prevede che le SS.AA. possano richiedere requisiti proporzionati e attinenti all’oggetto dell’appalto, mentre l’art. 103, al primo comma, prevede che la S.A. possa chiedere requisiti aggiuntivi ai concorrenti.
Ancora, l’art. 18 comma 11, dell’allegato II.12 del nuovo codice prevede espressamente che “1. Per realizzare lavori pubblici affidati con i contratti di cui all'articolo 44 del codice ovvero in concessione, è necessaria l'attestazione di qualificazione per progettazione e costruzione; fermi restando i requisiti previsti dal presente articolo e quanto disposto dall'articolo 30, comma 5, il requisito dell'idoneità tecnica è altresì dimostrato dalla presenza di uno staff tecnico di progettazione composto da soggetti in possesso di laurea magistrale o di laurea breve abilitati all'esercizio della professione di ingegnere e architetto, ovvero geologo per le categorie in cui è prevista la sua competenza, iscritti all'albo professionale, e da diplomati, tutti assunti a tempo indeterminato e a tempo pieno”.
Legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha operato inserendo una clausola che richiedeva, anche a pena di esclusione, specifiche forme di dimostrazione della adeguatezza e qualificazione dei componenti della Struttura Operativa Minima di progettazione, avendo ritenuto non sufficiente a soddisfare i requisiti di partecipazione la mera indicazione nominativa dei progettisti di cui intende avvalersi l’operatore e ciò in ossequio anche ai principi generali di par condicio e di economicità dell’azione amministrativa.
Convince, a questo proposito, il richiamo della Difesa erariale anche al super principio della fiducia di cui all’art. 2 del d.lgs. 36/2023 per cui: “L’attribuzione e l’esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici” mentre, nel caso di specie, ragionevolmente l’amministrazione ha deciso di estromettere dalla gara gli operatori economici (imprese) che ingenerassero dubbi relativamente all’affidabilità e la stabilità del rapporto intercorrente con l’operatore economico (professionale) poi incaricato del servizio di progettazione.
Per quanto chiarito, ritiene il Collegio che la P.A. possa –nei limiti di ragionevolezza e non eccessiva onerosità- discrezionalmente dare un contenuto specifico ad eventuali limitazioni alla partecipazione ai sensi dell’art. 44, comma 3, d.lgs. 36/2023, il che configura un’ipotesi di esercizio –eventualmente errato- di tale potere discrezionale, e quindi di eventuale annullabilità degli atti emessi ma comunque non si verserà in un caso di loro nullità.
Ad abudantiam, si osservi come la stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria citata a conforto dalla ricorrente chiarisca come il principio di tassatività delle clausole di esclusione “non vale di per sé ad infirmare la legittimità delle clausole dei bandi di gara che prevedono adempimenti a pena di esclusione, anche di carattere formale, purché conformi ai tassativi casi contemplati dal medesimo comma, nonché dalle altre disposizioni del codice dei contratti pubblici, del regolamento di esecuzione e delle leggi statali (Cons. Stato, Ad. plen., 23.02.2014, n. 9, § 6.4; successivamente 16.10.2020, n. 22), dal momento che il relativo potere conformativo della singola competizione non risulta escluso ma solo regolamentato" (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 16.10.2020, n. 22 per come interpretata da Cons. Stato, sez. III, sent. n. 8432 del 30.09.2022).
Pertanto, il principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 36 del 2023, non risulta applicabile alle prescrizioni della lex specialis di gara dirette a definire i requisiti di partecipazione alla procedura che risultino attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto, come nel caso di specie peraltro, giacché la stazione appaltante dispone di ampia discrezionalità nella determinazione dei requisiti di partecipazione alla gara a condizione che tali requisiti siano attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto e comunque non introducano indebite discriminazioni nell'accesso alla procedura.
Nella fattispecie, infatti, l’indicazione del progettista è un requisito dell’offerta (“indicato nell’offerta”) e costituiva anche un requisito tecnico-professionale.
Il ricorso introduttivo deve quindi essere dichiarato tardivo nella parte in cui contesta la clausola escludente di cui all’art. 9 del disciplinare, non impugnata nei termini di legge.

PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni verticali e parametri valutativi.
L’amministrazione gode di ampia discrezionalità nello stabilire quali parametri valutare (e come), tra le “competenze professionali”, nelle procedure per progressione verticale (sia “in deroga” che “ordinarie”).

È quanto indicato dal TAR Campania-Salerno, Sez. III, nella sentenza 21.02.2024 n. 488, nella quale è stato altresì evidenziato che è legittimo che l’ente (nel regolamento) decida:
   - di valutare solo i percorsi formativi (svolti nel triennio) conclusisi con esame finale e il cui superamento risulti comprovato da certificazione;
   - di non valutare le abilitazioni professionali, eventualmente possedute dai candidati, anche quando attinenti al profilo di destinazione; a questo proposito, infatti, la lettera c), del comma 7, dell’articolo 13 del Ccnl del 16.11.2022 (laddove prevede che le amministrazioni provvedano a definire i criteri per l’effettuazione di procedure di progressione tra le aree) ha natura meramente esemplificativa, come chiaramente risultante dall’espressione “a titolo esemplificativo” che precede l’elenco di quanto valutabile tra le competenze professionali;
   - di attribuire lo stesso punteggio alla laurea triennale e alla laurea vecchio ordinamento/magistrale/specialistica, operando una differenziazione solo sulla base del voto conseguito;
   - la sostanziale equiparazione tra titolo di studio conseguito presso università tradizionale e titolo di studio conseguito presso università telematica (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 21.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato boccia la dichiarazione di interesse culturale senza sopralluogo. No a una concezione del tutto astratta del bene che si vorrebbe tutelare.
È illegittima la dichiarazione di interesse culturale di un bene immobile adottata senza un previo sopralluogo e non sorretta da un’adeguata valutazione dello stato attuale del bene stesso e del contesto in cui si colloca, altrimenti «è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto astratta del bene che si vorrebbe tutelare».

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 07.02.2024 n. 1245 che ha annullato per difetto di istruttoria la sentenza del Tar Lombardia n. 1679 del 2021, che aveva ritenuto legittimo il provvedimento con cui la Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio aveva sottoposto a vincolo un edificio rurale sulla base della sola relazione storico artistica redatta dai funzionari ministeriali.
La decisione del Consiglio di Stato
Gli appellanti avevano denunciato il vizio di eccesso di potere per la mancata ricognizione dei luoghi e per l'omessa valutazione delle condizioni dell'edificio («.un fabbricato fatiscente [] immerso in una fitta vegetazione incolta [] con la presenza, nelle adiacenze, di edificazione residenziale priva di pregio»), evidenziando che il vincolo storico artistico era stato imposto sulla base di soli riferimenti bibliografici e di documentazione fotografica risalente o comunque non aggiornata. Tesi che ha colto nel segno.
Il Consiglio di Stato ha affermato che la dichiarazione di interesse culturale «evidenzia carenze istruttorie, e di conseguenza, motivazionali, legate al reale contesto e stato dell'immobile, nonché alla effettiva sussistenza dei pregi culturali posti a base della relazione storico-artistica».
Decisione che conferma l'orientamento secondo cui:
   - la mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di una particolare periodo storico «non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l'imposizione del vincolo» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 5970 del 2017);
   - un apprezzamento basato sulla «mera valenza documentaria» non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale, in quanto non si può prescindere da «un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio concorrono a determinare» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 6293 del 2012);
   - la dichiarazione di interesse culturale è sindacabile quando l'istruttoria si riveli insufficiente o errata o la motivazione risulti inadeguata o presenti manifeste incongruenze o illogicità anche per l'insussistenza di un'obiettiva proporzionalità tra l'estensione del vincolo e le effettive esigenze di protezione del bene (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 2839 del 2018; in senso conforme Tar Lombardia, sentenza n. 2060 del 2023).
Fermo restando che in tal senso si è espressa la giurisprudenza risalente. Basta citare la sentenza del Consiglio di Stato n. 4866 del 2005, là dove statuisce che l'amministrazione per i beni e le attività culturali «deve tener conto del principio di proporzionalità (congruità del mezzo rispetto al fine perseguito), della specifica valutazione dell'interesse pubblico particolare perseguito e della necessità che nella motivazione provvedimentale sia chiaramente espressa l'impossibilità di scelte alternative meno onerose per il privato gravato dal vincolo" (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.03.2024).
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SENTENZA
1. Oggetto dell’odierno contendere della sentenza impugnata è il rigetto del ricorso proposto avverso la dichiarazione di interesse culturale ex art. 10, comma 3, lett. a) e d), D.lgs. 42/2004 di cui al decreto Rep. 1574 della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del 28.11.2019, adottata in relazione all’edificio centrale (“A”) del complesso della Masseria del Sole (detto anche “Cascina Roncaccio”), sito in Ronago (CO), nella Via Ronchetto s.n.c., di proprietà delle odierne ricorrenti, in virtù di atto di compravendita del 19.04.2018.
2. L’appello, con cui l’originaria ricorrente ripropone le censure dedotte in primo grado attraverso la critica alle argomentazioni con cui il Tar ha condiviso il provvedimento, è fondato sotto l’assorbente profilo del difetto di istruttoria.
2.1 In linea generale, le valutazioni di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, che siano tali da giustificare l'apposizione del vincolo e del conseguente regime ex art. 10, comma, d.lgs. n. 42/2004, rappresentano l’esplicazione di un potere di apprezzamento tecnico, proprio dell'amministrazione dei beni culturali nell'esercizio della funzione di tutela del patrimonio; tali valutazioni possono essere sindacabili in sede giurisdizionale soltanto in presenza di oggettivi aspetti di incongruenza, travisamento di fatti e illogicità (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 25/03/2022, n. 2181).
2.2 A fronte dell’omogeneità delle censure, in termini di critica all’estensione del sindacato giurisdizionale della sentenza di rigetto impugnata ed alla correttezza della determinazione negativa impugnata, occorre ribadire un breve inquadramento (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 27.12.2023 n. 11204).
2.3 In linea di diritto, in considerazione della natura delle contestazioni mosse avverso le decisioni applicative dell’interesse culturale tutelato dall’amministrazione competente, connotata da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, va richiamato l’orientamento, ancora di recente ribadito dalla sezione, a mente del quale le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. «discrezionalità tecnica») ‒a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. «discrezionalità amministrativa»), rispetto alle quali il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme‒ vanno vagliate dal giudice con riguardo alla loro specifica ‘attendibilità’ tecnico-scientifica.
2.4 Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale.
2.5 In tale ottica, a fronte dell’esercizio di un tale peculiare potere, in specie dinanzi ad una diversa prospettazione basata su elementi parimenti tecnici (come nel caso del presente ricorso accompagnato da una relazione tecnica di esperti), il sindacato –analogamente ad altri ambiti di carattere tecnico e specialistico– non si può più fermare alla verifica della mera attendibilità estrinseca, dovendo cercare più avanti il punto di caduta, in coerenza al bilanciamento –da un canto- fra poteri e –da un altro canto– fra interessi, pubblici e privati nonché alla delimitazione del nucleo di merito rimesso all’amministrazione.
2.6 In generale, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici e specialistici dell’amministrazione può oggi svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito dall'autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.
2.7 Va evidenziato, in tale ottica, che il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela giurisdizionale effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di un autorità dotata di competenze specialistiche, non può essere limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza applicata dall'amministrazione, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, in specie rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere.
2.8 In tale contesto, in tema di esercizio della discrezionalità tecnica, se per un verso il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, per un altro parallelo verso deve stabilire se la valutazione operata nell'esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia nel complesso che nell’articolazione dei diversi passaggi, oltre che sotto il profilo delle regole tecniche applicate.
2.9 Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a giudicare se l'Autorità pubblica abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, attraverso la verifica dei passaggi sopra indicati, in coerenza ai fatti accertati, alle regole tecniche e procedimentali predeterminate, senza che sia invece consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall'amministrazione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 05.08.2019, n. 5559).
3. Tali generali coordinate vanno adeguate alla peculiarità delle valutazioni di valenza culturale, prima, ed al caso di specie, a seguire.
4. Sul primo versante, l'apprezzamento da parte dell'amministrazione ai fini dell’imposizione di scelte di vincolo legate a poteri ed obiettivi di valenza culturale si atteggia come un apprezzamento ampio dell’interesse pubblico a tutelare cose che, attenendo direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura, per ciò che esprimono e per i riferimenti con queste ultime, sono reputate meritevoli di conservazione.
Tuttavia l’interesse pubblico alla tutela della cosa che attenga direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura è direttamente collegato con una valutazione in termini di particolare interesse della cosa per i propri pregi intrinseci o per il riferimento della medesima alle vicende della storia dell’arte o della cultura, sicché l’espressione precipua dell’attività tecnico-discrezionale dell’amministrazione si ha nel momento della formulazione del giudizio di particolare rilevanza del bene, discendente a sua volta o dal riconoscimento di un peculiare pregio del medesimo, o dal riconoscimento di un particolare collegamento di esso con le vicende della storia, della cultura e dell’arte.
4.1 La circostanza che tale attività dell'amministrazione, volta ad esprimere il giudizio di rilevanza, pur implicando un apprezzamento di conformità della cosa valutata ad un modello astratto alla stregua di criteri estetico-culturali, sia sostanzialmente di carattere ricognitivo e conoscitivo (in quanto volta ad accertare l’esistenza della peculiare qualità della cosa da sottoporre a tutela), e non, invece, di carattere volitivo, come quando l’amministrazione è chiamata ad operare, per il perseguimento di un determinato interesse, una scelta fra due diverse soluzioni possibili, non esclude, ovviamente, che il margine di apprezzamento si basi su elementi tecnici, che restano di carattere peculiare e specialistico.
4.2 In tale contesto, sul versante di tutela gli spazi sono garantiti, analogamente agli altri ambiti specialistici sebbene adattati alle peculiarità del settore coinvolto. Pertanto, se è ben possibile per l’interessato ‒oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali‒ contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, in tal caso emerge contemporaneamente l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica; se tale onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato; ciò in quanto prevale la scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez: VI 23.09.2023 n. 8167).
4.3 Il potere ministeriale di vincolo richiede, quale presupposto, una valutazione basata non sulle acquisizioni delle scienze esatte, bensì su riflessioni di natura artistica, storica e filosofica, spesso strettamente legate al contesto culturale e territoriale di riferimento, per loro stessa natura in continua evoluzione, anche solo per il notorio dato che trattasi di materie soggette a continuo studio e ricerca, nel perseguimento di analoghi interessi pubblici culturali, di istruzione e di crescita individuale e collettiva; in tale ottica non a caso lo stesso art. 9 della Costituzione afferma che lo Stato tutela lo “sviluppo” della cultura, da intendersi in termini quindi ampi, quale evoluzione in sé oltre che nei singoli.
L’esigenza di oggettività e uniformità di valutazione dei tecnici del settore (storici dell’arte, antropologi, architetti, ecc.) non può non risentire del predetto limite di sindacato.
5. Sul secondo versante, applicando le coordinate predette al caso in esame, l'atto in contestazione –motivato in parte per relationem attraverso il rinvio alla relazione storico-artistica ivi allegata ed in parte in risposta alle osservazioni formulate dalla proprietà incisa- non risulta accompagnato da una adeguata istruttoria da cui trarre la sussistenza dei presupposti della meritevolezza dell'impronta storico-architettonica che si vorrebbe posseduta dall'immobile; anzi, la mancanza di sopralluogo e la mancata adeguata valutazione di elementi di fatto relativi allo stati attuale del contesto e dell’immobile evidenziano il dedotto profilo sintomatico di eccesso di potere indicato.
5.1 Il percorso argomentativo deve essere, in primo luogo, aderente allo stato oggettivo dei luoghi ed è ciò che manca nella specie.
5.1.1 Al riguardo, come già evidenziato dalla giurisprudenza consolidata della sezione, se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico - potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l'ulteriore decadimento, tuttavia è onere dell'Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate parte circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell'immobile.
Diversamente, è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto astratta (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare.
6. Tali vizi risultano confermati, in termini tradizionali di profili sintomatici di eccesso di potere, laddove i funzionari dell'organo ministeriale abbiano, come nella specie, omesso di effettuare una ricognizione dei luoghi.
6.1 A fronte di ciò, la stessa relazione invocata finisce con il contenere una di affermazioni stereotipate, in cui non è possibile rintracciare le ragioni che attestano la singolarità del bene che si assume avere valore di testimonianza, ovvero la mera descrizione dei luoghi, neppure precisa come evidenziato dagli elementi –descrittivi e fotografici– prodotti da parte appellante.
6.2 Come già evidenziato dalla sezione, la mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l'adozione di un provvedimento individuale e concreto, quale quello in questione.
6.3 Qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova.
6.4 Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale: in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2012, n. 6293, e 18.12.2017 n. 59050).
7. Stato di fatiscenza ed assenza sopralluogo finiscono con il confermare l’assenza di una istruttoria adeguata alla rilevanza ed incisività del potere esercitato, in quanto emerge un travisamento dei fatti posto all’interno del perimetro di sindacato giurisdizionale in oggetto; in proposito, ad esempio, laddove nella risposta alle osservazioni puntuali sullo stato di fatto attuale il provvedimento afferma che l’immobile sia sostanzialmente intatto, dall’analisi della documentazione versata in atti lo stesso risulta diruto in alcune rilevanti parti.
7.1 Parimenti, anche la affermata condizione di isolamento è discutibile, dall’esame della documentazione in atti, prodotta da parte appellante e non adeguatamente valutata se non attraverso formule e considerazioni generali.
7.2 Ancora priva di adeguato riscontro è la oggettiva constatazione, posta a base delle articolate osservazioni presentate, dell’esistenza di due corpi edilizi adiacenti, non esaminati né valutati dagli atti impugnati in prime cure, evidente parte integrante dell’immobile attuale ed aggiunti rispetto alla struttura originaria, ormai del tutto crollati e pericolanti.
8. Il difetto di istruttoria emerge anche dalla manifesta illogicità e sproporzione rilevata laddove si dichiara di voler arrestare una possibile crescita del sistemo insediativo del contesto.
8.1 Invero, se per un verso –fattuale e di contesto- le controdeduzioni e la documentazione fotografica allegata evidenziano la ormai avvenuta crescita insediativa, per un altro verso –giuridico e finalistico- quello dichiarato costituisce un obiettivo diverso dalla tutela culturale del singolo bene. Infatti, a quest’ultimo riguardo, un conto è la verifica culturale del bene, collocato nel contesto di riferimento, un altro conto è la critica ad un sistema edilizio posto al di fuori delle competenze dell’amministrazione.
Quest’ultima, al dichiarato fine di fermare uno sviluppo edilizio non condiviso ma che è posto al di fuori degli ambiti di propria competenza, finisce con applicare il potere di vincolo culturale ad un immobile diruto ed ormai privo di caratteristiche peculiari, non facilmente riconoscibili, quantomeno sulla scorta della carente istruttoria svolta.
8.2 Carenza istruttoria evidenziata dalla incomprensibile assenza di un sopralluogo, correttamente invocato anche in sede procedimentale dalla parte privata; infatti, proprio la peculiarità del contesto rappresentato dalla parte privata avrebbe imposto un accertamento diretto dei luoghi, anche in relazione alla consistenza (i due manufatti diruti annessi) ed allo stato reale dell’immobile.
9. Invero, in tale situazione le affermazioni di cui alla relazione storico artistica risultano un esercizio teorico senza il necessario collegamento diretto con la realtà.
9.1 A parte la ricostruzione della storia burocratica dell’immobile, dalla realizzazione alla descrizione, tratta peraltro indirettamente da materiale digitale, la relazione storico artistica contiene questo solo passaggio relativo all’effettiva valenza culturale rilevata: “Esempio di “archeologia industriale” ottocentesca, in cui alla ricerca di funzionalità organica delle strutture si associano soluzioni distributive e tipologiche razionali tipiche delle architetture produttive dell’epoca, costituisce un unicuum nel suo genere per destinazione (cantina per la lavorazione del vino) e per impiego di tecniche costruttive con uso di materiali locali (conglomerato glaciale locale), di cui non esiste altro riscontro, se non nei pezzi riciclati della ex-chiesa romanica di Olgiate del secolo XI.”
9.2 Peraltro tale valutazione sconta i due vizi predetti, in termini di travisamento dei fatti e di manifesta illogicità, integrando quel difetto di istruttoria e di motivazione compiutamente dedotto da parte appellante. Per un verso la definizione di “archeologia industriale” non appare precisa, in merito ad una azienda vinicola, e quindi in prevalenza agricola; per un altro verso, anche la valutazione come unicum appare priva di effettivo riscontro pratico.
9.3 È quindi mancata anche la dovuta valutazione istruttoria di elementi dedotti nelle osservazioni di parte, elementi peraltro coerenti alle risultanze fattuali: “pessimo stato di conservazione in cui versa l’immobile”; “alterazioni effettuate sulla struttura originaria per consentire usi e funzioni diverse (successivamente alla cessazione dell’attività vitivinicola)”; “trasformazione del contesto abitativo circostante (connotato dalla presenza di edilizia residenziale di scarsa qualità)”.
10. Il vizio dedotto appare altresì fondato in ordine al difetto di istruttoria e di valutazione rispetto alle scelte in ordine alle modalità di cura e di salvaguardia dell'interesse culturale; infatti, quando queste ultime si esprimono in una ampia gamma di possibilità, si accentua -e non diminuisce– l’obbligo per l'amministrazione di istruire e motivare le proprie decisioni, in base ai superiori principi di buon andamento (art. 97 Cost.) e di "buona amministrazione" (art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea), nei termini già evidenziati dalla giurisprudenza della sezione invocata da parte appellante.
11. In definitiva, nel caso di specie, lungi dal sostituirsi alla valutazione dell’amministrazione la deduzione di parte appellante ne evidenzia carenze istruttorie e, di conseguenza, motivazionali, legate al reale contesto e stato dell’immobile, nonché alla effettiva sussistenza dei pregi culturali posti a base della relazione storico artistica; in termini coerenti ai principi in tema di limiti ed estensione del sindacato giurisdizionale, sopra riassunti.
12. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va pertanto accolto; per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado.

APPALTI: Gare, nulla la clausola che impone il sopralluogo a pena di esclusione. Tar Lazio: nessuna prescrizione del nuovo codice riconosce al Rup la possibilità di imporre il sopralluogo con la sanzione del cartellino rosso.
Nel nuovo codice, il sopralluogo non può essere imposto a pena di esclusione. La norma del disciplinare che disponesse l’effetto espulsivo in caso di inadempimento deve ritenersi nulla per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione.

In questo senso il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con sentenza 03.01.2024 n. 140.
La questione del sopralluogo
Il ricorrente, tra le altre, censura il provvedimento di esclusione dalla gara a causa della mancata effettuazione, secondo la stazione appaltante, del sopralluogo che, la legge speciale, imponeva pena di esclusione (si trattava di un appalto integrato, progettazione esecutiva ed esecuzione di lavori).
Secondo il ricorrente, in realtà, il sopralluogo sarebbe stato effettuato ma non «certificato» secondo le modalità formali imposte dalla stazione appaltante. Aspetto, questo, che avrebbe dovuto legittimare almeno l'intervento in soccorso istruttorio.
In ogni caso, l'appaltatore censura l'esclusione rilevando che la clausola che disponesse in questo modo deve ritenersi nulla «perché violativa del principio di tassatività, dei principi di massima partecipazione e di divieto di aggravamento del procedimento e dell'art. 92 D.Lgs. n. 36/2023».
Il nuovo codice, sempre secondo la censura, infatti, si «limiterebbe a prevedere la necessità che i termini per la presentazione delle offerte siano calibrati in modo tale che gli operatori interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte» senza che, in caso di violazioni, possano derivarne «effetti espulsivi automatici in caso di mancato adempimento
Secondo il ricorrente, inoltre, il sopralluogo non sarebbe stato neppur essenziale ai fini della formulazione dell'offerta visto che «i relativi elementi di fatto sarebbero presenti nel progetto definitivo posto dalla stazione appaltante a base di gara»
La sentenza
Il giudice condivide la doglianza precisando, immediatamente, che il nuovo codice non prevede il sopralluogo quale adempimento necessario per la formulazione dell'offerta.
L'articolo 92, infatti, -nel citare la possibilità della «visita dei luoghi» nel caso in cui ciò sia necessario per la preparazione dell'offerta-, non può essere interpretato, sottolinea il giudice, nel senso di ammettere che il Rup possa prescrivere il sopralluogo a pena di esclusione.
Il dettato della disposizione, invece, deve essere inteso «semplicemente come precetto» che riguarda la sola stazione appaltante «al fine di vincolarla a parametrare i termini di partecipazione alla gara agli adempimenti propedeutici alla formulazione dell'offerta».
Questa lettura/interpretazione è coerente con uno dei principi fondamenti statuiti dal nuovo codice contenuto nell'articolo 3 in cui si prevede che le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti concedenti sono tenute/i a favorire secondo le modalità indicate dallo stesso codice, «l'accesso al mercato degli operatori economici nel rispetto dei principi di concorrenza, di imparzialità, di non discriminazione, di pubblicità e trasparenza, di proporzionalità».
Da ricordare, inoltre, che proprio i primi tre «principi» statuiti nei primi tre articoli (principio di risultato, della fiducia e di accesso al mercato) rappresentano il «criterio primario» per il Rup «per l'applicazione e l'interpretazione delle altre disposizioni del vigente codice degli appalti».
Il nuovo articolo, del resto, si pone in continuità con la pregressa previsione contenuta nell'articolo 79 del codice del 2016 per il quale -e sono parole del Consiglio di Stato (sentenza n. 575/2021)- la richiesta della visita dei luoghi era (ed è) finalizzata a consentire l'acquisizione di una serie di informazioni utili per presentare le offerte «senza, dunque, derivarne effetti espulsivi automatici in caso di mancato compimento».
L'epilogo, pertanto, è che se nessuna prescrizione del codice o, comunque, di altra legge riconosce al Rup la possibilità di imporre il sopralluogo a pena di esclusione ne deriva che lo stesso disciplinare, nella parte in cui preveda l'effetto espulsivo in caso di inadempimento, debba considerarsi nullo «per violazione del principio di tassatività disciplinato dall'art. 10, commi 1 e 2, d.lgs. n. 36/2023».
Tra l'altro, per effetto delle disposizioni in parola il principio di tassatività «ha una valenza ed un ambito applicativo più stringenti rispetto alla disciplina del previgente art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/2016» in quanto, a differenza del pregresso codice, il principio in parola oggi si trova «tra i principi generali del nuovo codice».
Rileva quindi anche la stessa «strumentalità della tassatività rispetto al fondamentale principio dell'accesso al mercato, di cui all'art. 3 d.lgs. n. 36/2023» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.01.2024).
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Al riguardo si legga anche:
  
● S. Biancardi, Sopralluogo non più imposto come obbligatorio e a pena di esclusione (11.01.2024 - link a https://leautonomie.it).
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SENTENZA
Considerato, in diritto, che il ricorso è fondato e merita accoglimento;
Considerato, in particolare, che:
   - come già evidenziato, il gravato provvedimento di esclusione si fonda su un duplice ordine di motivazioni, l’una relativa al mancato espletamento del sopralluogo, e l’altra concernente l’omessa indicazione dell’operatore economico a cui affidare il servizio di progettazione esecutiva (la gara ha ad oggetto un appalto integrato);
   - con la prima censura parte ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 23 Cost., 1, 2, 5, 10, co. 2, 92, co. 1, e 101 D.Lgs. n. 36/23, 1 l. n. 241/1990 e del paragrafo 10 del disciplinare di gara, violazione dei principi generali in materia di massima partecipazione e di divieto di aggravio del procedimento, proporzionalità, correttezza e buona amministrazione ed eccesso di potere sotto vari profili evidenziando l’illegittimità dell’esclusione per mancato espletamento del sopralluogo che, in realtà, sarebbe stato, in concreto, effettuato anche se non attestato dal modello 4 relativo alla presa visione dei luoghi con ivi apposto il timbro del Comune di Fonte Nuova.
Inoltre, la clausola che prescrive l’esclusione per mancato espletamento del sopralluogo sarebbe nulla perché violativa del principio di tassatività, dei principi di massima partecipazione e di divieto di aggravamento del procedimento e dell’art. 92 D.Lgs. n. 36/2023 il quale si limiterebbe a prevedere la necessità che i termini per la presentazione delle offerte siano calibrati in modo tale che gli operatori interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte, senza, dunque, che ne derivino effetti espulsivi automatici in caso di mancato adempimento.
In ogni caso, la clausola del bando dovrebbe essere interpretata restrittivamente nel senso di consentire il soccorso istruttorio in casi, come quello in esame, in cui il sopralluogo sarebbe stato realmente effettuato anche se non con la modalità “assistita” prescritta dalla stazione appaltante e, comunque, nell’ipotesi in esame il sopralluogo non sarebbe essenziale ai fini della formulazione dell’offerta anche perché i relativi elementi di fatto sarebbero presenti nel progetto definitivo posto dalla stazione appaltante a base di gara;
   - il motivo è fondato secondo quanto in prosieguo specificato;
   - la procedura oggetto di causa è stata indetta con determina a contrarre n. 1090 del 01/09/2023, con successiva pubblicazione del relativo bando, e, pertanto, è assoggettata alla disciplina del D.Lgs. n. 36/2023 così come previsto dall’art. 229 del testo normativo in questione;
   - nessuna disposizione del D.Lgs. n. 36/2023 prevede il sopraluogo quale adempimento necessario per la formulazione dell’offerta;
   - in questo senso, non può essere utilmente invocato l’art. 92, comma 1, D.Lgs. n. 36/2023, secondo cui “le stazioni appaltanti, fermi quelli minimi di cui agli articoli 71, 72, 73, 74, 75 e 76, fissano termini per la presentazione delle domande di partecipazione e delle offerte adeguati alla complessità dell’appalto e al tempo necessario alla preparazione delle offerte, tenendo conto del tempo necessario alla visita dei luoghi, ove indispensabile alla formulazione dell’offerta, e di quello per la consultazione sul posto dei documenti di gara e dei relativi allegati”;
   - infatti, la disposizione non può essere interpretata nel senso di consentire alla stazione appaltante di prescrivere il sopralluogo a pena di esclusione dalla gara ma va intesa semplicemente come precetto indirizzato esclusivamente all’amministrazione al fine di vincolarla a parametrare i termini di partecipazione alla gara agli adempimenti propedeutici alla formulazione dell’offerta;
   - ciò è confermato dal titolo dell’articolo 92 che recita “fissazione dei termini per la presentazione delle domande e delle offerte”;
   - tale opzione ermeneutica è coerente con il principio dell’accesso al mercato previsto dall’art. 3 D.Lgs. n. 36/2023 secondo cui “le stazioni appaltanti e gli enti concedenti favoriscono, secondo le modalità indicate dal codice, l’accesso al mercato degli operatori economici nel rispetto dei principi di concorrenza, di imparzialità, di non discriminazione, di pubblicità e trasparenza, di proporzionalità”, il quale, ai sensi dell’art. 4 del medesimo testo normativo, costituisce criterio primario per l’applicazione e l’interpretazione delle altre disposizioni del vigente codice degli appalti;
   - del resto, l’art. 92, comma 1, D.Lgs. n. 36/23 presenta una disciplina simile a quella del previgente art. 79 D.Lgs. n. 50/2016 il quale, secondo il giudice di appello, non era idoneo a costituire il supporto normativo legittimante l’esclusione per mancato espletamento del sopralluogo e ciò “per la formulazione dell'art. 79, comma 2, che fa sì riferimento alle ipotesi in cui "le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara", ma solo per farne conseguire la necessità che i termini per la presentazione delle offerte siano calibrati in modo che gli operatori interessati "possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte", senza, dunque, derivarne effetti espulsivi automatici in caso di mancato compimento” (Cons. Stato n. 575/2021; nello stesso senso Cons. Stato n. 3581/2019 ivi richiamata);
   - se nessuna prescrizione del codice o, comunque, di altra legge riconosce alla stazione appaltante la possibilità di imporre il sopralluogo a pena di esclusione ne deriva che il paragrafo 10 del disciplinare di gara che tale conseguenza prevede è nullo per violazione del principio di tassatività disciplinato dall’art. 10, commi 1 e 2, d.lgs. n. 36/23 secondo cui:
1. I contratti pubblici non sono affidati agli operatori economici nei confronti dei quali sia stata accertata la sussistenza di cause di esclusione espressamente definite dal codice.
2. Le cause di esclusione di cui agli articoli 94 e 95 sono tassative e integrano di diritto i bandi e le lettere di invito; le clausole che prevedono cause ulteriori di esclusione sono nulle e si considerano non apposte
”;
   - va, in proposito, rilevato che, nel nuovo codice, il principio di tassatività ha una valenza ed un ambito applicativo più stringenti rispetto alla disciplina del previgente art. 83, comma 8, D.Lgs. n. 50/2016 il quale stabiliva che “le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità, congiuntamente agli idonei mezzi di prova, nel bando di gara o nell'invito a confermare interesse ed effettuano la verifica formale e sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze tecniche e professionali, ivi comprese le risorse umane, organiche all'impresa, nonché delle attività effettivamente eseguite…I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”;
   - ciò è desumibile dalla collocazione del principio di tassatività tra i principi generali del nuovo codice (a differenza della disciplina previgente in cui la tassatività era trattata nell’ambito della disciplina concernente i requisiti di ordine speciale) e dalla strumentalità della tassatività rispetto al fondamentale principio dell’accesso al mercato, di cui all’art. 3 D.Lgs. n. 36/2023;
   - ne deriva che, nel nuovo codice, le deroghe al principio di tassatività devono essere interpretate restrittivamente e con maggior rigore rispetto alla disciplina previgente;
   - nello stesso senso, va riguardato il tenore letterale dell’art. 10 D.Lgs. n. 36/2023 che, nel ribadire espressamente la valenza necessariamente eterointegrativa delle cause di esclusione previste dagli artt. 94 e 95, attribuisce ad esse i requisiti di tassatività ed esclusività tanto che “le clausole che prevedono cause ulteriori [rispetto, appunto, a quelle degli artt. 94 e 95] di esclusione sono nulle e si considerano non apposte”. In tal modo, il D.Lgs. n. 36/23 prevede una disciplina più rigorosa rispetto a quella del previgente art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/2016 il quale escludeva, dalla nullità per violazione del principio di tassatività, anche le prescrizioni previste “da altre disposizioni di legge vigenti”, inciso che non è rinvenibile nel nuovo codice;
   - per queste ragioni non può, nel vigente quadro normativo, essere condiviso l’orientamento giurisprudenziale (per il quale, da ultimo, TAR Lazio–Latina n. 414/2023), formatosi in relazione all’abrogato art. 83 d.lgs. n. 50/2016, secondo cui l’obbligo di sopralluogo riveste un ruolo sostanziale e non meramente formale, consentendo ai concorrenti di formulare un’offerta consapevole e più aderente alle necessità dell’appalto;
   - quanto fin qui evidenziato induce il Collegio a ritenere che, nella vigenza del d.lgs. n. 36/2023, il sopralluogo non possa essere previsto dalla stazione appaltante come adempimento a pena di esclusione dalla gara;
   - ne consegue l’illegittimità, per violazione del principio di tassatività, del profilo motivazionale del gravato provvedimento del 15/11/23 laddove prevede, quale causa di esclusione della ricorrente dalla gara, il mancato espletamento del sopralluogo nelle forme prescritte dalla lex specialis e ciò a prescindere dalla circostanza, pure prospettata nella censura e meritevole di adeguata considerazione, circa l’effettività dell’avvenuto espletamento del sopralluogo anche se con modalità diverse da quelle “assistite” prescritte dalla stazione appaltante;
   - con la seconda censura, la ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 5, 10, co. 2, e 101 d.lgs. n. 36/2023 e del paragrafo 13 del disciplinare di gara e la violazione dei principi generali in materia di massima partecipazione e par condicio, proporzionalità, correttezza e buona amministrazione nonché eccesso di potere sotto vari profili in quanto, “diversamente da quanto osservato nel provvedimento impugnato, nella propria offerta l’odierna esponente non ha mancato di indicare nominativamente lo studio di progettazione designato per l’esecuzione delle prestazioni di progettazione richieste dalla S.A., mettendo quindi la commissione di gara nella condizione di conoscere fin dal momento di presentazione dell’offerta il progettista indicato. Sicché, tenuto conto che per espressa previsione del disciplinare di gara, il progettista indicato non era da considerarsi quale concorrente associato in ATI (cfr. ult. cpv. del par. 5.2.2, a pag. 13…), nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione l’istituto del soccorso istruttorio necessario per sanare la radicale mancanza delle citate dichiarazioni sul possesso dei requisiti di qualificazione” (pagg. 15 e 16 dell’atto introduttivo). In particolare, il ricorso al soccorso istruttorio sarebbe giustificato dall’inesistenza dei limiti, in contrario, previsti dall’art. 101 D.Lgs. n. 36/2023 e dall’impossibilità di considerare, come concorrente, il soggetto “indicato” per l’attività di progettazione;
   - il motivo è fondato secondo quanto in prosieguo specificato;
   - secondo l’art. 44, comma 3, D.Lgs. n. 36/2023, nelle ipotesi di appalto integrato “gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, oppure avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione”;
   - la disposizione si pone in linea con i precedenti testi normativi che hanno disciplinato l’appalto integrato;
   - in particolare:
      a) l’art. 59-bis D.Lgs. n. 50/2016 stabiliva che “le stazioni appaltanti possono ricorrere all’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione di lavori sulla base del progetto definitivo dell’amministrazione aggiudicatrice nei casi in cui l'elemento tecnologico o innovativo delle opere oggetto dell'appalto sia nettamente prevalente rispetto all'importo complessivo dei lavori. I requisiti minimi per lo svolgimento della progettazione oggetto del contratto sono previsti nei documenti di gara nel rispetto del presente codice e del regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies; detti requisiti sono posseduti dalle imprese attestate per prestazioni di sola costruzione attraverso un progettista raggruppato o indicato in sede di offerta, in grado di dimostrarli, scelto tra i soggetti di cui all’articolo 46, comma 1”;
      b) l’art. 53, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006 prevedeva che “quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell'offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione”;
      c) nello stesso senso l’art. 92, comma 6, d.p.r. n. 207/2010 prescriveva che “i requisiti per i progettisti previsti dal bando ai sensi dell’articolo 53, comma 3, del codice devono essere posseduti dalle imprese attestate per prestazioni di sola esecuzione, attraverso un progettista associato o indicato in sede di offerta in grado di dimostrarli, scelto tra i soggetti di cui all’articolo 90, comma 1, lettere d), e), f), f-bis, g) e h), del codice, e sono costituiti in rapporto all’ammontare delle spese di progettazione”;
   - ne deriva che la giurisprudenza formatasi in riferimento al testo delle disposizioni abrogate può essere utilmente richiamata anche in relazione al disposto del vigente art. 44, comma 3, d.lgs. n. 50/2016;
   - ciò posto, il Collegio rileva che, secondo l’Adunanza Plenaria, “il progettista indicato, nell'accezione e nella terminologia dell'articolo 53, comma 3, del decreto legislativo n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo. Pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell'Unione europea” (A.P. n. 13/2020);
   - l’Adunanza Plenaria ha enunciato il principio in esame per trarne la conseguenza per cui il progettista “indicato” “non può utilizzare l'istituto dell'avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all'operatore economico in senso tecnico e che l'avvalimento cosiddetto "a cascata" era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta” (così sempre A.P. n. 13/2020).
   - la conclusione raggiunta dal Supremo Consesso, in punto di qualificazione del progettista “indicato” come professionista esterno che non assume la veste di concorrente, ha, poi, costituito il presupposto da cui ha mosso la giurisprudenza per ammettere la sostituzione del progettista stesso nell’ipotesi di carenza dei requisiti in capo a quest’ultimo, in tutti i casi (in questo senso, tra le altre, CGA n. 276/2021, TAR Calabria–Catanzaro n. 1004/2023, TAR Lombardia–Milano n. 252/2021) o, secondo altro più restrittivo orientamento, nelle sole ipotesi in cui ciò non comporti una modifica sostanziale dell’offerta (Cons. Stato n. 9923/2022, TAR Lombardia–Milano n. 703/2023);

PUBBLICO IMPIEGO: Titoli di riserva nei concorsi.
È stato respinto il ricorso di un soggetto collocato in posizione utile (idoneo, ma non vincitore) in una graduatoria di concorso per il fatto che vantava un titolo di preferenza non dichiarato nella domanda di partecipazione e prodotto all’amministrazione dopo la conclusione delle prove, ma prima della predisposizione della graduatoria.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 11.10.2023 n. 8864, affermando che l’agire del comune ovvero il non aver considerato il suo titolo di riserva, a suo dire, aveva violato gli articoli 5, 15 e 16 del Dpr 487/1994, ritenendo che dette disposizioni prescrivano che i titoli che danno diritto alla quota di riserva debbano essere valutati di diritto ai fini della formazione della graduatoria finale, purché nel possesso o portati a conoscenza dell’amministrazione in tempo utile.
Inoltre, in tale contesto, non è ammissibile nemmeno il soccorso istruttorio, in quanto trova un limite proprio nella tutela della parità di trattamento dei singoli candidati, palesemente violata ove si consentisse ad un candidato di dichiarare un requisito o un titolo non indicato nella domanda (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.11.2023).

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SENTENZA
1. Con l’appello in trattazione, il sig. Ro.Es. chiede la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, Sezione Prima, 19.04.2023, n. 415, che ha respinto il ricorso, proposto dall’odierno appellante, per l’annullamento della determinazione dirigenziale con la quale è stata approvata la graduatoria definitiva della procedura di selezione per l’assunzione, presso il Comune di Livorno, di n. 15 dipendenti (profilo professionale vigilanza cat. C).
Come risulta dalla motivazione della sentenza, il sig. Es. ha partecipato al concorso, risultando idoneo ma non collocato in posizione utile per l’assunzione. Ha quindi impugnato la graduatoria definitiva per non aver tenuto conto dei titoli preferenziali da lui vantati, che gli avrebbero consentito di rientrare nel numero dei candidati da assumere o comunque di acquisire una migliore posizione in graduatoria.
2. La sentenza ha respinto il ricorso in quanto il ricorrente, nella domanda di partecipazione, non ha indicato il possesso dei titoli preferenziali, avendo spedito la relativa documentazione solo dopo la conclusione delle prove concorsuali (anche se prima della predisposizione della graduatoria), in violazione della norma del bando e dell’art. 16 del d.P.R. n. 487 del 1994.
...
6. Come anticipato, l’appellante censura la sentenza per aver affermato, in violazione degli articoli 5, comma 3, 15, comma 3, e 16, comma 1, del d.P.R. 09.05.1994, n. 487, nonché degli articoli 1 e 9 del bando di concorso, l’obbligo dei partecipanti al concorso di dichiarare nella domanda, a pena di inammissibilità, i titoli che danno diritto alla riserva dei posti.
Secondo l’appellante, dal tenore letterale delle succitate disposizioni, i titoli che danno diritto alla quota di riserva devono essere valutati di diritto ai fini della formazione della graduatoria finale, purché nel possesso o portati a conoscenza dell’Amministrazione in tempo utile.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. Secondo il consolidato orientamento del Consiglio di Stato, in tema di procedure concorsuali per l’assunzione di pubblici dipendenti, l’amministrazione non può valutare titoli che, seppure sussistenti, non siano stati dichiarati nella domanda di partecipazione ad un pubblico concorso (Consiglio di Stato, Sez. IV, 23.12.2019, n. 6935; Id., 19.02.2019, n. 1148; Sez. III, 04.01.2019, n. 96; in precedenza soprattutto Consiglio di Stato, sez. V, 06.05.2015, n. 2262; successivamente anche Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2020, n. 8020; Sez. II, 22.11.2021, n. 7815; di recente Consiglio di Stato, sez. II, 13.01.2023, n. 465; anche Consiglio di Stato, sez. III, 08.05.2023, n. 4622, che sebbene non esamini ex professo la questione muove dalla premessa che sono valutabili i soli titoli già indicati nella domanda di ammissione).
La soluzione si impone non solo sulla base del tenore letterale dell’art. 16, comma 1, del d.P.R. 09.05.1994, n. 487 (secondo cui l’amministrazione procedente valuta i titoli preferenziali o i titoli di riserva nella nomina quando questi siano stati «già indicati nella domanda» di ammissione al concorso), ma anche per il convergere di ulteriori considerazioni; è stato sottolineato, infatti, che l’indicazione dei titoli in un momento successivo alla presentazione della domanda, e quindi quando il termine di presentazione sia scaduto, implicherebbe non tanto una regolarizzazione quanto un'integrazione della domanda di partecipazione, non consentita in materia di procedure concorsuali in ragione della perentorietà dei termini e del necessario rispetto del principio della par condicio dei candidati.
6.3. In tale contesto, non sarebbe ammissibile nemmeno il soccorso istruttorio, che trova un limite proprio nella tutela della parità di trattamento dei singoli candidati, palesemente violata ove si consentisse ad un candidato di dichiarare un requisito o un titolo non indicato nella domanda.
7. In conclusione, l’appello va respinto.

PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo intenso del computer d’ufficio per fini personali.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, nella sentenza 05.10.2023 n. 40702 ha affermato che
commette il reato di peculato (articolo 314 del codice penale) il dipendente pubblico che utilizzi –in modo non modesto, episodico ed occasionale– il computer messo a disposizione dal datore di lavoro per la navigazione in internet per interessi personali.
Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio in base al quale nel peculato d’uso non è configurabile il reato solo laddove l’uso episodico ed occasionale di un bene di servizio non abbia leso la funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile.
Diversamente, l’intensità del comportamento provoca un evidente pregiudizio economico all’amministrazione, una lesione dell’interesse al buon andamento, all’efficacia, all’imparzialità ed alla trasparenza della stessa, come dimostrato (ad esempio) dalla presenza nella memoria di quell’apparecchio informatico di materiale privato più che aziendale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.11.2023).
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SENTENZA
3. Anche il secondo e il terzo motivo del ricorso -strettamente connessi tra loro e, perciò, esaminabili congiuntamente- sono fondati.
Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio in base al quale
nel peculato d'uso non è configurabile il reato solo laddove l'uso episodico ed occasionale di un bene di servizio non abbia leso la funzionalità della pubblica amministrazione e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile (in questo senso, tra le altre, Sez. 5, 05.09.2019 n. 37186, Ciancarella, Rv. 277004; Sez. 6, 29.05.2019 n. 23824, Bifolco, Rv. 276070; e, con specifico riferimento all'uso per fini personali di un computer dell'ufficio, Sez. 6, 08.08.2013 n. 34524, Amato, Rv. 255810).
Di tale criterio interpretativo la Corte di appello di Firenze non ha fatto buon governo: e ciò non solamente perché -come si è avuto modo di sottolineare nel punto che precede- ha risposto in maniera logicamente censurabile alla doglianza relativa alla circostanza che l'impiego del computer per finalità personali e private da parte del Mugnai fosse stato episodico ovvero occasionale.
Ma soprattutto perché -pur ammettendo di non poter escludere che la navigazione in "internet" da parte dell'imputato fosse avvenuta sulla base di un abbonamento con tariffa "flat", dunque senza alcun reale aggravio di spesa per l'amministrazione- i Giudici di secondo grado hanno negato in maniera ancora una volta apodittica che la condotta dell'imputato avesse arrecato un danno alla funzionalità dell'ufficio, dato che il predetto non aveva mai ricevuto alcuna lettera di richiamo.
Così omettendo, però, di considerare che, proprio in ragione dell'accertate violazioni dei suoi doveri, il Mu. era stato licenziato dall'ente di appartenenza, e, dunque, mancando di valutare se quello smodato, perché sistematico e prolungato, uso per ragioni personali del computer dell'ufficio, non avesse in concreto distolto l'interessato dalle proprie mansioni, determinando una effettiva lesione dell'operatività della pubblica amministrazione (così Sez. 6, n. 33991 del 16/06/2015, di Castri, non mass.).

URBANISTICA: Il sindacato del giudice amministrativo sui poteri programmatori e di pianificazione urbanistica deve limitarsi solo agli eventuali rilievi di manifesta irragionevolezza, palese travisamento dei fatti ed illogicità delle scelte rispetto alle risultanze istruttorie ed ai presupposti di fatto esaminati dall’amministrazione.
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Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale “in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio e anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni urbanistiche, valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico; senza che sia necessaria l'ostensione di motivazione specifica, in relazione alle singole scelte urbanistiche; la scelta, compiuta in sede di pianificazione generale, di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona, non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni”.
È stato altresì evidenziato che “le scelte urbanistiche non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione”.
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Le doglianze non possono essere condivise.
Come evidenziato anche dalle parti nelle rispettive memorie, il sindacato del giudice amministrativo sui poteri programmatori e di pianificazione urbanistica deve limitarsi solo agli eventuali rilievi di manifesta irragionevolezza, palese travisamento dei fatti ed illogicità delle scelte rispetto alle risultanze istruttorie ed ai presupposti di fatto esaminati dall’amministrazione.
Nel caso di specie non è dato rilevare alcuna delle succitate patologie.
In risposta alle richieste delle società interessate, l’amministrazione ha risposto, già in sede procedimentale, che le diverse classificazioni desiderate avrebbero alterato sostanzialmente il contenuto del PEC e della relativa convenzione, accettati e sottoscritti dalle parti.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale “in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio e anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni urbanistiche, valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico; senza che sia necessaria l'ostensione di motivazione specifica, in relazione alle singole scelte urbanistiche; la scelta, compiuta in sede di pianificazione generale, di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona, non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni” (Cons. Stato Sez. II, 05/05/2021, n. 3518).
È stato altresì evidenziato che “le scelte urbanistiche non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione” (TAR Lombardia Brescia Sez. I, 17/06/2021, n. 570)
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2023 n. 320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza ha evidenziato che “in materia urbanistica, la necessità di provvedere a nuova pubblicazione dello strumento urbanistico si impone quando, tra la fase di adozione e quella di approvazione, siano intervenute modifiche comportanti un cambiamento radicale delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione, determinandone la complessiva rielaborazione.
Il che non si verifica laddove le modifiche operate in sede di approvazione riguardino la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, ancorché si tratti di modifiche significative sul piano qualitativo e/o quantitativamente numerose”.

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6. Con il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti si lamenta violazione dell’art. 15, commi 9-11, della L.R. 56/1977, degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990; eccesso di potere per contraddittorietà, ambiguità, illogicità manifesta.
Le ricorrenti censurano la DGC n. 36 del 4.02.2019 (recante “Variante strutturale 1/2016 – proposta tecnica del progetto definitivo – adozione aggiornamento a seguito della prima seduta della seconda conferenza di copianificazione") sostenendo che la stessa, costituendo una nuova proposta di progetto definitivo di variante, sarebbe illegittima in primo luogo perché il Comune avrebbe deliberato nonostante che dal verbale della conferenza non ne fosse stato richiesto l’intervento e, in secondo luogo, per non aver seguito l’iter istruttorio che ne prevede la pubblicazione e la raccolta delle eventuali osservazioni.
La doglianza non persuade.
Occorre evidenziare, in primo luogo, che nessuna lesione o censura può opporsi all’amministrazione per il solo fatto che decida di formalizzare una fase endo-procedimentale e pubblicare il relativo provvedimento.
In secondo luogo parte ricorrente, nel sostenere che la DGC n. 36/2019 costituisca una nuova proposta di progetto definitivo e che, di conseguenza, il Comune avrebbe dovuto seguire l’iter di cui all’art. 15, commi 9-11, della LRP n. 56/1977, si limita ad evidenziare che il provvedimento reca testualmente “approfondimenti e specificazioni” della proposta di progetto nonché due allegati tecnici diversi da quelli della DGC n. 188/2018 (in particolare l’elaborato Tav. V–Integrazioni RI, avente ad oggetto ”Approfondimenti e specificazioni della Proposta Tecnica di Progetto Definitivo a seguito delle richieste formulate nella conferenza di copianificazione del 20.12 2018”, e l’elaborato Tav. V-RI, avente ad oggetto ”Relazione Illustrativa Proposta tecnica progetto Definitivo”).
Nessuna prova è fornita sulla effettiva portata innovativa e sul carattere sostanziale degli approfondimenti recati dalla delibera di giunta.
Le stesse ricorrenti indicano in modo dubitativo il rapporto di novazione tra la DGC n. 36/2019 e la precedente DGC n. 188/2018 (si legge nel ricorso per motivi aggiunti che “pare” aggiungersi e sovrapporsi alla DGC n. 188 del 16.11.2018, che già aveva adottato la Proposta Tecnica di Progetto Definitivo della Variante n. 1/2016, senza procedere né alla revoca né all’annullamento in autotutela di tale delibera).
La normativa regionale citata dalle ricorrenti, del resto, non impone una nuova fase di pubblicazione della proposta di progetto a seguito del recepimento delle osservazioni o prima della convocazione della seconda conferenza di copianificazione.
Sul punto occorre evidenziare che la giurisprudenza ha evidenziato che “in materia urbanistica, la necessità di provvedere a nuova pubblicazione dello strumento urbanistico si impone quando, tra la fase di adozione e quella di approvazione, siano intervenute modifiche comportanti un cambiamento radicale delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione, determinandone la complessiva rielaborazione; il che non si verifica laddove le modifiche operate in sede di approvazione riguardino la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, ancorché si tratti di modifiche significative sul piano qualitativo e/o quantitativamente numerose” (TAR Toscana Firenze Sez. I, 29/11/2022, n. 1366).
Nel caso di specie non risultano elementi di prova circa il carattere novativo ed essenziale del contenuto degli aggiornamenti e specificazioni recati nella delibera impugnata.
Il motivo di ricorso è pertanto infondato
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 11.04.2023 n. 320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.04.2024

Sulla ristrutturazione edilizia di un fabbricato "rurale" [censito al Catasto Terreni e, comunque, avente (o che aveva) destinazione residenziale] che diventerà un fabbricato "residenziale" (da censire al Catasto Fabbricati):
sconta, o meno, il versamento del contributo di costruzione?
Risposta: SÌ
(...anche se con alcuni distinguo).

EDILIZIA PRIVATA: La “ratio” dell’esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), del TUE è quella di favorire gli edifici unifamiliari, quindi la piccola proprietà immobiliare, meritevole di un trattamento contributivo differenziato per agevolare interventi di ristrutturazione o di limitato ampliamento di unità immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni abitativi di una famiglia; insomma si tratta di un’esenzione da contributo per finalità di carattere eminentemente sociale.
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Nel caso di specie, dalla documentazione versata in giudizio appare evidente che l’immobile di cui è causa non può essere minimamente ricondotto all’ipotesi di cui al succitato art. 17 del TUE.
Il complesso immobiliare ricade in zona A1 agricola ed è costituito da un fabbricato principale un tempo destinato ad abitazione del coltivatore diretto e da un altro fabbricato ad uso stalla o deposito.
L’intervento assentito con il PdC di cui è causa comporta la ristrutturazione con cambio d’uso da rurale a residenziale, la creazione di un pergolato ad uso parcheggio, la sistemazione dell’area esterna con realizzazione di un cancello carrabile sulla via ....
La relazione tecnica di progetto ammette che quest’ultimo riguarda “la ristrutturazione dell’esistente fabbricato rurale allo scopo di renderlo idoneo all’uso abitativo”.
Inoltre, se il fabbricato principale è considerato in “discrete condizioni”, quello accessorio è definito come fatiscente e in parte crollato, sicché sullo stesso dovranno realizzarsi interventi importanti per creare un’unità abitativa, con nuovi locali ad uso bagno e lavanderia.
A ciò si aggiunga che il complesso immobiliare non può certamente qualificarsi come edificio unifamiliare; è sufficiente a tale proposito ancora la lettura della relazione di progetto e delle fotografie allegate, che individuano con chiarezza due strutture distinte.
Anche la documentazione catastale evidenzia due diverse unità immobiliari.
Non si tratta, quindi, di un edificio unifamiliare, senza contare che la trasformazione in residenza del vecchio edificio fatiscente un tempo adibito ad uso stalla e fienile implica un aumento della superficie utile ben superiore alla misura di legge del 20%.
Nello stesso ricorso principale l’esponente ammette peraltro che l’immobile è composto da ben nove vani per una superficie abitabile di circa 200 metri quadrati, il che appare di per sé incompatibile con la nozione di “edificio unifamiliare”.
Non può neppure sostenersi che l’intervento edilizio non darebbe luogo ad aumento del carico urbanistico in quanto anche il vecchio edificio abitato dal coltivatore diretto aveva comunque destinazione residenziale.
L’argomento difensivo è privo di pregio, considerato che si realizza la trasformazione ad uso abitativo del fabbricato ad uso deposito (stalla e fienile), senza contare che la vecchia casa del coltivatore diretto è ormai di fatto non più abitabile, sicché la creazione della nuova e più ampia residenza darà luogo ad incremento del carico urbanistico.
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... per l'annullamento
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
   - dell'Avviso di rilascio del Permesso di Costruire n. 72/2018, prot. n. 13345 del 04.09.2018, notificato in pari data, nella parte in cui dispone che, ai fini del rilascio del Permesso di Costruire, debba essere pagato il contributo di costruzione ammontante complessivamente ad € 25.332,12 (doc. 1), e di ogni atto presupposto o conseguente o comunque connesso alla liquidazione del contributo di costruzione e l'accertamento del diritto della ricorrente all'esonero dal pagamento del contributo di costruzione e comunque della non debenza dello stesso o, eventualmente, del minore importo da corrispondere, con richiesta di restituzione della somma indebitamente pagata, pari ad € 25.332,12 o a quella diversa somma che risulterà in corso di causa;
per quanto riguarda i motivi aggiunti:
   - per l’annullamento degli atti già impugnati con ricorso introduttivo del giudizio e per l’accoglimento delle altre domande ivi formulate, nonché per l’accertamento e la declaratoria del diritto in capo alla ricorrente allo scomputo del contributo di costruzione e/o alla riconduzione ad equità degli impegni assunti mediante sottoscrizione di atto unilaterale d’obbligo allegato al permesso di costruire n. 72/2018.
...
1. La signora An.Ci. otteneva dal Comune di Olginate (LC) il permesso di costruire (PdC) n. 72/2018 per il restauro conservativo di un fabbricato adibito a residenza rurale, per la ristrutturazione del fabbricato ad uso deposito e il suo mutamento di destinazione d’uso in fabbricato residenziale, con riguardo ad un compendio immobiliare sito alla via ... n. 1.
Con il ricorso principale in epigrafe la stessa contestava la pretesa del Comune di ottenere il pagamento del contributo di costruzione per euro 25.332,12 in relazione al permesso di cui è causa.
Contestualmente era chiesto l’accertamento del diritto all’esonero dal pagamento del contributo, con richiesta di restituzione delle somme pagate.
Con ricorso per motivi aggiunti –sottoscritto da un nuovo difensore che aveva sostituito quello originario– l’esponente confermava la propria richiesta di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione per l’intervento edilizio di cui è causa e contestualmente chiedeva l’accertamento della non debenza o in ogni caso la riduzione delle somme da essa dovute ai sensi dell’art. 21 delle norme di attuazione (NTA) del Piano di Governo del Territorio (PGT, vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale ai sensi degli articoli 7 e seguenti della legge regionale n. 12 del 2005).
...
2.1 Nel primo motivo del gravame principale e nel motivo aggiunto n. 3 (continua la numerazione del ricorso introduttivo) l’esponente lamenta la violazione sotto vari profili degli articoli 16 e 17 del DPR n. 380 del 2001 (Testo Unico dell’edilizia o anche solo “TUE”) e degli articoli 43 e 44 della legge regionale sul governo del territorio n. 12 del 2005.
La tesi di parte ricorrente è che il proprio intervento edilizio non dovrebbe essere assoggettato a contributo di costruzione, dovendo applicarsi l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lettera b), del TUE, che prevede la gratuità degli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, degli edifici unifamiliari.
La censura non merita condivisione.
La “ratio” dell’esenzione di cui sopra è quella di favorire gli edifici unifamiliari, quindi la piccola proprietà immobiliare, meritevole di un trattamento contributivo differenziato per agevolare interventi di ristrutturazione o di limitato ampliamento di unità immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni abitativi di una famiglia; insomma si tratta di un’esenzione da contributo per finalità di carattere eminentemente sociale (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, sentenza n. 449 del 2018, peraltro richiamata seppure impropriamente dall’esponente, nella quale si evidenzia correttamente che la finalità della norma è quella di garantire una “decorosa sistemazione abitativa”; si veda anche nello stesso senso, TAR Veneto, Sezione II, sentenza n. 289 del 2019).
Dalla documentazione versata in giudizio appare però evidente che l’immobile di cui è causa non può essere minimamente ricondotto all’ipotesi di cui al succitato art. 17 del TUE.
Il complesso immobiliare ricade in zona A1 agricola ed è costituito da un fabbricato principale un tempo destinato ad abitazione del coltivatore diretto e da un altro fabbricato ad uso stalla o deposito.
L’intervento assentito con il PdC di cui è causa comporta la ristrutturazione con cambio d’uso da rurale a residenziale, la creazione di un pergolato ad uso parcheggio, la sistemazione dell’area esterna con realizzazione di un cancello carrabile sulla via ... (cfr. il doc. 1 della ricorrente).
La relazione tecnica di progetto (cfr. il doc. 3 della ricorrente) ammette che quest’ultimo riguarda “la ristrutturazione dell’esistente fabbricato rurale allo scopo di renderlo idoneo all’uso abitativo” (si veda pag. 3 della relazione, punto 1.3).
Inoltre, se il fabbricato principale è considerato in “discrete condizioni”, quello accessorio è definito come fatiscente e in parte crollato, sicché sullo stesso dovranno realizzarsi interventi importanti per creare un’unità abitativa, con nuovi locali ad uso bagno e lavanderia (si vedano sul punto anche le fotografie degli immobili, doc. 19 della ricorrente e le planimetrie degli interventi, in particolare quella doc. 13 della ricorrente).
A ciò si aggiunga che il complesso immobiliare non può certamente qualificarsi come edificio unifamiliare; è sufficiente a tale proposito ancora la lettura della relazione di progetto e delle fotografie allegate, che individuano con chiarezza due strutture distinte (cfr. ancora il doc. 3 della ricorrente).
Anche la documentazione catastale evidenzia due diverse unità immobiliari (cfr. i documenti n. 1 e n. 2 del resistente).
Non si tratta, quindi, di un edificio unifamiliare, senza contare che la trasformazione in residenza del vecchio edificio fatiscente un tempo adibito ad uso stalla e fienile implica un aumento della superficie utile ben superiore alla misura di legge del 20%.
Nello stesso ricorso principale (cfr. pag. 14) l’esponente ammette peraltro che l’immobile è composto da ben nove vani per una superficie abitabile di circa 200 metri quadrati, il che appare di per sé incompatibile con la nozione di “edificio unifamiliare”.
Non può neppure sostenersi, come invece viene affermato nei motivi aggiunti, che l’intervento edilizio non darebbe luogo ad aumento del carico urbanistico in quanto anche il vecchio edificio abitato dal coltivatore diretto aveva comunque destinazione residenziale.
L’argomento difensivo è privo di pregio, considerato che si realizza la trasformazione ad uso abitativo del fabbricato ad uso deposito (stalla e fienile), senza contare che la vecchia casa del coltivatore diretto è ormai di fatto non più abitabile, sicché la creazione della nuova e più ampia residenza darà luogo ad incremento del carico urbanistico.
I motivi n. 1 e n. 3 devono quindi rigettarsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.03.2024 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' oneroso l'intervento edilizio di ristrutturazione edilizia di un edificio colonico composto da abitazione e locali agricoli (stalla, cantina e magazzino) contemplante altresì:
   - il cambio di destinazione dei locali agricoli (parzialmente crollati e da ricostruire) a residenza;
   - il cambio di destinazione dell’intero edificio da residenza colonica a civile abitazione;
   - la costruzione di una nuova cantina interrata.
Come è noto, in base alla normativa applicabile “ratione temporis”, il rilascio del permesso di costruire per interventi di ristrutturazione edilizia è sempre oneroso (art. 16 DPR n. 380/2001) salvo che “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” (art. 17, comma 3, lett. b), DPR n. 380/2001).
Questo Tribunale ha già trattato ricorsi analoghi che contemplavano lavori di ristrutturazione di ex fabbricati rurali con destinazione mista, ovvero residenza colonica e locali adibiti ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, magazzini, ecc.).
Nel caso specifico, l’intervento non solo ha comportato la realizzazione di nuova superficie calpestabile, ma anche un ampliamento della superficie residenziale attraverso il cambio di destinazione dei vani originariamente con destinazione produttiva, quindi non accessori alla residenza ma direttamente collegati all’esercizio dell’attività agricola.
Il ricorrente non offre alcun elemento per ritenere che l’ampliamento della superficie residenziale sia stato contenuto entro il 20%.
Poiché l’intero edificio ha subito anche un cambio d’uso, da destinazione colonica (i cui interventi sono normalmente gratuiti ex art. 17, comma 3, lett. a), DPR n. 380/2001) a civile abitazione (i cui interventi sono normalmente onerosi come visto in precedenza), non si possono frazionare artificiosamente i lavori al fine di sostenere che parte di essi sarebbero gratuiti e parte onerosi, poiché l’intervento deve essere valutato nel suo complesso.
In questo caso pare evidente che il nuovo edificio, derivante dalla completa ristrutturazione con ampliamento del precedente, determini un complessivo incremento di carico urbanistico che va complessivamente ricondotto al regime dell’attività edilizia onerosa.
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1. Il ricorrente otteneva, dal Comune di Pesaro, il permesso di costruire n. 281/2005 per lavori di ristrutturazione di un edificio colonico composto da abitazione e locali agricoli (stalla, cantina e magazzino).
La ristrutturazione contemplava altresì:
   - il cambio di destinazione dei locali agricoli (parzialmente crollati e da ricostruire) a residenza;
   - il cambio di destinazione dell’intero edificio da residenza colonica a civile abitazione;
   - la costruzione di una nuova cantina interrata.
Per il rilascio del titolo è stato previsto il pagamento dei seguenti oneri concessori:
   - € 5.236,87 per contributo commisurato al costo di costruzione;
   - € 9.426,54 per oneri di urbanizzazione primaria;
   - € 10.136,16 per oneri di urbanizzazione secondaria.
Con l’odierna iniziativa giudiziaria il ricorrente contesta la quantificazione dei predetti oneri nei limiti della somma di € 9.832,29 che ritiene non essere dovuta perché riguarda i lavori di “ristrutturazione semplice” (cioè senza cambio di destinazione d’uso e senza aggravio di carico urbanistico) dei vani originariamente destinati ad abitazione.
Il Comune di Pesaro si è costituito per resistere al gravame.
2. Il ricorso è affidato ad un’unica ed articolata censura basata sulla circostanza che la ristrutturazione (che il ricorrente definisce “semplice”) dei vani dell’edificio già destinati a residenza, non abbia comportato alcun incremento di carico urbanistico per cui l’intervento, almeno entro questi limiti, avrebbe dovuto essere considerato gratuito secondo l’orientamento giurisprudenziale applicabile al momento.
La censura è infondata.
Come già ricordato in precedenza, l’intero edificio ha subito un cambio di destinazione da residenza colonica a civile abitazione. Anche i lavori hanno riguardato l’intero edificio.
Sul punto il Comune cita il passo della relazione di progetto descrittiva delle seguenti opere: “Per l’edificio principale … una ridistribuzione planimetrica degli ambienti che prevedono il cambio di destinazione della stalla al piano terra e del magazzino al primo piano. La zona giorno si svilupperà al piano terra con la realizzazione di una stanza interrata destinata a cantina. La zona notte, posta al primo piano, prevede la realizzazione di alcuni soppalchi in legno… Il corpo accessorio di sinistra sarà ricostruito nelle parti mancanti destinato in parte a garage in parte a porticato, mentre quello di destra verrà trasformato interamente a porticato. Le bucature esistenti nell’ex-stalla vengono ampliate in altezza abbassando la piattabanda. Sul lato destro, queste ultime, diventano porte-finestre. Si prevede la sostituzione di tutti gli infissi delle finestre con finestre in vetrocamera e sistema di oscuramento con persiane. Verrà sostituito il portoncino di ingresso. … Verrà realizzato ex novo il solaio di piano abbassandolo di circa 40 cm per sopperire all’aumento di spessore dovuto alla realizzazione del massetto impianti e all’aumento di spessore dovuto a necessità strutturali. … Verranno inserite delle velux per l’illuminazione dei soppalchi. Sul fianco sinistro è prevista la realizzazione di un’apertura ovale anch’essa per illuminare il soppalco attiguo.” (cfr. memoria depositata il 07/12/2023 non seguita da controdeduzioni di parte ricorrente).
Come è noto, in base alla normativa applicabile “ratione temporis”, il rilascio del permesso di costruire per interventi di ristrutturazione edilizia è sempre oneroso (art. 16 DPR n. 380/2001) salvo che “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” (art. 17, comma 3, lett. b), DPR n. 380/2001).
Questo Tribunale ha già trattato ricorsi analoghi che contemplavano lavori di ristrutturazione di ex fabbricati rurali con destinazione mista, ovvero residenza colonica e locali adibiti ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, magazzini, ecc.) (cfr. TAR Marche, 04.01.2018 n. 9).
Nel caso specifico, l’intervento non solo ha comportato la realizzazione di nuova superficie calpestabile, ma anche un ampliamento della superficie residenziale attraverso il cambio di destinazione dei vani originariamente con destinazione produttiva, quindi non accessori alla residenza ma direttamente collegati all’esercizio dell’attività agricola.
Il ricorrente non offre alcun elemento per ritenere che l’ampliamento della superficie residenziale sia stato contenuto entro il 20%.
Poiché l’intero edificio ha subito anche un cambio d’uso, da destinazione colonica (i cui interventi sono normalmente gratuiti ex art. 17, comma 3, lett. a), DPR n. 380/2001) a civile abitazione (i cui interventi sono normalmente onerosi come visto in precedenza), non si possono frazionare artificiosamente i lavori al fine di sostenere che parte di essi sarebbero gratuiti e parte onerosi, poiché l’intervento deve essere valutato nel suo complesso.
In questo caso pare evidente che il nuovo edificio, derivante dalla completa ristrutturazione con ampliamento del precedente, determini un complessivo incremento di carico urbanistico che va complessivamente ricondotto al regime dell’attività edilizia onerosa.
3. Il ricorso va quindi respinto (TAR Marche, sentenza 16.01.2024 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima la determinazione e liquidazione dei contributi di costruzione per l'intervento edilizio di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione e cambio d'uso da rurale a civile abitazione di una casa colonica.
L’art. 17, comma 3, lett. b), prevede che “Il contributo di costruzione non è dovuto: (omissis)
   b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Sul punto conviene richiamare quanto statuito in caso analogo da questo TAR secondo cui
   “l’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità della concessione edilizia “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
   L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi censito al catasto urbano nel 1991. Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4, DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n. 13/1990). Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività normalmente computabili attraverso propri indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
   Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista, ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
   L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
   La citata lett. d) non specifica come debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide con la piccola proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie.
   Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo, contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione, vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette, ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per produzione vinicola o comunque spazi destinati alla lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti dell’agricoltura. Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria.”.
Secondo le risultanze processuali (progetto tecnico di parte ricorrente), emerge che l’immobile in questione aveva in origine destinazione residenziale al solo primo piano e che per effetto del progettato intervento, anche il piano terra, di dimensioni sostanzialmente uguali al primo piano, diventerebbe ad uso abitativo.
È, allora, indiscutibile che il cambio di destinazione d’uso non sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria.
La tesi di parte ricorrente dedotta dall’orientamento del TAR Piemonte richiamato (peraltro non ancora avallato in appello), sarebbe, al limite, sostenibile (e in disparte la sua condivisibilità) qualora vi fosse coincidenza, entro il margine del quinto dell’originaria destinazione, tra destinazioni di uso ante e post intervento, ma nella specie tale situazione non è pacificamente sussistente, pertanto non può riconoscersi applicazione dell’esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), D.P.R. 380/2001.
Né il passaggio (mediante la totale demolizione e ricostruzione dell’edificio) da una situazione ex ante in cui esisteva un solo appartamento di circa 150 mq ad una ex post in cui esisterebbero due appartamenti di circa 150 mq, può ritenersi privo di riflessi sul carico urbanistico.
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... per l'annullamento della determinazione e liquidazione dei contributi di costruzione per l'intervento edilizio di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione e cambio d'uso da rurale a civile abitazione di una casa colonica sita in Via ... n. 4, oggetto della SCIA prot. n. 7854/2021 del 02.09.2021, nonché di ogni atto presupposto, conseguente e, comunque, connesso, ivi compreso il provvedimento del 18.02.2022 avente ad oggetto: “SCIA per ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione con cambio d'uso da rurale a civile abitazione - via ... n. 4 foglio 2 mappale 241 Sub 3-4-5 - Immobile schedato A88 varianti PRG case coloniche. invito al pagamento del contributo dovuto e richiesta integrazioni”, con il quale sono stati determinati e liquidati a carico dei ricorrenti i contributi di costruzione relativi all'intervento edilizio in oggetto.
... 
I ricorrenti contestano la determinazione e liquidazione dei contributi a beneficio dell’Unione Terra dei Castelli – Territorio Comune di Polverigi, per l’intervento edilizio di ristrutturazione con demolizione ricostruzione e cambio d’uso da rurale a civile abitazione di una casa colonica sita in Via ... n. 4, oggetto della SCIA prot. n. 7854/2021 del 02.09.2021.
Gli stessi hanno richiesto l’esonero dei contributi di costruzione ai sensi dell’art. 17, comma 3, lettera b), del DPR 380/01, legando il diritto all’esonero al fatto che il fabbricato rurale oggetto dell’intervento era stato edificato prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, allorquando le nuove costruzioni (sia rurali che di civile abitazione) non erano soggette al pagamento di oneri.
Secondo i ricorrenti, inoltre, la stessa L. 10/1977 avrebbe previsto all’articolo 9 alcune deroghe al principio generale della onerosità della concessione, stabilendo che in alcuni casi il contributo di concessione non sarebbe dovuto per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, così ritenendo esente da oneri la costruzione realizzata prima dell’entrata in vigore della predetta norma, sia essa rurale ovvero di civile abitazione.
Andando di diverso avviso, il Comune resistente ha così comunicato con l’impugnato atto del 19.02.2022, “In riferimento alla pratica in oggetto, assunta al protocollo dell'Unione con il num. 7854/2021, si fa presente che, da una verifica amministrativa e contabile della documentazione prodotta, risulta NON essere stato versato il contributo di costruzione previsto e dovuto ai sensi dell'art. 16 del DPR 380/2001 e smi (ex art. 3 legge 28/01/1977 n. 10) per i lavori di cui trattasi, così come di seguito determinato”, indicando in euro 20.368,54 il totale del contributo richiesto (somma del contributo per oneri di urbanizzazione per euro 12.828,80 e di costruzione per euro 7.539,54) e precisando “Ritenuto che il versamento dell'importo di cui sopra sia dovuto, in quanto il cambio di destinazione d'uso a civile abitazione di un edificio colonico realizzato a suo tempo da un imprenditore agricolo per la conduzione del fondo assume rilevanza urbanistica ai sensi dell'art. 23-ter del DPR 380/2001, e pertanto doveva essere effettuato contestualmente alla presentazione della SCIA”.
Con il mezzo di gravame notificato il 17.05.2022 e depositato il 23.05.2022, è proposto il seguente motivo di diritto.
Illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere – Violazione e falsa applicazione degli artt. 16, 17 e 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 oltre che dell’art. 23 Cost. – Erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti.
Sulla base di precedenti del Tar Piemonte (Tar Piemonte sez. II, 14.06.2019, n. 687 e Tar Piemonte sez. II, 27.04.2021, n. 446), affermano i ricorrenti, la non debenza di quanto richiesto dal Comune. Spiegano nel motivo, che mentre le residenze rurali edificate fino al 1977 erano esentate dal contributo di concessione sia che fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate a usi civili da parte di soggetti privati privi della qualifica di imprenditore agricolo, e ciò in virtù del regime di generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’articolo 31 della legge n. 1150 del 1942, invece le residenze rurali edificate dalla data di entrata in vigore della legge n. 10 del 1977 sono esentate dal contributo di costruzione soltanto nella misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo, con la conseguenza che, venendo meno l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare ad essere utilizzata come abitazione civile solo previo pagamento del contributo di costruzione, ciò determinando la decadenza dal beneficio dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo edilizio originario.
Da quanto sopra conseguirebbe che, mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della legge n. 10 del 1977 il passaggio dall’utilizzo rurale da parte dell’imprenditore agricolo all’utilizzo civile da parte di soggetti privi di tale qualifica, configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante in quanto determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dei contributi di concessione di cui aveva beneficiato il titolo edilizio originario; per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della legge 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configurerebbe alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante dal momento che in tal caso il titolo abilitativo originario prevedeva entrambi gli utilizzi e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto in modo generalizzato per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio e, pertanto, sia che l’immobile fosse destinato all’abitazione rurale, funzionale alla conduzione del fondo, sia altrettanto egualmente che fosse destinato all’abitazione civile.
Nel caso di specie, si dice, l’immobile è stato edificato anteriormente al 1967 (come risulta dall’atto di acquisto), e quindi beneficiando del regime di generale gratuità dei titoli edilizi vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 10 del 1977, ciò che comporterebbe l’irrilevanza, alla luce di quanto sopra esposto, della circostanza che l’immobile possa essere stato utilizzato come residenza rurale e che oggi venga destinato a residenza civile, in quanto entrambe le destinazioni d’uso erano e sono parimenti compatibili con il titolo abilitativo originario, essendo entrambe residenze destinate al medesimo uso di consentire l’abitazione alle persone, ed entrambe erano parimenti esenti dal pagamento degli oneri di urbanizzazione in virtù della normativa urbanistica all’epoca vigente.
In tale contesto il passaggio da residenza rurale a residenza civile non configurerebbe una modifica della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
Peraltro, si afferma che il passaggio dall’una all’altra destinazione non determinerebbe alcun aumento del carico urbanistico trattandosi in entrambi i casi di un utilizzo abitativo di un immobile senza incremento di superfici e di volumi e con l’aggiunta del fatto che il particolare tipo di intervento edilizio richiesto gode di una specifica disciplina di esenzione prevista dall’articolo 17, comma 2 (rectius, comma 3), lett. b), del DPR 380/2001 che riguarda proprio gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento in misura non superiore al 20% degli edifici unifamiliari.
...
Il ricorso non merita accoglimento per le seguenti ragioni.
L’art. 17, comma 3, lett. b), prevede che “Il contributo di costruzione non è dovuto: (omissis)
   b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari
”.
Sul punto conviene richiamare quanto statuito in caso analogo da questo TAR, con la sentenza del 04.01.2018, n. 9, secondo cui “l’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità della concessione edilizia “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi censito al catasto urbano nel 1991. Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4, DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n. 13/1990). Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività normalmente computabili attraverso propri indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista, ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide con la piccola proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; id. Sez. II, 10.10.1996 n. 1480; TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2011 n. 713; TAR Veneto, Sez. II, 13.03.2008 n. 604).
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo, contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione, vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette, ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per produzione vinicola o comunque spazi destinati alla lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti dell’agricoltura. Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria
.”.
Secondo le risultanze processuali (progetto tecnico di parte ricorrente), emerge che l’immobile in questione aveva in origine destinazione residenziale al solo primo piano e che per effetto del progettato intervento, anche il piano terra, di dimensioni sostanzialmente uguali al primo piano, diventerebbe ad uso abitativo.
È, allora, indiscutibile che il cambio di destinazione d’uso non sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria.
La tesi di parte ricorrente dedotta dall’orientamento del TAR Piemonte richiamato (peraltro non ancora avallato in appello), sarebbe, al limite, sostenibile (e in disparte la sua condivisibilità) qualora vi fosse coincidenza, entro il margine del quinto dell’originaria destinazione, tra destinazioni di uso ante e post intervento, ma nella specie tale situazione non è pacificamente sussistente, pertanto non può riconoscersi applicazione dell’esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), D.P.R. 380/2001.
Né il passaggio (mediante la totale demolizione e ricostruzione dell’edificio) da una situazione ex ante in cui esisteva un solo appartamento di circa 150 mq ad una ex post in cui esisterebbero due appartamenti di circa 150 mq, può ritenersi privo di riflessi sul carico urbanistico.
In conclusione il ricorso va respinto (TAR Marche, sentenza 16.12.2023 n. 858 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie inerenti la debenza, o la misura, dei contributi edilizi pretesi da un’amministrazione riguardano l’accertamento di diritti soggettivi che traggono origine da fonti normative e dei quali il giudice amministrativo conosce nell’ambito della giurisdizione esclusiva riconosciutagli dall’art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a..
Esse prescindono dall’impugnazione e dalla stessa esistenza dell’atto (paritetico) che abbia intimato il pagamento del contributo, dando luogo a un giudizio di accertamento avente a oggetto il rapporto obbligatorio e la fondatezza della pretesa vantata dall’amministrazione, senza il vincolo degli argomenti eventualmente adoperati da quest’ultima, a corredo della pretesa, nella fase anteriore all’instaurazione della lite.

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L’art. 9 d.l. n. 557/1993, convertito in legge n. 133/1994, nell’istituire il catasto dei fabbricati prevede, al comma 9, che per le variazioni “nell’iscrizione catastale dei fabbricati già rurali, che non presentano più i requisiti di ruralità […] non si fa luogo alla riscossione del contributo di cui all'art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, né al recupero di eventuali tributi attinenti al fabbricato ovvero al reddito da esso prodotto per i periodi di imposta anteriori al 01.01.1993 per le imposte dirette, e al 01.01.1994 per le altre imposte e tasse e per l'imposta comunale sugli immobili, purché detti immobili siano stati oggetto, ricorrendone i presupposti, di istanza di sanatoria edilizia, quali fabbricati rurali, ai sensi e nei termini previsti dalla legge 28.02.1985, n. 47, e vengano dichiarati al catasto entro il 31.12.1995 […]”.
La disposizione si riferisce ai fabbricati iscritti nel vecchio catasto terreni, ma non più dotati dei requisiti della ruralità e che, pertanto, debbono cambiare qualificazione nel passaggio al catasto fabbricati. E, per favorirne l’emersione, prevede alcuni benefici quali l’esonero dai contributi di urbanizzazione e dai tributi eventualmente dovuti per i periodi di imposta anteriori al 1993–1994.
L’accesso ai benefici predetti è condizionato, come si vede, al duplice requisito
   - dell’iscrizione in catasto entro il termine del 31.12.1995, poi ripetutamente prorogato, e
   - della regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile.
Peraltro, la deruralizzazione diviene effettiva solo attraverso la richiesta di un opportuno titolo edilizio e l’art. 9, co. 9, in esame, nella parte in cui esclude la debenza dei contributi edilizi, non può essere letto nel senso di escludere altresì, a monte, la rilevanza urbanistico-edilizia di un mutamento di destinazione d’uso che implica il passaggio a una categoria funzionale diversa (da rurale a residenziale) ed è, perciò, urbanisticamente rilevante a prescindere dall’esecuzione di opere edilizie.
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Nella specie, la ricorrente sostiene che l’immobile avrebbe perduto le caratteristiche di ruralità già nel 1989 dopo il decesso di suo nonno, coltivatore diretto.
L’affermazione è priva di qualsivoglia riscontro fattuale e non è supportata dalla disponibilità di un titolo edilizio corrispondente, né la prova mancante può essere supplita dal successivo accatastamento del 1997, che, com’è noto, rileva ai soli fini fiscali e non è idoneo ad attestare la regolarità urbanistico-edilizia di un immobile e della sua destinazione d’uso; fermo restando che, lo si ripete, all’accatastamento disciplinato dall’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993 non può attribuirsi efficacia “sanante” della mancanza del titolo per l’accesso all’esonero dai contributi edilizi.
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1. La signora Si.Be. è proprietaria in Pescia di un fabbricato a uso abitativo, ristrutturato nell’anno 2017 previa presentazione di apposita segnalazione certificata di inizio di attività.
Ella espone che l’immobile, costruito prima del 1967 e munito della licenza di abitabilità, aveva in origine caratteristiche di ruralità che sarebbero tuttavia da lungo tempo venute meno, come attestato dall’iscrizione nel catasto urbano in categoria A/3 sin dal maggio del 1997.
Nondimeno, a seguito della presentazione della S.C.I.A. relativa all’intervento di ristrutturazione, il Comune di Pescia ha dapprima chiesto alla ricorrente di fornire, attraverso la ricevuta del versamento dell’I.C.I. per l’anno 1994, la prova dell’avvenuta deruralizzazione del fabbricato; quindi, con nota del 05.03.2018, dopo aver verificato che il versamento dell’I.C.I. era stato effettuato solo a partire dal 1997, ha preteso il pagamento dei c.d. “oneri verdi”, relativi appunto alla deruralizzazione.
Per il tramite del proprio legale, la signora Be. proponeva un’istanza di riesame, riscontrata negativamente dal Comune con comunicazione del 29.05.2018. Eseguito pertanto il pagamento richiesto, senza prestare acquiescenza, impugnava i menzionati atti comunali mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Stante l’opposizione spiegata dal Comune ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 1199/1971, il ricorso straordinario è stato trasposto nella presente sede giurisdizionale dalla signora Be., la quale conclude per l’annullamento degli atti impugnati o, in subordine, per la condanna dell’amministrazione intimata alla restituzione degli importi versati a titolo di I.C.I.. non dovuta o comunque dovuta in misura ridotta.
1.1. Resiste alla domanda il Comune di Pescia.
...
2.1. Con l’unico motivo di impugnazione, la ricorrente deduce che il fabbricato di sua proprietà avrebbe da molto tempo perduto le iniziali caratteristiche di ruralità. Di ciò costituirebbero conferma il certificato di abitabilità come “casa urbana” del 1967, l’iscrizione al catasto urbano in categoria A/3, risalente al 1997, e il pagamento dell’I.C.I. a partire da quello stesso anno.
In materia, opererebbe il disposto dell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993, in forza del quale non si fa luogo alla riscossione degli oneri di urbanizzazione –ivi compresi quelli di deruralizzazione– per le variazioni nell’iscrizione dei fabbricati già rurali, purché eseguita entro il termine del 31.12.1995, progressivamente esteso dal legislatore fino al 31.12.1998. Proprio l’iscrizione catastale eseguita nel 1997 consentirebbe alla signora Be. di accedere al beneficio riconosciuto dalla norma, mentre non potrebbe condividersi l’affermazione, contenuta negli atti impugnati, secondo cui la deruralizzazione potrebbe considerarsi dimostrata solo attraverso la prova del versamento dell’I.C.I. dal 1994, in ossequio alle indicazioni impartite dal Ministero delle Finanze con la risoluzione n. 257/1994 e con la nota del 04.05.1994.
Il Comune avrebbe ulteriormente errato nel negare il riesame chiesto dall’interessata. L’unico adempimento prescritto dal citato art. 9, co. 9, d.l. n. 557/1993, ai fini dell’esonero dai contributi, sarebbe quello della tempestiva iscrizione al catasto urbano, né tale requisito potrebbe essere integrato dall’illegittima prassi di esigere la prova del pagamento dell’imposta sugli immobili sin dal 1994.
La difesa comunale replica che l’accampionamento catastale del 1997 non costituirebbe di per sé titolo idoneo alla deruralizzazione del fabbricato, la quale necessiterebbe pur sempre di un formale mutamento di destinazione d’uso, così come, per accedere all’esonero dai contributi, sarebbe occorso il pagamento dell’I.C.I. dal 1994, tanto più che la stessa ricorrente avrebbe riconosciuto essere la deruralizzazione intervenuta di fatto già nel 1989. La debenza dell’I.C.I. discenderebbe direttamente dalla legge e non certo da una prassi del Comune, che non avrebbe avuto alcun onere di sanare la situazione della ricorrente mediante un accertamento fiscale, onde permetterle di accedere all’esonero dai contributi ai sensi dell’art. 9, co. 9, d.l. n. 557/1993.
2.1.1. Ricostruite, in sintesi, le contrapposte posizioni, in primo luogo va precisato che le controversie inerenti la debenza, o la misura, dei contributi edilizi pretesi da un’amministrazione riguardano l’accertamento di diritti soggettivi che traggono origine da fonti normative e dei quali il giudice amministrativo conosce nell’ambito della giurisdizione esclusiva riconosciutagli dall’art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a.. Esse prescindono dall’impugnazione e dalla stessa esistenza dell’atto (paritetico) che abbia intimato il pagamento del contributo (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.04.2019, n. 2438; id., sez. IV, 17.07.2018, n. 4343; id., sez. IV, 27.09.2017, n. 4515), dando luogo a un giudizio di accertamento avente a oggetto il rapporto obbligatorio e la fondatezza della pretesa vantata dall’amministrazione, senza il vincolo degli argomenti eventualmente adoperati da quest’ultima, a corredo della pretesa, nella fase anteriore all’instaurazione della lite.
Tanto premesso, l’art. 9 d.l. n. 557/1993, convertito in legge n. 133/1994, nell’istituire il catasto dei fabbricati prevede, al comma 9, che per le variazioni “nell’iscrizione catastale dei fabbricati già rurali, che non presentano più i requisiti di ruralità […] non si fa luogo alla riscossione del contributo di cui all'art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, né al recupero di eventuali tributi attinenti al fabbricato ovvero al reddito da esso prodotto per i periodi di imposta anteriori al 01.01.1993 per le imposte dirette, e al 01.01.1994 per le altre imposte e tasse e per l'imposta comunale sugli immobili, purché detti immobili siano stati oggetto, ricorrendone i presupposti, di istanza di sanatoria edilizia, quali fabbricati rurali, ai sensi e nei termini previsti dalla legge 28.02.1985, n. 47, e vengano dichiarati al catasto entro il 31.12.1995 […]”.
La disposizione si riferisce ai fabbricati iscritti nel vecchio catasto terreni, ma non più dotati dei requisiti della ruralità e che, pertanto, debbono cambiare qualificazione nel passaggio al catasto fabbricati. E, per favorirne l’emersione, prevede alcuni benefici quali l’esonero dai contributi di urbanizzazione e dai tributi eventualmente dovuti per i periodi di imposta anteriori al 1993–1994.
L’accesso ai benefici predetti è condizionato, come si vede, al duplice requisito dell’iscrizione in catasto entro il termine del 31.12.1995, poi ripetutamente prorogato, e della regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile. Peraltro, la deruralizzazione diviene effettiva solo attraverso la richiesta di un opportuno titolo edilizio (TAR Toscana, sez. III, 05.11.2020, n. 1363; id., 28.11.2017, n. 1457) e l’art. 9, co. 9, in esame, nella parte in cui esclude la debenza dei contributi edilizi, non può essere letto nel senso di escludere altresì, a monte, la rilevanza urbanistico-edilizia di un mutamento di destinazione d’uso che implica il passaggio a una categoria funzionale diversa (da rurale a residenziale) ed è, perciò, urbanisticamente rilevante a prescindere dall’esecuzione di opere edilizie (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.09.2022, n. 8291; id., 11.06.2021, n. 4534).
Nella specie, la ricorrente sostiene che l’immobile avrebbe perduto le caratteristiche di ruralità già nel 1989 dopo il decesso di suo nonno, coltivatore diretto. L’affermazione è priva di qualsivoglia riscontro fattuale e non è supportata dalla disponibilità di un titolo edilizio corrispondente, né la prova mancante può essere supplita dal successivo accatastamento del 1997, che, com’è noto, rileva ai soli fini fiscali e non è idoneo ad attestare la regolarità urbanistico-edilizia di un immobile e della sua destinazione d’uso (giurisprudenza da tempo consolidata, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21.01.2015, n. 177; id., sez. IV, 04.02.2013, n. 666); fermo restando che, lo si ripete, all’accatastamento disciplinato dall’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993 non può attribuirsi efficacia “sanante” della mancanza del titolo per l’accesso all’esonero dai contributi edilizi.
Allo stesso modo, nessun rilievo riveste il permesso di abitabilità dell’immobile come “casa urbana”, rilasciato nel 1967. Che la deruralizzazione possa farsi risalire a quell’epoca, come la ricorrente tenta di sostenere nella propria memoria di replica, è in contraddizione con quanto dalla stessa signora Be. dedotto circa la destinazione rurale ricevuta dal fabbricato almeno sino al 1989; ma, soprattutto, l’abitabilità rileva unicamente sul piano del possesso dei requisiti igienico-sanitari e non attesta alcunché sotto il profilo edilizio.
Ne discende che, agli effetti urbanistico-edilizi, la deruralizzazione può considerarsi perfezionata e formalizzata solo con la segnalazione certificata di inizio di attività presentata nel 2017, nella quale va identificato il titolo legittimante, sia pure per implicito, anche il cambio di destinazione d’uso, in conformità a quanto stabilito dall’art. 135, co. 2, lett. e-bis), della legge regionale toscana n. 65/2014 che assoggetta al regime della S.C.I.A. i mutamenti urbanisticamente rilevanti della destinazione d'uso di immobili, o di loro parti.
D’altro canto, in assenza di prova circa il diverso momento nel quale il cambio di destinazione d’uso sarebbe effettivamente avvenuto, neppure è possibile verificare l’applicabilità ratione temporis di una differente disciplina legislativa e regolamentare. Gli oneri “verdi” sono pertanto dovuti dalla signora Be. ai sensi dell’art. 83 della citata legge n. 65/2014, che, in linea con tutta la legislazione regionale previgente (a partire dalla risalente l.r. n. 10/1979), sottopone il cambio della destinazione d’uso agricola al pagamento degli oneri finalizzati al miglioramento ambientale e paesaggistico del territorio rurale.
3. Il ricorso, alla luce delle considerazioni che precedono, non può trovare accoglimento.
La domanda, subordinata, di ripetizione degli importi versati nel corso degli anni a titolo di I.C.I./.I.M.U. va invece dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di pretesa la cui cognizione appartiene al giudice tributario (da ultimo, cfr. Cass. civ., SS.UU., 12.01.2022, n. 761) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 20.02.2023 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo condivisibile giurisprudenza:
   “Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione nel territorio comunale di nuove costruzioni, o l’ampliamento, la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio della concessione edilizia era subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione della loro attuazione da parte dei comuni nel successivo triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro attuazione contestualmente alla realizzazione dell’intervento edilizio; ma, in ogni caso, il rilascio del titolo edilizio non era subordinato al pagamento di oneri di natura economica (art. 31 L. 1150/1942).
   Pertanto, chi otteneva, ad esempio, la concessione edilizia per l’edificazione di una abitazione in area agricola, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non in forza di una particolare normativa di favore per le attività agricole, ma perché questo era il regime ordinario applicabile a tutte le concessioni edilizie.
   Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto il principio della onerosità della concessione edilizia, attraverso l’affermazione del principio secondo cui <Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge> (art. 1), nonché del principio secondo cui <La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione>.
   Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9 alcune deroghe al principio della generale onerosità della concessione edilizia, stabilendo che il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, <a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153>; una norma, quest’ultima, che non trova la propria ragion d’essere nel minore carico urbanistico correlato ad una abitazione di tipo <rurale> rispetto ad una abitazione di tipo <civile> –che è il medesimo in entrambi i casi– bensì, unicamente, in motivazioni di carattere politico correlate alla volontà del legislatore di incentivare, tutelare e valorizzare le attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di insediare la propria abitazione nei pressi o all’interno della propria azienda agricola, dall’onere economico di contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a tale insediamento abitativo”.
...
Poi, “(…), nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo di concessione per la realizzazione di residenze rurali da parte di imprenditori agricoli si configura come un beneficio di carattere soggettivo e oggettivo correlato,
   - per un verso, alla qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale dell’avente diritto e,
   - per altro verso, alla destinazione funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative del medesimo in prossimità o all’interno della propria azienda agricola.
(…)
In definitiva,
   - mentre le residenze rurali edificate sotto il vigore della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di concessione
         - sia che fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione dell’azienda,
         - sia che fossero destinate ad usi <civili> da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’art. 31 di detta legge,
   - le residenze rurali edificate a far data dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per fatti oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare ad essere utilizzata come abitazione civile, ma previo assenso dell’amministrazione comunale e previo pagamento, ora per allora, del contributo di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo abilitativo originario”.
...
Da tanto consegue ulteriormente che,
   - mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo <rurale> (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo <civile> (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario,
   - per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
---------------

... per l'accertamento, in via di giurisdizione esclusiva,
   - del diritto all'esenzione dal pagamento del contributo di costruzione relativo al permesso di costruire n. 23/2021 notificato in data 25.02.2022;
per la conseguente condanna
    - della Città di Sacile intimata a rimborsare il contributo di costruzione versato;
per l’annullamento
   - nella parte in cui sono liquidati gli oneri di urbanizzazione, del suddetto permesso di costruire n. 23/2021 e, per quanto occorra, degli atti conseguenti o presupposti, anche non conosciuti, fra cui la comunicazione del 17.08.2021 nella parte in cui la Città di Sacile vi ha erroneamente determinato il contributo di costruzione;
...
Il signor Lo.Ba. espone di avere acquistato assieme alla coniuge, nel marzo del 2019, un immobile nel Comune di Sacile, in via ..., risalente agli anni Trenta del secolo scorso, con l’intenzione di ristrutturarlo e deputarlo alla propria abitazione.
Espone, inoltre, di avere chiesto ed ottenuto dal Comune il titolo edilizio per l’esecuzione, per l’appunto, di un intervento di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, il cui rilascio è stato, pur tuttavia, subordinato dal Comune stesso al pagamento di € 46.062,47 a titolo di contributo di costruzione, di cui € 42.436,69 a titolo di oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, ed € 3.625,78 a titolo di costo di costruzione.
Espone, infine, che, pur dubitando della doverosità del pagamento richiesto, lo ha assolto, riservandosi di verificare meglio in seguito, insieme all’Ufficio tecnico, la sussistenza dei presupposti che il Comune ha ritenuto idonei a giustificarlo e, segnatamente, il ritenuto cambio di destinazione d’uso da rurale a residenziale ex art. 4, comma 1, lett. c), della legge reg. n. 19/2009. La destinazione rurale sarebbe stata, invero, impressa, e perdurante fino a oggi, dal dante causa iure hereditatis dei venditori, tale Si.Ma., in quanto costui era un imprenditore agricolo; e siccome appunto il ricorrente e la moglie non lo sono, col solo acquisto immobiliare essi avrebbero mutato la destinazione in “residenziale civile”, con automatico aumento del carico urbanistico e conseguente obbligo impositivo.
Da qui il presente ricorso, con cui il ricorrente –che premette che:
   a) il compendio immobiliare risale a quasi un secolo fa;
   b) è, comunque, preesistente alla legge “Bucalossi”;
   c) nel 2012, ben prima che ne divenisse proprietario, è stato inserito nel catasto fabbricati come “abitazione di tipo economico” A3;
   d) gli è stato venduto non dal sig. Si.Ma., deceduto nel 2017, ma dai suoi eredi signori Gi.Ma., Ro.Ma. e Gi.Po., nessuno dei quali imprenditore agricolo, derivandone che in quel momento aveva già perduto il carattere di residenza rurale, se mai l’aveva avuta. Al riguardo, sottolinea, infatti, che l’immobile è stato per molti anni la residenza della signora Re.Ma., sorella di Si., usufruttuaria della quota di 1/3 e mai esercente l’attività agricola. Sicché, fino alla morte di quest’ultima, avvenuta nel 2015, l’edificio non era nemmeno integralmente nella disponibilità del fratello imprenditore agricolo;
   e) se un cambio di destinazione d’uso vi è stato, sarebbe comunque avvenuto già nel 2017, al momento della successione ereditaria del signor Ma., esentato da oneri in virtù dell’art. 15, comma 3, l.r. n. 19/2009–
ha chiesto a questo Tribunale Amministrativo Regionale di:
   - accertare la non debenza del contributo di costruzione per l’intervento edilizio di ristrutturazione per cui è causa, autorizzato dal permesso di costruire n. 23/2021 del 25.02.2022 e ciò:
        -) in principalità, per inapplicabilità ratione temporis della normativa in punto di cambio di destinazione d’uso rilevante e di pagamento del contributo di costruzione e per irretroattività del principio di onerosità dei titoli edilizi;
        -) in ogni caso, in forza dell’esenzione dal contributo di costruzione prevista dall’art. 15, comma 3, della legge reg. n. 19/2009;
   - condannare, per l’effetto, la Città di Sacile a restituirgli a titolo di indebito, la somma di € 46.062,47, oltre interessi e rivalutazione dal giorno del pagamento indebito o, in subordine, dal giorno della notifica della domanda;
   - annullare, per quanto occorrer possa e nella sola parte in cui determinano l’ammontare del contributo di costruzione, il permesso di costruire n. 23/2021 del 25.02.2022 e la comunicazione del 17.08.2021.
A sostegno della domanda di accertamento della non debenza di contributo (e di quella di annullamento in parte qua del titolo edilizio) ha invocato gli artt. 4, 5, 14, 15, 29 e 30 della legge regionale FVG n. 19/2009 e il principio di irretroattività, nonché, per quanto occorra, denunciato la violazione di legge, per violazione dei suddetti medesimi articoli della l.r. n. 19/2009 e per violazione del principio di irretroattività. Ha, inoltre, invocato l’art. 15, comma 3, l.r. n. 19/2009, nonché gli artt. 4, 5 l.r. n. 19/2009, nonché, per quanto occorra, denunciato la violazione di legge, per violazione dei suddetti medesimi articoli 15, comma 3, nonché 4 e 5, l.r. n. 19/2009.
Il Comune di Sacile, costituito, con separata istanza ex artt. 51, c. 1, e 28, c. 3, c.p.a., ha invocato l’intervento per ordine del giudice della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, al cui parere si è sostanzialmente conformato nello stabilire l’onerosità del titolo edilizio rilasciato al ricorrente.
...
Il Collegio ritiene, in primo luogo, di disattendere l’istanza formulata dal Comune volta ad estendere il contraddittorio nei confronti della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, non ravvisando, nel caso di specie, la sussistenza di ragioni che potrebbero renderne opportuna la partecipazione al processo.
La circostanza che la Regione abbia fornito al Comune un parere sulla questione che qui assume (prioritario) rilievo (ovvero assoggettabilità al contributo di costruzione per ritenuto cambio di destinazione d’uso, da rurale a residenziale, di immobile edificato in zona agricola prima dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977) non pare, invero, dirimente ai fini dell’accoglimento dell’istanza avanzata dall’ente civico, assumendo rilievo unicamente l’attività provvedimentale posta in essere dall’ente stesso, con pienezza di poteri e in totale autonomia.
Nel merito, il ricorso è fondato e va accolto.
Il Collegio ritiene, invero, mutuabili le considerazioni svolte dal Tar Piemonte, sez. II, nella decisione 29.05.2019, n. 687 assunta in relazione ad una questione analoga a quella che qui viene in rilievo, i cui principi sono stati poi ribaditi anche nelle successive pronunce 27.04.2021, n. 447 e, più recentemente, 17.06.2022, n. 583.
Detto Tribunale ha, infatti, opportunamente rammentato che “Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione nel territorio comunale di nuove costruzioni, o l’ampliamento, la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio della concessione edilizia era subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione della loro attuazione da parte dei comuni nel successivo triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro attuazione contestualmente alla realizzazione dell’intervento edilizio; ma, in ogni caso, il rilascio del titolo edilizio non era subordinato al pagamento di oneri di natura economica (art. 31 L. 1150/1942). Pertanto, chi otteneva, ad esempio, la concessione edilizia per l’edificazione di una abitazione in area agricola, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non in forza di una particolare normativa di favore per le attività agricole, ma perché questo era il regime ordinario applicabile a tutte le concessioni edilizie.
Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto il principio della onerosità della concessione edilizia, attraverso l’affermazione del principio secondo cui <Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge> (art. 1), nonché del principio secondo cui <La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione>.
Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9 alcune deroghe al principio della generale onerosità della concessione edilizia, stabilendo che il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, <a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153>; una norma, quest’ultima, che non trova la propria ragion d’essere nel minore carico urbanistico correlato ad una abitazione di tipo <rurale> rispetto ad una abitazione di tipo <civile> –che è il medesimo in entrambi i casi– bensì, unicamente, in motivazioni di carattere politico correlate alla volontà del legislatore di incentivare, tutelare e valorizzare le attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di insediare la propria abitazione nei pressi o all’interno della propria azienda agricola, dall’onere economico di contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a tale insediamento abitativo
”.
Ha, quindi, sottolineato che “(…), nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo di concessione per la realizzazione di residenze rurali da parte di imprenditori agricoli si configura come un beneficio di carattere soggettivo e oggettivo correlato, per un verso alla qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale dell’avente diritto, e per altro verso alla destinazione funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative del medesimo in prossimità o all’interno della propria azienda agricola.
(…)
In definitiva, mentre le residenze rurali edificate sotto il vigore della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di concessione sia che fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate ad usi <civili> da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’art. 31 di detta legge; le residenze rurali edificate a far data dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per fatti oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare ad essere utilizzata come abitazione civile, ma previo assenso dell’amministrazione comunale e previo pagamento, ora per allora, del contributo di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo abilitativo originario
”.
E, poi, condivisibilmente concluso che “Da tanto consegue ulteriormente che, mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo <rurale> (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo <civile> (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario; per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
Anche nel caso che occupa, come in quello scrutinato e deciso dal Tar Piemonte, consta, invero, che:
   - non è, in alcun modo, revocato in dubbio che il fabbricato abitativo di proprietà del ricorrente e della coniuge è stato edificato in area agricola pacificamente in epoca antecedente all’entrata in vigore della l. 10/1977, beneficiando del regime di generale gratuità dei titoli edilizi in allora vigente;
   - non ha, conseguentemente, alcun rilievo la circostanza che l’immobile possa essere stato utilizzato come residenza “rurale” dal dante causa iure hereditatis dei soggetti da cui il ricorrente e la coniuge, privi della qualifica di imprenditori agricoli, lo hanno acquistato e che gli stessi lo utilizzino quale residenza “civile”, “e ciò in quanto entrambe le destinazioni d’uso erano (e sono) parimenti compatibili con il titolo abilitativo originario, ed entrambe erano (e sono) parimenti esenti dal pagamento di oneri di sorta, alla luce della disciplina di cui alla L. 1150/1942 applicabile ratione temporis all’immobile in questione”;
   - “pertanto, il passaggio da residenza <rurale> a residenza <civile> non configura una modificazione della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, dal momento che, alla luce della disciplina urbanistica vigente alla data di realizzazione dell’immobile, entrambe le destinazioni erano ammissibili ed esenti dal contributo di concessione”;
   - il passaggio dall’una all’altra destinazione d’uso non ha, peraltro, determinato alcun aumento del carico urbanistico dal punto di vista qualitativo, trattandosi in entrambi i casi di un utilizzo abitativo dell’immobile.
Nel caso specifico, la stessa circostanza che, anticipatamente rispetto all’acquisto della proprietà dell’immobile da parte del ricorrente (e coniuge), si sia già inverato un cambio di destinazione d’uso in forza del passaggio di proprietà a titolo successorio da soggetto asseritamente munito della qualifica di imprenditore agricolo a soggetti privi di tale qualifica (segnatamente gli eredi del signor Si.Ma. dai quali, per l’appunto, gli odierni proprietari hanno acquistato l’immobile), varrebbe, in ogni caso, di per sé ad esentare dalla corresponsione del contributo di che trattasi, essendo priva di qualsivoglia riscontro testuale la tesi a mente della quale la disposizione di cui all’art. 15, comma 3, l.r. FVG n. 19/2009 recherebbe una norma per così dire di favore familiare, vincolata alla (sola) durata del mantenimento della proprietà dell’immobile rurale da parte degli eredi non imprenditori agricoli del defunto imprenditore agricolo ovvero, sostanzialmente, una sorta di beneficio temporaneo.
La norma, per come formulata ("Sono assoggettati al pagamento del conguaglio del contributo di costruzione, fatti salvi i casi di esonero e riduzione di cui agli articoli 30, 31 e 32, gli interventi con o senza opere edilizie che comportino la modifica di destinazione d'uso degli immobili, comunque destinati e localizzati, in altra consentita dallo strumento urbanistico comunale, compresa la modifica della destinazione d'uso conseguente al cambiamento di condizioni soggettive dei titolari di costruzioni residenziali in zona agricola, nel caso di passaggio del diritto reale di godimento che non si verifichi a seguito di successione”), non offre, invero, alcun addentellato in tal senso.
Risulta, peraltro, di lapalissiana evidenza che, laddove così intesa, s’appaleserebbe manifestamente irragionevole.
In definitiva, il ricorso va accolto, risultando fondate le deduzioni svolte dal ricorrente a sostegno delle domande azionate.
Per l’effetto:
   - va annullato in parte qua il titolo edilizio, laddove determina l’ammontare del contributo di costruzione;
   - va accertata la non soggezione a contributo di costruzione dell’intervento edilizio assentito dal permesso di costruire n. 23/2021 notificato in data 25.02.2022, con conseguente condanna del Comune di Sacile a restituire al ricorrente le somme indebitamente versate a tale titolo, oltre interessi nella misura di legge dal giorno della domanda (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 22.11.2022 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando si passi a una categoria funzionale diversa (da rurale a residenziale), il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, addirittura prescindendo dall'esecuzione di opere.
La disciplina del mutamento della destinazione d’uso è uno dei perni attraverso i quali è possibile operare un effettivo governo del territorio. Se l’ordinamento restasse indifferente ai cambi di destinazione d’uso dei singoli immobili si finirebbe per vanificare la zonizzazione, l’equa distribuzione degli oneri di urbanizzazione, l’effettiva applicazione degli standard urbanistici, la razionale allocazione dei carichi urbanistici. In una parola si renderebbe inutile ogni tentativo di governo del territorio.
Per i mutamenti di destinazione d'uso ciò che rileva -al fine di determinare la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina sanzionatoria per il caso di violazione- è la rilevanza urbanistica della modifica, nel senso dell'aggravamento del carico urbanistico della zona in questione.
Quando, dunque, si passi a una categoria funzionale diversa (da rurale a residenziale), il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, addirittura prescindendo dall'esecuzione di opere.
In generale, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile deve considerarsi urbanisticamente rilevante e, come tale, soggetto di per sé all'ottenimento di un titolo edilizio abilitativo, con l'ovvia conseguenza che il mutamento non autorizzato della destinazione d'uso che alteri il carico urbanistico integra una situazione di illiceità a vario titolo, che può e anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza.

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Gli interventi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica dell'immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile con la modifica dell'originaria destinazione d'uso sono incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo a cui si riferiscono i titoli fatti valere dall'appellante, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio.
La giurisprudenza ha chiarito che il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che necessita di un idoneo titolo.

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L’assunto di parte appellante secondo il quale da sessanta anni l’immobile non è stato utilizzato per scopi agricoli o come casa colonica essendo stato da sempre stato la residenza unica e principale della famiglia della sig.ra Ma.An.Tu., madre dello stesso appellante non è idoneo a suffragare la tesi che non ci sia stato un mutamento di destinazione d’uso.
La disciplina del mutamento della destinazione d’uso è uno dei perni attraverso i quali è possibile operare un effettivo governo del territorio. Se l’ordinamento restasse indifferente ai cambi di destinazione d’uso dei singoli immobili si finirebbe per vanificare la zonizzazione, l’equa distribuzione degli oneri di urbanizzazione, l’effettiva applicazione degli standard urbanistici, la razionale allocazione dei carichi urbanistici. In una parola si renderebbe inutile ogni tentativo di governo del territorio (Cons. Stato, Sez. VI, 05.07.2022, n. 5593).
Per i mutamenti di destinazione d'uso ciò che rileva -al fine di determinare la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina sanzionatoria per il caso di violazione- è la rilevanza urbanistica della modifica, nel senso dell'aggravamento del carico urbanistico della zona in questione. Quando, dunque, come nel caso di specie, si passi a una categoria funzionale diversa (da rurale a residenziale), il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, addirittura prescindendo dall'esecuzione di opere.
Come chiarito da Cons. Stato, sez. VI, 11/06/2021, n. 4534, in generale, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile deve considerarsi urbanisticamente rilevante e, come tale, soggetto di per sé all'ottenimento di un titolo edilizio abilitativo, con l'ovvia conseguenza che il mutamento non autorizzato della destinazione d'uso che alteri il carico urbanistico integra una situazione di illiceità a vario titolo, che può e anzi deve essere rilevata dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di vigilanza.
Nella specie occorre mettere a raffronto due dati di fatto: da un lato la situazione iniziale dell’immobile che aveva oggettivamente natura rurale sulla base delle risultanze descritte e dall’altro l’intervenuto mutamento della destinazione a residenziale anche a prescindere dalla realizzazione di opere che comunque nella specie ci sono anche state e di significativa entità.
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Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, gli interventi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica dell'immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
In altre parole, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile con la modifica dell'originaria destinazione d'uso sono incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo a cui si riferiscono i titoli fatti valere dall'appellante, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio.
La giurisprudenza ha chiarito che il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che necessita di un idoneo titolo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09/10/2020, n. 5992)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.09.2022 n. 8291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione, da rurale a residenziale, di un immobile (in stato di abbandono e collabente) con lavori di "ristrutturazione edilizia" (nel caso di specie demo-ricostruzione) sconta il pagamento del contributo di concessione e cioè tanto degli oneri d urbanizzazione quanto del costo di costruzione.
Invero,
in una situazione in cui l’urbanizzazione è assente la realizzazione di un intervento teso alla trasformazione di un immobile in civile abitazione implica di per sé aumento di carico urbanistico.
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Sia il mutamento di destinazione d’uso (da rurale a residenziale) sia la tipologia di intervento sono utilizzati, nella prassi ed in giurisprudenza, come indici presuntivi di aumento del carico antropico in contesti in cui può risultare dubbio l’aumento di domanda di servizi e, quindi, l’incremento di fabbisogno urbanistico.
Detto in altri termini, l’irrilevanza giuridica del mutamento di destinazione d’uso o l’invarianza dei principali indici urbanistici (superficie, sagoma, volumetria) rilevano solo nella misura in cui supportano l’interprete nel determinare una valutazione negativa di incidenza del carico urbanistico, che è l’unico parametro necessario e determinante per valutare an e quantum degli oneri.
Questo Tribunale ha avuto più volte modo di precisare tale principio:
   “Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
   Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi.
   All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
   Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
È stato altresì precisato che “è illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso”.
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Non muta la ricostruzione di tale contesto la circostanza che il ricorrente si sia impegnato alla realizzazione di alcune opere di urbanizzazione (primaria), delle spese cui va incontro e del tipo di opere ed allacci ai servizi debba realizzare. Ciò al massimo incide sulla modulazione degli oneri ma non sulla loro debenza, come infatti è accaduto nel caso di specie.
Invero:
  
“in merito alla natura giuridica degli oneri concessori di cui all'art. 16 del D.P.R. n. 380 del 2001, va affermata la natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, di carattere generale, prescindendo essa totalmente dalle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi e dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio e dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere. Ne consegue l'assenza di qualsivoglia rapporto di sinallagmaticità tra la realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte dell'amministrazione comunale ed il pagamento degli oneri concessori da parte del richiedente il titolo edilizio”;
  
“in giurisprudenza viene pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso. Per la fisiologica connessione tra aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione”;
  
“il presupposto imponibile per il pagamento del contributo va dunque ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare l’obbligo della corresponsione del contributo nella misura in cui non risulti aggravato il carico urbanistico.
Correlativamente, è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e siano quindi dovuti i relativi oneri concessori.
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali, ed a fronte di un intervento edilizio che l’abbia strutturalmente modificato (come nell’ipotesi della demolizione e contestuale ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico rispetto alla preesistente situazione”.

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1. Il sig. Mi. è comproprietario, insieme con la coniuge, di un immobile sito nel Comune di Corneliano d’Alba (CN), meglio identificato al NCT, F. 4 part. 341.
L’immobile, acquistato nel 2006, si presentava in stato di abbandono e collabente tanto che il proprietario realizzava primi interventi di consolidamento (riguardanti le mura perimetrali e la copertura) per i quali però non chiedeva alcuna autorizzazione.
In ragione di ciò –in disparte l’avvio di un procedimento penale a suo carico ai sensi dell’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001– presentava, in data 24.06.2020, una istanza di permesso a costruire in sanatoria.
In data 11.08.2020 lo stesso avanzava richiesta di rilascio di un permesso a costruire per ulteriori opere di ristrutturazione dell’edificio edificio con cambio a destinazione residenziale.
L’amministrazione, unificando i due procedimenti, rilasciava un unico permesso di costruire (n. 425 del 28.04.2021).
Il provvedimento è oneroso e l’amministrazione, oltre ad aver addebitato una somma a titolo di oblazione, ha determinato con apposito provvedimento (prot. n. 1940 del 14.04.2021, che fa seguito a precedenti atti ed in particolare alla nota prot. 5679 del 11.12.2020 e prot. n. 1422 del 17.03.2021) un contributo di costruzione così composto: oneri di urbanizzazione per euro 10.674,68 (ridotto in accoglimento della richiesta e dell’impegno dell’interessato ad eseguire a sue spese le opere di urbanizzazione primaria per l’erogazione dei servizi essenziali) e costo di costruzione per euro 18.017,92.
2. Avverso i provvedimenti di definizione del citato contributo nonché del permesso di costruire, nella misura in cui prevede tale onerosità, è insorto l’interessato con ricorso notificato in data 28.06.2021, ritualmente depositato avanti questo Tribunale, con il quale lamenta violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili, chiede l’accertamento della gratuità dell’intervento nonché la condanna alla restituzione di quanto già versato alle casse comunali.
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3. Il ricorso è parzialmente fondato.
4. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 25 della L.R. 56/1977, degli artt. 7 e 8 della L.R. 19/1999, dell’art. 3, lett. d), del D.P.R. 380/2001, dell’art. 11, comma 2, e dall’art. 16 del D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per insussistenza ed erronea valutazione dei presupposti, difetto di istruttoria e ponderazione dei fatti, irragionevolezza dell’azione amministrativa; motivazione incongruente e/o contraddittoria, illogicità manifesta, irragionevolezza e travisamento dei fatti, perplessità.
Il ricorrente sostiene che il contributo calcolato dal Comune, per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, non sia dovuto. Ciò per due ordini di ragioni:
   - non vi sarebbe aumento di carico urbanistico poiché il mutamento di destinazione, da rurale a residenziale, non rileva sul piano giuridico poiché l’immobile è anteriore all’entrata in vigore della L. n. 10/1977;
   - gli interventi oggetto di permesso non determinano nessuna variazione od alterazione della superficie, sagoma, volumetria e destinazione d’uso dell’immobile oggetto di intervento e, pertanto, alcun aumento di carico urbanistico.
La doglianza non coglie nel segno.
È pacifico tra le parti che l’immobile in questione non sia collocato in area urbana ma è isolato e distante dai servizi. Gli interventi oggetto di permesso di costruire si presentano come ristrutturazione complessiva (con demolizione e ricostruzione) dell’immobile finalizzata a renderlo idoneo all’uso residenziale (tanto che è previsto anche il cambio di destinazione).
È altrettanto pacifico che il cespite è sfornito delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Mancano i servizi essenziali di allacciamento alla rete per i servizi di acquedotto, fognatura, gas e linea elettrica.
È lo stesso ricorrente a riconoscere che l’immobile, in palese stato di abbandono, manca di tali servizi ed è situato in un’area da urbanizzare completamente, tanto che il Comune, nel determinare gli oneri di urbanizzazione ha considerato il fatto che lo stesso si sia assunto l’incombenza di realizzare a sua cura e spese le opere di urbanizzazione primaria (cfr. doc. n. 10 di parte resistente).
In una situazione in cui l’urbanizzazione è assente la realizzazione di un intervento teso alla trasformazione di un immobile in civile abitazione implica di per sé aumento di carico urbanistico.
Le argomentazioni utilizzate dal ricorrente non risultano conferenti al caso di specie poiché sia il mutamento di destinazione d’uso (da rurale a residenziale) sia la tipologia di intervento sono utilizzati, nella prassi ed in giurisprudenza, come indici presuntivi di aumento del carico antropico in contesti in cui può risultare dubbio l’aumento di domanda di servizi e, quindi, l’incremento di fabbisogno urbanistico.
Detto in altri termini l’irrilevanza giuridica del mutamento di destinazione d’uso o l’invarianza dei principali indici urbanistici (superficie, sagoma, volumetria) rilevano solo nella misura in cui supportano l’interprete nel determinare una valutazione negativa di incidenza del carico urbanistico, che è l’unico parametro necessario e determinante per valutare an e quantum degli oneri.
Questo Tribunale ha avuto più volte modo di precisare tale principio.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico
” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611, ripresa da questo Tribunale nella sent. 07/01/2020 n. 20).
È stato altresì precisato che “è illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso” (TAR Piemonte, sez. I, 13/12/2013, n. 1346).
Non muta la ricostruzione di tale contesto la circostanza che il ricorrente si sia impegnato alla realizzazione di alcune opere di urbanizzazione (primaria), delle spese cui va incontro e del tipo di opere ed allacci ai servizi debba realizzare. Ciò al massimo incide sulla modulazione degli oneri ma non sulla loro debenza, come infatti è accaduto nel caso di specie.
È pacifico in giurisprudenza che “in merito alla natura giuridica degli oneri concessori di cui all'art. 16 del D.P.R. n. 380 del 2001, va affermata la natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, di carattere generale, prescindendo essa totalmente dalle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi e dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio e dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere. Ne consegue l'assenza di qualsivoglia rapporto di sinallagmaticità tra la realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte dell'amministrazione comunale ed il pagamento degli oneri concessori da parte del richiedente il titolo edilizio” (Cons. Stato Sez. IV, 11/01/2022, n. 197).
In giurisprudenza viene pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso. Per la fisiologica connessione tra aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione, ex pluribus, si veda Cons. St., sez. IV, n. 1187/2018)” (TAR Piemonte, sez. II, 21/05/2018 n. 630).
Il presupposto imponibile per il pagamento del contributo va dunque ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare l’obbligo della corresponsione del contributo nella misura in cui non risulti aggravato il carico urbanistico.
Correlativamente, è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e siano quindi dovuti i relativi oneri concessori (così, ancora, TAR Piemonte, questa II sez., n. 1009 del 2013, cit.; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 11213 del 2007).
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali, ed a fronte di un intervento edilizio che l’abbia strutturalmente modificato (come nell’ipotesi della demolizione e contestuale ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico rispetto alla preesistente situazione (cfr., analogamente, TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 2249 del 2013; TAR Marche, n. 699 del 2013)
” (TAR Piemonte, 19/12/2014, sent. n. 2033).
L’amministrazione comunale ha peraltro evidenziato la conformità di tale interpretazione al regolamento edilizio comunale che all’art. 5 definisce “carico urbanistico” il “fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso” (cfr. doc. 3 di parte resistente).
Il primo motivo di ricorso, pertanto, non può essere accolto dal momento in cui l’intervento edilizio assentito necessita della realizzazione delle opere di urbanizzazione, il che dimostra in modo incontrovertibile il fabbisogno di servizi primari con inevitabile incremento del carico urbanistico (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.05.2022 n. 412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza opere, prima individuati attraverso l'elaborazione giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter del Testo unico dell'edilizia, inserito dal D.L. 12.09.2014, n. 133, (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate", vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e direzionale, commerciale, rurale.
Va quindi subito chiarito che quando si passi a una categoria funzionale diversa -per esempio da rurale a residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o meno di opere.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi  con il transito dell’edificio dalla destinazione “residenziale” a quella “turistico-ricettiva”. E ciò anche ove non fossero state necessarie opere di adeguamento.
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5.1. Sul punto, è dirimente quanto affermato dall’allora Provincia nell’impugnata D.D.G. n. 243 del 31.05.2012, in merito alla mancanza della destinazione d’uso dell’immobile a struttura ricettiva.
Il progetto di finanziamento del ricorrente si fonda su un precedente progetto di ristrutturazione del medesimo immobile per fini residenziali (cfr. la relazione dell’Arch. Li., in cui si afferma che la destinazione d’uso residenziale sarebbe stata mantenuta). Su tale base il ricorrente aveva ottenuto, nel febbraio 2009 (oltre due anni prima della proposizione della domanda di finanziamento), la concessione edilizia dal comune di Palermo.
Alcuna rilevanza ha l’art. 49 del regolamento edilizio del comune di Palermo, richiamato dal ricorrente per sostenere una sostanziale coincidenza tra la destinazione d’uso residenziale e quella turistico-ricettiva. Tale norma disciplina la “classificazione degli edifici”, e non la loro destinazione d’uso.
Il citato regolamento edilizio, all’art. 5, punto 19, prevede l’autorizzazione edilizia per la variazione di destinazione d’uso degli immobili. Il successivo art. 8 afferma che, per il cambio di destinazione d’uso, occorre presentare una domanda di autorizzazione, corredata da una relazione a firma di un tecnico abilitato che, peraltro, asseveri
   “a) il rispetto della vigente normativa igienico-sanitaria e di sicurezza;
   b) la descrizione delle eventuali opere edilizie da eseguire, finalizzate al nuovo uso;
   c) la descrizione della attuale destinazione e di quella prevista;
   d) la superficie lorda di pavimento dell’immobile;
   e) l’ubicazione, la consistenza e la distanza dell’area del parcheggio, nei soli casi espressamente previsti dalle N.T. di A. dello strumento urbanistico
”.
Ancora, l’art. 17 del suddetto regolamento urbanistico, al co. 6, prevede che “Il mutamento di destinazione d’uso senza autorizzazione equivale, agli effetti delle sanzioni legali o convenzionali applicabili, ad edificazione senza concessione”; il successivo co. 7 dispone, ancora, che “In caso di mutamento di destinazione d’uso senza autorizzazione, sono revocate le autorizzazioni di abitabilità e di esercizio dei locali interessati”.
Più in generale, quanto alla rilevanza tutt’altro che secondaria del mutamento di destinazione d’uso, anche ove non sia necessario compiere opere edilizie, e con particolare riguardo all’evoluzione giurisprudenziale che ha portato, in epoca recente, all’introduzione, dell’art. 23-ter nel D.P.R. n. 380/2001 (norma di carattere sostanzialmente ricognitivo della consolidata giurisprudenza in materia), si rinvia a quanto statuito dal C.G.A., con sentenza n. 1185/2020: “A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza opere, prima individuati attraverso l'elaborazione giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter del Testo unico dell'edilizia, inserito dal D.L. 12.09.2014, n. 133, (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate", vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e direzionale, commerciale, rurale. Va quindi subito chiarito che quando, come nel caso di specie, si passi a una categoria funzionale diversa -da rurale a residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o meno di opere -cfr. anche, in tema, Corte di Cass., Sez. III pen., 13.09.2018, n. 40678-.”)”.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi nel caso di specie, con il transito dell’edificio dalla destinazione “residenziale” a quella “turistico-ricettiva”. E ciò anche ove non fossero state necessarie opere di adeguamento; circostanza, quest’ultima, più che dubbia, tenuto conto delle considerazioni che seguono sui requisiti necessari alla classificazione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 03.01.2022 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn punto di diritto la legge n. 10/1977, all’art. 9 (“Cessione gratuita”), prevede che: <<Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto (tra l’altro): a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153 (………)>>.
Il richiamato art. 3 (“Contributo per il rilascio della concessione”), prevede che: <<La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione>>.
Sulla stessa linea normativa il d.P.R. 06/06/2001, n. 380, all’art. 17 (“Riduzione o esonero dal contributo di costruzione”) prevede che:
   <<1. Nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dall'articolo 18.
   2. Il contributo per la realizzazione della prima abitazione è pari a quanto stabilito per la corrispondente edilizia residenziale pubblica, purché sussistano i requisiti indicati dalla normativa di settore.
   3. Il contributo di costruzione non è dovuto (tra l’altro):
      a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 della legge 09.05.1975, n. 153 (…….)>>.
Pertanto elemento decisivo per il riconoscimento del beneficio dell’esenzione nella materia de qua è,
   - oltre all’elemento oggettivo (che nel caso del dante causa del ricorrente, non sembra far difetto),
   - la qualifica soggettiva di “imprenditore agricolo a titolo principale” rivestita dal soggetto considerato.
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Sull’omessa dimostrazione del possesso della qualifica di
  “Imprenditore agricolo a titolo principalesi è espressa la giurisprudenza amministrativa statuendo quanto segue: <<In ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è univoca nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da delimitarne l’ambito esclusivamente all’imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153>>.
La gratuità della concessione edilizia è, dunque, prevista ove concorrano qualità soggettive del richiedente, che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e qualità oggettive del fabbricato da erigersi.
Osserva, in proposito, il Collegio che, al fine di accedere al beneficio in parola, non è sufficiente attingere la qualifica di “Imprenditore agricolo a titolo principale” da un qualunque elemento sintomatico, ma necessita un accertamento qualificato quale può rinvenirsi soltanto in quello acquisito ai sensi della Legge del 09/05/1975, n. 153 che, all’art. 12 recita: <<Si considera a titolo principale l'imprenditore che dedichi alla attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dall'attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale>>.
Non si tratta di un mero formalismo ma, dell’unico modo per acclarare il presupposto essenziale inteso ad accertare l’esistenza del diritto all’esenzione dalla contribuzione richiesta.
Invero nella materia de qua si versa nella tematica che la migliore dottrina classifica come diritti soggettivi subordinati all’accertamento dei presupposti normativamente richiesti, i cc.dd. diritti invisibili astrattamente previsti dall’ordinamento ma che, per emergere dal sommerso, ed appuntarsi in capo al loro (legittimo) titolare necessitano di un apposito procedimento amministrativo implicante un accertamento tecnico-discrezionale, quasi sempre in funzione costitutiva.
Invero, la più volte riferita qualità di Imprenditore agricolo a titolo principale deve essere posseduta alla data di presentazione della domanda di condono ed unicamente con la produzione dell’apposito certificato che ha natura costitutiva e non meramente dichiarativa del possesso della predetta qualità. In tale senso, la migliore giurisprudenza ha avuto modo di rilevato che:
   - <<Il riconoscimento della qualifica in parola, presuppone la sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati nel comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso di questi ultimi deve essere, in base al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle medesime individuate). Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto ed è consacrato in un atto, la qualifica può ritenersi acquisita. Diversamente da quanto si afferma nella suddetta memoria difensiva, nessun argomento a favore della tesi della natura dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale può trarsi dal menzionato art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il quale si limita a disporre l’estensione, alla nuova figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le norme previgenti che facevano riferimento a quella dell’imprenditore agricolo a titolo principale (non più esistente, in considerazione dell’abrogazione dell’art. 12 della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art. 1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004)>>;
   - ed, ancora: <<Ai sensi dell'art. 17, comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 il contributo di costruzione non è dovuto per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, comprese le residenze e la conduzione del fondo, dall'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, l. 09.05.1975, n. 153, non essendo attualmente sufficiente, ai fini del suddetto esonero, la mera qualifica di imprenditore agricolo ma occorrendo, ex art. 1, comma 5-quater, d.lgs. 29.03.2004, n. 99, quella di imprenditore agricolo a titolo professionale, per esso intendendosi colui che, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'art. 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17.05.1999, dedica alle attività agricole di cui all'art. 2135, c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e dalle suddette attività ricavi almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro>>.
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Con ricorso, notificato il 30.10.2019 e depositato il 29.11.2019, Ti.Lu. -che in virtù di testamento pubblico del 27/09/1999, riceveva dal bisnonno, Ti.Lu., un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale e capannoni adibiti sempre all’attività agricola- riferisce, in fatto, che:
   - il di lui bisnonno, Ti.Lu., con prot. n. 25215/86, depositava presso il Comune di Benevento domanda di condono edilizio ai sensi della Legge 47/1985, (allegando alla suddetta domanda relazione tecnica illustrativa, planimetria degli immobili e bollettini postali comprovanti il versamento dell’oblazione) con la quale chiedeva che venissero sanate le costruzioni da lui realizzate consistenti in una ampliamento di mq. 18,02 della propria abitazione rurale (realizzazione di un bagnetto e ampliamento della cucina) nonché un deposito pari a complessivi mq 72,62 adibito a ricovero di merce e mezzi agricoli nonché a forno e in parte a pollaio e le opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola;
   - con il deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu. aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione 1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc., opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986 come da documentazione che si allega (all. n. 3);
   - la pratica giaceva presso il Comune di Benevento per oltre 33 anni senza che l’Ente avesse mai emesso alcun provvedimento o richiesto alcun documento, tant’è che soltanto a seguito di richiesta di permesso di costruire formulata dal ricorrente, il citato Comune si accorgeva finalmente dell’esistenza della suddetta pratica e chiedeva una integrazione della stessa e, precisamente, una relazione tecnica che comprovasse la idoneità statica del fabbricato, documento previsto dal legislatore successivamente alla domanda di condono del Ti.;
   - a tanto provvedeva tempestivamente il ricorrente come da documentazione del 30/07/2019 depositata in data 02/08/2019 al prot. n. 71462 presso il Comune di Benevento Sportello Unico delle Attività Produttive che, conseguentemente emetteva provvedimento dirigenziale intitolato “Atto di determinazione delle somme dovute a titolo di sanatoria”, con il quale, a riscontro della domanda di sanatoria di abuso edilizio presentata da Ti.Lu., in data 05.09.1986 con protocollo n. 25125, relativamente all’ampliamento di un fabbricato rurale sito alla c.da San Domenico, “Vista la documentazione integrativa prodotta in data 02/08/2019 con protocollo n. 71462 dalla ditta Ti.Lu.”, ”Considerato che per l’abuso commesso l’oblazione versata è congrua”, “determinava la somma da versare per contributo di costruzione in euro 64.872,69”.
Date tali premesse e preso atto che l’atto con il quale è stata determinata la somma dovuta a titolo di sanatoria era incomprensibile non essendo stato chiarito dall’Ente, seppur formalmente richiesto, i criteri adottati e, in ogni caso, errato, Ti.Lu., nella spiegata qualità, ha impugnato, innanzi a questo Tribunale, il predetto atto.
...
Il ricorso è infondato nei termini di seguito precisati.
Con la prima censura è dedotta la violazione di legge (art. 9, L. 10/1977; art. 17, d.P.R. 380/2001), al riguardo rilevandosi che:
   - il Comune di Benevento, con l’impugnato provvedimento di determinazione degli oneri, ha violato l’art. 9 della legge 10/1977 che prevede la esenzione del contributo di cui all’art. 3 “per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale”, in quanto il richiedente della sanatoria, Ti.Lu., era imprenditore agricolo, così come le opere realizzate erano destinate in parte (mq 18 circa) per l’abitazione rurale e per altra parte per la edificazione di un capannone sempre ad uso agricolo (mq 70 circa);
   - in merito è noto l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui nessun onere di costruzione è dovuto laddove siano presenti i requisiti oggettivi e soggettivi: “Ai fini dell’esenzione del pagamento degli oneri di urbanizzazione, l’art. 9, comma 1, lettera a), legge n. 10/1977 richiede la contestuale sussistenza di due condizioni: la prima oggettiva (opera da realizzare in funzione della conduzione del fondo) e l’altra soggettiva (qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale)”; nella specie sussistono entrambi i requisiti; il signor Ti.Lu. era nato nel 1900 ed è deceduto nel 1999. Le opere da lui realizzate furono ultimate nella metà degli anni settanta. La domanda di condono fu depositata nel maggio del 1986;
   - a distanza di oltre trenta anni dal deposito della domanda di condono e di circa venti anni dalla morte del richiedente, gli eredi -pur perfettamente consapevoli che il de cuius avesse esercitato sempre insieme al coniuge attività agricola dalla quale ricavava l’unico reddito familiare- sono riusciti, faticosamente, a rinvenire alcuni documenti dai quali si evince che il Ti. fosse stato imprenditore agricolo a titolo principale; tali difficoltà vanno imputate anche al Comune di Benevento che in oltre trenta anni ha affrontato la pratica solo dopo la richiesta di permesso di costruire avanzata dal nipote dello stesso nel 2017;
   - è noto che all’epoca dei fatti la certificazione di cui all’art. 12 della legge 153/1975, 4° comma, poteva essere attribuita persino mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio: “Il detto requisito si presume altresì, quando l’imprenditore abbia esercitato per un triennio anteriore alla data di presentazione della domanda l’attività agricola come capo di azienda, ovvero come coadiuvante familiare o come lavoratore agricolo: tali condizioni possono essere provate anche mediante atto di notorietà”, per modo che, il Ti.Lu., all’epoca dei fatti, non avrebbe avuto difficoltà a provare la propria qualifica di imprenditore agricolo prevalente, anche nel caso in cui avesse smarrito detta certificazione;
   - le opere edilizie realizzate dal Ti.Lu. risultano essere un ampliamento di meno di 20 mq dell’abitazione rurale (cucina di campagna e bagno) e di circa 70 mq di deposito adibito a ricovero di beni e di mezzi agricoli, pollaio e forno; detti beni furono realizzati in C.da San Domenico in zona agricola e all’interno dell’azienda dello stesso; inoltre, nella domanda di condono depositata nel lontano maggio del 1986, la oblazione -ritenuta corretta anche dal convenuto comune- è stata corrisposta per “attività connessa con la conduzione agricola” (pagina quattro della domanda di sanatoria);
   - il requisito soggettivo si evince dai seguenti documenti che si esibiscono, i quali provano che il Ti. ha dedicato alla sola attività agricola il proprio tempo di lavoro nonché solo dalla stessa ha ricavato il suo reddito da lavoro, essendo il richiedente titolare di partita iva numero 00726290620, strumentale all’esercizio di attività agricola in forma di ditta individuale, come si evince dal documento rilasciato dal Ministero delle Finanze del dì 08.11.1984;.
   - peraltro, il richiedente formulava all’Amministrazione Provinciale di Benevento, con l’ausilio del dott. agronomo V.D.G., richiesta di impianto di oliveto su un fondo di sua proprietà esteso mq 8.000 circa per la produzione di olio e tale richiesta prevedeva l’impianto di 320 alberi di olivo che avrebbero determinato un incremento delle vendite pari a lire 4.480.000; a pagina uno della richiesta il Ti.Lu. viene identificato come “Imprenditore Agricolo a titolo principale”; il suddetto documento, rivolto alla pubblica amministrazione, a pagina due dello stesso prevede espressamente di indicare la qualifica “che fa al caso” del richiedente specificando di essere coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 della legge n. 153/1975;
   - il documento prodotto è stato ulteriormente attestato dal professionista che ha seguito la procedura di impianto come da allegato dallo stesso sottoscritto in uno alla copia del documento di identità. Nell’attestato viene tra l’altro ulteriormente precisato “di aver avuto incarico dal signor Ti.Lu. ... per l’ammodernamento e sviluppo della propria azienda agricola in C.da San Domenico di Benevento” e che lo stesso “aveva la qualifica di Imprenditore Agricolo a titolo principale”, come riportato nella domanda a tal fine esibendosi ulteriore documentazione con la quale il Ti.Lu. chiedeva di poter ricevere un contributo per la costruzione di un pozzo relativo a 3 ettari di sua proprietà; da detto documento si evince che a seguito della realizzazione dello stesso l’incremento della produzione, per i suddetti tre ettari, sarebbe stata pari a lire 10.800.000, portando il valore delle coltivazioni a lire 20.400.000 annue: dai suddetti documenti si evince che lo stesso aveva in affitto un ettaro di terreno oltre quelli di sua proprietà pari a circa 10 ettari, oltre la casa colonica de qua, una stalla, un deposito di mc 340 e un fienile di mc 220 nonché un trattore e un motocoltivatore;
   - pertanto, alla luce di quanto suesposto, senza dubbio alcuno il richiedente Ti.Lu. rivestiva, all’epoca dei fatti, la qualifica di Imprenditore Agricolo a titolo Principale, avendo lo stesso i requisiti all’uopo richiesti dalla legge, sì come esaustivamente argomentato e come dallo stesso dichiarato agli organi della Pubblica Amministrazione e tale circostanza, come detto, viene attestata, ora per allora, dal tecnico dottor V.D.G. sulla scorta delle conoscenze tecnico-professionali dello stesso, nonché delle circostanze di fatto dallo stesso personalmente vagliate, mentre, solo a causa della colpevole inerzia della Amministrazione competente, gli eredi del Ti.Lu. sarebbero tenuti, oggi, a corrispondere somme non dovute dal proprio dante causa.
La censura non coglie nel segno.
Parte ricorrente invoca il beneficio dall’esenzione da ogni onere di costruzione previsto per gli imprenditori agricoli dall’art. 9 della legge n. 10/1977 e dall’art. 17 del d.P.R. 380/2001, per le opere insistenti in zona agricola in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’“imprenditore agricolo a titolo principale”, tentando di dimostrare che il bisnonno Ti.Lu. era in possesso di tali requisiti.
In punto di diritto la legge n. 10/1977, all’art. 9 (“Cessione gratuita”), prevede che: <<Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto (tra l’altro): a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153 (………)>>. Il richiamato art. 3 (“Contributo per il rilascio della concessione”), prevede che: <<La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione>>.
Sulla stessa linea normativa il d.P.R. 06/06/2001, n. 380, all’art. 17 (“Riduzione o esonero dal contributo di costruzione”) prevede che: <<1. Nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dall'articolo 18.
   2. Il contributo per la realizzazione della prima abitazione è pari a quanto stabilito per la corrispondente edilizia residenziale pubblica, purché sussistano i requisiti indicati dalla normativa di settore.
   3. Il contributo di costruzione non è dovuto (tra l’altro):
a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 della legge 09.05.1975, n. 153 (…….)
>>.
Pertanto elemento decisivo per il riconoscimento del beneficio dell’esenzione nella materia de qua è, oltre all’elemento oggettivo (che nel caso del dante causa del ricorrente, non sembra far difetto), la qualifica soggettiva di “imprenditore agricolo a titolo principale” rivestita dal soggetto considerato e, che soltanto all’epoca della presentazione dell’istanza di condono, poteva essere comprovato con autocertificazione.
Parte ricorrente si attiva per reperire una serie di “indizi” che -a suo dire- dimostrerebbero il possesso dei predetti requisiti in capo al loro antenato.
Così, costituirebbero prova del requisito oggettivo, l’adibizione (per vero generica) agricola del deposito, pari a complessivi mq, 72,62, ovvero la circostanza che forno e in parte il pollaio e le opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola, ovvero ancora che, in occasione del deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu. aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione 1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc., opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986, e così via dicendo.
Il requisito soggettivo di “Imprenditore agricolo a titolo principale”, sarebbe, invece, comprovato dalla circostanza che il Ti.Lu. avrebbe dedicato alla sola attività agricola il proprio tempo di lavoro nonché solo dalla stessa avrebbe ricavato il suo reddito da lavoro, essendo il richiedente titolare di partita iva numero 00726290620, strumentale all’esercizio di attività agricola in forma di ditta individuale, come si evince dal documento rilasciato dal Ministero delle Finanze del dì 08.11.1984; e, più in generale, dalle svariate domande rivolte alla P.A. per conseguirne l’assenso per specifici interventi, domande, presentate tutte nella asserita qualità di “imprenditore agricolo a titolo principale”.
Ciononostante, nel caso di specie, deve ritenersi non comprovato, neanche in giudizio, il possesso di tale ultimo requisito soggettivo, attraverso la produzione -dello specifico certificato- alla stregua di quanto si sta per esporre -all’uopo necessario.
Proprio sull’omessa dimostrazione del possesso della qualifica de qua si è espressa la giurisprudenza amministrativa statuendo quanto segue: <<In ordine al requisito soggettivo, poi, la giurisprudenza è univoca nell’interpretazione restrittiva della norma, sì da delimitarne l’ambito esclusivamente all’imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, l. 09.05.1975, n. 153>> (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02.09.1990, n. 682; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 03.10.2005, n. 1533; Palermo, sez. I, 15.07.2004, n. 1554).
La gratuità della concessione edilizia è, dunque, prevista ove concorrano qualità soggettive del richiedente, che deve essere imprenditore agricolo a titolo principale, e qualità oggettive del fabbricato da erigersi.
Osserva, in proposito, il Collegio che, al fine di accedere al beneficio in parola, non è sufficiente attingere la qualifica di “Imprenditore agricolo a titolo principale” da un qualunque elemento sintomatico, ma necessita un accertamento qualificato quale può rinvenirsi soltanto in quello acquisito ai sensi della Legge del 09/05/1975, n. 153 che, all’art. 12 recita: <<Si considera a titolo principale l'imprenditore che dedichi alla attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dall'attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale>>.
Non si tratta di un mero formalismo ma, dell’unico modo per acclarare il presupposto essenziale inteso ad accertare l’esistenza del diritto all’esenzione dalla contribuzione richiesta.
Invero nella materia de qua si versa nella tematica che la migliore dottrina classifica come diritti soggettivi subordinati all’accertamento dei presupposti normativamente richiesti, i cc.dd. diritti invisibili astrattamente previsti dall’ordinamento ma che, per emergere dal sommerso, ed appuntarsi in capo al loro (legittimo) titolare necessitano di un apposito procedimento amministrativo implicante un accertamento tecnico-discrezionale, quasi sempre in funzione costitutiva.
Invero, la più volte riferita qualità di Imprenditore agricolo a titolo principale deve essere posseduta alla data di presentazione della domanda di condono ed unicamente con la produzione dell’apposito certificato che ha natura costitutiva e non meramente dichiarativa del possesso della predetta qualità. In tale senso, la migliore giurisprudenza ha avuto modo di rilevato che:
   - <<Il riconoscimento della qualifica in parola, presuppone la sussistenza, in capo all’interessato, dei requisiti indicati nel comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 99/2004 e il possesso di questi ultimi deve essere, in base al comma 2 del medesimo articolo, accertato “ad ogni effetto” dalle Regioni (o dalle altre autorità dalle medesime individuate). Per cui solo dal momento in cui tale accertamento è compiuto ed è consacrato in un atto, la qualifica può ritenersi acquisita. Diversamente da quanto si afferma nella suddetta memoria difensiva, nessun argomento a favore della tesi della natura dichiarativa dell’atto di attribuzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale può trarsi dal menzionato art. 1, comma 5-quater, del D.Lgs. n. 99/2004, il quale si limita a disporre l’estensione, alla nuova figura dell’imprenditore agricolo professionale, di tutte le norme previgenti che facevano riferimento a quella dell’imprenditore agricolo a titolo principale (non più esistente, in considerazione dell’abrogazione dell’art. 12 della L. 09/05/1975, n. 153, operata dall’art. 1, comma 5-quinquies, del D.Lgs. 99/2004)>> (Consiglio di Stato sent. n. 5363/2015);
   - ed, ancora: <<Ai sensi dell'art. 17, comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 il contributo di costruzione non è dovuto per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, comprese le residenze e la conduzione del fondo, dall'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, l. 09.05.1975, n. 153, non essendo attualmente sufficiente, ai fini del suddetto esonero, la mera qualifica di imprenditore agricolo ma occorrendo, ex art. 1, comma 5-quater, d.lgs. 29.03.2004, n. 99, quella di imprenditore agricolo a titolo professionale, per esso intendendosi colui che, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'art. 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del 17.05.1999, dedica alle attività agricole di cui all'art. 2135, c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e dalle suddette attività ricavi almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro>> (Consiglio di Stato sez. IV, 26/11/2015, n. 5363).
Nella fattispecie in esame, quanto all’applicabilità della esenzione al fabbricato da destinare ad abitazione dell’imprenditore agricolo il Comune di Benevento legittimamente ha richiesto il pagamento degli oneri contemplati dall’art. 3 della l. 28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione edilizia in questione, in mancanza di allegazione da parte dell’istante della documentazione attestante il possesso dei requisiti per beneficiare di siffatta esenzione (in termini, Cons. Stato, sez. V, 02.09.1990, n. 682).
E’ incontestabile, infatti, che l’interessato non ha dimostrato il possesso dei requisiti al momento in cui ha richiesto la concessione edilizia, né nel corso del procedimento, non potendo ritenersi prove idonee la dichiarazione dei redditi del periodo di riferimento, in cui sono riportati anche redditi da attività agricola e l’atto notorio di identico contenuto, in mancanza dell’unica prova idonea a dimostrare la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, secondo la previsione dell’art. 12 della l. 09.05.1975, n. 153.
Ne consegue che la parte ricorrente non può imputare ad errore di giudizio l’omessa acquisizione da parte del giudice della documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti per beneficiare dell’esenzione, essendo documenti nella disponibilità dell’interessato che vanno allegati alla domanda di concessione edilizia, la cui produzione in giudizio incombe alla parte attrice (cfr. Consiglio di Stato sent. n. 2609/2013) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.10.2021 n. 6655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul pagamento, o meno, degli oneri relativi al cambio di destinazione d’uso da rurale ad urbano di un fabbricato abitativo.
E' legittima la richiesta comunale di corrispondere gli oneri dovuti per il cambio di destinazione d’uso del fabbricato da rurale ad urbano dovendosi respingere la tesi della ricorrente secondo cui "non non sarebbero dovuti gli oneri per la c.d. deruralizzazione dell’immobile, ai sensi dell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993".
Invero, non vi è infatti ragione di discostarsi dall’orientamento già seguito dalla Sezione che nell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993
ravvisa il solo scopo di concedere agevolazioni correlate alle variazioni catastali di cui si occupa, trattandosi di normativa che riguarda l'attuazione del censimento dei fabbricati rurali e che non può essere letta come volta a modificare la disciplina dei presupposti e delle condizioni in base ai quali è possibile l'assentimento del condono di cui alla legge n. 47 del 1985.
La norma, cioè, non rende esente dagli oneri l'assentimento del condono per opere abusivamente realizzate, riferendosi viceversa la disposta esenzione a eventuali ulteriori oneri dovuti, pur in assenza di opere, in conseguenza delle “variazioni” nell'iscrizione catastale dei fabbricati già rurali.

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... per l'annullamento
   - della nota prot. n. 18658 del 16.07.2012 a firma del Responsabile del Settore Assetto del Territorio del Comune di Montespertoli, ad oggetto "SCIA per "realizzazione di piscina a ristrutturazione dell'immobile in via ... 19 (pratica cnr. 54/2012 prot. n. 5348 del 06.03.2012)" a mezzo della quale si richiede il pagamento degli oneri consentiti dall'asserito cambio di destinazione d'uso;
   - della nota prot. n. 18921 del 18.07.2012 a firma del Responsabile del Settore Assetto del Territorio del Comune di Montespertoli, ad oggetto "precisazione sulla corresponsione degli oneri" con la quale si intima il pagamento delle somme asseritamente dovute entro il 02.09.2012;
nonché, previa determinazione giudiziale del contributo dovuto ex art. 119 della L.R.T. n. 1/2005 e 16 d.P.R. 06.06.2001 n. 380 in relazione alla SCIA n. 54/2012 prot n. 5348 del 06.03.2012, per l'accertamento negativo del credito vantato dal Comune di Montespertoli, ad oggi quantificato in euro 97.920,00 a titolo di cambio di destinazione d'uso -da rurale ad abitativo- del fabbricato interessato dalla SCIA n. 54/2012 prot. n. 5348 del 03.06.2012;
e in ipotesi, in caso esazione coattiva, per la condanna dell'Amministrazione intimata alla ripetizione della somma di euro 107.712,00 o di quella diversa o maggiore che la Sig.ra Ba. sia tenuta a corrispondere in sede di riscossione coattiva, oltre interessi legali e di mora.
...
1. La signora Em.Ba. è proprietaria nel Comune di Montespertoli di un compendio immobiliare composto da terreni agricoli e fabbricati, di cui uno a uso residenziale.
Il 16.03.2012, ella ha presentato una segnalazione certificata di inizio di attività inerente la ristrutturazione mediante modifiche interne del predetto fabbricato residenziale, nonché la realizzazione di una piscina nel resede esterno.
Alla S.C.I.A. è seguito l’invito del Comune di Montespertoli, con nota del 26.03.2012, a integrare/regolarizzare la documentazione prodotta, con contestuale segnalazione di dubbi circa la congruità degli oneri corrisposti e, in particolare, circa l’avvenuta corresponsione degli oneri dovuti per il cambio di destinazione d’uso del fabbricato da rurale a urbano.
La nota comunale è stata riscontrata dalla ricorrente, la quale esponeva di non ritenere dovuti gli oneri per la c.d. deruralizzazione dell’immobile, ai sensi dell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993.
Il successivo scambio di ulteriore corrispondenza fra le parti si è concluso con le note comunali del 16 e del 18.07.2012, in epigrafe, con le quali il Comune ha preteso il pagamento degli oneri in questione, maggiorati della sanzione per il ritardato pagamento.
Di tali note la signora Ba. chiede l’annullamento, unitamente all’accertamento negativo del credito vantato nei suoi confronti dal Comune di Montespertoli e, in ipotesi, alla condanna del Comune alla restituzione degli importi eventualmente riscossi nelle more del giudizio.
...
2. Come riferito in narrativa, il Comune di Montespertoli esige il pagamento degli oneri relativi al cambio di destinazione d’uso da rurale a urbano del fabbricato abitativo di proprietà della signora Em.Ba., la quale contesta la pretesa sulla scorta di due motivi in diritto.

Con il primo motivo, la ricorrente invoca la previsione di cui all’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993, convertito con modificazioni in legge n. 133/1994, in forza del quale “Per le variazioni nell'iscrizione catastale dei fabbricati già rurali, che non presentano più requisiti di ruralità, di cui ai commi 3, 4, 5 e 6, non si fa luogo alla riscossione del contributo di cui all'art. 11 della legge 28.01.1977, n. 10, né al recupero di eventuali tributi attinenti al fabbricato ovvero al reddito da esso prodotto per i periodi di imposta anteriori al 01.01.1993 per le imposte dirette, e al 01.01.1994 per le altre imposte e tasse e per l'imposta comunale sugli immobili, purché detti immobili siano stati oggetto, ricorrendone i presupposti, di istanza di sanatoria edilizia, quali fabbricati rurali, ai sensi e nei termini previsti dalla legge 28.02.1985, n. 47, e vengano dichiarati al catasto entro il 31.12.1995, con le modalità previste dalle norme di attuazione dell'art. 2, commi 1-quinquies ed 1-septies, del decreto-legge 23.01.1993, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.1993 n. 75”.
In virtù di tale disposizione, il cambio di destinazione d’uso dell’intero fabbricato dovrebbe farsi risalire al rilascio –in data 29.02.2000– della concessione in sanatoria chiesta dal padre e dante causa della signora Ba. nel vigore della legge n. 47/1985, in combinato disposto con la denuncia di variazione catastale presentata nei termini stabiliti dall’art. 9, co. 9, cit..
Nulla sarebbe pertanto dovuto per il titolo rivendicato dal Comune.

Con il secondo motivo, la ricorrente ribadisce che la variazione catastale dell’immobile sarebbe avvenuta, a istanza del suo genitore, sulla base della consistenza rilevata in occasione della pregressa domanda di sanatoria. Quest’ultima sarebbe stata accolta dal Comune a titolo gratuito proprio per la concorrenza sussistenza di tutti i presupposti stabiliti dall’art. 9 d.l. n. 557/1993, che avrebbe esonerato il denunciante dal pagamento degli oneri di deruralizzazione; né sarebbe fondata la tesi esposta dal Comune nel contraddittorio procedimentale, secondo cui l’istanza di sanatoria avrebbe dovuto riferirsi al cambio di destinazione d’uso.
In definitiva, per beneficiare dell’esonero dai contributi sarebbe necessaria e sufficiente una sanatoria edilizia legittimante l’uso abitativo e attestante la perdita dei requisiti di ruralità del fabbricato sin dall’entrata in vigore della legge n. 47/1985.

Il Comune di Montespertoli eccepisce l’inammissibilità del ricorso stante la mancata impugnazione della concessione in sanatoria del febbraio 2000, dalla quale dipenderebbe la richiesta dei contributi; e comunque la sua improcedibilità, per avere la ricorrente fatto acquiescenza alle richieste comunali in occasione del pagamento degli oneri connessi alla nuova S.C.I.A. presentata dalla signora Ba. nel giugno 2016.
Nel merito, l’amministrazione resistente afferma che la pratica di sanatoria avviata dal padre della ricorrente si riferiva espressamente a un “fabbricato rurale” ed era stata presentata da un soggetto qualificatosi come “imprenditore agricolo”, seppure in pensione. E sarebbe proprio la persistente natura rurale del fabbricato oggetto della domanda di sanatoria a rendere di per sé inapplicabile la previsione contenuta nell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993.
Per altro verso, la variazione catastale del 1996 riguarderebbe il solo secondo piano del fabbricato, mentre nulla sarebbe stato prodotto con riferimento al primo piano e al pianterreno, ove si collocherebbe la “nuova unità immobiliare” oggetto della S.C.I.A. n. 54/2012.
Il Comune, ancora, richiama la giurisprudenza del TAR che non rinviene nel più volte citato art. 9, co. 9, d.l. n. 557/1993 l’esonero dagli oneri per la sanatoria delle opere edilizie abusive (TAR Toscana, sez. III, 23.01.2017, n. 132), in linea con l’orientamento che connette la deruralizzazione all’esistenza di un titolo legittimante a fini edilizi (TAR Toscana, sez. III, 05.11.2020, n. 1363).
2.1. Il ricorso è infondato, ciò che consente di ritenere assorbite le eccezioni pregiudiziali del Comune.
In linea generale, non vi è infatti ragione di discostarsi dall’orientamento già seguito dalla Sezione che nell’art. 9, co. 9, del d.l. n. 557/1993 ravvisa il solo scopo di concedere agevolazioni correlate alle variazioni catastali di cui si occupa, trattandosi di normativa che riguarda l'attuazione del censimento dei fabbricati rurali e che non può essere letta come volta a modificare la disciplina dei presupposti e delle condizioni in base ai quali è possibile l'assentimento del condono di cui alla legge n. 47 del 1985.
La norma, cioè, non rende esente dagli oneri l'assentimento del condono per opere abusivamente realizzate, riferendosi viceversa la disposta esenzione a eventuali ulteriori oneri dovuti, pur in assenza di opere, in conseguenza delle “variazioni” nell'iscrizione catastale dei fabbricati già rurali (così TAR Toscana, sez. III, 23.01.2017, n. 132; id., 27.02.2013, n. 334).
In ogni caso, anche a voler aderire all’interpretazione proposta dall’odierna ricorrente, la documentazione in atti attesta che, in virtù della concessione in sanatoria del 29.02.2000, il fabbricato abitativo è stato condonato nella sua interezza come fabbricato rurale, in conformità all’istanza a suo tempo presentata dal signor Di.Ba. ai sensi e nei termini stabiliti dalla legge n. 47/1985.
Ammesso che la presentazione dell’istanza di sanatoria possa considerarsi integrare la prima delle precondizioni richieste dall’art. 9, co. 9, cit. ai fini dell’esenzione da oneri e contributi, a mancare è tuttavia la seconda precondizione, rappresentata dalla dichiarazione in catasto entro il termine del 31.12.1995, prorogato fino al 31.12.2000 da una sequela di successivi interventi del legislatore e poi “riaperto” fino al 31.12.2008 dall’art. 2, co. 38, del d.l. n. 262/2006, convertito con modificazioni in legge
L’unica planimetria catastale disponibile in data anteriore al termine di legge riguarda il solo secondo piano del fabbricato, la cui classificazione A/3, risalente alla denuncia di variazione del 19.07.1996, è peraltro smentita dalla successiva concessione in sanatoria del 2000, la quale si riferisce a un fabbricato interamente rurale e, come la stessa ricorrente afferma, costituisce il riferimento per determinare lo stato legittimo e la legittima destinazione dell’immobile anche ai sensi del sopravvenuto art. 9-bis, co. 1-bis, del d.P.R. n. 380/2001.
Quanto poi al pianterreno e al primo piano dello stabile –oggetto della S.C.I.A. del 2012 che ha dato origine al contenzioso e della successiva S.C.I.A. del 2016– l’attuale classamento risale al marzo 2009, come si evince dalla visura in atti, né si hanno informazioni circa il classamento precedente, mentre non rileva la planimetria catastale allegata all’atto di donazione del 29.06.2016, pure in atti, che raffigura la porzione di fabbricato ceduta dalla ricorrente al figlio e risulta depositata in catasto il 01.04.2016.
Ne consegue, anche per questo aspetto, la debenza degli oneri di deruralizzazione richiesti dal Comune resistente (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 03.06.2021 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa questione oggetto del presente giudizio attiene alla configurabilità, o meno, di un cambio di destinazione d’uso (da rurale a residenziale) giuridicamente rilevante (e quindi assoggettabile al contributo di costruzione) nel caso di un intervento edilizio concernente un fabbricato rurale, realizzato prima dell’entrata in vigore della L. n. 10/1977, che risulti essere abitato da un soggetto che non è imprenditore agricolo.
Su tale questione questo Tribunale si è già pronunciato statuendo che
   - “mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario;
   - per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
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... per la condanna del Comune di Ceresole d'Alba:
   - previo, occorrendo, annullamento/disapplicazione delle determinazioni relative al contributo di costruzione su permesso di costruire n. 22/2016, rilasciato al ricorrente in data 17.05.2016 e notificato il 27.05.2016 nonché del diniego di annullamento in autotutela espresso dal Comune da ultimo con comunicazione prot. n. 3205/10.9 del 19.09.2017, successivamente notificato,
   - e previo accertamento della non debenza del contributo di costruzione in relazione all'intervento edilizio assentito (ristrutturazione edilizia di fabbricato ad uso abitativo esistente) ai sensi dell'art. 17, comma 3, lett. d), DPR n. 380/2001,
   - alla restituzione delle somme a tale titolo riscosse, con interessi e rivalutazione monetaria ai sensi di legge.
...
1. Il sig. Lu.Be. -proprietario dell'immobile sito in Ceresole d'Alba, Frazione ... n. 29, costituito da terreno (censito al NCT, Foglio 20, map. 277) e da civile abitazione (censita al NCEU l Foglio 20, map. 277, sub 1)– presentava istanza per il rilascio di permesso a costruire per la realizzazione di interventi di ristrutturazione edilizia.
Il Comune, previo pagamento del contributo di costruzione pari ad euro 8.393,98 (richiesto con nota del 26.04.2016) ai sensi dell’art. 16 TUE e delle delibere C.C. n. 5/2008 e G.C. n. 62/2012, rilasciava il permesso a costruire n. 22/2016.
Il sig. Be., dopo aver pagato la somma richiesta (in data 12.05.2016, cfr. doc. n. 8 di parte ricorrente), ritenendo che l’intervento rientrasse nelle ipotesi di esonero di cui all’art. 17, comma 3, del DPR n. 380/2001, chiedeva al Comune di riesaminare la propria determinazione sulla corresponsione del contributo.
L’amministrazione respingeva l’istanza (con nota prot. 617/10.9 del 22.02.2017) motivando il diniego “in quanto l’intervento si configura come ristrutturazione edilizia di fabbricato con il cambio di destinazione d’uso di locali non residenziali (accessori alla residenza) in residenziali. L'intervento di ristrutturazione edilizia richiesto ai sensi della lett. c) dell’art. 10 del DPR 380/2001 non rientra nell’applicazione dell'esonero dal contributo di costruzione previsto dall'art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 e s.m.i. in quanto l'incremento della superficie utile residenziale è superiore al 20% dell'esistente. Nello specifico la superficie utile netta residenziale in progetto risulta essere di 116,85 mq con un incremento del 72% rispetto a quella esistente (67,75 mq)”.
L’interessato reiterava la richiesta di esonero dal contributo (con nota del 19.06.2017) lamentando un’erronea valutazione circa l’aumento di volume (superiore al 20%), avendo mantenuto l’immobile medesima sagoma, consistenza ed il carattere di unifamiliarità visto che da tempo (già prima dell’acquisto da parte degli interessati) era adibito ad uso residenziale e non più agricolo.
Il Comune (con nota prot. n. 3205/10.9 del 19.09.2017) rigettava la richiesta rifacendosi (ed allegando), quanto alle motivazioni, a un parere legale all’uopo richiesto, dal quale è desumibile un diniego fondato su un presunto cambio di destinazione del cespite da agricola a residenziale.
Avverso tali determinazioni è insorto l’interessato con ricorso notificato in data 01.12.2017 e ritualmente depositato avanti questo Tribunale, con il quale chiede l’accertamento della non debenza del contributo e la relativa restituzione, previo annullamento degli atti. Con un unico motivo il ricorrente lamenta violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili.
...
2. Il ricorso è fondato.
3. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta l’illegittimità della determinazione e della richiesta del contributo di costruzione, violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all'art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 nonché erronea e sviata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, erroneità, infondatezza, illogicità e contraddittorietà della motivazione al diniego espresso sulla richiesta di restituzione.
Il ricorrente sostiene che la ristrutturazione realizzata non ha comportato aumento di volumetria oltre il limite del 20%, né mutamento di destinazione d'uso e l'abitazione era ed è rimasta unifamiliare. Nel dettaglio la stessa è consistita in demolizioni e ripristino di solai, della copertura e di parte delle murature, nel rifacimento del tetto, nell'adeguamento degli impianti, nella posa di apparecchi igienico-sanitari, nella posa di pavimenti e di infissi, senza sostanziale modifica di volumi, sagome e prospetti.
Per tali ragioni ricorrerebbero i presupposti di cui all'art. 17, comma 3, lett. b), del DPR 380/2001, ai sensi del quale “Il contributo di costruzione non è dovuto: […] b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Il ricorrente peraltro contesta la ricostruzione, di cui al secondo diniego, che partendo dalla destinazione urbanistica rurale impressa dal PRGC (art. 40 delle NTA) all’area in cui l’immobile si trova, ne estende la qualificazione anche a tutti gli edifici che ne fanno parte. Il ricorrente, inoltre, insiste sul mantenimento del carattere residenziale dell’immobile (censito, al momento dell’acquisto avvenuto nel 2005, al catasto edilizio urbano con consistenza di 5,5 vani ed un classamento nella categoria A/4-abitazione di tipo popolare), a nulla rilevando, rispetto alla destinazione complessiva, il recupero ad uso abitativo di alcuni locali accessori (stalla-fienile).
Il motivo è fondato.
Occorre premettere che dalla lettura del provvedimento rilasciato dal Comune il 19.09.2017 (secondo diniego) emerge che l’amministrazione abbia proceduto ad un riesame della propria posizione giungendo, sotto diversi profili, a confermare l’esito negativo dell’istanza. Così stando le cose il primo diniego del 19.06.2017 è da considerare implicitamente caducato e sostituito dal secondo provvedimento. Ciò è ulteriormente dimostrato dal fatto che le difese dell’amministrazione resistente non argomentano sulle prime motivazioni di diniego ma esclusivamente su quelle del secondo.
L’amministrazione, riprendendo parzialmente la ricostruzione elaborata nel parere legale posto a fondamento della motivazione del rigetto, evidenzia che il contesto nel quale ricade l’immobile in questione è ubicato in area individuata tra i “nuclei frazionali rurali a prevalente recupero e completamento residenziale” di cui all’art. 40 delle NTA del P.R.G.C. vigente. In particolare, all’intervento di cui si discute è stata applicata la disposizione dell’art. 40, par. 4 delle NTA che così recita: “Gli edifici rurali che risultano abbandonati alla data di adozione della seconda variante al P.R.G.C., ed ugualmente quelli che in qualsiasi momento siano motivatamente e provatamente dichiarati dal proprietario imprenditore agricolo non più necessari alle esigenze della propria azienda agricola, possono essere riutilizzati ad altre destinazioni, secondo le seguenti prescrizioni:
   - atto di impegno notarile o d'obbligo unilaterale che per almeno 10 anni nell'azienda non saranno realizzate nuove costruzioni aggiuntive;
   - a tale condizione gli edifici dichiarati "non più necessari" possono essere destinati ad usi abitativi civili, compresi quelli agrituristici nonché ad usi produttivi
”.
L’amministrazione prosegue sul punto sostenendo che l’area urbanistica relativa ai “nuclei frazionali rurali” sia a tutti gli effetti una “area agricola”, e che l’edificio –prima dell’intervento assentito con il PdC n. 22/2016– fosse una c.d. residenza rurale, ovvero un fabbricato con destinazione agricola atto a soddisfare esigenze abitative.
L’amministrazione comunale inoltre evidenzia che la determinazione della destinazione in atto urbanisticamente rilevante per gli immobili, anche al fine di determinare l’assoggettamento o meno al contributo di costruzione, è espressamente disciplinata dall’art. 7 della LRP n. 19/1999, che così dispone: “la destinazione d'uso in atto dell'immobile o dell'unità immobiliare è quella stabilita dalla licenza edilizia o dalla concessione o dall'autorizzazione e, in assenza o indeterminazione di tali atti, dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accatastamento o da altri documenti probanti”.
Tale disposizione regionale peraltro trova oggi anche un riscontro a livello nazionale, nell’art. 9-bis del DPR n. 380/2001, al comma 1-bis (introdotto dal D.L. n. 76/2020 conv. con L. n. 120/2020).
È pacifico tra le parti che non sussistono titoli edilizi precedenti che abbiano interessato la costruzione (che pacificamente risulta ante 1967) o altri interventi sull’immobile.
Dai dati catastali prodotti in giudizio (cfr. doc. n. 2 allegato al ricorso) emerge che la destinazione (cd. Qualità Classe) impressa all’immobile dall’impianto meccanografico (che risale al 26.10.1977) è quella di “fabbricato rurale”. Solo a far data dal 02.07.2004 tale classe è mutata in “ente urbano” (dicitura che indica che il terreno è stato oggetto di un aggiornamento di natura prettamente tecnica che consiste nell'inserimento in cartografia catastale di nuovi fabbricati edificati, che saranno successivamente censiti al catasto fabbricati; le modifiche ricevute implicano che il terreno non è utilizzato a fini agricoli ma solo “urbani”, come appunto le attività residenziali).
L’amministrazione, pertanto, affida al meccanismo presuntivo offerto dall’art. 7 citato e dalle risultanze del primo accatastamento (o impianto meccanografico) la ricostruzione del cambio di destinazione che l’intervento assentito genera e, di conseguenza, l’assoggettamento del permesso al contributo di costruzione.
La questione oggetto del presente giudizio, pertanto, attiene alla configurabilità o meno di un cambio di destinazione d’uso (da rurale a residenziale) giuridicamente rilevante (e quindi assoggettabile al contributo) nel caso di un intervento edilizio concernente un fabbricato rurale, realizzato prima dell’entrata in vigore della L. n. 10/1977, che risulti essere abitato da un soggetto che non è imprenditore agricolo.
Su tale questione questo Tribunale si è già pronunciato sia con la sentenza n. 687/2019, citata peraltro dai ricorrenti, che con recente sentenza n. 447/2021 e dalle cui conclusioni non vi sono ragioni per discostarsi. Quest’ultima pronuncia, nel richiamare la prima, statuisce che “mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario; per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
Il Collegio ritiene di confermare questa conclusione anche alla luce delle obiezioni sollevate dalla difesa dell’amministrazione comunale. Assume, invero, rilievo determinante la differente disciplina cui sono soggetti i fabbricati rurali edificati prima dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977 e quelli edificati dopo.
Questi ultimi sono disciplinati all’art. 25 l.reg. n. 56/1977 il quale prevede tra l’altro:
   “3. Possono avvalersi dei titoli abilitativi edilizi per l'edificazione delle residenze rurali: a) gli imprenditori agricoli professionali, anche quali soci di cooperative; b) i proprietari dei fondi e chi abbia titolo per l'esclusivo uso degli imprenditori agricoli di cui alla lettera a) e dei salariati fissi, addetti alla conduzione del fondo; c) gli imprenditori agricoli non a titolo professionale ai sensi del comma 2, lettera m), che hanno residenza e domicilio nell'azienda interessata.
   4. Possono avvalersi degli altri titoli abilitativi edilizi di cui al presente articolo i proprietari dei fondi e chi abbia titolo. [...]
   7. L'efficacia del titolo abilitativo edilizio per gli interventi edificatori nelle zone agricole è subordinato alla presentazione al comune di un atto di impegno dell'avente diritto che preveda: a) il mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola; b) le classi di colture in atto e in progetto documentate a norma del 18° comma del presente articolo; c) il vincolo del trasferimento di cubatura di cui al 17° comma; d) le sanzioni, [oltre a quelle del successivo art. 69], per l'inosservanza degli impegni assunti. [...]
   10. É consentito il mutamento di destinazione d'uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi nei casi di morte, di invalidità e di cessazione per cause di forza maggiore, accertate dalla Commissione Comunale per l'agricoltura di cui alla legge regionale 63/1978 e successive modificazioni ed integrazioni.
   11. Nei casi di cui al comma 10 non costituisce mutamento di destinazione la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da parte dell'interessato, suoi eredi o familiari
”.
La norma detta quindi una specifica disciplina con riferimento:
   - alle qualifiche necessarie per ottenere il titolo edilizio;
   - alla presentazione di un atto di impegno-condizione di efficacia del titolo edilizio –che preveda, tra l’altro, il mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola;
   - alla limitazione dei casi in cui è consentito il mutamento di destinazione d'uso, subordinatamente al pagamento degli oneri (morte, invalidità e cessazione per cause di forza maggiore dell'azienda agricola), con la precisazione che, in tali casi, non costituisce mutamento di destinazione d’uso la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da parte dell'interessato, suoi eredi o familiari.
Per gli immobili edificati dopo il 1977, il passaggio da fabbricato rurale destinato ad abitazione dell’imprenditore agricolo, a servizio della conduzione dell’azienda agricola, ad abitazione di un soggetto che non riveste la qualifica di imprenditore agricolo configura, quindi, per espressa previsione legislativa, un mutamento di destinazione d’uso soggetto al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Non altrettanto si può affermare con riferimento ai fabbricati rurali realizzati in epoca antecedente. Per questi fabbricati non sussiste alcuna limitazione quanto alle categorie di soggetti cui poteva essere rilasciato il titolo edilizio né era prevista l’assunzione di un atto di impegno al mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola.
Pertanto, questi immobili –per quanto “rurali”– potevano e possono tuttora essere liberamente adibiti ad abitazione anche da parte chi non rivesta la qualifica di imprenditore agricolo, senza che da ciò derivino conseguenze. Stando alla normativa applicabile a questi immobili, non può perciò configurarsi un mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante laddove l’immobile sia abitato da un soggetto che nulla ha a che fare con l’attività agricola. Né si può affermare che la modifica soggettiva di colui che abita l’immobile determini, di per sé sola, un maggior carico urbanistico che possa giustificare la pretesa al pagamento degli oneri di urbanizzazione: il carico urbanistico resta, invero, lo stesso, nel caso in cui l’immobile sia abitato dall’imprenditore agricolo oppure da un soggetto che non rivesta tale qualifica.
Il fabbricato oggetto della presente controversia rientra in questa ultima categoria: è pacifico tra le parti che sia stato edificato in area agricola ben prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 (come peraltro attestato nei rogiti prodotti in giudizio) e che non sia più destinato a tali usi già da prima che gli attuali ricorrenti ne diventassero proprietari.
Avendo il Comune fondato il proprio diniego finale sulla ritenuta rilevanza del cambio di destinazione, da rurale a residenziale, dell’immobile non poteva applicare gli indici presuntivi di cui all’art. 7 della LRP 19/1999 (che riconosce alla classificazione catastale di primo impianto valore probatorio, anche se in via di presunzione semplice) poiché tale meccanismo di determinazione della destinazione in atto (o di legittimo impiego, come definito dall’art. 9-bis del DPR n. 380/2001) è applicabile solo agli immobili costruiti in base a titoli rilasciati dopo l’entrata in vigore della L. n. 10/1977.
Per tali ragioni le pretese restitutorie del ricorrente sono fondate.
5. In conclusione il ricorso, nel suo complesso, dev’essere accolto quanto all’accertamento della non debenza del contributo di costruzione richiesto e versato dalla ricorrente e, per l’effetto: il permesso a costruire n. 22/2016 (nella parte in cui prevede l’onerosità dell’intervento), la nota prot. 3205/10.9 e gli altri atti impugnati sono illegittimi e vengono annullati.
Il Comune di Ceresole d’Alba è condannato a restituire la somma di euro 8.393,98 oltre interessi (la cui decorrenza deve essere individuata nel giorno della domanda trattandosi di percezione di indebito intervenuta in buona fede, che si presume). Non può essere riconosciuta la rivalutazione monetaria, non avendo parte ricorrente dimostrato un maggior danno che resterebbe non compensato dalla corresponsione degli interessi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 20.05.2021 n. 516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAS'è già affermato che
   - “mentre per le residenze "rurali" realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario,
   - per le residenze "rurali" edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
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Assume rilievo determinante, nel caso di specie, la differente disciplina cui sono soggetti i fabbricati rurali edificati prima dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977 e quelli edificati dopo laddove questi ultimi sono disciplinati dall’art. 25, l.reg. n. 56/1977 sicché:
   - per gli immobili edificati dopo il 1977, il passaggio da fabbricato rurale destinato ad abitazione dell’imprenditore agricolo, a servizio della conduzione dell’azienda agricola, ad abitazione di un soggetto che non riveste la qualifica di imprenditore agricolo configura, quindi, per espressa previsione legislativa, un mutamento di destinazione d’uso soggetto al pagamento degli oneri di urbanizzazione;
   - non altrettanto si può affermare con riferimento ai fabbricati rurali realizzati in epoca antecedente. Per questi fabbricati non sussiste alcuna limitazione quanto alle categorie di soggetti cui poteva essere rilasciato il titolo edilizio né era prevista l’assunzione di un atto di impegno al mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola. Pertanto, questi immobili –per quanto “rurali”– potevano e possono tuttora essere liberamente adibiti ad abitazione anche da parte chi non rivesta la qualifica di imprenditore agricolo, senza che da ciò derivino conseguenze. Stando alla normativa applicabile a questi immobili, non può perciò configurarsi un mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante laddove l’immobile sia abitato da un soggetto che nulla ha a che fare con l’attività agricola. Né si può affermare che la modifica soggettiva di colui che abita l’immobile determini, di per sé sola, un maggior carico urbanistico che possa giustificare la pretesa al pagamento degli oneri di urbanizzazione: il carico urbanistico resta, invero, lo stesso, nel caso in cui l’immobile sia abitato dall’imprenditore agricolo oppure da un soggetto che non rivesta tale qualifica.
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... per l’accertamento:
   - della gratuità (o esonero) dal contributo di costruzione dell'intervento di manutenzione straordinaria avente ad oggetto la sostituzione del tetto di copertura della porzione a destinazione residenziale del fabbricato ubicato in Villastellone, Via ... n. 11 richiesto con SCIA Prot 7521 del 05.08.2019 e dell'inesistenza dell'obbligo di versare alcun contributo di costruzione al Comune di Villastellone per il predetto intervento;
e per l’annullamento:
   - del provvedimento in data 11.02.2020 Prot. n. 1425 della responsabile del settore urbanistica-edilizia privata del Comune di Villastellone che ha determinato il contributo ritenuto dovuto per l'intervento ex art. 16 D.P.R. 380/2001 in complessive € 39.493,74 di cui € 37.323,47 per la quota afferente gli oneri di urbanizzazione ed € 2.170,27 per la quota afferente il costo di costruzione;
...
Il sig. Gi.Va. ha domandato l’accertamento della gratuità o comunque dell’esonero dall’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione con riferimento all’intervento di manutenzione straordinaria di sostituzione del tetto di copertura di una porzione di fabbricato, di sua proprietà, adibito ad abitazione, situato a Villastellone, oggetto della SCIA presentata il 05.08.2019, e l’annullamento del provvedimento prot. n. 1425 del 11.02.2020 con cui il Comune di Villastellone ha determinato il contributo in complessivi € 39.493,74 di cui € 37.323,47 per la quota afferente gli oneri di urbanizzazione ed € 2.170,27 per la quota afferente il costo di costruzione.
Queste le censure dedotte: violazione di legge per erronea e fuorviante applicazione di quanto previsto dall'art. 25, comma 7° e 10°, della Legge Urbanistica Regionale n. 56/1977. Violazione di legge per erronea e fuorviante applicazione di quanto previsto dagli art. 7 e 8 della L.R. 19/1999. Violazione di legge per erronea applicazione di quanto previsto dall'art. 11, comma 2°, e dall'art. 16 del D.P.R. 380/2001. Violazione di legge per mancata applicazione di quanto previsto dall'art. 17, comma 4°, del D.P.R. 380/2001. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei presupposti. Violazione di legge ed eccesso di potere per erroneità della motivazione.
...
La questione oggetto del presente giudizio attiene alla configurabilità o meno di un cambio di destinazione d’uso giuridicamente rilevante nel caso di un intervento edilizio concernente un fabbricato rurale, realizzato prima dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977, che risulti essere abitato da un soggetto che non è imprenditore agricolo.
Su di essa questo Tribunale si è già pronunciato con la sentenza n. 687/2019, resa in un giudizio in cui era parte lo stesso Comune di Villastellone.
Con questa pronuncia il Tar ha affermato che “mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario; per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio”.
Il Collegio ritiene di confermare questa conclusione anche alla luce delle obiezioni sollevate dalla difesa dell’amministrazione comunale.
Assume, invero, rilievo determinante la differente disciplina cui sono soggetti i fabbricati rurali edificati prima dell’entrata in vigore della l. n. 10/1977 e quelli edificati dopo.
Questi ultimi sono disciplinati all’art. 25, l.reg. n. 56/1977 il quale prevede tra l’altro:
3. Possono avvalersi dei titoli abilitativi edilizi per l'edificazione delle residenze rurali:
   a) gli imprenditori agricoli professionali, anche quali soci di cooperative;
   b) i proprietari dei fondi e chi abbia titolo per l'esclusivo uso degli imprenditori agricoli di cui alla lettera a) e dei salariati fissi, addetti alla conduzione del fondo;
   c) gli imprenditori agricoli non a titolo professionale ai sensi del comma 2, lettera m), che hanno residenza e domicilio nell'azienda interessata.
4. Possono avvalersi degli altri titoli abilitativi edilizi di cui al presente articolo i proprietari dei fondi e chi abbia titolo.
[...]
7. L'efficacia del titolo abilitativo edilizio per gli interventi edificatori nelle zone agricole è subordinato alla presentazione al comune di un atto di impegno dell'avente diritto che preveda:
   a) il mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola;
   b) le classi di colture in atto e in progetto documentate a norma del 18° comma del presente articolo;
   c) il vincolo del trasferimento di cubatura di cui al 17° comma;
   d) le sanzioni, [oltre a quelle del successivo art. 69], per l'inosservanza degli impegni assunti.
[...]
10. É consentito il mutamento di destinazione d'uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi nei casi di morte, di invalidità e di cessazione per cause di forza maggiore, accertate dalla Commissione Comunale per l'agricoltura di cui alla legge regionale 63-78 e successive modificazioni ed integrazioni.
11. Nei casi di cui al comma 10 non costituisce mutamento di destinazione la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da parte dell'interessato, suoi eredi o familiari
”.
La norma detta quindi una specifica disciplina con riferimento:
   - alle qualifiche necessarie per ottenere il titolo edilizio;
   - alla presentazione di un atto di impegno -condizione di efficacia del titolo edilizio– che preveda, tra l’altro, il mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola;
   - alla limitazione dei casi in cui è consentito il mutamento di destinazione d'uso, subordinatamente al pagamento degli oneri (morte, invalidità e cessazione per cause di forza maggiore dell'azienda agricola), con la precisazione che, in tali casi, non costituisce mutamento di destinazione d’uso la prosecuzione dell'utilizzazione dell'abitazione da parte dell'interessato, suoi eredi o familiari.
Per gli immobili edificati dopo il 1977, il passaggio da fabbricato rurale destinato ad abitazione dell’imprenditore agricolo, a servizio della conduzione dell’azienda agricola, ad abitazione di un soggetto che non riveste la qualifica di imprenditore agricolo configura, quindi, per espressa previsione legislativa, un mutamento di destinazione d’uso soggetto al pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Non altrettanto si può affermare con riferimento ai fabbricati rurali realizzati in epoca antecedente. Per questi fabbricati non sussiste alcuna limitazione quanto alle categorie di soggetti cui poteva essere rilasciato il titolo edilizio né era prevista l’assunzione di un atto di impegno al mantenimento della destinazione dell'immobile a servizio dell'attività agricola. Pertanto, questi immobili –per quanto “rurali”– potevano e possono tuttora essere liberamente adibiti ad abitazione anche da parte chi non rivesta la qualifica di imprenditore agricolo, senza che da ciò derivino conseguenze. Stando alla normativa applicabile a questi immobili, non può perciò configurarsi un mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante laddove l’immobile sia abitato da un soggetto che nulla ha a che fare con l’attività agricola. Né si può affermare che la modifica soggettiva di colui che abita l’immobile determini, di per sé sola, un maggior carico urbanistico che possa giustificare la pretesa al pagamento degli oneri di urbanizzazione: il carico urbanistico resta, invero, lo stesso, nel caso in cui l’immobile sia abitato dall’imprenditore agricolo oppure da un soggetto che non rivesta tale qualifica.
Il fabbricato oggetto della presente controversia rientra in questa seconda categoria: è stato edificato in area agricola nel 1800, dunque ben prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977.
L’operato dell’amministrazione, che ha ricollegato alla mancato possesso in capo al sig. Va. dei requisiti previsti dall’art. 25, l.reg. n. 56/1977 la modifica della destinazione d’uso a “residenza civile”, soggetta al pagamento del contributo di costruzione, è pertanto illegittimo, avendo dato applicazione alla disciplina urbanistica introdotta dalla L. 10/1977, e quella regionale ad essa successiva (L.R. 56/1977; L.R. 19/1999), ad un immobile edificato prima dell’entrata in vigore di tale legge, e come tale assoggettato alla disciplina previgente di cui alla L. 1150/1942.
Quanto alla pretesa di assoggettare l’intervento di sostituzione del tetto di copertura a contributo, con riferimento alla quota afferente il costo di costruzione, essa si scontra infine con la previsione di cui all’art. 17, c. 4, d.P.R. n. 380/2001 ai sensi del quale “[...] per gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 6, comma 2, lettera a), qualora comportanti aumento del carico urbanistico, il contributo di costruzione è commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione, purché ne derivi un aumento della superficie calpestabile ".
Per queste ragioni, il ricorso deve trovare accoglimento, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato e accertamento della non soggezione a contributo di costruzione dell’intervento di sostituzione del tetto di copertura della parte abitativa della porzione di fabbricato di proprietà del ricorrente, oggetto del presente giudizio (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.04.2021 n. 447 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costante giurisprudenza, penale ed amministrativa, ha sempre valutato in termini rilevanti la modifica categoriale funzionale d'uso, ove la stessa importi un incremento del carico urbanistico.
In generale, deve poi rammentarsi che, per i mutamenti di destinazione d'uso senza opere, ciò che rileva -al fine di determinare la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina sanzionatoria per il caso di violazione- è la rilevanza urbanistica della modifica, nel senso dell'aggravamento del carico urbanistico della zona in questione -art. 32 Testo unico edilizia-.
A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza opere, prima individuati attraverso l'elaborazione giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter del Testo unico dell'edilizia, inserito dal d.l. 12.09.2014, n. 133 (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate", vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e direzionale, commerciale, rurale.
Va quindi subito chiarito che quando, come nel caso di specie, si passi a una categoria funzionale diversa -da rurale a residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o meno di opere..
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5. L’appello è infondato.
5.1. Con il primo motivo la sentenza viene censurata per avere il Giudice di prime cure respinto il primo motivo del ricorso introduttivo, con il quale si chiedeva l’annullamento del provvedimento comunale del 16.03.2006 che ha respinto, su conforme parere della Commissione Edilizia Comunale del 23.02.2006, la richiesta di concessione edilizia ai sensi dell’art. 13 della L. n. 47/1985 avanzata dalla società -OMISSIS-, ora denominata -OMISSIS- -OMISSIS-.
Secondo la società appellante tale motivo del ricorso introduttivo è stato respinto senza una adeguata motivazione, ma sulla base della tavola di progetto n. 4 allegata alla istanza di sanatoria ex art. 13 L. 47/1985, e del parere espresso dalla CEC portato a sostegno del provvedimento di diniego della summenzionata richiesta di sanatoria.
La censura è infondata.
Dai documenti acquisiti, a seguito dell’ordinanza istruttoria n. -OMISSIS- con la quale il TAR adito ha disposto a carico del Comune intimato la produzione di copia degli elaborati grafici e della relazione tecnica presentati dalla ditta ricorrente in allegato alla richiesta di concessione edilizia in sanatoria; della scheda istruttoria dell’ufficio; dalla copia del verbale della C.E.C. emesso il 23.02.2006, emerge, infatti, con chiarezza che l’istanza di concessione in sanatoria del 03.03.2005 fa riferimento ad un edificio destinato alla lavorazione ed allo stoccaggio di prodotti agricoli, mentre dalle tavole di progetto prodotte in giudizio –e segnatamente la n. 4– risulta che è stata progettata e costruita una struttura integralmente destinata ad uso ricettivo, come si evince facilmente dalla struttura dei locali, dalla predisposizione di numerose camere da letto con annesso bagno al piano sopraelevato, nonché dalla predisposizione di un piano interrato denominato “serbatoio”, facilmente raggiungibile con una ampia scala dal locale seminterrato, e che pare facilmente utilizzabile –per dimensioni, collocazione ed accessibilità- come piscina coperta.
Sul punto, è sufficiente rammentare che la costante giurisprudenza, penale ed amministrativa, ha sempre valutato in termini rilevanti la modifica categoriale, ove la stessa importi un incremento del carico urbanistico (ex aliis, Consiglio di Stato, sez. IV, 13/12/2013, n. 6005; di recente TAR Milano, sez. II, 01/07/2020, n. 1267, “in generale, deve poi rammentarsi che, per i mutamenti di destinazione d'uso senza opere, ciò che rileva -al fine di determinare la necessità di un titolo autorizzatorio e la disciplina sanzionatoria per il caso di violazione- è la rilevanza urbanistica della modifica, nel senso dell'aggravamento del carico urbanistico della zona in questione -art. 32 Testo unico edilizia-.
A partire dal settembre 2014, i casi di rilevanza urbanistica della modifica della destinazione d'uso senza opere, prima individuati attraverso l'elaborazione giurisprudenziale, sono stati positivizzati: l'art. 23-ter del Testo unico dell'edilizia, inserito dal d.l. 12.09.2014, n. 133, (convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), recependo un indirizzo di giurisprudenza già affermatosi, ha infatti introdotto espressamente il principio secondo cui "costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate", vale a dire residenziale, turistico-recettiva, produttiva e direzionale, commerciale, rurale.
Va quindi subito chiarito che quando, come nel caso di specie, si passi a una categoria funzionale diversa -da rurale a residenziale-, il mutamento è sempre urbanisticamente rilevante, a prescindere dall'esecuzione o meno di opere -cfr. anche, in tema, Corte di Cass., Sez. III pen., 13.09.2018, n. 40678-.
”)
Rilevante ai fini della decisione sull’appello in epigrafe è anche il fatto che l’immobile insiste, come si confuta nel citato parere della CEC, sulla fascia di rispetto ferroviario, e che il nulla-osta in deroga ai sensi del D.P.R. 753/1980 da parte di Rete Ferroviaria è intervenuto soltanto dopo la chiusura del procedimento con il provvedimento di diniego della richiesta concessione, sicché al momento della costruzione l’immobile insisteva sulla fascia di rispetto ferroviario: considerato che per granitica giurisprudenza applicativa del canone tempus regit actum (ex aliis TAR Torino, sez. I, 23/11/2016, n. 1440) “in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, ed ai fini della tutela derivante dall'imposizione di un vincolo di cui all'art. 32, l, 28.02.1985, n. 47, la funzione amministrativa deve esercitarsi secondo la norma vigente al tempo in cui essa si esplica”, neppure tale censura può trovare favorevole considerazione (CGARS, sentenza 23.12.2020 n. 1185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione nel territorio comunale di nuove costruzioni, o l’ampliamento, la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio della concessione edilizia era subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione della loro attuazione da parte dei comuni nel successivo triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro attuazione contestualmente alla realizzazione dell’intervento edilizio; ma, in ogni caso, il rilascio del titolo edilizio non era subordinato al pagamento di oneri di natura economica (art. 31 L. 1150/1942).
Pertanto, chi otteneva, ad esempio, la concessione edilizia per l’edificazione di una abitazione in area agricola, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non in forza di una particolare normativa di favore per le attività agricole, ma perché questo era il regime ordinario applicabile a tutte le concessioni edilizie.
Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto il principio della onerosità della concessione edilizia, attraverso l’affermazione del principio secondo cui “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge” (art. 1), nonché del principio secondo cui “La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9 alcune deroghe al principio della generale onerosità della concessione edilizia, stabilendo che il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, “a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153”; una norma, quest’ultima, che non trova la propria ragion d’essere nel minore carico urbanistico correlato ad una abitazione di tipo “rurale” rispetto ad una abitazione di tipo “civile” –che è il medesimo in entrambi i casi– bensì, unicamente, in motivazioni di carattere politico correlate alla volontà del legislatore di incentivare, tutelare e valorizzare le attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di insediare la propria abitazione nei pressi o all’interno della propria azienda agricola, dall’onere economico di contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a tale insediamento abitativo.
In sostanza, nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo di concessione per la realizzazione di residenze rurali da parte di imprenditori agricoli si configura come un beneficio di carattere soggettivo e oggettivo correlato, per un verso alla qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale dell’avente diritto, e per altro verso alla destinazione funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative del medesimo in prossimità o all’interno della propria azienda agricola.
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Il principio della esenzione dal contributo di concessione per l’edificazione di residenze “rurali” da parte di imprenditori agricoli a titolo principale è stato ribadito, prima ancora che dall’art. 17, comma 3, lett. a), del D.P.R. 380/2001, dalla legislazione urbanistica regionale piemontese successiva alla L. 10/1977, in particolare dall’art. 25 della L.R. n. 56/1977, che l’ha pure rafforzato attraverso la previsione dell’obbligo dell’avente diritto di presentare al Comune un “atto di impegno” al “mantenimento della destinazione dell’immobile a servizio dell’attività agricola”, e subordinando a tale atto di impegno l’efficacia del titolo abilitativo (art. 25, comma 7): in sostanza, dal momento che ai fini dell’esenzione dal contributo di concessione è essenziale che la residenza rurale sia edificata per soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo a titolo principale, il legislatore regionale ha preteso che, all’atto di beneficiare di tale esenzione, l’avente diritto si impegni formalmente a non modificare successivamente la destinazione d’uso della residenza, mantenendola a servizio dell’attività agricola.
Seguendo la stessa logica, il comma 10 dello stesso art. 25 L.R. 56/1977 prevede che, in caso di cessazione dell’attività agricola per morte o per invalidità dell’imprenditore o per altre cause di forza maggiore (accertate nelle forme ivi previste), “è consentito il mutamento di destinazione d’uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi”.
In altre parole, laddove cessi per fatti oggettivi il presupposto che aveva giustificato l’esenzione dal contributo di costruzione, e cioè la destinazione della residenza rurale al soddisfacimento delle esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione del fondo, il legislatore regionale consente che l’immobile possa essere destinato ad un uso diverso da quello assentito, ad esempio come normale abitazione “civile” da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, ma in tal caso, verificandosi la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione, l’avente diritto è tenuto a corrispondere, ora per allora, il contributo originariamente non corrisposto.
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In definitiva,
   - mentre le residenze rurali edificate sotto il vigore della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di concessione sia che fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate ad usi “civili” da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’art. 31 di detta legge,
   - le residenze rurali edificate a far data dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per fatti oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare ad essere utilizzata come abitazione civile, ma previo assenso dell’amministrazione comunale e previo pagamento, ora per allora, del contributo di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo abilitativo originario.
Da tanto consegue ulteriormente che,
   - mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario,
   - per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio.
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... per l'accertamento:
   - della gratuità (o esonero) dal contributo di costruzione dell'intervento di restauro e risanamento conservativo del fabbricato residenziale ubicato in Villastellone, Via ... 23 (ora 14) richiesto con istanza di permesso di costruire (ai sensi dell'art. 22, comma 7, D.P.R. 380/2001) Prot. 6036 del 29.06.2018 e dell'inesistenza dell'obbligo di versare alcun contributo di costruzione al Comune di Villastellone per il predetto intervento;
e per l'annullamento e/o disapplicazione:
   - dei provvedimenti in data 08.11.2018 e 03.12.2018 della responsabile del settore urbanistica-edilizia privata del Comune di Villastellone che hanno determinato il contributo ritenuto dovuto per l'intervento ex art. 16 D.P.R. 380/2001 in complessive Euro 16.159,00 di cui Euro 15.001,00 per la quota afferente gli oneri di urbanizzazione ed Euro 1.158,00 per la quota afferente il costo di costruzione;
...
1. La signora Co.Ca., proprietaria del fabbricato ad uso abitativo sito in zona agricola “RA” del Comune di Villastellone alla via ... n. 23, acquistato in forza di atto pubblico di compravendita del 20.12.2017, con istanza del 29.06.2018 chiedeva all’amministrazione comunale il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di lavori di restauro e di risanamento conservativo del predetto fabbricato.
2. Il Comune di Villastellone, con provvedimenti dell’08.11.2018 e del 03.12.2018, pur manifestando l’assenso dell’amministrazione al rilascio del titolo, ne subordinava il rilascio al pagamento da parte della richiedente dell’importo di € 16.159,00 di cui € 15.001,00 a titolo di oneri di urbanizzazione ed € 1.158,00 a titolo di costo di costruzione, in espressa applicazione del combinato disposto degli artt. 25 della L.R. n. 56/1977, 7 e 8 della L.R. 19/1999 e 52 del Regolamento Edilizio Comunale vigente: ciò in quanto, secondo l’amministrazione, gli interventi edilizi oggetto della richiesta di permesso di costruire determinerebbero una modifica della destinazione d’uso dell’immobile da “rurale” a “residenziale”, non essendo stato allegato dalla richiedente il possesso della qualifica di imprenditore agricolo richiesto dall’art. 25 della L.R. 56/1977 per l’edificazione di residenze rurali in aree agricole; tale modifica della destinazione d’uso, pur essendo consentita dalla normativa regionale, sarebbe però soggetta al pagamento del contributo di costruzione, secondo quanto previsto dall’art. 25, comma 10, della stessa L.R. 56/1977.
3. Con ricorso notificato il 17.12.2018 e ritualmente depositato, la signora Carri ha impugnato i predetti provvedimenti comunali dell’08.11.2018 e del 03.12.2018 e ne ha chiesto l’annullamento, previo accertamento della gratuità dell’intervento edilizio e dell’esonero del medesimo dal contributo di costruzione.
Il ricorso è stato affidato a due motivi, con i quali la ricorrente ha dedotto vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto plurimi profili. In particolare:
3.1) con il primo motivo, la ricorrente ha sostenuto che nel caso di specie non sussisterebbe alcun mutamento di destinazione d’uso; secondo la ricorrente, infatti, si ha mutamento di destinazione d’uso (soggetto a contributo di costruzione) soltanto quando la residenza sia stata costruita in zona agricola avvalendosi del regime di esenzione previsto dall’art. 9, lett. a), della L. 10/1977 in favore delle residenze funzionali alla coltivazione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo a titolo principale (regime confermato dall’art. 17, comma 3, lett. a), del DPR 380/2001); e quindi, soltanto quando la residenza rurale sia stata assoggettata al vincolo formale di mantenerla a servizio della conduzione del fondo; nel caso di specie, invece, l’edificio residenziale è stato costruito prima del 1959 (anno a cui risale il primo titolo edilizio rilasciato per la realizzazione di una nuova camera al primo piano), e quindi prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il che comporta che il fabbricato non ha beneficiato del regime derogatorio di esenzione previsto dalla L. 10/1977 bensì del regime ordinario di gratuità allora vigente per qualsivoglia edificazione abitativa; di conseguenza, il fabbricato abitativo non è stato assoggettato al vincolo di mantenimento a servizio della conduzione del fondo, e ciò comporta che il suo semplice utilizzo da parte di un soggetto diverso dall’imprenditore agricolo non costituisce mutamento di destinazione d’uso, dal momento che, al di là dei requisiti soggettivi del beneficiario, la destinazione abitativa permane; nel caso di specie, l’intervento oggetto del permesso di costruire attiene a lavori di restauro e di risanamento conservativo di locali già a destinazione abitativa; di conseguenza è illegittima la norma di cui all’art. 52, comma 3, del Regolamento Edilizio del Comune di Villastellone per contrasto con la normativa statale e regionale di riferimento, nella parte in cui fa rientrare nelle destinazioni agricole anche le residenze rurali realizzate in epoca antecedente l’entrata in vigore della L.R. 56/1977, non assoggettate al vincolo di destinazione di cui al comma 7 dell’art. 25, le quali non hanno beneficiato del regime di esenzione dal contributo di costruzione;
3.2) con il secondo motivo, la ricorrente ha osservato che, secondo consolidati principi giurisprudenziali, nel caso di ristrutturazione edilizia il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto soltanto quando l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico; nel caso di specie, l’intervento consiste nel mero restauro e risanamento conservativo delle parti già abitative del fabbricato, senza aumento di volumi, superficie e unità immobiliari, quindi senza alcun aumento di carico urbanistico; peraltro, il contributo di costruzione non sarebbe dovuto anche in forza di quanto previsto dall’art. 17, comma 3, DPR 380/2001, secondo cui il contributo di costruzione non è dovuto per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari.
4. Il Comune di Villastellone si è costituito in giudizio depositando documentazione e resistendo al ricorso con articolata memoria difensiva.
4.1. Secondo il Comune, al fine di stabilire se un determinato intervento edilizio avente ad oggetto un immobile preesistente comporti o meno il pagamento del contributo di costruzione, l’amministrazione è tenuta, nell’ordine:
   1) ad accertare la destinazione d’uso “in atto” dell’immobile oggetto dell’intervento;
   2) a verificare se la realizzazione dell’intervento progettato produrrà un aumento del carico urbanistico di carattere qualitativo (modifica della destinazione d’uso) o quantitativo (incremento della superficie o della volumetria, tale da determinare un aumento del fabbisogno di dotazioni territoriali);
   3) infine, a riscontrare l’eventuale ricorrenza di uno dei casi di esenzione previsti dall’art. 17, comma 3, DPR 380/2001.
4.2. Nel caso di specie, l’amministrazione:
   1) in primo luogo, ha accertato la destinazione d’uso “in atto” dell’immobile alla luce di quanto previsto dall’art. 7 della L.R. 19/1999, secondo cui “La destinazione d’uso in atto dell’immobile o dell’unità immobiliare è quella stabilita dalla licenza edilizia o dalla concessione o dall’autorizzazione e, in assenza o indeterminazione di tali atti, dalla classificazione catastale attribuita in sede di primo accertamento o da altri documenti probanti”; al riguardo, peraltro, la difesa dell’amministrazione ha riconosciuto lealmente che l’esame dei titoli edilizi concernenti l’immobile in questione (permesso n. 454/1959, concessione edilizia n. 2166/1985 e DIA 46/2009) non forniscono elementi univoci, permanendo una “indeterminazione” a proposito della destinazione d’uso, ragion per cui sarebbe necessario fare riferimento, ai sensi della norma citata, alla prima classificazione catastale, in cui si parla di “fabbricato rurale”; alla luce di tale accertamento, l’amministrazione ha dovuto fare applicazione dell’art. 52, comma 3, del vigente Regolamento Edilizio, ai sensi del quale “Si specifica che le abitazioni rurali classificate “fabbricato rurale” in sede di primo accatastamento, come risultanti dalle schede del Catasto Terreni, rientrano nelle destinazioni agricole di cui alla lettera f), comma 1, art. 8, della L.R. 19/1999”;
   2) in secondo luogo, ha accertato l’aumento del carico urbanistico derivante dall’intervento in progetto considerando che quest’ultimo determinerà una modificazione della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante da “fabbricato rurale” a “residenza civile”, con passaggio dalla categoria f) alla categoria a) dell’art. 8, comma 1, della L.R. 19/1999;
   3) infine, ha verificato l’inesistenza nel nostro ordinamento di una norma statale e regionale che esenti dal contributo di costruzione gli interventi che comportano la modifica della destinazione d’uso in “residenza civile” di un fabbricato “rurale” edificato prima del 30.01.1977.
...
9. Ciò posto, il ricorso è fondato, alla luce delle considerazioni che seguono.
9.1. Sotto il vigore della legge urbanistica n. 1150/1942, e prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977, il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione nel territorio comunale di nuove costruzioni, o l’ampliamento, la modificazione o la demolizione di quelle esistenti, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; il rilascio della concessione edilizia era subordinato all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione della loro attuazione da parte dei comuni nel successivo triennio, ovvero all’impegno dei privati alla loro attuazione contestualmente alla realizzazione dell’intervento edilizio; ma, in ogni caso, il rilascio del titolo edilizio non era subordinato al pagamento di oneri di natura economica (art. 31 L. 1150/1942).
Pertanto, chi otteneva, ad esempio, la concessione edilizia per l’edificazione di una abitazione in area agricola, non era soggetto al pagamento di oneri di sorta; e ciò, non in forza di una particolare normativa di favore per le attività agricole, ma perché questo era il regime ordinario applicabile a tutte le concessioni edilizie.
9.2. Con l’entrata in vigore della L. 10/1977 è stato introdotto il principio della onerosità della concessione edilizia, attraverso l’affermazione del principio secondo cui “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge” (art. 1), nonché del principio secondo cui “La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
9.3. Nel contempo, la stessa L. 10/1977 ha previsto all’art. 9 alcune deroghe al principio della generale onerosità della concessione edilizia, stabilendo che il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, “a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 09.05.1975, n. 153”; una norma, quest’ultima, che non trova la propria ragion d’essere nel minore carico urbanistico correlato ad una abitazione di tipo “rurale” rispetto ad una abitazione di tipo “civile” –che è il medesimo in entrambi i casi– bensì, unicamente, in motivazioni di carattere politico correlate alla volontà del legislatore di incentivare, tutelare e valorizzare le attività imprenditoriali agricole, a tal fine esentando l’imprenditore agricolo a titolo principale che decida di insediare la propria abitazione nei pressi o all’interno della propria azienda agricola, dall’onere economico di contribuire alle opere di urbanizzazione correlate a tale insediamento abitativo.
In sostanza, nell’impostazione della L. 10/1977, l’esenzione dal contributo di concessione per la realizzazione di residenze rurali da parte di imprenditori agricoli si configura come un beneficio di carattere soggettivo e oggettivo correlato, per un verso alla qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale dell’avente diritto, e per altro verso alla destinazione funzionale dell’immobile a soddisfare le esigenze abitative del medesimo in prossimità o all’interno della propria azienda agricola.
9.4. Il principio della esenzione dal contributo di concessione per l’edificazione di residenze “rurali” da parte di imprenditori agricoli a titolo principale è stato ribadito, prima ancora che dall’art. 17, comma 3, lettera a), del D.P.R. 380/2001, dalla legislazione urbanistica regionale piemontese successiva alla L. 10/1977, in particolare dall’art. 25 della L.R. n. 56/1977, che l’ha pure rafforzato attraverso la previsione dell’obbligo dell’avente diritto di presentare al Comune un “atto di impegno” al “mantenimento della destinazione dell’immobile a servizio dell’attività agricola”, e subordinando a tale atto di impegno l’efficacia del titolo abilitativo (art. 25, comma 7): in sostanza, dal momento che ai fini dell’esenzione dal contributo di concessione è essenziale che la residenza rurale sia edificata per soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo a titolo principale, il legislatore regionale ha preteso che, all’atto di beneficiare di tale esenzione, l’avente diritto si impegni formalmente a non modificare successivamente la destinazione d’uso della residenza, mantenendola a servizio dell’attività agricola.
9.5. Seguendo la stessa logica, il comma 10 dello stesso articolo 25 L.R. 56/1977 prevede che, in caso di cessazione dell’attività agricola per morte o per invalidità dell’imprenditore o per altre cause di forza maggiore (accertate nelle forme ivi previste), “è consentito il mutamento di destinazione d’uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi”; in altre parole, laddove cessi per fatti oggettivi il presupposto che aveva giustificato l’esenzione dal contributo di costruzione, e cioè la destinazione della residenza rurale al soddisfacimento delle esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione del fondo, il legislatore regionale consente che l’immobile possa essere destinato ad un uso diverso da quello assentito, ad esempio come normale abitazione “civile” da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli, ma in tal caso, verificandosi la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione, l’avente diritto è tenuto a corrispondere, ora per allora, il contributo originariamente non corrisposto.
9.6. In definitiva, mentre le residenze rurali edificate sotto il vigore della L. 1150/1942 erano esenti dal contributo di concessione sia che fossero destinate a soddisfare le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione dell’azienda, sia che fossero destinate ad usi “civili” da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo, e ciò alla luce del regime di generalizzata gratuità dei titoli edilizi di cui all’art. 31 di detta legge; le residenze rurali edificate a far data dall’entrata in vigore della L. n. 10/1977 sono invece esenti dal contributo di costruzione soltanto se e nella misura in cui siano effettivamente destinate ed utilizzate a servizio della conduzione del fondo da parte dell’imprenditore agricolo; di modo che, venendo meno, per fatti oggettivi, l’attività imprenditoriale agricola, la residenza può continuare ad essere utilizzata come abitazione civile, ma previo assenso dell’amministrazione comunale e previo pagamento, ora per allora, del contributo di costruzione; e ciò in quanto la cessazione dell’attività agricola determina la decadenza ex lege dal beneficio dell’esenzione di cui aveva goduto il titolo abilitativo originario.
9.7. Da tanto consegue ulteriormente che, mentre per le residenze rurali realizzate a far data dall’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’utilizzo “rurale” (da parte dell’imprenditore agricolo a servizio della conduzione dell’azienda agricola) all’utilizzo “civile” (da parte di soggetti privi della qualifica di imprenditore agricolo e per esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo) configura una modificazione della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, giacché determina la decadenza dal beneficio dell’esenzione dal contributo di concessione di cui aveva beneficiato il titolo originario; per le residenze rurali edificate prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977 il passaggio dall’uno all’altro utilizzo non configura alcuna modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, dal momento che in tal caso il titolo abilitativo autorizzava entrambi gli utilizzi, e ad entrambi concedeva il beneficio della gratuità previsto, in modo generalizzato, per il rilascio di qualsivoglia titolo edilizio.
9.8. Nel caso di specie:
   - il fabbricato abitativo di proprietà della ricorrente è stato edificato in area agricola in epoca antecedente all’entrata in vigore della L. 10/1977, come si desume dal fatto che il primo titolo abilitativo reperito dalle parti, concernente la realizzazione di alcuni interventi di ampliamento dell’immobile (evidentemente già esistente a quella data) risulta rilasciato il 17.10.1959: doc. 3 ricorrente;
   - di conseguenza, l’immobile è stato edificato beneficiando del regime di generale gratuità dei titoli edilizi vigente prima dell’entrata in vigore della L. 10/1977; il che comporta, alla luce di quanto sopra esposto, che, allo stato, non ha alcun rilievo la circostanza che l’immobile possa essere stato utilizzato come residenza “rurale” dai danti causa dell’odierna ricorrente, imprenditori agricoli, e che invece la ricorrente, priva della qualifica di imprenditore agricolo, la utilizzi quale residenza “civile”; e ciò in quanto entrambe le destinazioni d’uso erano (e sono) parimenti compatibili con il titolo abilitativo originario, ed entrambe erano (e sono) parimenti esenti dal pagamento di oneri di sorta, alla luce della disciplina di cui alla L. 1150/1942 applicabile ratione temporis all’immobile in questione;
   - pertanto, il passaggio da residenza “rurale” a residenza “civile” non configura una modificazione della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, dal momento che, alla luce della disciplina urbanistica vigente alla data di realizzazione dell’immobile, entrambe le destinazioni erano ammissibili ed esenti dal contributo di concessione;
   - d’altra parte, il passaggio dall’una all’altra destinazione d’uso non ha determinato alcun aumento del carico urbanistico, né dal punto di vista qualitativo, trattandosi in entrambi i casi di un utilizzo abitativo dell’immobile, né dal punto di vista quantitativo, venendo in considerazione un intervento di carattere conservativo delle parti già abitative del fabbricato, senza incremento di volumi, superfici e unità immobiliari.
10. In definitiva, l’errore in cui è incorsa l’amministrazione comunale è quello di aver applicato la disciplina urbanistica introdotta dalla L. 10/1977, e quella regionale ad essa successiva (L.R. 56/1977; L.R. 19/1999), ad un immobile edificato prima dell’entrata in vigore di tale legge, e come tale assoggettato alla disciplina previgente di cui alla L. 1150/1942, la quale:
   - non distingueva tra “residenze rurali” e “residenze civili edificate in area agricola”;
   - non attribuiva alcun rilievo alla circostanza che l’immobile fosse utilizzato per le esigenze abitative dell’imprenditore agricolo connesse alla conduzione del fondo, ovvero da soggetti privi della qualifica di imprenditori agricoli e per normali esigenze abitative svincolate dalla conduzione del fondo;
   - non considerava mutamento di destinazione d’uso, foriero di conseguenze giuridiche, il passaggio dall’utilizzo “rurale” all’utilizzo “civile” dell’immobile, tanto meno ai fini del pagamento di oneri di sorta, vigendo un regime di generalizzata gratuità di tutti i titoli edilizi.
11. In tale contesto, non appare pertinente l’applicazione alla fattispecie in esame né dell’art. 7 della L.R. 19/1999, né dell’art. 52, comma 3, del Regolamento Edilizio del Comune di Villastellone, nella misura in cui tali nome fanno riferimento a categorie concettuali, quali la distinzione tra fabbricato “rurale” e fabbricato “civile”, che hanno assunto un rilievo giuridico -anche ai fini della determinazione della sussistenza di eventuali modifiche della destinazione d’uso degli immobili e, conseguentemente, del pagamento del contributo di costruzione– soltanto a far data dalla novella legislativa introdotta con la L. 10/1977.
12. Alla luce di tali considerazioni, previa disapplicazione della norma di cui all’art. 52, comma 3, del Regolamento Edilizio del Comune di Villastellone, il ricorso in esame deve trovare accoglimento, con il conseguente annullamento degli atti impugnati e l’accertamento della non soggezione a contributo di costruzione dell’intervento di restauro e di risanamento costruttivo oggetto del presente giudizio (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 14.06.2019 n. 687 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' oneroso l'intervento di ristrutturazione edilizia inerente un ex fabbricato rurale (poi censito al catasto urbano nel 1991) laddove il piano terra era originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.) d il cui intervento ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
Va innanzitutto ricordato che l’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità della concessione edilizia “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi censito al catasto urbano nel 1991.
Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4, DM LL.PP. 2.4.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n. 13/1990).
Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività normalmente computabili attraverso propri indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista, ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie.
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo, contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione, vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette, ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per produzione vinicola o comunque spazi destinati alla lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti dell’agricoltura.
Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria.
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... per l'annullamento, in parte qua della concessione edilizia n. 11/1992 avente ad oggetto “Ristrutturazione fabbricato urbano” e per la condanna dell’amministrazione alla restituzione dei contributi concessori versati dal ricorrente.
...
Il ricorrente impugna la concessione edilizia n. 11/1992 dallo stesso ottenuta per la ristrutturazione di un fabbricato urbano (ex fabbricato colonico), con cambio di destinazione d’uso del piano terra, nella parte in cui contiene la determinazione del contributo concessorio per oneri di urbanizzazione (£ 2.313.166) e costo di costruzione (£ 6.883.912), ritenendolo non dovuto e di cui chiede la restituzione essendo stato medio tempore versato all’amministrazione comunale per il rilascio del titolo.
Con un’unica ed articolata censura viene dedotta violazione dell’art. 9 della Legge n. 10/1977 poiché l’intervento edilizio deve essere ricondotto alla relativa lett. d), trattandosi di edificio unifamiliare. In particolare viene dedotto che risulta irrilevante l’avvenuto cambio di destinazione d’uso, in quanto l’unico limite all’applicazione del beneficio in oggetto è che la ristrutturazione non comporti aumenti di volumetria oltre il limite del 20% di quella esistente.
La censura è infondata
Va innanzitutto ricordato che l’art. 9, lett. d), della Legge n. 10/1977, invocato dal ricorrente, prevedeva la gratuità della concessione edilizia “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
L’edificio in questione era un ex fabbricato rurale poi censito al catasto urbano nel 1991.
Nella zona agricola è di norma prevista, per le abitazioni, la massima densità fondiaria di 0,03 mc/mq, salve diverse disposizioni regionali normalmente più restrittive (cfr. art. 7, punto 4, DM LL.PP. 02.04.1968 n. 1444; art. 4, comma 3, L.r. n. 13/1990).
Il relativo piano terra era originariamente adibito ad usi produttivi agricoli (stalla, cantina, ecc.), cioè attività normalmente computabili attraverso propri indici di edificabilità (cfr. artt. 8 ss. L.r. n. 13/1990).
Si trattava quindi di un edificio con destinazione mista, ovvero residenziale e produttiva (come potrebbe esserlo, ad esempio, un edificio con abitazione al primo piano e negozio o ufficio o laboratorio artigianale al piano terra).
L’intervento di ristrutturazione, anche se non ha creato nuova superficie calpestabile o nuovo volume, ha comunque comportato una riconfigurazione delle superfici utili, ampliando quella residenziale e riducendo quella produttiva, trasformando così l’edificio da utilizzo misto a utilizzo essenzialmente abitativo.
La citata lett. d) non specifica come debba essere computato l’ampliamento (se in termini di nuovo volume o di nuova superficie calpestabile oppure anche in altro modo, come il cambio di destinazione tra categorie funzionalmente diverse), fermo restando che deve riguardare l’edificio unifamiliare, ovvero un concetto di struttura di derivazione sociale: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio-economica assunta dalla norma, coincide con la piccola proprietà immobiliare, tale da meritare, per gli interventi di ristrutturazione, un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; id. Sez. II, 10.10.1996 n. 1480; TAR Lombardia, Brescia, 13.05.2011 n. 713; TAR Veneto, Sez. II, 13.03.2008 n. 604).
Appare quindi evidente che edifici unifamiliari di questa tipologia, ritenuta meritevole di sgravio contributivo, contemplano normalmente, al piano sottostante l’abitazione, vani accessori alla residenza (garage, cantine, cantinette, ripostigli, lavanderie, stanze di sbroglio), ma non certo spazi produttivi commerciali, artigianali o agricoli quali stalle per l’allevamento del bestiame, cantine per produzione vinicola o comunque spazi destinati alla lavorazione, trasformazione o al deposito dei prodotti dell’agricoltura.
Sarebbe stato quindi onere di parte ricorrente fornire quanto meno un principio di prova (depositando, ad esempio, la planimetria e i conteggi delle superfici esistenti e di progetto) per desumere che il cambio d’uso sia stato contenuto entro i limiti del 20% della destinazione residenziale originaria.
Il ricorso va conclusivamente respinto (TAR Marche, sentenza 04.01.2018 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio per cui è causa -per quale l’interessato ha presentato SCIA ai sensi dell’art. 22, comma 1, del DPR 380/2001- è descritto in termini ristrutturazione previa demolizione e ristrutturazione con mantenimento dell’originaria sagoma e volumetria; risulta, inoltre dalla relazione tecnica che il progetto è “volto a ricavare tre distinti appartamenti (rispetto ai quattro oggi esistenti)”.
Parte ricorrente ha, quindi, richiesto un titolo edilizio per un intervento -diverso da quelli indicati all’art. 10, comma 1, per il quale è richiesto il rilascio del permesso di costruire– che non comporta alcun aumento volumetrico, né prevede cambio di destinazione e che non comporta aggravio del carico urbanistico, tenuto anche conto della riduzione delle unità abitative da 4 a 3.
Ciò precisato in punto di fatto, il Collegio osserva che, sulla base di consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza, il fatto costitutivo dell'obbligo giuridico di corrispondere gli oneri in contestazione è l'oggetto sostanziale dell'intervento, questo essendo determinante per stabilire l'effettiva incidenza sul carico urbanistico.
Invero:
   a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all'aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l'Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;
   b) inoltre, il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità; pertanto, nel caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui l'intervento va a determinare un aumento del carico urbanistico (il che può verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi globalmente l'edificio, ma, a causa di lavori anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica).
Nel caso in esame, a fronte del un progetto sopra indicato, risulta carente sia la trasformazione del territorio, sia l'aumento del carico urbanistico e, pertanto, non sussiste il presupposto dell’obbligo di corresponsione degli oneri.
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Con istanza del 23.12.2021, il ricorrente presentava una S.C.I.A. ai sensi dell’art. 22, D.P.R. n. 380/2001, per il “Recupero e conservazione del patrimonio edilizio esistente con ristrutturazione edilizia ed efficientamento energetico mediante demolizione e ricostruzione di un immobile costituito da 4 sub abitativi sito in Messina - vill. Giampilieri Marina”, con mantenimento del medesimo volume e sagoma esistenti.
Con nota prot. n. 2946 del 05.01.2022 l’Ufficio comunicava i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza rilevando, per quanto di interesse nel ricorso in esame, la mancanza del “Calcolo analitico del contributo commisurato al costo di costruzione con l’esatta dimostrazione di tutte le superfici e la relativa attestazione dell’avvenuto versamento dell’importo dovuto, nonché il calcolo del contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione e relativa attestazione dell’avvenuto versamento del contributo dovuto”.
Con nota del 17.01.2022, il progettista chiariva che “… trattandosi di ristrutturazione edilizia regolata dalla lettera d) del comma 1 dell’articolo 3 del T.U. 380/2001, quale risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 76/2020 e dalla legge di conversione, mantenendo a seguito di demolizione e ricostruzione area di sedime, volumetria e sagoma, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica …e per l’efficientamento energetico, nessun contributo è dovuto per costi di costruzione né per oneri di urbanizzazione, essendo addirittura ridotto il carico urbanistico in virtù della previsione di n. 3 unità abitative in luogo delle 4 esistenti”.
Con nota del 27.01.2022, l’Ufficio richiedeva ulteriore integrazione sostenendo che l’esonero dal contributo fosse previsto solo per gli edifici “unifamiliari”, ai sensi dell'art. 17 del D.P.R. 380/2001 così come recepito e modificato dall'art. 8 della L.R. 16/2016.
Con nota del 02.02.2022, il progettista ribadiva la non debenza degli oneri.
Con nota del 23.02.2022 il Comune insisteva nella necessità di acquisire il calcolo del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione richiamando la delibera di G.M. n. 1037 del 19.12.2013 (che prevede gli oneri di urbanizzazione nei casi particolari di “trasformazione conservativa, demolizione ricostruzione, ampiamenti e sopraelevazioni di edifici”, con riduzione del 50% degli importi relativi alle opere di urbanizzazione secondaria, lasciando invariati quelli relativi alle opere di urbanizzazione primaria) e l’art. 8 della l.r. 16/2016 che prevede l’esonero dal contributo di costruzione nei soli casi di “interventi di ristrutturazione di ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari”.
Con istanza del 02.03.2022, l’interessato chiedeva il riesame /annullamento in autotutela della nota del 23.02.2022 e l’adozione “di una determinazione che dia atto che la SCIA non è soggetta al pagamento né di oneri di urbanizzazione né di costo di costruzione”.
La richiesta veniva riscontrata dall’ufficio con nota n. 72990 del 15.03.2022 con la quale l’ente ribadiva le richieste già formulate in quanto “...l'intervento in oggetto rientra tra quelli disciplinati dall'art. 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 di "ristrutturazione edilizia", mediante la demolizione e ricostruzione di un fabbricato esistente; trattandosi di intervento di ristrutturazione edilizia di edificio plurifamiliare, ai sensi della vigente normativa, lo stesso è soggetto al pagamento del contributo di costruzione (i casi di esonero previsti dall'art. 8 della L.R. 16/2016 si riferiscono esclusivamente ad interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari)”.
Con nota del 24.03.2022, il progettista contestava che l’intervento fosse ascrivibile alle previsioni dell’art. 8, comma 3, lettera b), della L.R. 16/2016 “non essendo il titolo edilizio proposto compreso nella casistica relativa al PdC del Capo II della Legge per cui è prevista la corresponsione di oneri (…)”.
Infine, con provvedimento dell’11.04.2022 l’Ufficio rettificava, in aumento, la tabella degli oneri così come calcolata dal progettista, e quantificava in € 18.871,78 il costo di costruzione ed in € 23.430,42 gli oneri di urbanizzazione disponendo, altresì, il divieto di prosecuzione dell’attività edilizia “sino all’avvenuto pagamento degli importi dovuti, così come corretti d'ufficio”.
Con il ricorso in esame parte ricorrente ha impugnato il citato provvedimento unitamente agli atti presupposti e ne chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:
   1) Violazione falsa ed erronea applicazione dell’art. 22, c. 1-2-3, del D.P.R. 380/2001 come recepito dall’art. 10, c. 1-2-3 della L.r. 16/2016; dell’art. 10, c. 9, della L.r. 16/2016; dell’art. 16, c. 1-10, ed art. 17, c. 3, del D.P.R. 380 così come rispettivamente recepiti dagli artt. 7, c. 1-13, ed art. 8, c. 3, lett. b), della L.r. 16/2016. Eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti; difetto di motivazione.
Parte ricorrente, previo richiamo alla normativa concernente il pagamento degli oneri concessori e gli interventi assentibili a mezzo SCIA sostiene che:
      - l’art. 17 del D.P.R. 380 del 2001 (così come la normativa regionale) collega il pagamento del contributo di costruzione al rilascio del permesso di costruire;
      - l’art. 10 del D.P.R. richiede il rilascio del permesso di costruire per gli interventi di “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio" (nuova costruzione, ristrutturazione urbanistica, ristrutturazione edilizia), tra i quali non sarebbe annoverabile il progetto per cui è causa avente ad oggetto una fattispecie di “ricostruzione”, senza alcuna modifica di sagoma, volume e area di sedime;
      - sarebbe, inoltre, errato il richiamo all’art. 8 della l.r. 16/2016 dato che l’interessato aveva sempre rappresentato che gli oneri non erano dovuti a fronte di un intervento di ristrutturazione senza alcuna alterazione dei preesistenti parametri edilizi (non già perché si ritenesse sussistente l’ipotesi di esonero di cui all’art. 8, c. 3, lett. b).
   2) In via subordinata, parte ricorrente ha contestato la determinazione degli oneri di urbanizzazione erroneamente calcolati dall’Ufficio in un importo superiore al 50% dell’intera somma richiesta.
...
Il ricorso è fondato.
L’intervento edilizio per cui è causa -per quale l’interessato ha presentato SCIA ai sensi dell’art. 22, comma 1, del DPR 380/2001- è descritto in termini ristrutturazione previa demolizione e ristrutturazione con mantenimento dell’originaria sagoma e volumetria; risulta, inoltre dalla relazione tecnica che il progetto è “volto a ricavare tre distinti appartamenti (rispetto ai quattro oggi esistenti)”.
Parte ricorrente ha, quindi, richiesto un titolo edilizio per un intervento -diverso da quelli indicati all’art. 10, comma 1, per il quale è richiesto il rilascio del permesso di costruire– che non comporta alcun aumento volumetrico, né prevede cambio di destinazione e che non comporta aggravio del carico urbanistico, tenuto anche conto della riduzione delle unità abitative da 4 a 3.
Ciò precisato in punto di fatto, il Collegio osserva che, sulla base di consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 17.08.2022, n. 7191), il fatto costitutivo dell'obbligo giuridico di corrispondere gli oneri in contestazione è l'oggetto sostanziale dell'intervento, questo essendo determinante per stabilire l'effettiva incidenza sul carico urbanistico.
Invero:
   a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all'aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l'Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 23.02.2021, n. 1586);
   b) inoltre, il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità; pertanto, nel caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui l'intervento va a determinare un aumento del carico urbanistico (il che può verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi globalmente l'edificio, ma, a causa di lavori anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica v. tra le tante: (Cons. Stato, sez. IV, 31.07.2020, n. 4877; TAR Lazio-Roma, Sez. II, 08.07.2021, n. 8142).
Nel caso in esame, a fronte del un progetto sopra indicato (che sotto il profilo tecnico non è stato contestato dal Comune resistente) risulta carente sia la trasformazione del territorio, sia l'aumento del carico urbanistico, e, pertanto, non sussiste il presupposto dell’obbligo di corresponsione degli oneri.
Né può avere alcuna rilevanza, nel caso in esame, la circostanza richiamata dall’ente -ai fini dell’inapplicabilità della deroga prevista dall’art. 17, comma 3, lett. b), del D.P.R. 380/2001 e dall’analoga norma contenuta nell’art. 8 della l.r. 16/2016– poiché, la deroga sopra citata opera rispetto all’obbligo di corresponsione degli oneri concessori secondo un rapporto di regola–eccezione contemplando una previsione derogatoria al principio di onerosità del permesso di costruire e, quindi, si applica nei casi in il pagamento sarebbe astrattamente dovuto (ad esempio in caso di intervento di trasformazione che comporta aumento del carico urbanistico e per il quale è richiesto il permesso di costruire), ma il destinatario viene esonerato dall’obbligo di pagamento in presenza delle fattispecie tipizzate dal legislatore, tra cui quella dell’ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari (v. tra le tante. Cons. Stato, Sez. VII, 09.01.2024, n. 302; Sez. IV, 14.09.2023, n. 8323).
Invece, il caso in esame -per le ragioni sopra esposte essenzialmente riconducibili al mantenimento dell’esistente e alla mancanza di alcun incremento di carico urbanistico– si colloca al fuori delle ipotesi nelle quali il contributo è dovuto (v. in termini TAR Sicilia–Catania, sez. II, 15.11.2023, n. 3434 e giurisprudenza ivi richiamata).
In conclusione, il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 18.03.2024 n. 1070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza –pur ribadendo l’irrilevanza o comunque la dequotazione dell’avviso di avvio del procedimento in materia di repressione degli abusi edilizi- ha riconosciuto che lo svolgimento di sopralluogo al quale il destinatario del controllo ha potuto assistere è sufficiente a rendere nota l’esistenza del procedimento avviato.
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Con il primo motivo (rubricato: Erroneità della sentenza quanto al rigetto del primo motivo di ricorso (recante <violazione dell’art. 7 L. 241/1990 – mancata comunicazione dell’avvio del procedimento>), l’appellante Br. ripropone la censura di mancata comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990, deducendo che l’ordine di demolizione non poteva considerarsi atto vincolato ed avrebbe imposto la previa instaurazione di contraddittorio procedimentale in quanto la copertura del piazzale era preesistente ed era stata autorizzata con la concessione edilizia n. 1160/93.
Anche l’appellante La Br. ripropone con il primo motivo di appello la censura di mancata comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990, negli stessi termini. Sostiene che se l’amministrazione avesse correttamente effettuato l’istruttoria e se avesse ammesso a partecipare il soggetto interessato si sarebbe resa conto che perlomeno con riferimento alla sostituzione del manto bituminoso esso era già stato autorizzato con precedente concessione edilizia del 1993.
Il primo motivo di appello di entrambe le parti appellanti concernente l’omessa comunicazione di avvio è infondato.
Emerge dalla documentazione in atti (doc. 2 della ricorrente Br., depositato l’11.12.2019) che il provvedimento impugnato ha avuto origine dal sopralluogo effettuato sul posto da due tecnici dell’ufficio edilizia privata e da due ufficiali del comando della polizia locale, al quale sopralluogo le parti hanno potuto partecipare alla presenza del loro tecnico di fiducia, dunque erano edotte di quanto accadeva. Infatti, le società appallanti non hanno mai contestato la presenza dei loro rappresentanti al sopralluogo.
6.1.2. La giurisprudenza –pur ribadendo l’irrilevanza o comunque la dequotazione dell’avviso di avvio del procedimento in materia di repressione degli abusi edilizi (ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 01.09.2021, n. 6181, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198)- ha riconosciuto che lo svolgimento di sopralluogo al quale il destinatario del controllo ha potuto assistere è sufficiente a rendere nota l’esistenza del procedimento avviato (Cons. Stato, Sez. VII, 24.03.2023 n. 3087)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2024 n. 1659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla pavimentazione di area esterna, sul montaggio di scaffalature metalliche posizionate sulla medesima area esterna e l’obbligo di preventiva denuncia ai sensi artt. 65 e 93 T.U.E.
Deve escludersi che nell'assoggettare al regime di edilizia libera la realizzazione di interventi di pavimentazione di spazi esterni, entro i prescritti limiti di permeabilità del fondo, il legislatore abbia inteso consentire la facoltà di coprire liberamente e senza alcun titolo qualunque estensione di suolo inedificato, salvo soltanto il rispetto di tali limiti.
E ciò in quanto la pavimentazione di aree esterne:
   (i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di suolo inedificato;
   (ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che -anche se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità- incide comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
   (iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale rilevanza sotto il profilo dell'inserimento delle opere nel contesto urbano;
   (iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di nuova volumetria”.
Siccome gli interventi di pavimentazione, anche ove contenuti entro i limiti di permeabilità del fondo, sono realizzabili in regime di edilizia libera soltanto laddove presentino una entità minima, sia in termini assoluti, che in rapporto al contesto in cui si collocano e all'edificio cui accedono, gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza, consistendo nella copertura di un’ampia porzione di suolo libero, pari a ben 646,40 metri quadrati, non sono da ritenere tali per cui non possono certamente essere ricondotti nell’ambito dell’attività edilizia libera.
L’attività edilizia libera ex art. 6, c. 1, T.U.E. presuppone tassativamente la conformità dell’intervento alla disciplina vincolistica gravante sul terreno.
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Le attività oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata rientrano nel novero dell’art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001 in quanto nel caso concreto emergono le grandi dimensioni delle scaffalature costruite sull’area soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale ed in particolare il loro solido ancoraggio su una pavimentazione in calcestruzzo, sovrastati da una copertura in lastre ondulate in materiale plastico, disposti lungo tutto il perimetro dell’area pavimentata.
Tali scaffali, che hanno l’altezza di m 7,40 (corrispondente ad una costruzione a due piani fuori terra), sono riempiti di merce ivi stoccata, sicché per la loro collocazione e realizzazione ad uso non temporaneo, ma permanente, rientrano nella definizione di “interventi di nuova costruzione” di cui alle lettere e5) e e7) dell’art. 3, comma 1, del DPR n. 380/2001.
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Le scaffalature nonché la pavimentazione in calcestruzzo (i quali vanno visti nel loro insieme di opere unitamente alla pavimentazione del piazzale ed alla creazione del deposito merci, che ha determinato la trasformazione complessiva dell’area), ricadono in zona vincolata e soggetta ad autorizzazione paesaggistica, per cui consegue la legittimità del provvedimento demolitorio in quanto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’abuso edilizio consistente nella esecuzione di intervento ancorché soggetto a DIA o SCIA, qualora ricadente in area soggetta a vincolo, si configura sempre come eseguito in assenza di concessione ex art. 27 T.U.E. e soggiace a sanzione demolitoria.
L’art. 146, comma 4, D.lgs. n. 42/2004 precisa, infatti, che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
Questa Sezione ha inoltre chiarito che l’autorizzazione paesaggistica comprende qualsiasi opera edilizia calpestabile che può essere sfruttata per qualunque uso.
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N
on ha alcuna rilevanza l’affermazione che la violazione degli artt. 65 e 93 del DPR n. 380/2001 non sarebbe configurabile nel caso di scaffalature metalliche in quanto le stesse sarebbero state fornite con specifica dichiarazione del produttore corredata dalla certificazione di corrispondenza dei manufatti e dei calcoli alla normativa per le costruzioni; a tale riguardo si considera che l’obbligo di presentare la denuncia ex art. 65 del DPR n. 380/2001 sussiste per tutte le opere realizzate “con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore”.
Nel caso concreto, trattandosi di scaffalature in acciaio e -come auto-certificato dal progettista della ditta fornitrice– che sono state edificate in conformità alle norme tecniche per le costruzioni approvate con D.M. 17.01.2018, è applicabile l’obbligo di preventiva denuncia ai sensi artt. 65 e 93 T.U.E. in quanto riferita alle opere realizzate “con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore”.

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6.2. Con il secondo motivo di appello [rubricato: Erroneità della sentenza quanto al rigetto del terzo motivo di ricorso (recante <violazione dell’art. 3 L. 241/1990 e degli artt. 10, 31 e 65 D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per carenza istruttoria, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti, in relazione alla pavimentazione del piazzale esterno>)] l’appellante Br. ripropone la contestazione dell’ordinanza impugnata, e di riflesso, della sentenza di prime cure, nella parte in cui ha qualificato quale “nuova costruzione” la pavimentazione in calcestruzzo anziché quale mera sostituzione della precedente bitumazione assentita in base alla concessione edilizia n. 1160/93, e nella parte in cui non ha considerato che trattasi di attività edilizia libera ex art. 6, c. 1, lett. e-ter), DPR 380/2001.
Anche la soc. La Br. ripropone con il suo secondo motivo di appello la contestazione dell’ordinanza impugnata e di riflesso della sentenza di prime cure, sostenendo che la sentenza sul punto non avrebbe analizzato la tavola grafica, ma piuttosto si sarebbe limitata a “leggere” l’oggetto dell’intervento come indicato nella tavola grafica.
Secondo la soc. La Br., sarebbe stato sufficiente analizzare le linee di contorno del triangolo di terreno oggetto della richiesta di titolo abilitativo per comprendere e confermare quanto da essa sostenuto nel proprio ricorso. Afferma che “Le linee di contorno, come evidenziato nella relazione tecnica redatta dall’Ing. Ca. in data 18.09.2020 (doc. 1 del fascicolo di primo grado dep. il 22.09.2020) e nei relativi allegati, sarebbero fini e distinguerebbero il punto di passaggio tra due materiali diversi, in base alle seguenti norme:
-UNI EN ISO 7519.2001- “Disegni tecnici - Disegni di costruzione - Principi generali di presentazione per disegni di insieme e di assemblaggio” - punto 4.7: “I contorni tra parti di materiali differenti in vista devono essere rappresentati con linea continua fine o grossa”;
-UNI ISO 128-23:2005- “Principi generali di rappresentazione” - punto 4, prospetto 1 “Linea continua fine: limiti di materiali differenti in vista, in taglio ed in sezione”.
I due diversi materiali sarebbero anche contrassegnati dalle due diverse campiture, infatti, in base alla norma UNI 3972:1981 “Disegni tecnici – Tratteggi per la rappresentazione dei materiali nelle sezioni”, diversi tratteggi, individuano diversi materiali
”.
Sarebbe necessario fare riferimento alle norme di buona tecnica progettuale per comprendere le tavole grafiche allegate all’istanza, le quali andavano attentamente valutate dal momento che il titolo edilizio scaturisce dalla compresenza della descrizione letterale dell’opera contenuta nel testo del provvedimento e dalla rappresentazione grafica dell’intervento.
Con il terzo motivo di impugnazione [rubricato: Erroneità della sentenza quanto al rigetto del quarto, quinto e sesto motivo di ricorso (recanti, rispettivamente, <violazione dell’art. 3 L. 241/1990 e degli artt. 3, comma 1, lettera e), 10, 31, 65 e 93 DPR 380/2001 – eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti, in relazione ai manufatti metallici>; <violazione degli artt. 3, 10, 22, 31 e 37 DPR 380/2001; violazione dell’art. 3 della L. 241/1990 e/o eccesso di potere per difetto di motivazione>; <violazione degli artt. 3, 10, 22, 31 e 37 DPR 380/2001; violazione dell’art. 3 L. 241/1990 e/o eccesso di potere per difetto di motivazione>], la soc. appellante Br. contesta l’ordinanza di demolizione nella parte in cui è rivolta contro le scaffalature metalliche posizionate sul piazzale, e di riflesso impugna la sentenza che ha respinto i motivi di prime cure, deducendo in particolare che:
   - (i) le scaffalature non sarebbero qualificabili come costruzioni ai sensi dell’art. 3, c. 1, lett. e.5) ed e.7), T.U.E. perché non creano volumetria essendo aperte su tutti i lati, sono facilmente rimovibili essendo solo tassellate al suolo e prive di carattere di stabilità, sono insuscettibili di determinare trasformazione edilizia permanente;
   - (ii) le scaffalature sarebbero assimilabili a mere attrezzature di lavoro estranee all’attività edilizia o comunque rientranti nella attività edilizia libera o soggetta a SCIA ex art. 22 T.U.E.
   - (iii) insistono su area della quale era già stato assentito l’accorpamento con quella ricadente nel Comune di Rivalta di Torino, destinata a mero stoccaggio merci per consegna differita di materiali già acquistati;
   - (iv) la sentenza del TAR avrebbe erroneamente interpretato la sentenza del Consiglio di Stato n. 337/2019 in quanto quest’ultima aveva qualificato la posa di scaffalature analoghe come soggetta a SCIA commerciale, e non a SCIA edilizia, quindi non sarebbe vero che si sarebbe dovuto demolire le scaffalature ex art. 27 T.U.E. perché ricadenti in area sottoposta a vincolo paesaggistico;
   - (v) l’ordinanza di demolizione sarebbe assistita dalla prospettazione dell’acquisizione gratuita in caso d’inottemperanza che invece non sarebbe configurabile nel caso di opere soggette a mera SCIA;
   - (vi) la violazione degli artt. 65 e 93 DPR 380/2001 non sarebbe configurabile nel caso di scaffalature metalliche in quanto le stesse sono fornite con specifica dichiarazione del produttore corredata dalla certificazione di corrispondenza dei manufatti e dei calcoli alla normativa per le costruzioni;
   - (vii) non sarebbe configurabile la violazione del rapporto di copertura del 50% di cui all’art. 18 N.T.A. in quanto le scaffalature non creerebbero volumetria.
Anche l’appellante soc. La Br. contesta nel terzo motivo di impugnazione l’ordinanza di demolizione nella parte in cui è rivolta contro le scaffalature metalliche posizionate sul piazzale, e di riflesso impugna la sentenza che ha respinto i motivi di prime cure, deducendo in particolare che:
   - (i) le scaffalature insisterebbero su area sulla quale nel 1993 sarebbe già stata assentita la pavimentazione con la C.E. n. 1160/93;
   - (ii) la sentenza impugnata sarebbe errata laddove nel citare la sentenza del Consiglio di Stato n. 337 del 14.01.2019 ritiene che le scaffalature siano state considerate soggette a SCIA edilizia e non ad attività edilizia libera come da sempre sostenuto dalla ricorrente. Le scaffalature oggetto del contendere invece non presenterebbero caratteristiche di stabilità tali da costituire un organismo edilizio rilevante: queste sarebbero fissate alla pavimentazione con semplici tasselli e per ragioni di sicurezza, tant’è che verrebbero spostate e modificate in base alle esigenze funzionali dell’attività di vendita e stoccaggio. Per queste ragioni, tali strutture non potrebbero essere ricondotte alla nozione di “trasformazione edilizia permanente”.
Entrambi i motivi di impugnazione delle parti appellanti, così articolati, i quali si prestano ad un esame congiunto, sono infondati.
Come rilevato al precedente punto 6.1.3. da nessuno dei documenti allegati alla domanda presentata nel 1993 al Comune di Orbassano emerge che la domanda avrebbe riguardato anche una pavimentazione. Sia nella domanda che nelle tavole e nelle denunce di inizio e fine lavori si parla solamente di recinzione tipo Orsogrill, per cui non spettava al Comune di Orbassano l’onere di indagare sul contenuto della concessione rilasciata dal Comune di Rivalta, né di indagare sulla reale intenzione delle odierne appellanti, sottesa alla domanda e non letteralmente evincibile dal contesto della domanda.
6.2.1. Ad ogni modo il Comune di Orbassano, nell’esaminare la domanda de qua, il cui oggetto è di chiara comprensione in base al linguaggio ed alla terminologia usata, come nel caso concreto ove la domanda riguarda la costruzione di una recinzione in grigliati tipo "Orsogrill“ a completamento della recinzione del lotto 2 sito nel Comune di Rivalta di Torino-frazione Pasta), non era tenuto ad esaminare ogni singola linea contenuta negli allegati e tanto meno ad indagare su eventuali pavimentazioni previste nel progetto autorizzato dal Comune di Rivalta di Torino.
Risulta per tabulas, contrariamente a quanto sostenuto dalle parti appellanti, che né dal testo della domanda di autorizzazione, né dal contenuto degli allegati alla domanda era percettibile che “la parte di terreno in questione su Orbassano non destinata a verde ed annessa al piazzale del capannone produttivo sarebbe stata pavimentata in continuità con quanto autorizzato su Rivalta” e non è nemmeno deducibile dall’elaborato tecnico che la dizione “Sup verde privato >20%” andava “a vincolarne la percentuale minima di verde permeabile.”
Inoltre, non emerge nemmeno dalla domanda di autorizzazione, né dai disegni allegati alla stessa che sarebbe stata intesa l’annessione di una porzione del terreno ricadente sul territorio di Orbassano, a quello di Rivalta di Torino, per cui non ha nemmeno alcuna rilevanza l’asserita buona fede delle odierne appellanti intesa ad accorpare l’area situata sul territorio di Orbassano -mediante la realizzazione della recinzione e di una pavimentazione dell’area a verde privato sita sul territorio di Orbassano- alla pavimentazione del terreno ubicato sul territorio di Rivalta, asseritamente oggetto di pavimentazione.
La mancanza di una relazione tecnica-descrittiva dell’intervento dalla quale si avrebbe potuto ricavare pure l’intenzione delle appellanti di accorpare e pavimentare il terreno a verde situato sul territorio di Orbassano a quello situato sul territorio di Rivalta non può sicuramente fare scaturire in capo al Comune di Orbassano un qualsiasi onere di indagare sulle intenzioni eventualmente ricavabili dalle tavole e dalle relative campiture; ciò in quanto nemmeno dalla tavola grafica era chiaramente rilevabile, mediante una relativa indicazione, che la parte della proprietà situata sul territorio del Comune di Rivalta era soggetta a pavimentazione.
6.2.2. Un tanto premesso ed escluso che la concessione rilasciata dal Comune di Orbassano nel 1993 comprendeva l’autorizzazione alla pavimentazione della parte destinata a verde situata sul territorio del Comune di Orbassano, il Collegio non condivide le affermazioni delle parti appellanti che nella pavimentazione accertata in sede di sopralluogo del 14.10.2019 da parte del Comune di Orbassano quale nuova pavimentazione in calcestruzzo, si sarebbe trattato invece solamente della sostituzione di una pavimentazione già autorizzata nel 1993.
6.2.3. Non si condivide nemmeno l’affermazione che, trattandosi di sostituzione di preesistente pavimentazione autorizzata, l’attività rientrerebbe nell’attività edilizia libera di cui all’art. 6, comma 1, del DPR n. 380/2001.
Secondo l’art. 6, d.P.R. n. 380/2001 ”Fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, i seguenti interventi sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo: a) omissis……(..) “e-ter) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati”.
Dal sopra riportato testo si rileva che le opere indicate possono ritenersi effettivamente rientranti nel perimetro di applicazione della previsione normativa soltanto laddove, per le loro caratteristiche in concreto, siano del tutto inidonee a influire in modo rilevante sullo stato dei luoghi, e quindi non determinino una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Orbene, come correttamente osservato dal Giudice di prime cure, deve escludersi che “nell'assoggettare al regime di edilizia libera la realizzazione di interventi di pavimentazione di spazi esterni, entro i prescritti limiti di permeabilità del fondo, il legislatore abbia inteso consentire la facoltà di coprire liberamente e senza alcun titolo qualunque estensione di suolo inedificato, salvo soltanto il rispetto di tali limiti. E ciò in quanto la pavimentazione di aree esterne:
   (i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di suolo inedificato;
   (ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che -anche se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità- incide comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
   (iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale rilevanza sotto il profilo dell'inserimento delle opere nel contesto urbano;
   (iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di nuova volumetria
”.
6.2.4. Siccome gli interventi di pavimentazione, anche ove contenuti entro i limiti di permeabilità del fondo, sono realizzabili in regime di edilizia libera soltanto laddove presentino una entità minima, sia in termini assoluti, che in rapporto al contesto in cui si collocano e all'edificio cui accedono, gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza, consistendo nella copertura di un’ampia porzione di suolo libero, pari a ben 646,40 metri quadrati, non sono da ritenere tali per cui non possono certamente essere ricondotti nell’ambito dell’attività edilizia libera.
6.2.5. L’attività edilizia libera ex art. 6, c. 1, T.U.E. presuppone tassativamente la conformità dell’intervento alla disciplina vincolistica gravante sul terreno; condizione che nel caso di specie -ove l’area de qua è soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale e ricompresa nel perimetro del Piano d’Area del Parco approvato con legge regionale n. 19/2009 (cfr. verbale di sopralluogo del 14.10.2019, pagg. 2 e 5; ordinanza impugnata, pag. 3)- deve essere esclusa con riferimento a tutti i vincoli richiamati.
6.2.6. Ai sensi dell’art. 3, c. 1, sono da ritenersi:
   "e) "interventi di nuova costruzione", quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali:
   e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6);
   e.2) gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal comune;
   e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato;
   e.4) l'installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione;
   e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore;
   e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
   e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato”.

Le attività oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata rientrano nel novero dell’art. 3, comma 1, lettera e), del DPR n. 380/2001 in quanto nel caso concreto emergono dalle quattro fotografie allegate al verbale di sopralluogo (doc. 12 del Comune, depositato il 24.09.2020) le grandi dimensioni delle scaffalature costruite sull’area del mappale 10 del foglio 8, sul territorio del Comune di Orbassano, in area soggetta a vincolo paesaggistico-ambientale e ricompresa nel perimetro del Piano d’Area del Parco approvato con legge regionale n. 19/2009 (assoggettando gli interventi al preventivo parere dell’ente gestione del Parco del Po e ad autorizzazione paesaggistica ex art. 142 e art. 146 D.lgs. n. 42/2004) ed in particolare il loro solido ancoraggio su una pavimentazione in calcestruzzo, sovrastati da una copertura in lastre ondulate in materiale plastico, disposti lungo tutto il perimetro dell’area pavimentata; tali scaffali, che hanno l’altezza di m 7,40 (corrispondente ad una costruzione a due piani fuori terra), sono riempiti di merce ivi stoccata, sicché per la loro collocazione e realizzazione ad uso non temporaneo, ma permanente, rientrano nella definizione di “interventi di nuova costruzione” di cui alle lettere e5) e e7) dell’art. 3, comma 1, del DPR n. 380/2001.
Le scaffalature nonché la pavimentazione in calcestruzzo (i quali vanno visti nel loro insieme di opere unitamente alla pavimentazione del piazzale ed alla creazione del deposito merci, che ha determinato la trasformazione complessiva dell’area), ricadono in zona vincolata e soggetta ad autorizzazione paesaggistica, per cui consegue la legittimità del provvedimento demolitorio in quanto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’abuso edilizio consistente nella esecuzione di intervento ancorché soggetto a DIA o SCIA, qualora ricadente in area soggetta a vincolo, si configura sempre come eseguito in assenza di concessione ex art. 27 T.U.E. e soggiace a sanzione demolitoria.
L’art. 146, comma 4, D.lgs. n. 42/2004 precisa, infatti, che “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”. Questa Sezione ha inoltre chiarito che l’autorizzazione paesaggistica comprende qualsiasi opera edilizia calpestabile che può essere sfruttata per qualunque uso (Cons. Stato, Sez. VI, 12.12.2022, n. 10866; Cons. Stato, sez. IV, n. 35/2017).
6.3. Infine, non ha alcuna rilevanza l’affermazione che la violazione degli artt. 65 e 93 del DPR n. 380/2001 non sarebbe configurabile nel caso di scaffalature metalliche in quanto le stesse sarebbero state fornite con specifica dichiarazione del produttore corredata dalla certificazione di corrispondenza dei manufatti e dei calcoli alla normativa per le costruzioni; a tale riguardo si considera che l’obbligo di presentare la denuncia ex art. 65 del DPR n. 380/2001 sussiste per tutte le opere realizzate “con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore”.
Nel caso concreto, come osservato dal Comune appellato, trattandosi di scaffalature in acciaio e -come auto-certificato dal progettista della ditta fornitrice– che sono state edificate in conformità alle norme tecniche per le costruzioni approvate con D.M. 17.01.2018, è applicabile l’obbligo di preventiva denuncia ai sensi artt. 65 e 93 T.U.E. in quanto riferita alle opere realizzate “con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore”.
6.4. Con il quarto motivo di impugnazione [rubricato: Erroneità della sentenza quanto al rigetto del settimo motivo di ricorso (recante <violazione dell’art. 3 L. 241/1990 – eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti per l’applicazione della normativa contenuta negli artt. 14, 18 e 32 delle NTA del PRG e punto 6.4 dell’art. 40 delle NTA del PRG, dell’art. 142 e 146 del D.Lgs. 42/2004, degli artt. 10, 31, 65 e 93 del DPR 380/2001 della L.R. 19/2009 per mancata richiesta dei titoli autorizzativi e dell’autorizzazione paesaggistica e dell’ente Parco>)], l’appellante Br. censura la sentenza nella parte in cui ha rigettato il settimo motivo del ricorso di primo grado secondo il quale, essendo la pavimentazione e le scaffalature attività edilizia libera, non sarebbe stata necessaria neanche l’autorizzazione paesaggistica, la quale -trattandosi di “adeguamento di spazi pavimentati"- sarebbe esclusa anche da quanto previsto nell’allegato A, punto 12 n. 31 del DPR 31/2017.
La soc. La Br. censura la sentenza a sua volta con il quarto motivo di impugnazione nella parte in cui ha rigettato il terzo motivo di ricorso con il quale è stata censurata l’ordinanza impugnata in quanto ha considerato i lavori abusivi perché realizzati in violazione dell’art. 142, comma 1, del D.lgs n. 42/2004, per mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, atteso che le aree interessate sono ricomprese nel perimetro del Piano d’Area del Parco approvato ai sensi della L.R. 42/2004.
La sentenza -laddove afferma che
   (i) la pavimentazione e la scaffalatura avrebbero necessitato del previo rilascio del permesso di costruire e
   (ii) laddove non ritiene assentite le opere in forza dei titoli edilizi rilasciati dal Comune di Rivalta di Torino e infine, laddove
   (iii) ritiene che si tratta della realizzazione di una pavimentazione ex novo-
sarebbe errata in quanto la pavimentazione non avrebbe necessitato di autorizzazione edilizia in quanto semplice sostituzione (manutenzione) di pavimentazione esistente già autorizzata, mentre le scaffalature non avrebbero presentato caratteristiche di stabilità tali da costituire un organismo edilizio rilevante ai fini edilizi ed essere considerate come una nuova costruzione, per cui non sarebbe applicabile alla fattispecie la normativa sulla tutela dei beni culturali e ambientali.
Con un quinto motivo d’appello la soc. La Br. s.s., infine, censura il capo n. 18 della sentenza di prime cure che ha respinto il motivo di ricorso concernente la dedotta illegittimità dell’ordinanza di demolizione nella parte in cui censura l’erronea applicazione dell’art. 69-bis N.T.A. del P.R.G.C. che colloca parte dell’area in questione in classe III di pericolosità geomorfologica Alta IIIA, con conseguente inedificabilità per le condizioni di rischio molto elevato, salve limitate eccezioni qui non applicabili, sostenendo che nel caso di specie nessuna trasformazione urbanistica sarebbe intervenuta.
Sostiene che l’area in questione sarebbe stata solo oggetto di un’attività manutentiva che ha comportato la sostituzione del manto di copertura del piazzale esterno; tale sostituzione non può considerarsi né “trasformazione urbanistica” né “nuovo insediamento”, non essendovi state variazioni di cubatura né insediamenti o modificazioni strutturali.
6.4.1. Le censure dedotte con i motivi quattro e cinque da parte delle due società appellanti non hanno pregio in quanto, come già rilevato ai precedenti punti 6.1.3. e 6.2. nel caso concreto non si tratta di adeguamento di spazi pavimentati, ma di intervento con il quale è stata realizzata una nuova pavimentazione ed è stata costruita una ampia scaffalatura, solidamente fissata alla nuova pavimentazione.
Tali interventi, ai sensi del D.P.R. n. 31/2017, Allegato B, necessitano comunque di una autorizzazione paesaggistica semplificata (cfr. punto 18 “gli interventi sistematici di configurazione delle aree di pertinenza di edifici esistenti, diversi da quelli di cui alla voce B.14, quali: nuove pavimentazioni, accesso pedonali e carrabili, modellazioni del suolo incidenti sulla morfologia del terreno, realizzazione di rampe, opere fisse di arredo, modifiche degli assetti vegetazionali” e punto 25 “occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione per manifestazioni, spettacoli, eventi, o per esposizioni e vendita di merci, per un periodo superiore a 120 e non superiore a 180 giorni dell’anno solare”).
6.4.2. Pertanto, contrariamente all’assunto delle parti appellanti, la pavimentazione realizzata ex novo e le scaffalature metalliche, non rientrando nell’edilizia libera, necessitavano di autorizzazione paesaggistica.
Inoltre, come correttamente concluso dal Giudice di prime cure, non ha alcuna rilevanza la SCIA presentata nel 2016 nel Comune di Rivalta in quanto relativa a opere differenti rispetto a quelle oggetto del provvedimento impugnato, situate nel territorio di tale Comune
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2024 n. 1659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

INCARICHI PROFESSIONALIQuesto Comune deve procedere all'affidamento di un incarico di patrocinio legale per la difesa dell'Ente in un contenzioso instaurato presso la Corte di Cassazione.
Alla luce del nuovo codice dei contratti, è necessaria l'acquisizione del codice CIG?

L'art. 56 del nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 31.03.2023, n. 36) stabilisce quali sono i contratti esclusi dall'applicazione del nuovo codice ed in particolare, per quanto concerne l'oggetto del quesito, risultano esclusi dall'ambito di applicazione le seguenti casistiche:
   "1) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31:
         1.1) in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro dell'Unione europea, un Paese terzo o dinanzi a un'istanza arbitrale o conciliativa internazionale;
         1.2) in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro dell'Unione europea o un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;
   2) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti di cui al punto 1), o qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento, sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31;
   3) servizi di certificazione e autenticazione di documenti che devono essere prestati da notai;
   4) servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o altri servizi legali i cui fornitori sono designati da un organo giurisdizionale dello Stato o sono designati per legge per svolgere specifici compiti sotto la vigilanza di detti organi giurisdizionali;
   5) altri servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri …
".
È fuori dubbio, pertanto, che, riprendendo la previgente disciplina del precedente codice, gli incarichi di patrocinio legale (a differenza dell'affidamento dei servizi legali) sono esclusi dall'ambito di applicazione del codice.
L'esclusione dall'ambito di applicazione del codice, però, se dapprima era condizione necessaria e sufficiente per l'esclusione del CIG, a seguito della Delibera 19.12.2023 n. 585 dell'ANAC, gli appalti di servizi di cui all'art. 56 (ivi inclusi gli appalti di servizi legali) sono da ritenersi assoggettati alla disciplina sulla tracciabilità, in quanto l'art. 3, L. 13.08.2010, n. 136 assoggetta alla relativa disciplina "tutti i movimenti finanziari relativi ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici".
Tanto ciò premesso, evidenziamo come ad oggi risulta necessaria l'acquisizione del codice CIG anche per l'affidamento di incarichi di patrocinio legale ai soli fini della tracciabilità (anche se esclusi dall'ambito di applicazione del codice).
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 13.08.2010, n. 136, art. 3 - D.Lgs. 31.03.2023, n. 36, art. 56
Documenti allegati

Delibera 19.12.2023 n. 585 dell'ANAC
(10.04.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta costituzione gruppo consiliare unipersonale.
Sintesi/Massima
La materia dei "gruppi consiliari" è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale. Solo in tale ambito potrà essere valutata la possibilità di ampliare le ipotesi di costituzione di un gruppo unipersonale.
Testo
Una Prefettura ha posto un quesito in materia di gruppi consiliari.
In particolare, una consigliera del Comune ... ha chiesto se, alla luce della normativa statutaria e regolamentare dell'ente, possa formare un gruppo consiliare unipersonale, di cui sarebbe di diritto capogruppo, collegato ad una lista civica, parte della coalizione che l'aveva sostenuta come candidata sindaco, in cui non è risultato eletto alcun candidato.
Al riguardo, si fa presente che, come noto, la materia concernente la costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari è demandata allo statuto ed al regolamento di ciascun ente locale e, pertanto, le problematiche ad essa connesse devono trovare adeguata soluzione nell'ambito delle suddette fonti normative.
Si osserva che lo statuto comunale all'art. 36, primo comma, prevede che "i consiglieri comunali eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare. Nel caso in cui di una lista sia stato eletto un solo consigliere, a questo sono riconosciuti la rappresentanza e le prerogative spettanti ad un gruppo consiliare".
Il comma successivo dispone che "Nel corso della legislatura possono essere costituiti gruppi consiliari monopersonali solo in corrispondenza della nascita di nuovi movimenti politici a livello nazionale. I consiglieri che nel corso della legislatura abbiano dichiarato la loro autonomia dal raggruppamento nella cui lista furono eletti, ove non abbiano diritto a costituire un gruppo di un solo componente, vanno assegnati al gruppo misto ...".
Dall'esame del regolamento del consiglio comunale, in particolare nella parte del Titolo VII concernente "Gruppi consiliari", non si rilevano disposizioni riferibili alla questione in esame. Infatti, l'art. 72 del regolamento prevede che i consiglieri eletti nella medesima lista appartengono allo stesso gruppo consiliare, mentre il successivo articolo 73 rubricato "Subentri ed esclusioni" dispone che i consiglieri che intendono costituire un altro gruppo o appartenere ad un gruppo diverso devono darne motivata comunicazione al presidente del consiglio.
Le suddette disposizioni regolamentari devono trovare idonea armonizzazione con le norme statutarie, in particolare con l'art. 36 dello statuto che, come si è innanzi detto, prevede la possibilità di costituire un gruppo monopersonale "solo in corrispondenza della nascita di nuovi movimenti politici a livello nazionale", ovvero "nel caso in cui di una lista sia stato eletto un solo consigliere".
Ad avviso di quest'Ufficio non sembra si possa procedere alla costituzione di un gruppo monopersonale se non nei casi codificati dallo statuto.
Pertanto, nel ribadire che la materia dei "gruppi consiliari" è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, si rappresenta che solo in tale ambito potrà essere valutata eventualmente la possibilità di ampliare le ipotesi di costituzione di un gruppo unipersonale (parere 05.04.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOArticolo 55 D.Lgs. 151/2001. Dimissioni dipendente con figlio di età inferiore all’anno.
In base all’art. 55, comma 1, del D.Lgs. 151/2001, in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54 del medesimo decreto, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, e non è tenuta al preavviso.
Secondo la giurisprudenza, tali indennità sono dovute anche nel caso in cui le dimissioni siano finalizzate ad una nuova assunzione, sempre che il datore di lavoro non sia in grado di provare la sussistenza dell’abuso del diritto da parte della lavoratrice.

Il Comune chiede un parere in merito all’applicazione dell’articolo 55, comma 1, del D.Lgs. 26.03.2001, n. 151
[1] , relativamente ad una dipendente inquadrata nella categoria C, madre di un figlio di età inferiore all’anno, che intende dimettersi ai fini dell’assunzione in categoria D presso un altro Ente. Essendo le dimissioni finalizzate ad una nuova assunzione, il Comune chiede se la dipendente sia tenuta al rispetto del termine di preavviso, e se alla stessa competano le indennità, secondo quanto disposto dal medesimo articolo.
L’art. 55, comma 1, del D.lgs. 151/2001 stabilisce che, “in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell’articolo 54 del medesimo decreto, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso”.
L’art. 54, comma 1, del medesimo decreto legislativo prevede che “le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III (Congedo di maternità), nonché fino al compimento di un anno di età del bambino”.
Secondo quanto previsto espressamente dal succitato art. 55, comma 1, la dipendente in oggetto non è quindi tenuta al rispetto dei termini di preavviso
[2].
Il comma 4 dell’art. 55 del D.Lgs. 151/2001 stabilisce inoltre che “la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalle comunicazioni di cui all’articolo 54, comma 9
[3], devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro.” [4].
Con sentenza 17.06.2019, n. 16176, la Cassazione civile, sez. lav., si è pronunciata sul tema oggetto del quesito, affermando che: “Nel caso di dimissioni volontarie nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice madre ha diritto, a norma del D.Lgs. 26.03.2001, n. 151, art. 55, alle indennità previste dalla legge o dal contratto per il caso di licenziamento, ivi compresa l'indennità sostitutiva del preavviso, indipendentemente dal motivo delle dimissioni e, quindi, anche nell'ipotesi in cui esse risultino preordinate all'assunzione della lavoratrice alle dipendenze di altro datore di lavoro
[5]”.
Relativamente al licenziamento finalizzato a nuova assunzione, la Corte evidenzia che la tutela di cui all’art. 55 del D.Lgs. 151/2001 “incontra soltanto il limite generale dell'abuso del diritto
[6]”.
Nel delimitare quest’ultima fattispecie, la Suprema Corte sottolinea che l’abuso del diritto “[…] non è radicato in sé dal reperimento di nuova occupazione” ma richiede, ad esempio, il verificarsi “di una situazione al contempo economicamente più vantaggiosa e lavorativamente più onerosa per la dipendente, che renda irrazionale il beneficio patrimoniale per la dipendente ed il corrispondente sacrificio per il datore e che colori dunque in senso profittatorio la pretesa ciononostante avanzata dal genitore”. Tale abuso dovrebbe essere dimostrato dalla parte che lo adduce, quindi dal datore di lavoro, con puntuali allegazioni e prove.
In conclusione, dunque, l’Ente è tenuto a corrispondere alla lavoratrice le indennità di cui all’art. 55, comma 1, del D.Lgs. 151/2001, anche nel caso in cui le dimissioni siano finalizzate ad una nuova assunzione, sempre che non sia in grado di provare la sussistenza dell’abuso del diritto da parte della lavoratrice, così come delineato dalla giurisprudenza citata.
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[1] Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 08.03.2000, n. 53.
[2] Come confermato altresì dall’orientamento RAL 405 del 06.06.2011.
[3] Comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando.
[4] Si rinvia, per completezza, al parere riepilogativo fornito dall’ARAN in materia, RAL 405 del 06.06.2011.
[5] Tale pronuncia conferma l’orientamento giurisprudenziale di cui alle precedenti sentenze della Corte di Cassazione, sezione lavoro: 03.03.2014, n. 4919; 24.08.1995, n. 8970; 22.10.1991, n. 11164). La Suprema Corte precisa inoltre che: “La norma […] prevede tout court, al verificarsi delle condizioni in essa previste (dimissioni nel periodo da essa considerato), il diritto della madre a ricevere le indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento […]. Ciò sulla base di un insindacabile favor per la madre dimissionaria, i cui costi sono destinati a gravare sul datore di lavoro, secondo una logica di evidente stampo solidaristico (art. 2 Cost.), finalizzata alla tutela della maternità e della formazione della famiglia (art. 31 Cost.)”.
[6] Abuso del diritto rispetto all'“esercizio di una pretesa che ha radice (legale) nel contratto (art. 1375 c.c.)”, che dev’essere eseguito secondo buona fede
(03.04.2024 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Questa Unione di Comuni ha nel proprio organico una mamma lavoratrice. Uno dei due figli compie dieci anni il prossimo 12 aprile.
Lo sgravio contributivo per le madri lavoratrici previsto dalla Legge di Bilancio 2024 da corrispondere nel mese di aprile spetta per intero o soltanto per 12 giorni?

I commi 180 e 181 dell'art. 1 della Legge di Bilancio per il 2024 (L. 30.12.2023, n. 213), che ha introdotto tale forma di esonero contributivo per le madri lavoratrici testualmente recitano che:
   "180. Fermo restando quanto previsto al comma 15, per i periodi di paga dal 01.01.2024 al 31.12.2026 alle lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, è riconosciuto un esonero del 100 per cento della quota dei contributi previdenziali per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore fino al mese di compimento del diciottesimo anno di età del figlio più piccolo, nel limite massimo annuo di 3.000 euro riparametrato su base mensile.
   181. L'esonero di cui al comma 180 è riconosciuto, in via sperimentale, per i periodi di paga dal 01.01.2024 al 31.12.2024 anche alle lavoratrici madri di due figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo
".
L'esonero in commento è rivolto a tutti i rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, sia instaurati che instaurandi nel periodo di vigenza dell'esonero (al 01.01.2024 al 31.12.2026), dei settori pubblico e privato, ivi compreso il settore agricolo, con la sola esclusione dei rapporti di lavoro domestico, in riferimento alle lavoratrici madri di tre o più figli. Per la sola annualità del 2024, in via sperimentale, l'agevolazione è estesa alle lavoratrici madri di due figli.
L'INPS ha chiarito la portata applicativa di tale esonero con la Circ. 31.01.2024, n. 27, dove esplicita i seguenti esempi applicativi:
   - la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di tre figli. L'esonero di cui all'art. 1, comma 180, trova applicazione a partire dal 01.01.2024. Il figlio più piccolo compie il diciottesimo anno di età il 19.10.2025. L'applicazione dell'esonero contributivo termina nel mese di ottobre 2025;
   - la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di due figli. L'esonero di cui all'art. 1, comma 181, trova applicazione a partire dal 01.01.2024. Il figlio più piccolo compie il decimo anno di età il 18.07.2024. L'applicazione dell'esonero contributivo termina nel mese di luglio 2024;
   - la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di un figlio ed è in corso la gravidanza del secondo figlio. La nascita del secondo figlio avviene l'11.06.2024. L'esonero di cui all'art. 1, comma 181, trova applicazione a partire dal 01.06.2024 al 31.12.2024;
   - la lavoratrice, alla data del 01.08.2024, è madre di due figli, ed è in corso la gravidanza del terzo figlio. La nascita del terzo figlio avviene in data 02.03.2025. Fino al 31.12.2024 si applica l'esonero di cui all'art. 1, comma 181, della legge di Bilancio 2024. Dal 01.01.2025 al 28.02.2025 non si applica alcuna riduzione contributiva. A partire dal 01.03.2025 e fino al 31.12.2026 si applica l'esonero di cui all'art. 1, comma 180, della legge di Bilancio 2024;
   - la lavoratrice, alla data del 01.01.2024, è madre di tre figli, tutti di età superiore ai 18 anni. Non spetta alcuna riduzione contributiva.
Tanto ciò premesso ed al fine di rispondere al quesito proposto, se il figlio minore compie il decimo anno d'età il 12 aprile, lo sgravio si potrà applicare fino al mese di aprile computando l'ultimo mese per intero e non soltanto per 12 giorni.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 180 - L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 181 - Circ. 31.01.2024, n. 27 dell'INPS (03.04.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Petrulli, Interventi riguardanti il terrazzo: alcuni casi concreti tratti dalla giurisprudenza.
Gli interventi sul terrazzo (inteso come elemento di copertura che nasce già delimitato all’intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti) sono stati spesso oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza.
Di seguito ne riportiamo alcuni, tratti dalla recente casistica, allo scopo di individuarne la natura.
  
La trasformazione del terrazzo in veranda
Serve il permesso di costruire per una struttura di chiusura del terrazzo con pannelli di vetro, venendosi a realizzare una veranda, con un aumento di volumetria ed una modifica della sagoma dell’abitazione: è quanto affermato dal TAR Emilia Romagna, Parma, nella sent. 30.08.2021, n. 221.
Ed infatti, come affermato dalla giurisprudenza, “deve ritenersi che l’installazione, su un terrazzo, di pareti in vetro scorrevoli su binari, tendenzialmente duratura seppur potenzialmente funzionale anche alla protezione dagli agenti atmosferici, determina una chiusura dello spazio esterno del terrazzo creando un nuovo volume, di per sé idoneo a determinare la trasformazione dell’organismo, non essendo invocabile, ai fini della riconduzione dell’intervento tra quelli di edilizia libera, la sua funzionalizzazione alla migliore fruizione dello spazio esterno, trattandosi di opera non assimilabile né ad una pergotenda né a un gazebo, la cui definizione, come anche delineata nella elaborazione giurisprudenziale, implica la sua non idoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni stante la tipologia degli elementi di chiusura, che debbono rivestire consistenza tali da non potersi connotare in termini di componenti edilizie stabili di copertura o di chiusura di uno spazio esterno. Il carattere scorrevole dei pannelli di chiusura verticale, di per sé, non può assumere dirimente rilievo ai fini della qualificazione edilizia dell’opera, dipendendo la sua eventuale totale apertura dalla concreta gestione ed uso della struttura da parte del proprietario, che non fa venir meno l’idoneità della stessa a determinare la chiusura dello spazio esterno, coerentemente peraltro con la scelta di installare pannelli verticali in vetro
[1].
  
Il rifacimento della pavimentazione del terrazzo di copertura
Il rifacimento della pavimentazione del terrazzo di copertura rientra nell’attività edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e)-ter, del Testo Unico Edilizia (DPR n. 380/2001), che contempla “le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni”: è quanto affermato dal TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, nella sent. 26.11.2019, n. 1971 (nel caso specifico, detto intervento era stato realizzato ai fini del miglioramento per la tenuta statica dell’edificio).
  
Installazione sul terrazzo di una parete divisoria con pannelli coibentati
È sufficiente la SCIA per l’installazione di una parete divisoria mediante l’utilizzo di pannelli coibentati per delimitare la parte del terrazzo più esposta a pericolo di cadute e ad esigenze di riservatezza: è quanto affermato dal TAR Campania, Napoli, sez. II, nella sent. 11.11.2019, n. 5328.
Secondo i giudici, trattavasi di intervento di manutenzione per il quale opera il disposto di cui agli artt. 6-bis e 22 del Testo Unico Edilizia, atteso che non si realizzava una nuova edificazione ma semplicemente si provvede a delimitare e proteggere la proprietà, senza modifiche alla sagoma dell’edificio né aumento di superficie o di volume.
  
Struttura di dimensioni non esigue a copertura di un terrazzo
Una struttura di copertura di un terrazzo della superficie di mq. 35, costituita da tre pilastri e pali in legno con intelaiatura orizzontale dello stesso materiale e copertura in materiale plastico, per le dimensioni obiettivamente non esigue e l’assenza dei requisiti della precarietà e della facile amovibilità, non può rientrare nella categoria della cosiddetta “edilizia libera” e non può, quindi, essere qualificata come pergotenda; al contrario, è un intervento di ristrutturazione edilizia, necessitante, come tale, del permesso di costruire: è quanto affermato dal TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, nella sent. 25.09.2019, n. 1611.
  
Posa di una scala con struttura mobile che consente l’accesso ad un terrazzo
Non serve il permesso di costruire per una scala costituita da una struttura mobile, ossia priva di un collegamento strutturale con l’abitazione, inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in ragione della sua conformazione, destinata ad essere agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata di ruote: è quanto affermato dal TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, nella sent. 06.02.2024, n. 2261.
Secondo i giudici, tale opera, finalizzata a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile, non determina una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza, essendo preordinata ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico
[2].
  
La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso al terrazzo
La realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico: è quanto affermato dal TAR Campania, Napoli, sez. IV, nella sent. 21.04.2023, n. 2454 [3].
  
Chiusura parziale di una superficie terrazzata
La chiusura di una parte della superficie terrazzata, con copertura e apposizione di infissi in alluminio, è tale da integrare senz’altro una volumetria autonoma, che necessita di permesso di costruire: è quanto affermato dal TAR Campania, Salerno, sez. III, nella sent. 13.10.2023, n. 2273.
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[1] TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, sent. n. 4581/2020.
[2] TAR Campania, Salerno, sez. I, sent. 24.07.2013, n. 1680.
[3] TAR Sicilia, Palermo, sez. II, sent. 01.04.2016, n. 846; TAR Liguria, sez. I, sent. 11.07.2011, n. 1088; TAR Sardegna, sez. I, sent. 07.12.2020, n. 684.
In termini, anche TAR Campania, Napoli, sez. VII, sent. 27.05.2009, n. 2945, per cui, analogamente: “secondo la prevalente giurisprudenza (ex multis, TAR Piemonte Torino, Sez. I, 25.03.2008, n. 505; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 20.11.2007, n. 14443), la realizzazione di una ringhiera protettiva e di una scala in ferro per consentire l’accesso ad un terrazzo costituiscono interventi per i quali non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire. Infatti tali opere –seppure finalizzate a consentire l’utilizzo del solaio di copertura di un immobile– non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico”
(04.04.2024 - tratto da e link a www.ediliziaurbanistica.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Giusta un più che consolidato formante giurisprudenziale, gli atti vincolati, come l'ordinanza di demolizione, non richiedono la comunicazione di avvio del procedimento in quanto non prevedono valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione, come gli altri provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, in quanto si tratta di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, regolamentata rigidamente dalla legge.
T
ale conclusione non è revocata in dubbio dall’assoluzione della ricorrente pronunciata nell’ambito del giudizio penale asseritamente instaurato in ragione delle medesime condotte oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, dovendosi sul punto rammentare che, nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo, il giudicato penale non determina un vincolo assoluto all'Amministrazione per l'accertamento dei fatti rilevanti nell'attività di vigilanza edilizia, né può condizionare in modo inderogabile il processo amministrativo.
La sentenza penale di assoluzione, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., fa stato nel giudizio amministrativo esclusivamente quanto ai fatti materiali che ivi si affermano avvenuti o non avvenuti e che sono stati oggetto del giudizio penale, ma non già quanto alla qualificazione dell'antigiuridicità, evidentemente operata ai soli effetti della sussistenza del reato imputato, rispetto alla quale il giudice amministrativo non è condizionato dalla pronuncia penale resa sugli stessi fatti materiali.
Inoltre, la sentenza penale di assoluzione di cui si discorre non ha natura di giudicato poiché quest'ultimo si perfeziona nei confronti dell'imputato e della parte civile costituita nel processo: nel caso di specie, la decisione del giudice penale non può condizionare l'attività amministrativa in quanto l'Amministrazione non si è costituita parte civile nel processo penale.

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2.- Il ricorso è infondato, dovendo essere respinte tutte le articolate doglianze.
3.- Fuori sesto è il primo motivo di ricorso, confliggendo con un più che consolidato formante giurisprudenziale secondo cui gli atti vincolati, come l'ordinanza di demolizione, non richiedono la comunicazione di avvio del procedimento in quanto non prevedono valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione, come gli altri provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, in quanto si tratta di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, regolamentata rigidamente dalla legge (Consiglio di Stato sez. VI, 02/01/2024, n. 22).
Né tale conclusione è revocata in dubbio dall’assoluzione della ricorrente pronunciata nell’ambito del giudizio penale asseritamente instaurato in ragione delle medesime condotte oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione, dovendosi sul punto rammentare che, nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo, il giudicato penale non determina un vincolo assoluto all'Amministrazione per l'accertamento dei fatti rilevanti nell'attività di vigilanza edilizia, né può condizionare in modo inderogabile il processo amministrativo.
La sentenza penale di assoluzione, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., fa stato nel giudizio amministrativo esclusivamente quanto ai fatti materiali che ivi si affermano avvenuti o non avvenuti e che sono stati oggetto del giudizio penale, ma non già quanto alla qualificazione dell'antigiuridicità, evidentemente operata ai soli effetti della sussistenza del reato imputato, rispetto alla quale il giudice amministrativo non è condizionato dalla pronuncia penale resa sugli stessi fatti materiali (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 07.01.2022 n. 22; Cons. Stato, Sez. VI, 23.11.2017 n. 5473; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23.10.2017 n. 4922, ivi, 10, 2132).
Inoltre, la sentenza penale di assoluzione di cui si discorre non ha natura di giudicato poiché quest'ultimo si perfeziona nei confronti dell'imputato e della parte civile costituita nel processo: nel caso di specie, la decisione del giudice penale non può condizionare l'attività amministrativa in quanto l'Amministrazione non si è costituita parte civile nel processo penale (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 07.01.2022 n. 105; Cons. Stato, Sez. IV, 07.11.2016 n. 4637) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 08.04.2024 n. 6799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Invero:
   - da un lato, la conformità urbanistica e paesaggistica dell'immobile, oggetto di plurimi interventi abusivi, va valutata nella sua interezza, non già parcellizzando le singole opere fino al punto d'esaminarle singolarmente una per una, come avulse dall'impatto complessivo che esse effettivamente determinano sul fabbricato, e, di conseguenza, sull'assetto urbanistico e paesaggistico preesistente;
   - dall’altro, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della domanda di condono non autorizza l'interessato a completare ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la permanenza dell'illecito fino alla sanatoria.
Inoltre, quando la DIA o la SCIA riguardano un fabbricato realizzato abusivamente, non sono di per sé idonee a rendere tale immobile conforme alla normativa urbanistico-edilizia, ma al contrario, proprio perché si innestano su una situazione edificatoria di per sé illecita, ne ereditano i connotati e perdono la loro tipica efficacia legittimante; ne discende che anche gli interventi assentiti con tali moduli procedimentali diventano sostanzialmente illegittimi e sono sottoposti allo stesso trattamento sanzionatorio riservato al fabbricato abusivo cui si riferiscono.
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4.- Infondati sono anche il secondo ed il terzo motivo di gravame, da esaminarsi congiuntamente in ragione della condivisa portata censoria.
Gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza sono così descritti: di "una rampa in cemento armato di circa mt. 25 x 9 che dalla via pubblica porta alla sottostante area prevista a parcheggio di mq. 300 circa; un muro in cemento armato di mt. 80 x 4 di h. ca. sottostante il suindicato parcheggio e le aree destinate a verde antistanti ciascun appartamento; struttura in muratura e copertura in legno, soprastante due manufatti residenziali, da adibire ad impianto fotovoltaico". Peraltro, una parte della realizzata rampa insiste anche su area comunale.
Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l’amministrazione ha considerato in modo corretto le opere realizzate nel loro complesso, così emergendo come le stesse, lungi dall’avere carattere pertinenziale, erano volte a realizzare una ristrutturazione edilizia, riguardante immobili oggetto della presentata istanza condonistica e finalizzata a consentire l’accesso alla sottostante area di parcheggio.
Da tanto discende l’illegittimità delle opere realizzate, poiché, da un lato, la conformità urbanistica e paesaggistica dell'immobile, oggetto di plurimi interventi abusivi, va valutata –come operato dalla civica amministrazione- nella sua interezza, non già parcellizzando le singole opere fino al punto d'esaminarle singolarmente una per una, come avulse dall'impatto complessivo che esse effettivamente determinano sul fabbricato, e, di conseguenza, sull'assetto urbanistico e paesaggistico preesistente (Consiglio di Stato sez. VI, 30/05/2023, n. 5268); dall’altro, in presenza, come nella specie, di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della domanda di condono non autorizza l'interessato a completare ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la permanenza dell'illecito fino alla sanatoria (TAR Napoli, (Campania) sez. VI, 03/04/2023, n. 2074; Consiglio di Stato sez. VII, 25/01/2024, n. 805).
Né in senso opposto, può argomentarsi, al pari di quanto sostenuto dalla ricorrente, in ragione che le opere in questione fossero state oggetto di una DIA precedentemente presentata, poiché quando la DIA o la SCIA riguardano un fabbricato realizzato abusivamente, non sono di per sé idonee a rendere tale immobile conforme alla normativa urbanistico-edilizia, ma al contrario, proprio perché si innestano su una situazione edificatoria di per sé illecita, ne ereditano i connotati e perdono la loro tipica efficacia legittimante; ne discende che anche gli interventi assentiti con tali moduli procedimentali diventano sostanzialmente illegittimi e sono sottoposti allo stesso trattamento sanzionatorio riservato al fabbricato abusivo cui si riferiscono (TAR Napoli, (Campania) sez. II, 12/02/2018, n. 914) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 08.04.2024 n. 6799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La violazione dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001 comporta l'applicazione della sanzione demolitoria (e non in alternativa la sanzione pecuniaria) perché si è in presenza di opere abusive di notevole rilevanza, da considerare nella loro unitarietà, realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico, con la conseguenza che qualsivoglia intervento che alteri lo stato dei luoghi è subordinato al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in mancanza della quale l'unica sanzione applicabile è quella della riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In ogni caso, "la valutazione della sussistenza delle condizioni per la c.d. fiscalizzazione dell'abuso non costituisce condizione di legittimità dell'ordinanza di demolizione.
Invero, l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria va decisa in fase esecutiva dell'ordine di demolizione, nella quale gli interessati ben possono dedurre lo stato di pericolo per la stabilità dell'edificio, e sulla base di un motivato accertamento tecnico.
In ogni caso, non spetta all'Amministrazione, bensì al destinatario dell'ordine di demolizione che invochi l'applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva, dare piena prova della sussistenza dei presupposti fissati dall'art. 34, d.P.R. n. 380/2001 per accedere al beneficio in questione.
In particolare, spetta all'istante dimostrare il pregiudizio sulla struttura e sulla fruibilità arrecato alla parte non abusiva dell'immobile dalla demolizione della parte abusiva e che tale pregiudizio sia evitabile esclusivamente con la fiscalizzazione dell'abuso".
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5.- Priva di pregio è anche l’ultima delle sollevate doglianze, non potendo la civica amministrazione disporre, in via alternativa, l’invocata sanzione pecuniaria poiché "la violazione dell'art. 31, d.P.R. n. 380/2001 comporta l'applicazione della sanzione demolitoria (e non in alternativa la sanzione pecuniaria) perché si è in presenza di opere abusive di notevole rilevanza, da considerare nella loro unitarietà, realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico, con la conseguenza che qualsivoglia intervento che alteri lo stato dei luoghi è subordinato al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in mancanza della quale l'unica sanzione applicabile è quella della riduzione in pristino dello stato dei luoghi" (TAR Lazio, Roma, sez. II, 10/09/2018, n. 9218).
In ogni caso, "la valutazione della sussistenza delle condizioni per la c.d. fiscalizzazione dell'abuso non costituisce condizione di legittimità dell'ordinanza di demolizione. Invero, l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria va decisa in fase esecutiva dell'ordine di demolizione, nella quale gli interessati ben possono dedurre lo stato di pericolo per la stabilità dell'edificio, e sulla base di un motivato accertamento tecnico. In ogni caso, non spetta all'Amministrazione, bensì al destinatario dell'ordine di demolizione che invochi l'applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva, dare piena prova della sussistenza dei presupposti fissati dall'art. 34, d.P.R. n. 380/2001 per accedere al beneficio in questione. In particolare, spetta all'istante dimostrare il pregiudizio sulla struttura e sulla fruibilità arrecato alla parte non abusiva dell'immobile dalla demolizione della parte abusiva e che tale pregiudizio sia evitabile esclusivamente con la fiscalizzazione dell'abuso" (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01/10/2020, n. 679).
Sulla base delle sovra esposte considerazioni il ricorso non è meritevole di accoglimento (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 08.04.2024 n. 6799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, anche se l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 consente di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività finalizzate a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che implicano modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, è, tuttavia, necessario conservare sempre una linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma abbiano una portata limitata e siano in ogni caso riconducibili all'organismo preesistente.
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... per l'annullamento
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
   - annullamento provvedimento del Comune di Casamarciano – IV^ Settore Tecnico – S.U.E. prot. n. 661 del 24.01.2023, notificato in data 30.01.2023;
per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da Vi.Pa.Ro. il 24/01/2024:
   - del provvedimento del Comune di Casamarciano – IV^ Settore Tecnico – S.U.E. prot. n. 661 del 24.01.2023, ad oggetto “S.C.I.A. Alternativa al Permesso di Costruire per la ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, efficientamento sismico ed energetico di un fabbricato sito alla Via ... snc in NCEU al Foglio 1 part. 930 subb. 2-3-4-5” (doc. n. 1 all.to al ricorso introduttivo);
   - della nota prot. n. 9549 del 23.10.2023, comunicata in data 27.10.2023, ad oggetto “riscontro nota prot. n. 4990 del 08.06.2023: avvio procedimento di autotutela, ex art. 21-nonies l. 241/1990 per la valutazione dei presupposti di fatto e di diritto per emettere eventualmente un provvedimento di annullamento del provvedimento identificato al prot. n. 661 del 24/01/2023. Vlutazione dei presupposti di diritto e di fatto” (doc. n. 1 all.to ai presenti motivi aggiunti), con cui il Comune di Casamarciano ha disposto che “allo stato attuale non sussistano i presupposti per un intervento in autotutela, ex art. 21-nonies l. 241/1990 per la valutazione dei presupposti di fatto e di diritto per emettere eventualmente un provvedimento di annullamento del provvedimento identificato al prot. n. 661 del 24/01/2023, con il quale si è stabilito di non effettuare l'intervento di cui alla SCIA presentata il 30/12/2022”;
...
1. Si controverte, nel presente giudizio, in ordine alla legittimità del provvedimento di inibizione della S.C.I.A. presentata dalla Sig.ra Vi., in data 30.12.2022, in relazione a un intervento di demo-ricostruzione, per l’efficientamento sismico ed energetico, con incremento volumetrico nella misura del 10%.
Parte resistente, senza specifica contestazione sul punto, ha dedotto trattarsi della riproposizione di una analoga istanza, in data 29.04.2022, già respinta dal Comune di Casamarciano con diniego n. 11329 del 23.12.2022, non impugnato in giudizio.
Del pari è pacifico tra le parti che l’immobile ricade in Zona omogenea C11 (destinata ad edilizia residenziale pubblica) del P.R.G. vigente: l’edificazione, in tale comparto, è soggetta all’approvazione di piano attuativo, ad oggi mancante per intervenuta decadenza del P.E.E.P. in precedenza approvato.
2. Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene che non sussistano concreti elementi sulla cui base discostarsi dalle osservazioni già sinteticamente espresse con l’ordinanza reiettiva della domanda cautelare (gravata in appello con impugnazione che non ha trovato accoglimento).
Rileva, in particolare, la circostanza che l’intervento che ci si propone di realizzare, da un lato, contrasta con la destinazione di zona a edilizia residenziale pubblica; dall’altro, integra una demo-ricostruzione di un edificio preesistente e oggetto di sanatoria edilizia, con modifica dell’attuale consistenza quanto ai volumi e ai prospetti, alla quale osta l’assenza di un vigente piano attuativo, imposto per la zona C11 dalle disposizioni comunali: ciò vale, di per sé, a giustificare il diniego opposto e a destituire di fondamento il primo motivo di gravame dell’atto introduttivo del giudizio.
Parte ricorrente omette, infatti, di evidenziare per quali ragioni l’intervento in progetto dovrebbe essere qualificato come di semplice ristrutturazione, posto che, come noto, anche se l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 consente di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività finalizzate a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che implicano modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, è, tuttavia, necessario conservare sempre una linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma abbiano una portata limitata e siano in ogni caso riconducibili all'organismo preesistente: detta continuità con la preesistenza è rimasta del tutto indimostrata (cfr. TAR Napoli, (Campania) sez. II, 21/06/2022, n. 4223).
Irrilevante, nel caso di specie, risulta poi il disposto dell’art. 4 della L.R.C. 13/2022, non essendo provato che l’intervento ricada in zona degradata del tessuto urbano (ed essendo, anzi, tale circostanza negata dalla Pubblica Amministrazione).
Neppure è dato apprezzare alcun legittimo affidamento da tutelare in capo al privato istante, posto che questi non vanta nessuna posizione qualificata nei riguardi della Pubblica Amministrazione rispetto all’intervento che si pretende di effettuare.
Il ricorso introduttivo del giudizio è, dunque, da respingere (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.04.2024 n. 2278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, “Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è necessaria una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, non essendo possibile scomporne una parte per negare l'assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere”.
In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti identificata con riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo immobiliare unitariamente considerato”.
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La giurisprudenza è ferma nell’affermare che, nel sistema dell’art. 33 dpr 380/2001 la possibilità di applicare in luogo della sanzione della demolizione la sanzione pecuniaria appartiene a una fase successiva all’ordine di demolizione, nel senso che l’amministrazione è prima tenuta a ordinare il ripristino dello stato dei luoghi.
La possibilità di applicare la sanzione pecuniaria ove il ripristino non sia possibile appartiene infatti alla successiva fase esecutiva.
E' stato, in tal senso, chiarito che “l’applicabilità della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell'intero edificio.
Inoltre, l'applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico. La valutazione, cioè, circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell'incidenza della demolizione sulle opere non abusive.
In sintesi, la verifica ex art. 33, comma 2, va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva, e non dall'Amministrazione procedente all'atto dell'adozione del provvedimento sanzionatorio”.
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1. Con l’ordinanza dirigenziale n. 10 del 28.02.2023 il Comune di Casamicciola Terme ha ordinato nei confronti della ricorrente la demolizione delle seguenti opere: “scala ad unico rampante larg. Mt. 1,00 x  lung. mt 3,50 circa; - Terrazzo a livello mt 3,00 x 2,40 circa; - Locale deposito mt 2,70 x 2,40 x 1,60 circa; - Finestre ad un battente mt 0,70 x 1,60”, realizzate senza titolo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
2. L’atto in parola è stato adottato a seguito di un sopralluogo eseguito in data 16.02.2023 che ha constatato lo stato dei luoghi ed ha accertato che per l’immobile in parola era stata presentata una istanza di condono edilizio ai sensi della legge n. 47/1985 in data 23.03.1986, poi integrata nel 1997.
Successivamente in data 12.05.2015 era stata presentata una SCIA per la realizzazione di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Al momento del sopralluogo, in particolare, è stato rilevato che lo stato dei luoghi non era corrispondente a quanto rappresentato nella istanza di condono edilizio e della SCIA.
Era, infatti, emerso che la rampa scala di accesso all’appartamento (situato al 1° piano del fabbricato) risultava “trasformata da n. 2 rampanti ad un solo rampante con creazione di terrazzo a livello il quale costituisce copertura per un locale deposito al piano terra, nonché realizzazione di una finestra ad un solo battente del soggiorno / cucina. Essendo l’abitazione oggetto di istanza di sanatoria ancora pendente, la scala ad un unico rampante, il terrazzo a livello del primo piano, il locale deposito al piano terra e la finestra del locale soggiorno cucina risultano illegittime”.
2. Con il ricorso in esame è dedotta la illegittimità dell’ordinanza impugnata per molteplici profili di violazione di legge ed eccesso di potere.
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Peraltro, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, “Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è necessaria una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, non essendo possibile scomporne una parte per negare l'assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere” (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 25/05/2020, n. 1960). In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti identificata con riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo immobiliare unitariamente considerato” (TAR, Campania, Napoli, sez. VII, 27/04/2020, n. 1496).
Nel caso in esame, peraltro, alla esecuzione dell’ordine di demolizione consegue il ripristino dello stato dei luoghi e, per quanto qui rileva, la ricostruzione della scala nella sua forma originaria, l’eliminazione del vano deposito e della sua copertura (che costituisce terrazzo), la chiusura della finestra (che si apre sul terrazzo).
Dunque, non è condivisibile la prospettazione difensiva secondo cui dalla eliminazione della scala e del deposito conseguirebbe un irreversibile pregiudizio alla proprietà della ricorrente: l’appartamento potrà essere comunque occupato, salvo il minimo disagio temporale rappresentato dal rifacimento della detta scala.
In ogni caso, la giurisprudenza è ferma nell’affermare che, nel sistema dell’articolo 33 la possibilità di applicare in luogo della sanzione della demolizione la sanzione pecuniaria appartiene a una fase successiva all’ordine di demolizione, nel senso che l’amministrazione è prima tenuta a ordinare il ripristino dello stato dei luoghi; la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria ove il ripristino non sia possibile appartiene infatti alla successiva fase esecutiva; è stato, in tal senso, chiarito che “l’applicabilità della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell'intero edificio. Inoltre, l'applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico. La valutazione, cioè, circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell'incidenza della demolizione sulle opere non abusive. In sintesi, la verifica ex art. 33, comma 2, va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva, e non dall'Amministrazione procedente all'atto dell'adozione del provvedimento sanzionatorio” (Consiglio di Stato sez. VI, 10.01.2020, n. 254) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.04.2024 n. 2256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha statuito che ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A. o SCIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
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4. La ricorrente ha, infine, dedotto (terzo motivo) che il vano posto sotto il terrazzo ed, in precedenza, sotto la precedente scala, costituiva, e costituisce, necessariamente un vano tecnico, in quanto al suo interno sono poste le tubazioni per l’utenza idrica non solo per l’appartamento della ricorrente, bensì, anche per tutto il resto del condominio posto a valle di esso.
Esso pertanto sarebbe sottoposto alle regole dell’edilizia libera.
Il motivo è infondato.
Mediante l’intervento edilizio in contestazione, nel suo complesso considerato, si è determinata una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in zona assoggettata a vincolo paesaggistico e ciò avrebbe richiesto la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica con la conseguenza che la sanzione demolitoria era doverosa.
In proposito, la giurisprudenza ha statuito che ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A. o SCIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (questo Trib., sez. IV, 23.10.2013, n. 4676, sez. VI, 2322/2018) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.04.2024 n. 2256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo l’ordine di demolizione disposto in relazione ad opere di manutenzione ordinaria e straordinaria (nella fattispecie: rimozione degli infissi interni ed esterni nonché dei pavimenti, rifacimento degli impianti e degli intonaci interni ed esterni … trasformazione di tre locali … in un unico ampio locale … realizzazione di tramezzi interni …) che non esigono il permesso di costruire.
   - la diversa distribuzione degli spazi interni, dacché ascrivibile all’orbita della manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001 e della categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017, non necessita di previo rilascio del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica, cosicché non può legittimamente sanzionarsi in via repressivo-ripristinatoria per mancanza di tali titoli abilitativi;
   - tenuto conto anche della previsione del punto 3 della Sezione II – Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016 (secondo cui rientrano nella manutenzione straordinaria «l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio»), «in materia edilizia, la diversa distribuzione degli ambienti interni mediante eliminazione e spostamenti di tramezzature, purché non interessi le parti strutturali dell'edificio, è considerata attività di manutenzione straordinaria», subordinata, come tale, a mera CILA, la cui omissione è sanzionabile in via esclusivamente pecuniaria ai sensi dell’art. 6-bis, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001, mentre, ove incidente sulle parti strutturali del fabbricato, è considerata attività di ristrutturazione edilizia, subordinata, come tale, a SCIA, la cui mancanza è parimenti sanzionabile in via pecuniaria;
   - nel contempo, siffatta tipologia di interventi edilizi figura sottratta al regime abilitativo dell’autorizzazione paesaggistica dall’art. 149, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 («Fatta salva l’applicazione dell’art. 143, comma 4, lett. b), e dell’art. 156, comma 4, non è comunque richiesta l’autorizzazione prescritta dall’articolo 146, dall’art. 147 e dall’art. 159 … per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici») e dal punto A.1 («opere interne che non alterano l'aspetto esteriore degli edifici, comunque denominate ai fini urbanistico-edilizi, anche ove comportanti mutamento della destinazione d'uso») dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017;
   - lo stesso dicasi con riferimento alla sostituzione degli impianti idrici ed elettrici, della pavimentazione interna e degli infissi esterni, nonché al rifacimento degli intonaci esterni;
   - anche tali interventi sono, infatti, al più, ascrivibili alla categoria della manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001, ossia alle «opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico»; tant’è che il citato punto 3 della Sezione II – Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016 annovera nella manutenzione straordinaria le «opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti degli edifici, nonché per realizzare ed integrare o servizi igienico-sanitari e tecnologici»;
   - non solo: la sostituzione e il rinnovamento della pavimentazione (sia interna sia interna), il rifacimento degli intonaci (sia interni sia esterni), la sostituzione e il rinnovamento degli infissi (sia interni sia esterni), degli impianti elettrici, igienici e idro-sanitari sono addirittura annoverati ai punti 1, 2, 6, 17 e 19 del Glossario Edilizia Libera di cui al d.m. 02.03.2018, quali interventi di manutenzione ordinaria;
   - e sono, inoltre, riconducibili, quanto al rifacimento degli intonaci esterni ed alla sostituzione degli infissi, alla categoria A.2 («interventi sui prospetti o sulle coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti, quali: rifacimento di intonaci, tinteggiature, rivestimenti esterni o manti di copertura; opere di manutenzione di balconi, terrazze o scale esterne; integrazione o sostituzione di vetrine e dispositivi di protezione delle attività economiche, di finiture esterne o manufatti quali infissi, cornici, parapetti, lattonerie, lucernari, comignoli e simili») ovvero, comunque, quanto alla sostituzione della pavimentazione interna e degli impianti idrici ed elettrici, alla menzionata categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017;
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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024.
...
Premesso che:
   - col ricorso in epigrafe, la MV.Ho.Co. s.r.l. (in appresso, M.) impugnava, chiedendone l’annullamento, previa sospensione:
      -- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024, emessa, sulla scorta della relazione di sopralluogo prot. n. 1591 del 23.01.2024, dal Responsabile dell’Area Lavori Pubblici del Comune di Castellabate;
      -- l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175 del 21.11.2023;
   - gli abusi contestati con l’adottata misura repressivo-ripristinatoria consistevano, segnatamente, nell’esecuzione, in assenza di idoneo titolo edilizio, nonché in assenza di autorizzazione paesaggistica, di nulla osta dell’Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni (in appresso, Ente Parco) e di valutazione di incidenza ambientale (VINCA), di svariate opere ricondotte alle categorie ex art. 3, comma 1, lett. d) ed e), del d.p.r. n. 380/2001, in corrispondenza della struttura ricettiva denominata “Ho.An.”, ubicata in Castellabate, frazione San Marco, censita in catasto al foglio 23, particella 357, sub 1, ricadente in area classificata come zona B3 (“Residenziale estensiva”) dal vigente Piano regolatore generale (PRG) di Castellabate, assoggettata a vincolo paesaggistico giusta d.m. 04.07.1966 e 28.03.1985, classificata D ((“Urbana e urbanizzabile”) dal Piano del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni (in appresso, Piano del Parco) e Zona di protezione speciale (ZPS) – codice IT8050048 “Costa tra Punta Tresino e le Ripe Rosse” della rete Natura 2000;
   - in dettaglio, si trattava della demolizione delle tramezzature e delle divisioni interne, della rimozione dei pavimenti, degli infissi esterni, degli impianti idrici ed elettrici esistenti, del rifacimento dell’intonaco esterno, della realizzazione di nuovi impianti, dell’esecuzione di nuove distribuzioni interne con elementi in cartongesso;
   - a sostegno dell’esperito gravame, la ricorrente lamentava, in estrema sintesi, che:
      a) in quanto sostanziatisi nella mera rimodulazione degli ambienti interni e nel mero rifacimento dei vetusti impianti esistenti, degli infissi e dell’intonaco esterno, gli interventi contestati sarebbero stati riconducibili all’orbita della manutenzione straordinaria, subordinata alla presentazione della CILA, piuttosto che all’orbita della nuova costruzione o della ristrutturazione edilizia, così come, invece, confusamente indicato nell’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024; per modo che giammai essi avrebbero potuto sanzionarsi in via demolitoria;
      b) per le relative caratteristiche, gli stessi neppure avrebbero necessitato del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, del nulla osta dell’Ente Parco e della VINCA;
      c) in ogni caso, sarebbero stati assistiti dalla SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, i cui effetti abilitativi si sarebbero consolidati senza che fossero stati inibiti tempestivamente né rimossi con i presidi partecipativi e motivazionali propri dell’autotutela decisoria;
      d) sarebbero stati, per di più, assistiti dalla SCIA in sanatoria prot. n. 26581 del 18.12.2023, i cui effetti legittimanti nemmeno sarebbero stati inibiti tempestivamente né rimossi con i presidi partecipativi e motivazionali propri dell’autotutela decisoria ed il cui iter non sarebbe, comunque, risultato perfezionato al momento dell’adozione della misura repressivo-ripristinatoria;
      e) quest’ultima sarebbe stata disposta senza considerare che, mediante la SCIA in sanatoria prot. n. 26581 del 18.12.2023 e la SCIA del 21.12.2023, l’interessata si sarebbe conformata alle indicazioni contenute nell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175 del 21.11.2023;
...
Considerato, innanzitutto, che:
   - la diversa distribuzione degli spazi interni, dacché ascrivibile all’orbita della manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001 e della categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017, non necessitava di previo rilascio del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica, cosicché non avrebbe potuto legittimamente sanzionarsi in via repressivo-ripristinatoria per mancanza di tali titoli abilitativi;
   - tenuto conto anche della previsione del punto 3 della Sezione II – Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016 (secondo cui rientrano nella manutenzione straordinaria «l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio»), questo Tribunale amministrativo regionale ha, infatti, avuto modo di statuire che «in materia edilizia, la diversa distribuzione degli ambienti interni mediante eliminazione e spostamenti di tramezzature, purché non interessi le parti strutturali dell'edificio, è considerata attività di manutenzione straordinaria» (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 848/2020; Napoli, sez. III, n. 2899/2021; Salerno, sez. II, n. 167/2022), subordinata, come tale, a mera CILA, la cui omissione è sanzionabile in via esclusivamente pecuniaria ai sensi dell’art. 6-bis, comma 5, del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 3672/2022), mentre, ove incidente sulle parti strutturali del fabbricato, è considerata attività di ristrutturazione edilizia, subordinata, come tale, a SCIA, la cui mancanza è parimenti sanzionabile in via pecuniaria (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 192/2023);
   - nel contempo, siffatta tipologia di interventi edilizi figura sottratta al regime abilitativo dell’autorizzazione paesaggistica dall’art. 149, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 («Fatta salva l’applicazione dell’articolo 143, comma 4, lettera b), e dell’articolo 156, comma 4, non è comunque richiesta l’autorizzazione prescritta dall’articolo 146, dall’articolo 147 e dall’articolo 159 … per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici») e dal punto A.1 («opere interne che non alterano l'aspetto esteriore degli edifici, comunque denominate ai fini urbanistico-edilizi, anche ove comportanti mutamento della destinazione d'uso») dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017 (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 3672/2022);
   - lo stesso dicasi con riferimento alla sostituzione degli impianti idrici ed elettrici, della pavimentazione interna e degli infissi esterni, nonché al rifacimento degli intonaci esterni;
   - anche tali interventi sono, infatti, al più, ascrivibili alla categoria della manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001, ossia alle «opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico»; tant’è che il citato punto 3 della Sezione II – Edilizia della Tabella allegata al d.lgs. n. 222/2016 annovera nella manutenzione straordinaria le «opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti degli edifici, nonché per realizzare ed integrare o servizi igienico-sanitari e tecnologici»;
   - non solo: la sostituzione e il rinnovamento della pavimentazione (sia interna sia interna), il rifacimento degli intonaci (sia interni sia esterni), la sostituzione e il rinnovamento degli infissi (sia interni sia esterni), degli impianti elettrici, igienici e idro-sanitari sono addirittura annoverati ai punti 1, 2, 6, 17 e 19 del Glossario Edilizia Libera di cui al d.m. 02.03.2018, quali interventi di manutenzione ordinaria;
   - e sono, inoltre, riconducibili, quanto al rifacimento degli intonaci esterni ed alla sostituzione degli infissi, alla categoria A.2 («interventi sui prospetti o sulle coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti, quali: rifacimento di intonaci, tinteggiature, rivestimenti esterni o manti di copertura; opere di manutenzione di balconi, terrazze o scale esterne; integrazione o sostituzione di vetrine e dispositivi di protezione delle attività economiche, di finiture esterne o manufatti quali infissi, cornici, parapetti, lattonerie, lucernari, comignoli e simili») ovvero, comunque, quanto alla sostituzione della pavimentazione interna e degli impianti idrici ed elettrici, alla menzionata categoria A.1 dell’Allegato A al d.p.r. n. 31/2017;
   - a dispetto di quanto ritenuto dall’amministrazione comunale intimata, le opere contestate neppure necessitavano del previo rilascio del nulla osta dell’Ente Parco ex art. 13 della l. n. 391/1991;
   - ciò, in quanto, dapprima, il Responsabile dell’Area Tecnica e Conservazione della Natura dell’Ente Parco, con la circolare del 16.09.2013, prot. n. 14403, ha disposto in via generalizzata il «nulla osta alla realizzazione di tutti gli interventi riconducibili alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell'art. 3 del d.p.r. n. 380/2001 ricadenti in zona D del Piano del Parco e non riguardino immobili ricadenti in zona omogenea A dei PRG», come, appunto, nel caso dell’“Ho.An.”; e in quanto, poi, il Consiglio direttivo dell’Ente Parco, con delibera n. 7 del 27.10.2016, nel dettare le “Linee di indirizzo per semplificazione procedure amministrative dell’Ente Parco”, ha stabilito, all’art. 5, con riguardo alle zone D, che «non sono soggetti a nulla osta dell’Ente Parco tutti gli interventi, impianti, ed opere riconducibili alla definizione di Intervento di cui alle lettere a), b), c), comma 1, dell’art. 3 d.p.r. 380/2001 con la sola esclusione degli interventi nei centri storici, individuati nelle Tavole della serie B3 del Piano del Parco»;
   - sempre a dispetto di quanto ritenuto dall’amministrazione comunale intimata, gli interventi de quibus non erano da intendersi subordinati a VINCA, essendo oggettivamente insuscettibili, per le relative caratteristiche, di incidere sui valori ambientali tutelati dalla rete Natura 2000;
   - in definitiva, il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dall’orientamento, già accreditato dalla Sezione, secondo cui «è illegittimo l’ordine di demolizione disposto in relazione ad opere di manutenzione ordinaria e straordinaria (rimozione degli infissi interni ed esterni nonché dei pavimenti, rifacimento degli impianti e degli intonaci interni ed esterni … trasformazione di tre locali … in un unico ampio locale … realizzazione di tramezzi interni …) che non esigono il permesso di costruire» (sent. n. 857/2023, in senso adesivo a TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 2803/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.04.2024 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa il modello legale tipizzato dall’art. 19, commi 3, 4 e 6-bis, della l. n. 241/1990:
   - la giurisprudenza interpreta il suindicato disposto normativo in modo rigoroso, nel senso che il decorso del termine di 30 giorni per l'esercizio del potere interdittivo comporti la definitiva consumazione di quest’ultimo e il consolidamento della situazione soggettiva del segnalante, residuando, in capo all'amministrazione, a fronte di un'attività esulante dal perimetro normativamente consentito, il solo potere di autotutela, da esercitarsi nel rispetto dei presupposti di legge, previa comunicazione di avvio del procedimento di secondo grado;
   - tale prerogativa residuale –con cui il Comune avrebbe potuto, per mera ipotesi, rimediare all’intempestiva adozione della misura inibitoria– condivide, infatti, i principi regolatori legislativamente sanciti, in materia di autotutela, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in gioco, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al segnalante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere interdittivo;
   - in particolare, va ricordato che l’adempimento dell’obbligo informativo ex art. 7 della l. n. 241/1990 costituisce espressione del principio generale di partecipazione procedimentale, diretto a garantire l'instaurazione di un contraddittorio tra le parti interessate in relazione a tutti gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della decisione finale e riveste un sicuro maggiore spessore proprio nei casi in cui viene esercitato il potere di autotutela, sia tipica (tramite autoannullamento di un atto amministrativo, espresso o tacito, ex ante favorevolmente adottato) sia atipica (tramite sterilizzazione degli effetti della SCIA presentata da tempo superiore a quello superiore a quello richiesto per il relativo consolidamento);
   - in base a tali direttive ermeneutiche, l’acclarata cristallizzazione degli effetti sananti della SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, imponeva all’ente locale intimato di rimuovere eventualmente gli stessi nel rispetto delle condizioni per l’esercizio dell’autotutela decisoria in punto di presidi partecipativi e motivazionali, nonché di limiti temporali sanciti dall’ordinamento a beneficio dell’affidamento ingenerato nel soggetto privato segnalante;
   - l’ordinanza di demolizione è da reputarsi, dunque, illegittima, in quanto emessa dopo lo spirare del termine di 30 giorni previsto per il consolidamento della SCIA, senza il ricorso alle forme ed ai canoni procedimentali propri dell’autotutela decisoria (ossia senza la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della l. n. 241/1990, senza alcuna ponderazione ed esternazione circa prevalenza dell’interesse pubblico all’interdizione degli effetti abilitativi della SCIA rispetto all’antagonistico interesse privato alla loro conservazione e senza raccordo alla prevista soglia temporale di reazione in autotutela): diversamente opinando, si finirebbe per negare ogni rilevanza alla prescrizione di legge secondo cui l'amministrazione può e deve inibire i lavori entro 30 giorni e si introdurrebbe nel sistema un elemento di profonda incertezza, rendendo necessario individuare, nel silenzio della legge, quale possa essere il "termine ragionevole" entro il quale l'amministrazione può incidere sul titolo di legittimazione edilizia senza motivare sull'interesse pubblico alla rimozione dei relativi effetti abilitativi;
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L'ordinanza di demolizione è da reputarsi illegittima anche in quanto emessa in pendenza dell’iter di sanatoria avviato con la SCIA del 18.12.2023, prot. n. 26581, giusta apposita comunicazione del Comune.
Tanto, in omaggio ai principi di economicità e di coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente sanzionare un’attività edilizia che potrebbe essere legittimata ex post; ciò,
   - in quanto l'esecuzione della misura ripristinatoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 37 del d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la sanatoria delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento o l'eliminazione di queste ultime, e determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti di cui potrebbe assentirsi la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire; e
   - in quanto il potere repressivo verrebbe esercitato in base a presupposti malfermi (la sanabilità o meno delle opere) che pregiudicano le condizioni giuridiche e materiali necessarie perché si dispieghino gli effetti giuridici riconducibili all'eventuale rilascio del titolo in sanatoria.
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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024.
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Premesso che:
   - col ricorso in epigrafe, la MV.Ho.Co. s.r.l. (in appresso, M.) impugnava, chiedendone l’annullamento, previa sospensione:
      -- l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024, emessa, sulla scorta della relazione di sopralluogo prot. n. 1591 del 23.01.2024, dal Responsabile dell’Area Lavori Pubblici del Comune di Castellabate;
      -- l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175 del 21.11.2023;
   - gli abusi contestati con l’adottata misura repressivo-ripristinatoria consistevano, segnatamente, nell’esecuzione, in assenza di idoneo titolo edilizio, nonché in assenza di autorizzazione paesaggistica, di nulla osta dell’Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni (in appresso, Ente Parco) e di valutazione di incidenza ambientale (VINCA), di svariate opere ricondotte alle categorie ex art. 3, comma 1, lett. d) ed e), del d.p.r. n. 380/2001, in corrispondenza della struttura ricettiva denominata “Ho.An.”, ubicata in Castellabate, frazione San Marco, censita in catasto al foglio 23, particella 357, sub 1, ricadente in area classificata come zona B3 (“Residenziale estensiva”) dal vigente Piano regolatore generale (PRG) di Castellabate, assoggettata a vincolo paesaggistico giusta d.m. 04.07.1966 e 28.03.1985, classificata D ((“Urbana e urbanizzabile”) dal Piano del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni (in appresso, Piano del Parco) e Zona di protezione speciale (ZPS) – codice IT8050048 “Costa tra Punta Tresino e le Ripe Rosse” della rete Natura 2000;
   - in dettaglio, si trattava della demolizione delle tramezzature e delle divisioni interne, della rimozione dei pavimenti, degli infissi esterni, degli impianti idrici ed elettrici esistenti, del rifacimento dell’intonaco esterno, della realizzazione di nuovi impianti, dell’esecuzione di nuove distribuzioni interne con elementi in cartongesso;
   - a sostegno dell’esperito gravame, la ricorrente lamentava, in estrema sintesi, che:
      a) in quanto sostanziatisi nella mera rimodulazione degli ambienti interni e nel mero rifacimento dei vetusti impianti esistenti, degli infissi e dell’intonaco esterno, gli interventi contestati sarebbero stati riconducibili all’orbita della manutenzione straordinaria, subordinata alla presentazione della CILA, piuttosto che all’orbita della nuova costruzione o della ristrutturazione edilizia, così come, invece, confusamente indicato nell’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024; per modo che giammai essi avrebbero potuto sanzionarsi in via demolitoria;
      b) per le relative caratteristiche, gli stessi neppure avrebbero necessitato del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, del nulla osta dell’Ente Parco e della VINCA;
      c) in ogni caso, sarebbero stati assistiti dalla SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, i cui effetti abilitativi si sarebbero consolidati senza che fossero stati inibiti tempestivamente né rimossi con i presidi partecipativi e motivazionali propri dell’autotutela decisoria;
      d) sarebbero stati, per di più, assistiti dalla SCIA in sanatoria prot. n. 26581 del 18.12.2023, i cui effetti legittimanti nemmeno sarebbero stati inibiti tempestivamente né rimossi con i presidi partecipativi e motivazionali propri dell’autotutela decisoria ed il cui iter non sarebbe, comunque, risultato perfezionato al momento dell’adozione della misura repressivo-ripristinatoria;
      e) quest’ultima sarebbe stata disposta senza considerare che, mediante la SCIA in sanatoria prot. n. 26581 del 18.12.2023 e la SCIA del 21.12.2023, l’interessata si sarebbe conformata alle indicazioni contenute nell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2175 del 21.11.2023;
...
Considerato, poi, che:
   - l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 risulta emessa tardivamente, ossia oltre il previsto termine di 30 giorni dalla presentazione della SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916 (della quale lo stesso Comune di Castellabate sembra contraddittoriamente postulare l’idoneità abilitativa rispetto alle opere controverse, allorquando ha espressamente qualificato queste ultime in termini di ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001), e al di fuori del modello legale tipizzato dall’art. 19, commi 3, 4 e 6-bis, della l. n. 241/1990;
   - la normativa citata stabilisce che: «3. L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l'attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l'amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l'adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l'attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell'interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l'amministrazione dispone la sospensione dell'attività intrapresa. L'atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l'adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata.
4. Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies. (…).
6-bis. Nei casi di SCIA in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal d.p.r. 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali
»;
   - la giurisprudenza interpreta il suindicato disposto normativo in modo rigoroso, nel senso che il decorso del termine di 30 giorni per l'esercizio del potere interdittivo comporti la definitiva consumazione di quest’ultimo e il consolidamento della situazione soggettiva del segnalante, residuando, in capo all'amministrazione, a fronte di un'attività esulante dal perimetro normativamente consentito, il solo potere di autotutela, da esercitarsi nel rispetto dei presupposti di legge, previa comunicazione di avvio del procedimento di secondo grado (cfr., ex multis, TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, n. 517/2017; TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 177/2020; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 712/2018; n. 1276/2020; n. 535/2021; Napoli, sez. VIII, n. 7037/2021);
   - tale prerogativa residuale –con cui il Comune di Castellabate avrebbe potuto, per mera ipotesi, rimediare all’intempestiva adozione della misura inibitoria– condivide, infatti, i principi regolatori legislativamente sanciti, in materia di autotutela, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in gioco, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al segnalante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere interdittivo (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 2106/2016; Salerno, sez. II, n. 1753/2017; n. 224/2018; TAR Puglia, Bari, sez. III, n. 9/2019);
   - in particolare, va ricordato che l’adempimento dell’obbligo informativo ex art. 7 della l. n. 241/1990 costituisce espressione del principio generale di partecipazione procedimentale, diretto a garantire l'instaurazione di un contraddittorio tra le parti interessate in relazione a tutti gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della decisione finale e riveste un sicuro maggiore spessore proprio nei casi in cui viene esercitato il potere di autotutela, sia tipica (tramite autoannullamento di un atto amministrativo, espresso o tacito, ex ante favorevolmente adottato: cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 4327/2019; sez. IV, n. 2376/2022; TAR Lombardia, Milano, sez. III, n. 321/2020; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1117/2019; n. 2789/2022; Napoli, sez. VIII, n. 3924/2021; sez. VII, n. 2293/2022) sia atipica (tramite sterilizzazione degli effetti della SCIA presentata da tempo superiore a quello superiore a quello richiesto per il relativo consolidamento: cfr., ex multis, TAR Campania, Salerno sez. I, n. 877/2021; Napoli, sez. II, n. 1860/2020);
   - in base a tali direttive ermeneutiche, l’acclarata cristallizzazione degli effetti sananti della SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, imponeva all’ente locale intimato di rimuovere eventualmente gli stessi nel rispetto delle condizioni per l’esercizio dell’autotutela decisoria in punto di presidi partecipativi e motivazionali, nonché di limiti temporali sanciti dall’ordinamento a beneficio dell’affidamento ingenerato nel soggetto privato segnalante (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2842/2016; n. 2751/2017; sez. II, n. 8388/2019);
   - l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 è da reputarsi, dunque, illegittima, in quanto emessa dopo lo spirare del termine di 30 giorni previsto per il consolidamento della SCIA del 28.06.2022, prot. n. 12916, senza il ricorso alle forme ed ai canoni procedimentali propri dell’autotutela decisoria (ossia senza la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della l. n. 241/1990, senza alcuna ponderazione ed esternazione circa prevalenza dell’interesse pubblico all’interdizione degli effetti abilitativi della SCIA rispetto all’antagonistico interesse privato alla loro conservazione e senza raccordo alla prevista soglia temporale di reazione in autotutela): diversamente opinando, si finirebbe per negare ogni rilevanza alla prescrizione di legge secondo cui l'amministrazione può e deve inibire i lavori entro 30 giorni e si introdurrebbe nel sistema un elemento di profonda incertezza, rendendo necessario individuare, nel silenzio della legge, quale possa essere il "termine ragionevole" entro il quale l'amministrazione può incidere sul titolo di legittimazione edilizia senza motivare sull'interesse pubblico alla rimozione dei relativi effetti abilitativi (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. I, n. 2488/2016; TAR Lazio, Latina, n. 290/2018; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1276/2020; n. 535/2021; n. 2611/2021; n. 3499/2022);
Considerato, infine, che:
   - l’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 è da reputarsi illegittima, anche in quanto emessa in pendenza dell’iter di sanatoria avviato con la SCIA del 18.12.2023, prot. n. 26581, giusta apposita comunicazione del Comune di Castellabate prot. n. 2044 del 30.01.2024;
   - tanto, in omaggio ai principi di economicità e di coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente sanzionare un’attività edilizia che potrebbe essere legittimata ex post; ciò, in quanto l'esecuzione della misura ripristinatoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 37 del d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la sanatoria delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento o l'eliminazione di queste ultime, e determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti di cui potrebbe assentirsi la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 226/2007; n. 4335/2009; TAR Campania Napoli, sez. VII, n. 890/2011; sez. II, n. 1120/2017; TAR Abruzzo, L'Aquila, n. 311/2016); e in quanto il potere repressivo verrebbe esercitato in base a presupposti malfermi (la sanabilità o meno delle opere) che pregiudicano le condizioni giuridiche e materiali necessarie perché si dispieghino gli effetti giuridici riconducibili all'eventuale rilascio del titolo in sanatoria (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, n. 189/2017);
Ritenuto, in conclusione, che:
   - stante la sua ravvisata fondatezza nei profili dianzi scrutinati, ed assorbiti quelli ulteriori, il ricorso in epigrafe va accolto, con conseguente annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 2177 del 23.01.2024 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.04.2024 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Principio di continuità della progettazione e superamento del divieto di appalto integrato.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Principio di continuità della progettazione – Non preclusione dell’affidamento disgiunto – Divieto di appalto integrato - Suo superamento nel nuovo codice.
Nel nuovo codice, il principio di continuità della progettazione si pone a fondamento dell’art. 41, comma 8, il quale stabilisce che alla redazione del progetto esecutivo provvede, di regola, lo stesso soggetto che ha predisposto il progetto di fattibilità tecnico-economica, per evidenti ragioni connesse alle garanzie di coerenza e speditezza.
L’affidamento disgiunto non è precluso, imponendosi, però, l’esplicitazione delle ragioni per le quali si rende necessario, nonché l’accettazione da parte del nuovo progettista, senza riserve, dell’attività progettuale svolta in precedenza.
Il divieto di cumulo della qualità di progettista e di esecutore dei lavori per la stessa opera pubblica, per contro, mira ad evitare che, nella fase di selezione dell’appaltatore dei lavori, sia attenuata la valenza pubblicistica della progettazione di opere pubbliche, scongiurando che gli interessi di carattere generale ad essa sottesi siano sviati a favore dell’interesse privato di un operatore economico e che la competizione per aggiudicarsi i lavori sia falsata a vantaggio dello stesso operatore.
Il divieto de quo si propone di assicurare le condizioni di indipendenza ed imparzialità del progettista rispetto all’esecutore dei lavori, necessarie anche affinché il primo possa svolgere nell’interesse della stazione appaltante la funzione di direzione dei lavori e di coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione dell’appalto.
Detta ratio è alla base anche della previsione del divieto di appalto integrato (oggetto di sospensione fino al 30.06.2023), che, nel nuovo codice, è superato nella ricorrenza di presupposti indicati nell’art. 44, adottato in attuazione di quanto indicato nella legge delega, recante l’affidamento al legislatore del compito di individuare le ipotesi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere all'affidamento congiunto della progettazione e dell'esecuzione dei lavori, fermi restando il possesso della necessaria qualificazione per la redazione dei progetti nonché l'obbligo di indicare nei documenti di gara o negli inviti le modalità per la corresponsione diretta al progettista, da parte delle medesime stazioni appaltanti, della quota del compenso corrispondente agli oneri di progettazione indicati espressamente in sede di offerta dall'operatore economico, al netto del ribasso d'asta. (1)

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   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 19.12.2023 n. 11024; Cons. Stato, sez. V, 01.07.2022, n. 5499; C.G.A.R.S., 30.09.2022, n. 972; Cons. Stato, sez. V, 14.05.2018, n. 2853; Cons. Stato, sez. V, 21.06.2012, n. 3656; Cons. Stato, sez. V, 09.04.2020, n. 2333; Cons. Stato, sez. V, 17.04.2017, n. 3779; Cons. Stato, sez. V, 02.12.2015, n. 5454
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.04.2024 n. 3007 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
13. I motivi sono destituiti di fondamento.
13.1. L’art. 24, comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 invocato da parte appellante a sostegno delle articolate censure riguarda la “(…) Progettazione interna e esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici. (…)” ed è pertanto relativo alle gare per appalti di lavori, impedendo -con i temperamenti di seguito indicati- ai soggetti che hanno svolto la progettazione di lavori pubblici di partecipare al relativo appalto per l’esecuzione dei lavori progettati.
Tale disposto normativo è pertanto applicabile solo nel rapporto fra progettazione ed esecuzione dei lavori e non già nel rapporto fra diversi livelli di progettazione, come evincibile dalla diversità di disciplina posta dagli artt. 23, comma 12, e 24, comma 7, del d.lgs. n. 50 del 2016.
13.1.1. Ed invero l’art. 23, comma 12, prescrive che “Le progettazioni definitiva ed esecutiva sono, preferibilmente, svolte dal medesimo soggetto, onde garantire omogeneità e coerenza al procedimento. In caso di motivate ragioni di affidamento disgiunto, il nuovo progettista deve accettare l'attività progettuale svolta in precedenza. In caso di affidamento esterno della progettazione che ricomprenda, entrambi i livelli di progettazione, l'avvio della progettazione esecutiva è condizionato alla determinazione delle stazioni appaltanti sulla progettazione definitiva. In sede di verifica della coerenza tra le varie fasi della progettazione, si applica quanto previsto dall'articolo 26, comma 3. (…).”.
13.1.2. Detto disposto normativo esprime un principio generale di “continuità”, della progettazione che può riferirsi anche alla fase precedente del PFTE, laddove l’Amministrazione si sia avvalsa per la relativa predisposizione di un professionista esterno.
Ciò si evince anche dalla previsione del nuovo codice, approvato con d.lgs. n. 36 del 2023, che sebbene non applicabile ratione termporis alla fattispecie di cui è causa, può essere utilizzato in via interpretativa. Ed invero nel nuovo codice il principio di continuità della progettazione è ulteriormente valorizzato, essendo a fondamento della previsione contenuta nel comma 8 dell’art. 41 che prevede –stante l’avvenuta eliminazione del livello della progettazione definitiva– che alla redazione del progetto esecutivo provvede, di regola, lo stesso soggetto che ha predisposto il progetto di fattibilità tecnico-economica, per evidenti ragioni connesse alle garanzie di coerenza e speditezza.
L’affidamento disgiunto non è precluso, imponendosi, però, l’esplicitazione delle ragioni per le quali si rende necessario, nonché l’accettazione da parte del nuovo progettista, senza riserve, dell’attività progettuale svolta in precedenza (in tal senso la relazione al codice redatta ad opera del Consiglio di Stato).
13.1.3. Il divieto di cumulo della qualità di progettista e di esecutore dei lavori per la stessa opera pubblica ha per contro, secondo la costante giurisprudenza in materia, la duplice funzione di evitare, nella fase di selezione dell’appaltatore dei lavori, che sia «attenuata la valenza pubblicistica della progettazione» di opere pubbliche (così: Cons. Stato, V, 21.06.2012, n. 3656), e cioè che gli interessi di carattere generale ad essa sottesi siano sviati a favore dell’interesse privato di un operatore economico, con la predisposizione di progetto da mettere a gara ritagliato “su misura” per quest’ultimo, anziché per l’amministrazione aggiudicatrice, e che la competizione per aggiudicarsi i lavori sia perciò falsata a vantaggio dello stesso operatore (così testualmente Cons. Stato, V, 09.04.2020, n. 2333, che richiama, id. 17.04.2017, n. 3779 e 02.12.2015, n. 5454).
Detta ratio è alla base anche della previsione del divieto di appalto integrato contenuto nell’art. 59, comma 1, del d.lgs. 50 del 2016, con salvezza delle eccezioni normativamente indicate.
Peraltro occorre rammentare che tale ultimo divieto è stato oggetto di sospensione fino al 30.06.2023 per effetto dell’art. 1, comma 1, lett. b), della l. n. 55 del 2019, come modificata dall'art. 8, comma 7, del d.l. n. 76 del 2020, convertito nella l. 120 del 2020, ed ancora, per effetto del differimento previsto dall’art. 52, comma 1, lett. a), della l. n. 108 del 2021; va, inoltre, considerato che proprio per gli appalti nell'ambito del PNRR/PNC l’affidamento di progettazione ed esecuzione è ammesso sulla base di quanto previsto dall’art. 48, comma 5, del d.l. n. 77 del 2021, convertito nella l. n. 108 del 2021.
Infine nel nuovo codice, approvato con d.l.gs. n. 36 del 2023, il divieto di appalto integrato può dirsi superato nella ricorrenza di presupposti indicati nell’art. 44, adottato in attuazione di quanto indicato nella legge delega, con cui si è affidato al legislatore delegato il compito di individuare le “ipotesi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere all'affidamento congiunto della progettazione e dell'esecuzione dei lavori, fermi restando il possesso della necessaria qualificazione per la redazione dei progetti nonché l'obbligo di indicare nei documenti di gara o negli inviti le modalità per la corresponsione diretta al progettista, da parte delle medesime stazioni appaltanti, della quota del compenso corrispondente agli oneri di progettazione indicati espressamente in sede di offerta dall'operatore economico, al netto del ribasso d'asta” (art. 1, comma 2, lett. ee), della l. n. 78 del 2022).
13.2. Ciò posto, il divieto di cui all’art. 24, comma 7, del d.l.gs. n. 50 del 2016 si propone tra l’altro di assicurare le condizioni di indipendenza ed imparzialità del progettista rispetto all’esecutore dei lavori, necessarie anche affinché il primo possa svolgere nell’interesse della stazione appaltante la funzione di direzione dei lavori e di coordinatore della sicurezza nella fase dell’esecuzione dell’appalto; anche sotto questo profilo pertanto lo stesso non è estensibile alla procedura di gara per l’affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva.
13.2.1. Peraltro, secondo quanto già affermato in giurisprudenza (anche in riferimento all’analoga disciplina dell’art. 90, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006), si tratta di disposizione che, ponendo una presunzione iuris tantum, prevede un’ipotesi tipica di conflitto di interesse tale per cui i progettisti e i titolari di incarichi di supporto alla progettazione non possono di regola essere affidatari degli appalti di esecuzione di lavori, a meno che non dimostrino che “l’esperienza acquisita” non sia (stata) tale da determinare “un vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.12.2023 n. 11024; Cons. Stato, sez. V, 01.07.2022, n. 5499; C.G.A.R.S., 30.09.2022, n. 972; cfr., per l’affermazione della presunzione di vantaggio goduta dal progettista, che impone la prova contraria, con “inversione normativa dell’onere della prova”, anche Cons. Stato, sez. V, 14.05.2018, n. 2853).
La stazione appaltante perciò, quando sussiste una situazione di presunto conflitto di interessi ai sensi dell’art. 24, comma 7, del d.lgs. n. 50 del 2016, deve ammettere la concorrente alla prova contraria e deve valutare gli elementi addotti dalla medesima, prima di procedere all’esclusione o alla revoca dell’aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.04.2020, n. 2333, in riferimento all’analoga disciplina dell’art. 90, comma 8 e 8-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006).
In sintesi, la predisposizione di un progetto di opera pubblica da parte di un professionista privato non comporta alcun automatismo escludente per il suo concorso all’affidamento dei relativi lavori, ma deve essergli consentito di dimostrare che dalla redazione del progetto a base di gara non gli è derivato alcun vantaggio competitivo, in conformità al principio di proporzionalità di matrice euro-unitaria (cui si deve l’inserimento della regola, che risale alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 03.03.2005, C-21/03 e 34/03, Fabricom SA; la sua positivizzazione nell’ordinamento giuridico nazionale, con legge 30.10.2014, n. 161 -Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013-bis- è stata poi indotta dalla necessità di chiudere la procedura di infrazione comunitaria Eu Pilot 4860/13/MARKT avviata nei confronti dell’Italia).
In altri termini, se non vi è un divieto partecipativo assoluto e aprioristico conseguente all’avvenuta predisposizione del progetto, bensì un necessario accertamento da eseguire nel caso concreto in ordine alla posizione di vantaggio goduta dal progettista (Cons. Stato, Comm. spec., parere 03.11.2016, n. 2285), vi è nondimeno una presunzione normativa d’incompatibilità che l’interessato deve ribaltare (Cons. Stato, V, n. 5499/2022, cit.).
Può infine aggiungersi che, per le Linee guida Anac n. 1, approvate con delibera n. 973 del 14.09.2016, e aggiornate con le delibere n. 138 del 21.02.2018 e n. 417 del 15.05.2019, secondo quanto previsto nel par. n. 2.2 ai fini della prova ex art. 24, comma 7, d.lgs. 50 del 2016, idonea a superare la predetta presunzione, è “almeno necessario”, in coerenza con quanto previsto per le consultazioni preliminari di mercato, che le stesse informazioni in possesso del progettista siano messe a disposizione di tutti gli altri candidati e offerenti, con la previsione di un termine per la ricezione delle loro offerte idoneo a consentire loro di elaborarle. Secondo quanto di recente precisato (Cons. Stato, sez. V, 16.01.2023, n. 511), “La regola è stata condivisa da questa Sezione del Consiglio di Stato, che ha anche ritenuto a tale fine la congruità del termine di 35 giorni (n. 5499/2022)”.
13.3. Per contro nell’ipotesi di specie non opera il divieto de quo –peraltro non di carattere assoluto, come innanzi precisato– in quanto come ritenuto dalla giurisprudenza di questa sezione (Cons. Stato, sez. V, 14.05.2018, n. 2853 par. 13.6) <<è palese la diversità di situazioni (sulla quale è sufficiente fare rinvio, tra le altre, a Cons. Stato, V, 02.12.2015, n. 5454, laddove, richiamando anche il precedente di Cons. Stato, V, 21.06.2012, n. 3656, si evidenzia come la ratio del divieto di legge consiste “nell’esigenza di garantire che il progettista si collochi in posizione di imparzialità rispetto all’appaltatore-esecutore dei lavori”, quindi nell’evitare che coincidano le posizioni di progettista e di appaltatore-esecutore dei lavori; rischio, quest’ultimo che non ricorre nei rapporti tra progettazione preliminare e livelli ulteriori di progettazione)>>).
13.4. Peraltro, ai fini della delibazione della questione de qua, come evidenziato dalla provincia di Pisa, occorre tenere conto non tanto del disposto dell’art. 24, comma 7, innanzi indicato, ma del disposto dell’art. 67, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici, secondo i quali l’esclusione dalla partecipazione alla gara di un operatore economico che abbia in qualche modo partecipato alla preparazione della procedura di gara è concepita come un’extrema ratio, ovvero solo laddove non sia possibile garantire il rispetto del principio di par condicio competitorum, come evincibile anche dalla previsione dell’art. 80, comma 5, lett. e), del codice che prevede quale ipotesi di esclusione la fattispecie in cui “una distorsione della concorrenza derivante dal precedente coinvolgimento degli operatori economici nella preparazione della procedura d'appalto di cui all'articolo 67 non possa essere risolta con misure meno intrusive”.
Previsione questa del tutto coerente con il principio di tassatività delle cause di esclusione codificato dall’art. 83, comma 8, d.l.gs. n. 50 del 2016 in applicazione del quale la giurisprudenza ha ritenuto che "le norme di legge e di bando che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche devono essere interpretate nel rispetto del principio di tipicità e tassatività delle cause di esclusione, che di per sé costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, oltre che dal Trattato dell’Unione Europea” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 11.02.2013, n. 768; nello stesso senso: sez. V, 21.06.2016, n. 2722, sez. V, 13.05.2014, n. 2448 e sez. V, 21.02.2013, n. 1061).
Ad analoghe conclusioni deve pertanto pervenirsi in applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. e), del d.lgs. n. 50 del 2016 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.04.2024 n. 3007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce principio condiviso dalla Sezione quello per cui:
   “Il dovere di provvedere della P.A. può sorgere sia in relazione all'obbligo di concludere un procedimento che deve essere avviato ad istanza di parte o d'ufficio (comma 1, art. 2, legge n. 241 del 1990) oppure "negli altri casi previsti dalla legge" (comma 1 dell'art. 31 c.p.a.).
   In caso di mancata conclusione del procedimento oppure negli "altri casi previsti dalla legge", il soggetto interessato dal provvedimento può agire, ai sensi degli artt. 31, commi 2 e 3, e 117, c.p.a., per l'accertamento del silenzio serbato dell'amministrazione e chiedere la condanna a provvedere.
   Sussiste l'obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari dove ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi tutte le volte in cui in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione”.
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... avverso il silenzio serbato da parte del Comune di Scafati in ordine all’istanza presentata dalla ricorrente in data 04/09/2023 a mezzo pec prot. n. 48857, con la quale è stata richiesta la conclusione del procedimento amministrativo di cui alla variante al permesso di costruire convenzionato ex art. 28-bis T.U. Ed. n. 28 del 2020.
...
Il presente ricorso è proposto avverso il silenzio serbato dal Comune di Scafati in ordine all’istanza della ricorrente con cui è stata richiesta la conclusione del procedimento di variante al permesso di costruire convenzionato ex art. 28-bis D.P.R. n. 380/2001.
Deduce la ricorrente di aver presentato diverse S.C.I.A. in variante al permesso di costruire convenzionato e di aver depositato, a seguito di interlocuzione con l’ente comunale, una richiesta di permesso di costruire in variante, sicché l’amministrazione comunale avrebbe dovuto inviare la bozza di convenzione annessa alla citata variante ai fini della relativa approvazione in Consiglio Comunale.
Rappresenta di aver sollecitato più volte il Comune ad attivarsi, senza alcun esito.
Si è costituito in resistenza il Comune di Scafati contestando la sussistenza nella specie sia dell’obbligo giuridico di provvedere che del termine per la conclusione del procedimento, in quanto l’art. 28-bis del T.U. Edilizia richiede solo il passaggio in C.C. per l’approvazione della convenzione ma non esplicita un termine per la conclusione del relativo procedimento, né un termine di conclusione finale è stato previsto con la diffida di parte.
La ricorrente ha replicato che sussiste ex lege l’obbligo di trasmissione della convenzione al Consiglio Comunale.
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Invero, costituisce principio condiviso dalla Sezione quello per cui: “Il dovere di provvedere della P.A. può sorgere sia in relazione all'obbligo di concludere un procedimento che deve essere avviato ad istanza di parte o d'ufficio (comma 1, art. 2, legge n. 241 del 1990) oppure "negli altri casi previsti dalla legge" (comma 1 dell'art. 31 c.p.a.).
In caso di mancata conclusione del procedimento oppure negli "altri casi previsti dalla legge", il soggetto interessato dal provvedimento può agire, ai sensi degli artt. 31, commi 2 e 3, e 117, c.p.a., per l'accertamento del silenzio serbato dell'amministrazione e chiedere la condanna a provvedere. Sussiste l'obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari dove ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi tutte le volte in cui in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione
” (TAR Lazio Roma, Sez. II, 28/04/2020, n. 4333).
Sussiste pertanto nel caso di specie l’inerzia ingiustificata dell’amministrazione, la quale, avendo ricevuto dalla ricorrente l’istanza di variante del permesso di costruire convenzionato, ha attivato il relativo procedimento, che però non risulta a tutt’oggi concluso nonostante i plurimi solleciti della società, rimasti inevasi.
Il Tribunale ordina, quindi, al Comune di Scafati di provvedere sull’istanza presentata dalla ricorrente in data 04/09/2023 a mezzo pec prot. n. 48857, con la quale è stata richiesta la conclusione del procedimento amministrativo di cui alla variante al permesso di costruire convenzionato ex art. 28-bis T.U.Ed. n. 28 del 2020, entro il termine di novanta (90) giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.
Qualora, decorso tale termine, l’Amministrazione perduri nella sua inerzia, il Collegio nomina sin d’ora, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Salerno, con facoltà di delega ad altro pubblico dirigente o funzionario, non necessariamente appartenente al suo ufficio, affinché si sostituisca all’Amministrazione inadempiente nel riscontrare l’istanza di cui sopra entro l’ulteriore termine di novanta (90) giorni dietro presentazione di specifica istanza di parte ricorrente; ed il cui eventuale compenso, che sin d’ora si fissa in € 1.000,00 (millecinquecento/00), oltre spese vive documentate, pone sin d’ora a carico del Comune di Scafati (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.04.2024 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire convenzionato – Art. 28-bis D.P.R. n. 380/2001 – Provvedimento di rigetto – Commissario ad acta – Motivazione provvedimento – Non indicazione ragioni ostative all’intervento – Decadenza dei Piani di zona per l’edilizia economica e popolare – Non incompatibile – Rilascio di permesso di costruire convenzionato.
Deve essere annullato il provvedimento del Commissario ad acta, emesso in esecuzione di sentenza del giudice amministrativo e relativo al rigetto delle richieste di permesso di costruire convenzionato, laddove il medesimo non spieghi in motivazione la ragione della dedotta inapplicabilità al caso di specie dell’art. 28-bis del D.P.R. n. 380/2001.
La decadenza dei Piani di zona per l’edilizia economica e popolare (facendo salvo il vincolo conformativo derivante dalle destinazioni di zona che il Piano, in quanto strumento attuativo del P.R.G., pone) non appare di per sé incompatibile con il rilascio di un permesso di costruire convenzionato, il quale costituisce strumento utilizzabile in tutte le situazioni nella quali le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.04.2024 n. 757 - link a www.ambientediritto.it).
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Il reclamo è fondato e va accolto.
Innanzitutto, è fondata l’eccezione preliminare sollevata, posto che la sentenza da eseguire riguardava solo la domanda di permesso di costruire avanzata in data 28.10.2019 prot. n. 36804, non la domanda di pari data avente prot. n. 36805, su cui, quindi, il Commissario non aveva il potere di provvedere.
Inoltre, con riferimento al rigetto della richiesta di permesso di costruire convenzionato ai sensi dell’art. 28-bis del D.P.R. n. 380/2001 prot. n. 36804, risulta fondata l’ulteriore doglianza secondo cui: “I motivi rappresentati dal commissario non indicano alcuna ragione ostativa all’intervento richiesto, limitandosi a fare un raffronto delle particelle indicate, e sostenendo che l’intera area interessata sia oggetto di eventuale autorizzazione paesaggistica”.
Effettivamente, da quel che è dato comprendere in base alla lettura del provvedimento (che non distingue specificamente le aree rispettivamente oggetto delle due domande di permesso di costruire convenzionato erroneamente accorpate), la motivazione consisterebbe in ciò: “L’area di proprietà dei richiedenti, come riportato in relazione, e riportata catastalmente al foglio di mappa n. 12 particelle nn. 2304, 1070, 932, 1657, 2306, 2423, 2424, 2595, è sottoposta alle disposizioni contenute nella parte terza del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio di cui al D.Lgs n. 42 del 22.01.2004 e ss.mm.ii. per effetto del D.M. 07.06.1967, e pertanto assoggettata ad Autorizzazione Paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 e ss.mm.ii.”.
L’unico altro cenno motivazionale è il richiamo alle “note istruttorie” del Comune e segnatamente, per quanto qui interessa, ai motivi indicati nella proposta di provvedimento dal Comune prot. n. 21229 del 19.05.2023.
In essa si legge che: “per l’area riportata catastalmente al foglio di mappa n. 12 particella n. 2423 (parte) la richiesta di Permesso di Costruire per l’edificazione deve tener conto del PEEP già vigente e approvato con D.M. n. 181 del 16.06.1971 e successivamente, ai sensi dell’art. 34 della legge 865/1971 rimodulato ed approvato con Delibera di C.C. n. 73 del 1987 i cui parametri urbanistici sono disciplinati dalle Norme Tecniche di Attuazione ivi allegate, visto che tale area indicata nella Tavola 4 della progettazione, è individuata dal “lotto n. 36 Tipo F” che era (ed è) di tipo edificabile del PEEP suddetto”.
Da ciò, il Comune prima e il Commissario poi fanno discendere l’inapplicabilità dell’art. 28-bis del D.P.R. n. 380/2001.
Orbene, anche a prescindere al fatto che la contestazione riguarda solo una parte di una singola particella, rispetto a tutte quelle considerate, deve rilevarsi che il provvedimento non spiega il motivo della dedotta inapplicabilità, atteso che la decadenza dei Piani di zona per l’edilizia economica e popolare (facendo salvo il vincolo conformativo derivante dalle destinazioni di zona che il Piano, in quanto strumento attuativo del P.R.G., ha posto) non appare di per sé incompatibile con il rilascio di un permesso di costruire convenzionato, il quale costituisce strumento utilizzabile in tutte le situazioni nella quali le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata.
In definitiva, il reclamo è fondato e va accolto, con conseguente annullamento della delibera commissariale impugnata.    

EDILIZIA PRIVATA: Verbale – Polizia Locale – Accertamento di inottemperanza – Ingiunzione di demolizione di opere abusive – Art. 33 D.P.R. n. 380/2001 – Atto endoprocedimentale – Efficacia dichiarativa – Formale atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione – Necessità – Atto competente autorità amministrativa – Effetto acquisitivo – Art. 31, co. 4, D.P.R. 380/2001.
Si ritiene condivisibile l’orientamento giurisprudenziale che ritiene inammissibile l’impugnazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Quest’ultimo rappresenta, infatti, un atto endoprocedimentale, strumentale alle determinazioni dell’ente comunale, avente efficacia solo dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, priva della competenza per l’adozione di atti di amministrazione attiva.
In tal senso, risulta pertanto necessaria l’adozione di un formale atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi dell’art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380/2001 il quale, facendo propri gli esiti del mero verbale, sancisca l’effetto acquisitivo e costituisca, previa notifica all’interessato, titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. (1)

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   (1) V. in merito TAR Campania–Napoli, sez. III, 18.01.2022, n. 358
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 30.03.2024 n. 6315 - link a www.ambientediritto.it).
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... per l’annullamento e la revoca, previa adozione di idonee misure cautelari, del verbale del Comune di Cerveteri – Corpo di Polizia Locale n. 233/2023 del 14.11.2023, notificato il 14.11.2023 di accertamento di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione di opere abusive ex art. 33 D.P.R. n. 380/2001 n. 18/2015 del 01.12.2015 del Comune di Cerveteri e del verbale del Comune di Cerveteri – Corpo di Polizia Locale n. 234/2023 del 14.11.2023, notificato il 14.11.2023, di accertamento di inottemperanza alla ingiunzione di demolizione di opere abusive ex art. 33 D.P.R. n. 380/2001 n. 19/2015 del 01.12.2015 del Comune di Cerveteri;
...
   – rilevato che, con le ordinanze nn. 18 e 19 del 01.12.2015, il Comune di Cerveteri disponeva la demolizione delle opere dettagliatamente indicate nel ricorso introduttivo del giudizio, alle lettere da A) a I) [e segnatamente: fabbricato residenziale; seminterrato sud; seminterrato nord; ampliamento nord; ampliamento sud; casetta in legno; cambio destinazione d’uso da pertinenza agricola a civile abitazione; ampliamento fabbricato E; manufatto in legno; piscina-gazebo; ricovero autovetture];
   – rilevato che, con i verbali di polizia locale nn. 233 e 234 del 14.11.2023, si accertava l’inottemperanza alle suddette ordinanze di demolizione;
   – rilevato che, con il ricorso introduttivo del giudizio, la ricorrente impugnava i suddetti verbali di accertamento, adducendo, tra i motivi di ricorso, l’allegazione secondo cui la suddetta ordinanza n. 18/2015 non le sarebbe mai stata notificata, con la conseguente asserita caducazione dell’atto presupponente;
   – rilevato che, anche a seguito dell’istruttoria disposta dal Tribunale, risulta dagli atti di causa che la suddetta ordinanza fu notificata, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., tramite raccomandata A.R. (con la quale si comunicava di aver depositato la stessa ordinanza presso la casa comunale di Cerveteri) spedita in data 29.01.2016 e tornata al mittente per compiuta giacenza;
   – rilevato che, con la memoria di costituzione depositata in data 12.02.2024, l’amministrazione resistente eccepiva che i verbali di accertamento impugnati non risultano essere provvedimenti dotati di propria ed autonoma lesività stante la loro natura di atti meramente ricognitivi, privi di valore provvedimentale;
   – ritenuto di poter condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «È inammissibile l’impugnazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, trattandosi di un atto endoprocedimentale, strumentale alle determinazioni dell’ente comunale, che ha efficacia solo dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, la quale è priva della competenza per l’adozione di atti di amministrazione attiva.
Risulta necessaria l’adozione di un formale atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi dell’art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380/2001 che, facendo propri gli esiti del mero verbale, sancisca l’effetto acquisitivo e costituisce, previa notifica all’interessato, titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II.
» (TAR Campania–Napoli, sez. III, 18/01/2022, n. 358);
   – ritenuta pertanto l’inammissibilità del ricorso;

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in deroga – Art. 23-quater d.P.R. n. 380 del 2001 – Art. 51-bis l.r. n. 12 del 2005 – Realizzazione centro sportivo – Uso temporaneo – Convenzione – Necessità – Competenza giunta o consiglio comunale – Incompetenza dirigente – Provvedimento dirigenziale – Rigetto domanda – Illegittimità.
La domanda di rilascio del permesso di costruire in deroga deve essere accompagnata da una bozza di convenzione la quale, per la sua eventuale approvazione, deve essere sottoposta alternativamente all’esame della giunta comunale o del consiglio comunale a seconda che quest’ultimo organo abbia o meno in precedenza adottato l’atto di indirizzo previsto dal settimo comma dell’art. 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001. (1)
Il provvedimento del dirigente dell’ente locale di rigetto della domanda di rilascio del permesso di costruire in deroga, accompagnata da bozza di convenzione, in mancanza dell’atto consiliare di indirizzo rispetto alla bozza di convenzione, è illegittimo in quanto inficiato da vizio di incompetenza. Risulta, infatti, evidente che i dirigenti dei comuni non sono competenti ad esprimersi in materia essendo ogni valutazione come detto rimessa agli organi politici. (2)

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   (1) In proposito si rammenta nella sentenza che i commi 4 e 5 dell’articolo 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001 prevedono che l’uso temporaneo in deroga alle previsioni di piano debba essere disciplinato da una apposita convenzione. Il successivo comma 7 precisa che il consiglio comunale individua i criteri e gli indirizzi per l’attuazione delle citate disposizioni da parte della giunta comunale e che, in assenza di tale atto consiliare, lo schema di convenzione che regola l’uso temporaneo è approvato con deliberazione dello stesso consiglio comunale.
   (2) Cfr. in argomento TAR Puglia, Lecce, sez. I, 25.01.2022 n. 128
 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.03.2024 n. 959 - link a www.ambientediritto.it).
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Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato essendo meritevole di accoglimento la censura, avente carattere assorbente, con la quale si deduce l’incompetenza dell’organo che ha adottato l’atto impugnato.
In proposito si osserva quanto segue.
L’art. 23-quater, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che i comuni possono consentire l’utilizzazione temporanea di edifici ed aree per usi diversi da quelli previsti dal vigente strumento urbanistico qualora ciò sia funzionale allo scopo di attivare processi di rigenerazione urbana, di riqualificazione di aree urbane degradate, di recupero e valorizzazione di immobili e spazi urbani dismessi o in via di dismissione e favorire, nel contempo, lo sviluppo di iniziative economiche, sociali, culturali o di recupero ambientale.
Analoga disposizione è contenuta nell’art. 51-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
I commi 4 e 5 del citato articolo 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001 prevedono che l’uso temporaneo in deroga alle previsioni di piano debba essere disciplinato da una apposita convenzione. Il successivo comma 7 precisa infine che il consiglio comunale individua i criteri e gli indirizzi per l’attuazione delle citate disposizioni da parte della giunta comunale e che, in assenza di tale atto consiliare, lo schema di convenzione che regola l’uso temporaneo è approvato con deliberazione dello stesso consiglio comunale.
Dall’insieme di queste norme si ricava che la domanda di rilascio del permesso di costruire in deroga deve essere accompagnata da una bozza di convenzione la quale, per la sua eventuale approvazione, deve essere sottoposta alternativamente all’esame della giunta comunale o del consiglio comunale a seconda che quest’ultimo organo abbia o meno in precedenza adottato l’atto di indirizzo previsto dal settimo comma dell’art. 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001. Risulta pertanto evidente che i dirigenti dei comuni non sono competenti ad esprimersi in materia essendo ogni valutazione come detto rimessa agli organi politici.
Ciò precisato, va ora osservato che, come anticipato, il ricorrente, in data 14.06.2021, ha presentato domanda ai sensi del citato art. 23-quater del d.P.R. n. 380 del 2001. Tale domanda era stata preceduta dall’inoltro della bozza di convenzione prevista dal settimo comma della stessa norma.
Il Comune di Pioltello, invece di sottoporre la bozza di convenzione all’esame degli organi politici, ha dato direttamente riscontro all’istanza con provvedimento del dirigente il quale, preso atto dalla mancanza dell’atto consiliare di indirizzo, ne ha disposto il rigetto.
Ritiene il Collegio che, per le ragioni sopra indicate, tale provvedimento sia illegittimo in quanto inficiato dal vizio di incompetenza. La mancanza dell’atto consiliare di indirizzo non conferisce infatti al dirigente il potere di adottare senz’altro il provvedimento di rigetto dell’istanza posto che, come detto, la legge prevede che, in questo caso, sia il consiglio comunale a doversi esprimere sulla bozza di convenzione.
Va dunque ribadita la fondatezza della censura in esame.
In conclusione, per tutte le ragioni illustrate, il ricorso va accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato.

APPALTI: Sul risarcimento del danno in caso di annullamento dell’interdittiva antimafia.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Interdittiva e informativa antimafia - Giustizia amministrativa – Azione risarcitoria.
La p.a., in materia di interdittiva antimafia, gode di un’ampia discrezionalità, e ciò comporta il riconoscimento del beneficio dell’errore scusabile, con conseguente esclusione della colpa e, quindi, della responsabilità dell’amministrazione, nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative, trasmesse al prefetto dagli organi di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un giudizio plausibile sul tentativo di infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate, in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la misura dell’interdittiva (1).
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   (1) Conformi: Tar per la Calabria, Reggio Calabria, n. 439 del 2020;
         Difformi: non risultano precedenti difformi
(CGARS, sentenza 28.03.2024 n. 233 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9. Nel presente processo finalizzato al risarcimento del danno, al fine di provare la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa grave in capo alla Prefettura parte appellante valorizza due indici:
   - l’amministrazione avrebbe disatteso la normativa di riferimento e le indicazioni ripetutamente rese dall’unanime giurisprudenza in ordine alla irrilevanza dei rapporti di parentela in sé considerati;
   - l’amministrazione avrebbe considerato irrilevanti in un precedente giudizio prognostico, ai fini del giudizio di condizionamento mafioso, gli stessi elementi poi viceversa valorizzati in senso negativo per la appellante.
10. Il Collegio, preliminarmente, osserva quanto segue.
Il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza diretta e automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, ma è indispensabile procedere alla positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo (o di diritto soggettivo) tutelata dall’ordinamento, anche del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del dolo dell’amministrazione.
Spetta al ricorrente l’onere della prova di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile, la mancanza di uno solo dei quali determina l’infondatezza della pretesa: elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) e oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), necessari per ritenere la responsabilità della p.a. ex art. 2043 c.c..
In merito all’elemento soggettivo la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che affinché possa configurarsi la responsabilità aquiliana della p.a. per l’illegittimo esercizio del potere alla illegittimità del provvedimento poi annullato deve associarsi la sussistenza di un quid pluris, identificato nella “rimproverabilità soggettiva” della P.A.
Tale “rimproverabilità soggettiva” della p.a. deve essere scrutinata tenendo conto delle norme attributive del potere e delle regole d’azione in ragione delle quali la p.a. agisce al fine di tutelare il bene pubblico individuato dal legislatore.
10.1. All’interno di tale cornice normativa, quindi, occorre individuare i caratteri della colpa con specifico riferimento alla attività amministrativa relativa alle informative antimafia, regolate agli artt. 90 ss. del d.lgs. n. 159 del 2011.
10.2. Nella giudizio circa la configurabilità degli estremi della colpa dell’amministrazione nell’adozione delle informative antimafia il Collegio non può prescindere dalla considerazione del loro fine e del loro carattere e della funzione che l’ordinamento assegna a tali provvedimenti, della cui prevalente natura cautelare e preventiva nessuno dubita.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, già in epoca antecedente alla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2018 che ha definitivamente certificato natura e effetti dell’interdittiva antimafia, era concorde nell’affermare che “la misura dell’interdittiva antimafia obbedisce a una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e non postula, come tale, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso (Cons. St., sez. III, 15.09.2014, n. 4693), potendo, perciò, restare legittimata anche dal solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale (Cons. St., sez. III, 01.09.2014, n. 4441)".
Il Collegio condivide l’assunto secondo cui il paradigma legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n. 159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “… di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società …” (art. 84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Quanto la pertinente attività provvedimentale resti connotata da elevati profili di discrezionalità, lo si desume dall’analisi del lessico usato dal legislatore per regolarla: l’uso dell’aggettivo “eventuali” e del sostantivo “tentativi” indicano, in particolare, la configurazione di presupposti del tutto incerti, ai fini della giustificazione della misura, sicché la delibazione prefettizia si risolve, a ben vedere, nell’analisi di indizi sintomatici del pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata nell’amministrazione della società e nella conseguente formulazione di un giudizio probabilistico della mera possibilità del condizionamento mafioso.
Si tratta, in altri termini, di una fattispecie del tutto peculiare, diversa da ogni altra attività amministrativa: ciò che, come si dirà infra, si riverbera anche sulla (estrema difficoltà della) configurabilità dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria.
L’attività provvedimentale resta, in via generale, strutturata e regolata dalla definizione esatta, a opera della disposizione legislativa attributiva del potere nella specie esercitato, dei presupposti stabiliti per la legittima adozione dell’atto in cui si esplica la funzione, pur residuando un fisiologico margine di discrezionalità in capo alla p.a..
L’informativa antimafia risulta, al contrario, configurata dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, attinenti all’apprezzamento di rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi, ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata.
È proprio la segnalata funzione anticipatoria della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che impedisce la previsione di parametri di azione determinati nella loro interezza, stringenti e cogenti e che impone, quindi, la disciplina della potestà considerata in termini semanticamente plurisignificanti, dovendosi impedire ad imprese che rischiano di essere condizionate dai clan mafiosi di accedere a rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni.
Le associazioni mafiose hanno la capacità di mutare repentinamente modus operandi per insinuarsi in tutti gli spazi dell’economia di mercato ove più difficile è il controllo di legalità e l’ordinamento assegna ai provvedimenti interdittivi del Prefetto il compito di apprestare la più rapida e immediata difesa della società civile.
Il carattere “eventuale” dei “tentativi” di infiltrazione comporta che la delibazione prefettizia ha la consistenza di un giudizio probabilistico della mera possibilità del condizionamento mafioso, nel quale assume rilevanza il “rischio di infiltrazione”, logicamente antecedente al “tentativo di infiltrazione”.
L’attività provvedimentale relativa alle informative antimafia viene configurata dallo stesso legislatore, quindi, come fondata su valutazioni oggettivamente opinabili, in quanto relative all'apprezzamento di rischi e non all'accertamento di fatti.
Si tratta, per concludere sul punto, di un’attività da ritenersi non ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata.
Si può quindi tracciare una essenziale divaricazione rispetto al modello dell’attività provvedimentale di carattere generale, poiché quest’ultima è strutturata e regolata dalla definizione esatta, ad opera della disposizione legislativa attributiva del potere, dei presupposti stabiliti per la legittima adozione dell’atto in cui si esplica la funzione, che, per quanto connotato da scelte discrezionali, resta strettamente vincolato alla preliminare verifica della sussistenza delle condizioni che ne autorizzano l’assunzione;
   - l’attività provvedimentale attinente alle informative antimafia risulta, al contrario, configurata dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, di consistenza magmatica siccome attinenti all’apprezzamento di rischi e non all’accertamento di fatti, e non, quindi, ancorata alla stringente analisi della ricorrenza di chiari presupposti, di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata;
   - d’altra parte, è proprio la segnalata funzione anticipatoria della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che impedisce, a ben vedere, la previsione di parametri di azione più stringenti e cogenti e che impone, quindi, la disciplina della potestà considerata in termini più laschi, trattandosi di precludere ad imprese che rischiano di essere (e non che sicuramente sono) condizionate dai clan mafiosi di accedere a rapporti contrattuali con le amministrazioni o a titoli e concessioni pubbliche
” (Cons. St., sez. III, 09.10.2023, n. 8765).
10.3. Dalla definizione dell’attività provvedimentale in materia di interdittiva antimafia, come caratterizzata dalla descritta ampia discrezionalità, ritiene il Collegio che ne discendano due inscindibili conseguenze sistemiche.
10.4. Prima conseguenza.
   Come rilevato dai pronunciamenti multilivello e dalla Corte costituzionale, all’ampia discrezionalità dei provvedimenti prefettizi in materia di antimafia è consustanziale la necessità che gli stessi siano sottoposti a una effettiva verifica giurisdizionale, pena la loro illegittimità costituzionale.
   A fronte di una discrezionalità tecnica particolarmente ampia, spetta al giudice amministrativo sottoporre i provvedimenti del prefetto (in ogni loro parte) a uno scrutinio che, tralasciando la sterile alternativa tra sindacato debole o forte, sia sempre effettivo e si estenda anche ai fatti alla cui stregua il prefetto formula il proprio giudizio prognostico, non dovendosi riconoscere un ambito di valutazioni ‘riservate’ alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.
   L’esistenza di tale ambito “sarebbe del tutto incompatibile con la moderna configurazione dell’oggetto e della funzione del processo amministrativo, ispirato al canone dell’effettività della tutela, dotato di un sistema rimediale aperto e conformato al bisogno differenziato di tutela.
   La tutela giurisdizionale, per essere effettiva e rispettosa della garanzia della parità delle armi, deve consentire al giudice un controllo penetrante in tutte le fattispecie sottoposte alla sua attenzione
” (Cons., St., sez. VI, 05.12.2022, n. 10624).
10.5. Seconda conseguenza.
   La configurabilità degli estremi della colpa dell’amministrazione nell’adozione delle informative antimafia, in ragione dell’ampia discrezionalità sopra descritta, dev’essere scrutinata in coerenza con la funzione, con la natura e con i contenuti delle stesse.
   “Non si potrà, in particolare, evitare di assegnare il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione.
   Come si è visto, infatti, il paradigma legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n. 159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “…di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società…” (art. 84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso
” (Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3707/2015).
   Il carattere elastico dei presupposti dell’esercizio della potestà amministrativa in questione impedisce, infatti, di declinare pedissequamente nella fattispecie considerata le medesime cause esimenti enucleate in via generale dalla giurisprudenza per escludere la colpa dell’amministrazione.
Ritiene il Collegio che la valutazione di legittimità della informativa e il giudizio di colpevolezza sull’operato dell’amministrazione non possano essere automaticamente sovrapposti, traslandone i relativi esiti.
Il Collegio condivide l’assunto, ribadito più volte dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui il beneficio dell’errore scusabile va riconosciuto (con conseguente esclusione della colpa e, quindi, della responsabilità dell’amministrazione) nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative, trasmesse al Prefetto dagli organi di polizia, risultano astrattamente idonee a formulare un giudizio plausibile sul tentativo di infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate, in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la misura dell’interdittiva (CGARS, sentenza 28.03.2024 n. 233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI:  Incidenti d'auto risarciti anche nelle aree private.
L'incidente automobilistico va sempre risarcito dall'assicurazione rc anche se si verifica in un'area privata: l'articolo 122 del codice delle assicurazioni private (Cda), infatti, va interpretato nel senso che deve essere equiparata alla strada qualsiasi area in cui il veicolo può essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale. E la disposizione, è bene chiarirlo, fissa i presupposti di tutte le azioni previste dal Cda, a partire da quella diretta contro l'assicuratore del danneggiato (art. 149) e da quella contro la compagnia del responsabile del sinistro (art. 144).

Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nell'ordinanza 27.03.2024 n. 8244.
Accolto il ricorso proposto dall'impresa edile: sbaglia la Corte d'appello ad accogliere il gravame dell'assicurazione, riformando la decisione del tribunale che aveva condannato la compagnia a risarcire la società sua cliente per un sinistro avvenuto nel piazzale dello stabilimento; un autocarro della ditta era stato danneggiato dal veicolo condotto da un terzo.
L'errore del giudice di secondo grado sta nel ritenere che la srl non potrebbe promuovere l'azione di risarcimento diretto ex art. 149 Cda perché l'area su cui è avvenuto il sinistro non sarebbe equiparabile alla strada pubblica.
Trova infatti ingresso la censura della srl secondo cui alla luce del diritto Ue il fatto che lo scontro sia avvenuto nell'area adibita dall'impresa al carico e scarico dei materiali è irrilevante per escludere l'azione diretta della vittima nei confronti del suo assicuratore: la copertura è esclusa solo se si fa un uso anomalo del veicolo.
Il principio vale anche per le azioni contro l'impresa designata dal fondo di garanzia per le vittime della strada, l'ufficio centrale italiano (incidenti avvenuti sul territorio nazionale causati da veicoli con targa estera), il commissario dell'impresa in liquidazione coatta amministrativa.
L'azione diretta contro la propria assicurazione non è contrattuale perché la polizza costituisce il presupposto ma non la fonte del diritto fatto valere. E d'altronde l'azione contro la propria assicurazione è la stessa azione prevista dall'art. 144 Cda contro la compagnia del responsabile, alla quale la legge assegna un diverso debitore. Parola al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi del 30.03.2024).

APPALTI: Dilazione temporale del termine per ricorrere nelle procedure di gara ed istanza di accesso documentale.
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Contratti pubblici ed obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – termine per la proposizione del ricorso – Dies a quo – Istanza di accesso documentale – Dilazione temporale del termine a ricorrere.
Nelle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici, l’individuazione della decorrenza del termine per ricorrere dipende, in linea di principio, dal rispetto delle disposizioni sulle formalità inerenti alla informazione ed alla pubblicizzazione degli atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso informale con una richiesta scritta.
La proposizione dell’istanza d’accesso agli atti di gara comporta, invece, una dilazione temporale del termine per ricorrere, allorché i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta.
A fronte di una tempestiva istanza d’accesso, formulata entro 15 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il termine per proporre ricorso (il cui dies a quo coincide con la data di comunicazione del provvedimento d’aggiudicazione ex art. 120, comma 5, c.p.a.), viene incrementato nella misura di 15 giorni, così pervenendo a un’estensione complessiva pari a 45 giorni.
Nell’evenienza in cui, invece, l’amministrazione aggiudicatrice rifiuti l’accesso oppure impedisca con comportamenti dilatori l’immediata conoscenza degli atti di gara, il termine per l’impugnazione degli atti comincia a decorrere solo da quando l’interessato li abbia conosciuti. (1)

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   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, Ad. plen. n. 12 del 2020; Cons. Stato, sez. III, 27.10.2021, n. 7178; Cons. Stato, sez. V, 05.04.2022, n. 2525; idem, 16.04.2021, n. 3127; idem, 19.01.2021, n. 575; Cons. Stato, sez. V, n. 3127 del 20
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2024 n. 2882 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Dalla sequenza degli atti come sopra riportata risulta confermata l’irricevibilità del ricorso di primo grado, sulla base dei principi affermati da questo Consiglio di Stato, dai quali non v’è ragione per discostarsi.
1.3.2. Come noto, con sentenza n. 12 del 2020 l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato ha affrontato e risolto la questione della decorrenza del termine d’impugnazione degli atti delle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici, e ha valorizzato al riguardo l’individuazione di momenti diversi di possibile conoscenza degli atti di gara, ad ognuno dei quali corrispondono precise condizioni affinché possa aversi decorrenza del termine d’impugnazione dell’aggiudicazione; il tutto nella cornice della considerazione, di carattere generale, per la quale l’individuazione della decorrenza del termine per ricorrere “continua a dipendere dal rispetto delle disposizioni sulle formalità inerenti alla ‘informazione’ e alla ‘pubblicizzazione’ degli atti, nonché dalle iniziative dell’impresa che effettui l’accesso informale con una ‘richiesta scritta’ per la quale sussiste il termine di quindici giorni previsto dall’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’ applicabile per identità di ratio anche all’accesso informale” (Cons. Stato, Ad. plen., 02.07.2020, n. 12, par. 27; cfr. al riguardo, anche per la disamina della tassonomia elaborata in relazione ai diversi casi ipotizzabili, Cons. Stato, V, 05.04.2022, n. 2525; 16.04.2021, n. 3127; 19.01.2021, n. 575).
In tale contesto, l’Adunanza plenaria ha chiarito, ad esempio, che la proposizione dell’istanza d’accesso agli atti di gara comporta una “dilazione temporale” del termine per ricorrere “quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta” (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 12 del 2020, cit., sub par. 32; cfr. al riguardo anche Id., III, 27.10.2021, n. 7178, che esclude dilazioni temporali nel caso in cui il vizio risulti già percepibile a prescindere dall’acquisizione di ulteriore documentazione).
L’entità della suddetta dilazione temporale è determinata dalla stessa Adunanza plenaria nella misura di 15 giorni, termine previsto dal vigente art. 76, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 per la comunicazione delle ragioni dell’aggiudicazione su istanza dell’interessato (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 12 del 2020, cit., sub par. 19, richiamato dal par. 22): il che vale a dire che il termine per proporre ricorso, fermo il dies a quo (coincidente, per fattispecie quali quella in esame, con la data di comunicazione del provvedimento d’aggiudicazione ex art. 120, comma 5, Cod. proc. amm.), viene incrementato, in generale, nella misura di 15 giorni, così pervenendo a un’estensione complessiva pari a 45 giorni (Cons. Stato, Ad. plen., n. 12 del 2020, cit., spec. sub par. 19, che richiama il par. 14; Cons. Stato, n. 3127 del 2021, cit.; Id., V, 15.03.2023, n. 2736).
Presupposto per l’applicazione della dilazione temporale è a sua volta (oltre che la natura del vizio da far valere, il quale non deve essere evincibile se non all’esito dell’acquisizione documentale) la tempestività dell’istanza d’accesso, avanzata cioè entro 15 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione (cfr. ancora Cons. Stato, Ad. plen., n. 12 del 2020, par. 27; cfr. anche Corte cost., 28.10.2021, n. 204, ove si correla espressamente “la dilazione temporale” all’esercizio dell’accesso “nei quindici giorni previsti attualmente dall’art. 76 del vigente ‘secondo’ cod. dei contratti pubblici”; cfr. ancora Cons. Stato, V, 29.11.2022, n. 10470).
In tale contesto, a fronte del descritto regime di ordine generale, trova applicazione un diverso (nuovo) termine “qualora l’Amministrazione aggiudicatrice rifiuti l’accesso o impedisca con comportamenti dilatori l’immediata conoscenza degli atti di gara (e dei relativi allegati)” (e cioè “in presenza di eventuali […] comportamenti dilatori” della stessa amministrazione, “che non possono comportare suoi vantaggi processuali, per il principio della parità delle parti”, tenuto conto d’altra parte che “L’Amministrazione aggiudicatrice deve consentire all’impresa interessata di accedere agli atti”): in tal caso, infatti, “il termine per l’impugnazione degli atti comincia a decorrere solo da quando l’interessato li abbia conosciuti” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 12 del 2020, cit., par. 25.2).
Siffatto nuovo termine si applica, in particolare, laddove l’amministrazione non dia “immediata conoscenza” degli atti di gara, in specie mediante tempestiva risposta alla (anch’essa tempestiva) richiesta d’accesso, da evadere entro il termine di 15 giorni (cfr. Cons. Stato, V, 20.03.2023, n. 2796; 07.02.2024, n. 1263; III, 15.03.2022, n. 1792; V, 04.10.2022, n. 8496), e coincide con l’ordinario termine d’impugnazione di trenta giorni, decorrente dalla effettiva ostensione dei documenti richiesti dall’interessata (cfr. Cons. Stato, IV, 11.11.2020, n. 6392; V, n. 8496 del 2022, cit.; cfr. anche, per il decorso del termine dall’evasione dell’istanza d’accesso, Id., n. 575 del 2021, cit.; 26.04.2022, n. 3197, cit.; 29.04.2022, n. 3392) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2024 n. 2882 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE: Complessiva operazione amministrativa della stazione appaltante e logica integrativa del risultato.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di fornitura – Logica del risultato – Utilizzo da parte della legge di gara del parametro del risultato – valenza integrativa – Ampliamento del sindacato giurisdizionale.
L’utilizzo da parte della legge di gara del parametro del risultato esplicita e conferma il carattere immanente al sistema della c.d. amministrazione di risultato (che la dottrina ha ricondotto al principio di buon andamento dell’attività amministrativa, già prima dell’espressa affermazione contenuta nell’art. 1 del decreto legislativo, n. 36 del 2023 con specifico riferimento alla disciplina dei contratti pubblici).
Il profilo causale del singolo provvedimento va così analizzato alla luce del collegamento che lo avvince alla complessa vicenda amministrativa, nell’ottica del risultato della stessa.
L’importanza del risultato nella disciplina dell’attività dell’amministrazione non va riguardata ponendo tale valore in chiave antagonista rispetto al principio di legalità, rispetto al quale potrebbe realizzare una potenziale frizione.
Al contrario, come pure è stato efficacemente sostenuto successivamente all’entrata in vigore del richiamato decreto legislativo, n. 36 del 2023, il risultato concorre ad integrare il paradigma normativo del provvedimento e dunque ad ampliare il perimetro del sindacato giurisdizionale piuttosto che diminuirlo, facendo transitare nell’area della legittimità, e quindi della giustiziabilità, opzioni e scelte che sinora si pensava attenessero al merito e fossero come tali insindacabili.
(La sezione assume che l’applicazione al caso di specie dei richiamati princìpi implica che l’“operazione amministrativa” avuta di mira dalla stazione appaltante, desunta dalla chiara indicazione in tal senso fornita dalla legge di gara, aveva riguardo al fatto che il risultato atteso è la fornitura in opera perfettamente funzionante delle apparecchiature.
Ritiene, infatti, che non soddisfa certamente tale requisito la fornitura di apparecchiature che, a fronte dell’apparente minor costo di acquisto, implicano il necessario svolgimento di attività materiali e giuridiche aggiuntive: le quali, oltre ai costi relativi ai corrispettivi per l’acquisto degli ulteriori materiali necessari al funzionamento, comportano altresì dei costi relativi ai tempi e all’impiego delle risorse umane necessarie per il compimento delle relative procedure). (1)

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   (1) Non sussistono precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.03.2024 n. 2866 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Sul punto il Collegio non può non rimarcare il decisivo riferimento contenuto nella legge di gara all’obiettivo del “risultato”.
Pur essendo la fornitura in questione non ancora soggetta, ratione temporis, alla disciplina di cui al d.lgs. 36/2023, l’utilizzo da parte della legge di gara del parametro del risultato esplicita e conferma, nello specifico procedimento per cui è causa, il carattere immanente al sistema della c.d. amministrazione di risultato (che la dottrina ha ricondotto al principio di buon andamento dell’attività amministrativa, già prima dell’espressa affermazione contenuta nell’art. 1 del citato d.lgs. n. 36 del 2023 con specifico riferimento alla disciplina dei contratti pubblici).
Il profilo causale del singolo provvedimento va così analizzato alla luce del collegamento che lo avvince alla complessa vicenda amministrativa, nell’ottica del risultato della stessa: tanto che autorevole dottrina ha in proposito proposto l’introduzione di “una nuova nozione, che può essere denominata operazione amministrativa, ad indicare l’insieme delle attività necessarie per conseguire un determinato risultato concreto”.
L’importanza del risultato nella disciplina dell’attività dell’amministrazione non va riguardata ponendo tale valore in chiave antagonista rispetto al principio di legalità, rispetto al quale potrebbe realizzare una potenziale frizione: al contrario, come pure è stato efficacemente sostenuto successivamente all’entrata in vigore del richiamato d.lgs. n. 36 del 2023, il risultato concorre ad integrare il paradigma normativo del provvedimento e dunque ad “ampliare il perimetro del sindacato giurisdizionale piuttosto che diminuirlo”, facendo “transitare nell’area della legittimità, e quindi della giustiziabilità, opzioni e scelte che sinora si pensava attenessero al merito e fossero come tali insindacabili”.
L’applicazione al caso di specie dei richiamati princìpi implica che l’“operazione amministrativa” avuta di mira dalla stazione appaltante, desunta dalla chiara indicazione in tal senso fornita dalla legge di gara, aveva riguardo al fatto che “Il risultato atteso è la fornitura in opera perfettamente funzionante delle apparecchiature”.
Non soddisfa certamente tale requisito la fornitura di apparecchiature che, come accennato, a fronte dell’apparente minor costo di acquisto implicano il necessario svolgimento di attività materiali e giuridiche aggiuntive: le quali, oltre ai costi relativi ai corrispettivi per l’acquisto degli ulteriori materiali necessari al funzionamento, comportano altresì dei costi relativi ai tempi e all’impiego delle risorse umane necessarie per il compimento delle relative procedure (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.03.2024 n. 2866 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Potere di pianificazione urbanistica degli insediamenti e logica di bilanciata proporzionalità delle contrapposte esigenze.
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Edilizia e urbanistica – Piano regolatore – Potere di pianificazione urbanistica – Giudizio di proporzionalità – Tutela dell’ambiente urbano - Razionalità dell’assetto del territorio.
La disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali, in un’ottica di bilanciata proporzionalità delle contrapposte esigenze.
Gli atti della programmazione territoriale non sono, infatti, esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se, in concreto, essi perseguano effettivamente finalità di tutela dell’ambiente urbano o siano, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese.
Una volta ammessa, poi, una particolare tipologia di uso commerciale, non è legittima l’introduzione di restrizioni quantitative al numero di esercizi, la quale non si configura quale prescrizione meramente urbanistica, ma si traduce in una limitazione ingiustificata e discriminatoria della libertà di stabilimento e della libertà d’impresa nonché in una regolazione indebita dell’offerta sul mercato. (1)

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   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. IV, n. 5394 del 2021; Cons. Stato, sez. IV, n. 4810 del 2020, n. 2762 del 2018, n. 4810 del 2018, n. 2026 del 2017, n. 1494 del 2017; Corte giust. UE, sez. IV, 26.11.2015, n. 345; Cons. Stato, sez. V, 16.04.2014, n. 1860; Cons. Stato, sez. IV, 13.01.2014, n. 70; Cons. Stato, sez. IV, n. 4294 del 2023
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.03.2024 n. 2815 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
14. Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza del TAR per aver respinto la seconda e la terza censura del ricorso di primo grado, con cui si è contestata la legittimità dei limiti posti dalla Provincia all’insediamento di attività commerciali nelle aree industriali, con riferimento ai principi in materia di liberalizzazione delle attività economiche sanciti tanto dai decreti legge n. 70 e n. 201 del 2011 (rispettivamente conv. in legge n. 106 e n. 214 del 2011), nonché dalla l.r. n. 49 del 2012 che ha dato attuazione al primo, quanto dalla direttiva “Bolkestein” n. 2006/123/CE e dalla normativa nazionale di recepimento.
15. Il motivo è fondato.
Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, la promozione della riqualificazione delle aree degradate e degli edifici a destinazione non residenziale dismessi, in via di dismissione o da rilocalizzare, nonché lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, la l.r. Abruzzo del 15.10.2012, n. 49 (emanata per l’attuazione dell’art. 5 del d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito in legge 12.07.2011, n. 106, che modifica la disciplina in materia di realizzazione di costruzioni private), all’art. 5 prevede che le modifiche della destinazione d’uso degli immobili, realizzate anche attraverso interventi di ristrutturazione, ampliamento o demolizione e ricostruzione, «sono ammissibili purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari», aggiungendo che, salva la possibilità per i Comuni d’individuare ipotesi ulteriori, «sussiste complementarietà reciproca tra le seguenti destinazioni: […] b) destinazioni produttive quali: industriali, artigianali, direzionale e servizi, integrabili con: commerciali di vicinato, ricettività alberghiera ed extra-alberghiera, cultura e comunicazione».
La legge 23.12.2014, n. 90, d’interpretazione autentica del d.l. n. 70 del 2011, ha precisato che le agevolazioni incentivanti previste dall’art. 5, co. 9 e 14, del decreto, «prevalgono sulle normative di piano regolatore generale, anche relative a piani particolareggiati o attuativi».
16. La deliberazione n. 2 del 30.01.2017, con cui il Consiglio della Provincia dell’Aquila ha adottato la contestata variante al Piano territoriale di coordinamento provinciale-PTCP per la modifica del Piano regolatore territoriale del Nucleo di sviluppo industriale del capoluogo, al fine di recepire, con specifici criteri e indirizzi applicativi, la l.r. n. 49 del 2012, ha stabilito, tra l’altro, le destinazioni compatibili e complementari rispetto a quella industriale ovvero d’interesse generale, espressamente escludendo «nuovi insediamenti per attività commerciali di vendita al dettaglio, ad eccezione di quelli consentiti dall’art. 1, comma 50, della L.R. n. 11 del 16.07.2008 (vendita al dettaglio dei prodotti realizzati dalle aziende artigianali ed industriali ivi insediate) e di quelli ammessi con la presente Variante (un solo esercizio di vicinato per ogni azienda)».
17. Nel caso di specie, la destinazione che la Società vorrebbe imprimere a una porzione dell’immobile industriale attualmente utilizzato per la macellazione, lavorazione e vendita di carne suina, in particolare ai locali già adibiti allo stoccaggio della merce prodotta, è commerciale, per una superficie di 250 mq, dunque esattamente nel limite massimo di superficie affinché un esercizio commerciale sia considerato “di vicinato” –quantomeno nei Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, come è notorio essere la città dell’Aquila– ai sensi della l.r. Abruzzo n. 11 del 2008.
Tanto la delibera provinciale, quanto la determinazione del Comune n. 55 del 07.04.2017 sono dunque in contrasto con la l.r. n. 49 del 2012, che ha espressamente qualificato come complementari le destinazioni produttive e gli esercizi di vicinato, consentendo agli Enti locali d’individuare ipotesi ulteriori ma non di escludere quelle già previste dalla fonte primaria.
18. L’atto della Provincia viola inoltre la direttiva “Bolkestein” e la disciplina interna di attuazione, come interpretati dalla giurisprudenza consolidata.
In particolare, con sentenza della IV Sezione n. 5394 del 2021, che compendia i principi consolidati in questa materia, si è osservato che «il Consiglio di Stato (ex plurimis sez. IV, nn. 4810 del 2020, 2762 del 2018, 4810 del 2018, 2026 del 2017, 1494 del 2017), ha analizzato funditus il rapporto tra i limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica e i principi in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi sanciti dalla direttiva 123/2006/CE e dai provvedimenti legislativi che vi hanno dato attuazione, partendo dalla premessa che la disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali.
La conclusione a cui si è pervenuti -e che questo Collegio condivide- è che la questione involge tipicamente un giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte dall’autorità comunale rispetto alle effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio (cfr. Corte giustizia UE, sez. IV, 26.11.2015, n. 345; sez. II, 24.03.2011, n. 400); esigenze che, per l’appunto, devono essere sempre riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e non fondate su ragioni meramente economiche e commerciali, che si pongano quale ostacolo o limitazione al libero esercizio dell’attività di impresa che non deve comunque svolgersi in contrasto con l’utilità sociale (in argomento da ultimo, proprio in materia di apertura di strutture di vendita e di rapporti fra la direttiva 12.12.2006 n. 2006/123/CE, c.d. Bolkestein, v. Corte cost., 25.02.2016, n. 39; Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1860; 13.01.2014, n. 70)
».
Più di recente, con sentenza n. 4294 del 2023 della medesima Sezione si è precisato che «gli atti della programmazione territoriale sono stati ritenuti dalla giurisprudenza non esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se, in concreto, essi perseguano effettivamente finalità di tutela dell’ambiente urbano o siano, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese».
Applicando i principi sopra richiamati al caso di specie, ne discende che, sebbene gli strumenti urbanistici possano individuare la destinazione dei suoli e le varie attività che su di essi possono esplicarsi, una volta che venga ammessa una particolare tipologia di uso commerciale (e nella specie la delibera appunto consente l’attività di commercio al dettaglio) non è poi legittima l’introduzione di restrizioni quantitative al numero di esercizi (come appunto la limitazione «ad un solo esercizio di vicinato per ogni azienda»), la quale non si configura quale prescrizione meramente urbanistica, ma si traduce in una limitazione ingiustificata e discriminatoria della libertà di stabilimento e della libertà d’impresa e in una regolazione indebita dell’offerta sul mercato.
19. L’appello è dunque meritevole di accoglimento e, in riforma della sentenza di primo grado, deve essere accolto il ricorso di primo grado e, per l’effetto, annullati gli atti con esso impugnati, dunque la determinazione del Comune n. 55 del 07.04.2017 e la delibera del Consiglio provinciale n. 2 del 30.01.2017 nella parte in cui, all’interno del PRT del Nucleo di sviluppo industriale dell’Aquila, pone limiti al mutamento di destinazione d’uso da industriale a commerciale, con riferimento agli esercizi di vicinato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.03.2024 n. 2815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La piscina non è mai una pertinenza e trasforma il territorio: serve il permesso. Il Tar Campania boccia il ricorso del proprietario contro l’ordine di demolizione.
Per la realizzazione di una piscina serve il permesso a costruire e l’opera non può essere intesa come pertinenza.

È uno dei motivi per i quali il TAR Campania-Napoli - Sez. VI, con la sentenza 25.03.2024 n. 1995, ha respinto il ricorso di una persona contro il Comune di Pozzuoli.
La vicenda era sorta quando dall’amministrazione comunale era partita l’ingiunzione di demolizione di opere «consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio».
Quindi il ricorso al Tar dove, tra le altre motivazioni, viene evidenziato che a emanare l'ordinanza sarebbe dovuto essere il sindaco e non il dirigente. Poi un altro aspetto in cui il ricorrente sottolinea che si tratta di «opere da sempre esistenti, che sarebbero state soltanto risistemate, con trasformazione in piscina pertinenziale al fabbricato rurale di antica costruzione, senza alcuna alterazione dei volumi; di qui la possibilità di realizzarla senza permesso di costruire e la assoggettabilità, al più, alla sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione delle opere stesse».
Non solo, per il ricorrente l'amministrazione avrebbe dovuto considerare il fatto che si trattava di una «preesistente vasca irrigua, per motivi strettamente conservativi».
Per i giudici il ricorso non è fondato.
«L'adozione dell'ordinanza di demolizione di opere sine titulo -sottolineano nel primo punto- rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia riferimento alla competenza del Sindaco in materia».
Per i giudici la realizzazione di un piscina «non può essere intesa sotto il profilo urbanistico-edilizio come pertinenza dando luogo a una durevole trasformazione del territorio e non è stato fornito neppure un principio di prova che la struttura fosse preesistente e che quindi sia stato eseguito un intervento di manutenzione o di restauro e risanamento conservativo di strutture già esistenti».
Nella sentenza i magistrati ricordano anche che «ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto carico urbanistico proprio in quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale».
Quanto poi al caso specifico della piscina, ricordano un pronunciamento del Tar della Campania, (VI, 07.01.2022, n. 105) i giudici rimarcano che «in particolare, quanto alla piscina, non appare ultroneo specificare che, secondo condivisa giurisprudenza: tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede».
Pertanto «la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un piscina non può essere intesa sotto il profilo urbanistico-edilizio come pertinenza dando luogo a una durevole trasformazione del territorio.
Di nessuna pertinenza –rientrante nell’alveo dell’art. 6 del D.P.R. 380/2001 che enuclea gli interventi che costituiscono la c.d. “attività edilizia libera” e tra di essi, alla lettera e), “gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”- è a parlarsi nella fattispecie.
Orbene, al fine di stabilire se la piscina realizzata dalla ricorrente sia (o meno) un elemento di arredo “pertinenziale” (da ciò dipendendo la sua riconducibilità o meno all’alveo dell’edilizia libera), occorre richiamare il concetto di pertinenza rilevante ai fini urbanistici.
Secondo giurisprudenza pacifica, l’accezione civilistica di pertinenza è più ampia di quella applicata nella materia urbanistico-edilizia.
In particolare, si è affermato che:
   “i) "la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando sussista un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa a cui esso inerisce";
   ii) "a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale con l’edificio principale".
Nello stesso senso è stato condivisibilmente affermato che «la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire; tale criterio è stato applicato anche con specifico riguardo alla realizzazione di una piscina nell’area adiacente all’abitazione, la quale, in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell’edificio al quale accede, non è pertanto qualificabile come pertinenza in senso urbanistico».
Con specifico riguardo, poi, alla fattispecie della piscina, questo TAR ha ancora di recente chiarito che “in particolare, quanto alla piscina, non appare ultroneo specificare che, secondo condivisa giurisprudenza:
   a) "tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede";
   b) pertanto, “la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio”.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020, consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente deducendo:
...
2. Il ricorso non è fondato.
...
2.2. Il secondo e il terzo mezzo, ben suscettibili di congiunto scrutinio, non sono fondati.
2.2.1. Non si rinvengono ragioni, invero, per deflettere dall’orientamento già assunto in sede cautelare, per cui la “la realizzazione di un piscina non può essere intesa sotto il profilo urbanistico-edilizio come pertinenza dando luogo a una durevole trasformazione del territorio (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III 03.02.2020, n. 483) e non è stato fornito neppure un principio di prova che la struttura fosse preesistente e che quindi sia stato eseguito un intervento di manutenzione o di restauro e risanamento conservativo di strutture già esistenti”.
2.2.2. Di nessuna pertinenza –rientrante nell’alveo dell’art. 6 del D.P.R. 380/2001 che enuclea gli interventi che costituiscono la c.d. “attività edilizia libera” e tra di essi, alla lettera e), “gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”- è a parlarsi nella fattispecie.
2.2.3. Orbene, al fine di stabilire se la piscina realizzata dalla ricorrente sia (o meno) un elemento di arredo “pertinenziale” (da ciò dipendendo la sua riconducibilità o meno all’alveo dell’edilizia libera), occorre richiamare il concetto di pertinenza rilevante ai fini urbanistici.
2.2.4. Secondo giurisprudenza pacifica, l’accezione civilistica di pertinenza è più ampia di quella applicata nella materia urbanistico-edilizia.
2.2.5. In particolare, si è affermato che:
   “i) "la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando sussista un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa a cui esso inerisce";
   ii) "a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un cosiddetto "carico urbanistico" proprio in quanto esauriscono la loro finalità nel rapporto funzionale con l’edificio principale" (CdS, VI, 26.04.2021, n. 3318; TAR Lazio, II, 19.11.2021, n. 11976).
Nello stesso senso è stato condivisibilmente affermato che «la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all’edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico (cfr., ex multis, TAR Catania n. 4564/2010), sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.05.2018, n. 3115); tale criterio è stato applicato anche con specifico riguardo alla realizzazione di una piscina nell’area adiacente all’abitazione, la quale, in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell’edificio al quale accede, non è pertanto qualificabile come pertinenza in senso urbanistico (TAR Campania, Napoli sez. III, 30.03.2018 n. 2033; TAR Campania, Napoli, sez. III, 11.01.2018, n. 194; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 16.03.2017, n. 1503)» (TAR Campania, II, 30.05.2018, n. 3569).
2.2.6. Con specifico riguardo, poi, alla fattispecie della piscina, questo TAR ha ancora di recente chiarito (TAR Campania, VI, 07.01.2022, n. 105) che “in particolare, quanto alla piscina, non appare ultroneo specificare che, secondo condivisa giurisprudenza:
   a) "tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede" (cfr. TAR Campania, Napoli, VII, n. 3358/2018);
   b) pertanto, “la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio” (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 14/11/2011, n. 5316)
”.
2.2.7. In ossequio ai superiori principi, pertanto, ben può dirsi che l’opera abusiva contestata nel caso di specie (id est la realizzazione di una piscina adiacente all’edificio di proprietà della ricorrente) –lungi dal costituire una mera pertinenza urbanistica– rientra certamente nella categoria della ristrutturazione edilizia, tenuto conto della sua autonoma funzionalità, nonché del suo autonomo valore di mercato e della sua intrinseca attitudine a trasformare in modo durevole il territorio.
2.2.8. Né può rilevare la labiale allegazione di parte ricorrente circa la mera “risistemazione” di manufatti preesistenti.
2.2.9. Ora, costituisce dato pacifico quello in forza del quale, l'onere della prova circa la effettiva natura ed entità dei lavori, nonché circa la effettiva natura e dimensione delle preesistenti opere su cui i nuovi interventi impattano, grava in capo al soggetto che allega di avere realizzato essi lavori e allega le ridette preesistenze; trattandosi di soggetto nella cui sfera di signoria, quale responsabile dell’abuso o proprietario, ricade la condotta e il bene immobile su cui insiste (TAR Campania, VI, 26.06.2020, n. 2680; CdS, II, 30.04.2020, n. 276; CdS, VI, 24.01.2020, n. 588).
2.2.10. E ciò anche in ossequio al cd. “principio di vicinanza della prova”, in forza del quale è ragionevolmente esigibile da chi ha posto in essere le opere la produzione di evidenze documentali atte a comprovare la natura di esse opere, anche attraverso riferimenti alla effettiva consistenza dell’immobile, sia ex ante che ex post (TAR Campania, VI, 28.05.2020, n. 2043; TAR Lombardia, I, 26.09.2018, n. 2143) e la epoca di realizzazione.
2.2.11. Si è all’uopo rimarcato, con statuizioni rese in tema di condono edilizio ma che ben si attagliano anche alla fattispecie in esame, che “ai fini della concessione del condono edilizio, l'Amministrazione, pur dovendo sempre espletare un'istruttoria adeguata anche relativamente all'epoca della edificazione (onde individuare il regime giuridico di riferimento), non deve fornire, quale condizione di legittimità per l'irrogazione della sanzione, (anche) prova certa dell'epoca di realizzazione dell'abuso. Ricade, infatti, in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) l'onere di provare la data di ultimazione (con difforme destinazione d'uso) delle opere edilizie, dal momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto. In difetto di tali prove, resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. IV, 03/02/2017, n. 463; Consiglio di Stato, sez. IV, 15/06/2016, n. 2626; Consiglio di Stato, sez. VI, 27/07/2015, n. 3666)” (CdS, VI, 27.03.2018, n. 1927).
Nella fattispecie nessun principio di prova è stato fornito dalla parte ricorrente, tale da incrinare gli acclaramenti operati dagli uffici comunali.
2.2.12. Quanto alla censura concernente la mancata applicazione della sanzione pecuniaria, va quivi richiamato quanto costantemente affermato in subiecta materia, per cui:
   - “l'applicabilità della sanzione pecuniaria, in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell'intero edificio. Inoltre, l'applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico” (CdS, VI, 10.01.2020, n. 254);
   - “la valutazione circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria a fronte di una opera abusiva in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire, con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell'incidenza della demolizione sulle opere non abusive, dimodoché la verifica di cui all'art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva e non dall’Amministrazione procedente all'atto dell'adozione del provvedimento sanzionatorio” (CdS, II, 2403.2021, n. 2493; Id., VI, 13.05.2021, n. 3783);
   - “le disposizioni dell’art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001 devono essere interpretate nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria debba essere valutata dall'amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione” (TAR Campania, II, 06.02.2023, n. 833) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2024 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce dato affatto ricevuto quello in virtù del quale “L’adozione dell'ordinanza di demolizione di opere sine titulo rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia riferimento alla competenza del Sindaco in materia”, a nulla potendo per certo rilevare la assenza di disposizioni attuative in tal senso dello statuto comunale ovvero di matrice regolamentare, discendendo tale attribuzione direttamente dalla legge, e ciò già con l’art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020, consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente deducendo:
...
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Va in primo luogo scrutinato il primo mezzo che, in ossequio all’indefettibile ordo quaestionum (CdS, a.p. 5/15) che connota il processo amministrativo ed a prescindere da una eventuale volontà di graduazione della parte ricorrente (volontà peraltro, nella fattispecie, non mai disvelatasi), assume carattere preliminare, ponendo questioni di incompetenza e di mancato esercizio del potere da parte dell’organo competente a rendere un parere, che nel caso che ne occupa dovrebbe individuarsi nella commissione edilizia.
2.1.1. Il mezzo non è fondato.
2.1.2. E, invero, costituisce dato affatto ricevuto quello in virtù del quale “L’adozione dell'ordinanza di demolizione di opere sine titulo rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia riferimento alla competenza del Sindaco in materia”, a nulla potendo per certo rilevare la assenza di disposizioni attuative in tal senso dello statuto comunale ovvero di matrice regolamentare, discendendo tale attribuzione direttamente dalla legge, e ciò già con l’art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191 (TAR Campania, IV, 04.07.2019, n. 3700; Id. VI, 01.02.2019, n. 537; Id., id., 06.03.2018, n. 1416) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2024 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione, giusta l’inveterato insegnamento per cui l’omessa, puntuale, indicazione dell'area suscettibile di essere acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai vale a minare la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione.
La ingiunzione a demolire -indirizzata al trasgressore, ovvero al proprietario dell’area- è direttamente finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni.
La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, della relativa area di sedime e dell'area di pertinenza urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza discendente ex lege ed ex post dalla inottemperanza all’ordine impartito; la puntuale individuazione e delimitazione della effettiva latitudine di tale effetto legale di ablazione, indi, ben può essere oggetto di successive certazioni ad opra della Autorità.
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Costituisce dato pacifico quello in forza del quale ai fini dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento.
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Nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu intesa può affliggere il gravato provvedimento di ingiunzione a demolire trattandosi di atto che -certando la esistenza di un illecito edilizio, ed irrogando la relativa sanzione- necessita di giustificazione, più che di motivazione, consistente:
   - nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione delle opere e degli interventi edilizi;
   - nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli necessitanti di un titolo abilitativo;
   - nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza del prescritto provvedimento abilitante.
Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale i provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto espressione di actio vincolata nel contenuto, non abbisognano di specifica motivazione -intesa come estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto, all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est della certazione della esistenza di attività edilizia realizzata in dispregio delle regole.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020, consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente deducendo:
...
2.3. Anche il quarto mezzo non è fondato.
2.3.1. L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione, giusta l’inveterato insegnamento per cui l’omessa, puntuale, indicazione dell'area suscettibile di essere acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai vale a minare la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione (ex pluribus, Tar Campania, VI, 02.02.2021, n. 697; TAR Lombardia, II, 03.01.2023, n. 54).
2.3.2. La ingiunzione a demolire -indirizzata al trasgressore, ovvero al proprietario dell’area- è direttamente finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni.
2.3.3. La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, della relativa area di sedime e dell'area di pertinenza urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza discendente ex lege ed ex post dalla inottemperanza all’ordine impartito; la puntuale individuazione e delimitazione della effettiva latitudine di tale effetto legale di ablazione, indi, ben può essere oggetto di successive certazioni ad opra della Autorità (TAR Campania, VI, 18.07.2023, n. 4380).
2.3.4. Tutt’affatto irrilevanti, di poi, si appalesano gli adombrati dubbi di costituzionalità della norma che ne occupa, di poi, giusta la pluriennale giurisprudenza formatasi in subiecta materia.
2.4. Anche il quinto mezzo, con cui si veicolano censure afferenti alla asserita violazione delle prerogative di partecipazione procedimentale spettanti alla ricorrenti, non è fondato, atteso che, siccome si è avuto modo di illustrare supra in sede di negativo scrutinio dei motivi “afferenti al merito”, il contenuto dispositivo dell’impugnato provvedimento non avrebbe potuto essere diverso.
2.4.1. La certazione giudiziale della legittimità della azione provvedimentale quivi censurata rende irrilevante la (asserita) pretermissione procedimentale, attesa la inidoneità di un qualsiasi apporto collaborativo a determinare una differente conclusione della vicenda (TAR Campania, VI, 20.07.2020, n. 3210; TAR Lombardia, I, 26.09.2018, n. 2145).
2.4.2. La ricaduta patologica di tale lamentata violazione “formale e/o procedimentale” è quindi sterilizzata dall’applicazione dell’art. 21-octies della legge 241/1990, norma che ben si attaglia anche alla omessa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla adozione della ingiunzione a demolire.
2.4.3. D’altra parte, costituisce dato pacifico quello in forza del quale ai fini dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento (TAR Campania, VI, 10.08.2020, n. 3560; CdS, VI, 12.05.2020, n. 2980; CdS, VI, 11.03.2019, n. 1621).
2.5. Quanto alla ultima censura di carenza motivazionale, è sufficiente il rilevare, sul punto, che nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu intesa può affliggere il gravato provvedimento di ingiunzione a demolire trattandosi di atto che -certando la esistenza di un illecito edilizio, ed irrogando la relativa sanzione- necessita di giustificazione, più che di motivazione (TAR Campania, VI, 31.05.2023, n. 3329), consistente:
   - nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione delle opere e degli interventi edilizi;
   - nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli necessitanti di un titolo abilitativo;
   - nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza del prescritto provvedimento abilitante (TAR Campania, VI, 18.07.2023, n. 4380).
2.5.1. Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale i provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto espressione di actio vincolata nel contenuto, non abbisognano di specifica motivazione -intesa come estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto, all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est della certazione della esistenza di attività edilizia realizzata in dispregio delle regole (TAR Campania, VI, 10.08.2020, n, 3560, cit.; Id., id., 22.05.2020, n. 1939) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2024 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze, obbligo del rispetto anche se c’è una sola parete finestrata. La Cassazione ricorda che la ratio della norma del Dm 1444/1968 non mira a tutelare solo la riservatezza ma anche e soprattutto la salute pubblica.
L’obbligo di rispettare le distanze minime fissate dal Dm 1444/1968 -e più in particolare la distanza minima di 10 metri tra le pareti finestrate- va applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata.
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Costituisce principio consolidato quello secondo il quale in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 cod. civ., il condono edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti tra privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria apprestata dall'art. 872 cod. civ. per le violazioni delle distanze previste dal codice civile e dalle norme regolamentari integratrici.
Invero,
la sanatoria o il condono degli illeciti urbanistici, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, esplicano i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici -amministrativi, penali e/o fiscali- e non hanno alcuna incidenza nei rapporti fra privati, lasciando impregiudicati i diritti dei privati confinanti derivanti dalla eventuale violazione delle distanze legali previste dal codice civile e dalla norme regolamentari di esse integratrici.
Ed ancora,
l'obbligo di rispettare le distanze legali -previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ma anche per finalità di pubblico interesse- deve essere osservato a maggior ragione nel caso di costruzioni abusive, anche se sia intervenuta la relativa sanatoria amministrativa, i cui effetti sono limitati al campo pubblicistico e non pregiudicano i diritti dei terzi; pertanto, il proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle norme urbanistiche, ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere l'abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione illegittima nonostante sia intervenuto il condono edilizio.
Peraltro,
l’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968 –traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell’art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 e prescrivendo, per la zona A, quanto alle operazioni di risanamento conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti–, rappresenta una disciplina integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui rapporti interprivatistici, sicché, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con l’art. 9 citato, sia in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti, ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, o all’integrale eliminazione della nuova edificazione, qualora invece non sussista alcun preesistente volume.
Inoltre,
le norme contenute nei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze fra le costruzioni e di esse dal confine sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente, finalità quest'ultima che viene realizzata dalle norme regolamentari stabilendo una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dall'art. 873 cod. civ., in cui ciò che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono; ne consegue che una convenzione tra le parti che deroghi alle norme sulle distanze previste nel regolamento edilizio è senz'altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perché non si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare anche interessi generali.
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Secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi, essendo dettate -contrariamente a quelle del codice civile- a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non sono derogabili dai privati: di qui l'invalidità -anche nei rapporti interni- delle convenzioni stipulate fra proprietari confinanti le quali si rivelino in contrasto con le norme urbanistiche in materia di distanze.
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L’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata, non alla tutela della riservatezza ma alla salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici antistanti, quando uno dei due abbia una parete finestrata.
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3. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 9 d.m. n. 1444/1968 e 872 cod. civ.
Si sostiene l’erroneità della sentenza impugnata, la quale aveva affermato che il rispetto della distanza minima assoluta tra fabbricati rispondeva a esigenze pubblicistiche non derogabili, così da evitare il formarsi di intercapedini, senza tenere conto dell’acquisito condono edilizio, che aveva, a dire dei ricorrenti, <<valutato e ridimensionato, ovvero annullato>> l’interesse pubblico in discorso.
3.1. Il motivo è infondato.
Costituisce principio consolidato quello secondo il quale in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell'art. 873 cod. civ., il condono edilizio, esplicando i suoi effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non ha incidenza nei rapporti tra privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria apprestata dall'art. 872 cod. civ. per le violazioni delle distanze previste dal codice civile e dalle norme regolamentari integratrici (tra le tante, v. Sez. Sez. 2, n. 3031, 06/02/2009, Rv. 606558).
Si era già in precedenza chiarito che la sanatoria o il condono degli illeciti urbanistici, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, esplicano i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici -amministrativi, penali e/o fiscali- e non hanno alcuna incidenza nei rapporti fra privati, lasciando impregiudicati i diritti dei privati confinanti derivanti dalla eventuale violazione delle distanze legali previste dal codice civile e dalla norme regolamentari di esse integratrici (Sez. 2, n. 12966, 31/05/2006, Rv. 592543).
Ed ancora, l'obbligo di rispettare le distanze legali -previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ma anche per finalità di pubblico interesse- deve essere osservato a maggior ragione nel caso di costruzioni abusive, anche se sia intervenuta la relativa sanatoria amministrativa, i cui effetti sono limitati al campo pubblicistico e non pregiudicano i diritti dei terzi; pertanto, il proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle norme urbanistiche, ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere l'abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione illegittima nonostante sia intervenuto il condono edilizio (Sez. 2, n. n. 18728, 26/09/2005, Rv. 584791).
Peraltro, l’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968 –traendo la sua forza cogente dai commi 8 e 9 dell’art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 e prescrivendo, per la zona A, quanto alle operazioni di risanamento conservativo ed alle eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti–, rappresenta una disciplina integrativa dell’art. 873 c.c. immediatamente idonea ad incidere sui rapporti interprivatistici, sicché, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con l’art. 9 citato, sia in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l’obbligo per il giudice di merito di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’art. 873, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti, ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, o all’integrale eliminazione della nuova edificazione, qualora invece non sussista alcun preesistente volume (Sez. 2, 23.01.2018 n. 1616, Rv. 647082).
3.2. Sotto altro profilo deve rilevarsi che le norme contenute nei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze fra le costruzioni e di esse dal confine sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti ma anche a tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente, finalità quest'ultima che viene realizzata dalle norme regolamentari stabilendo una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dall'art. 873 cod. civ., in cui ciò che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono; ne consegue che una convenzione tra le parti che deroghi alle norme sulle distanze previste nel regolamento edilizio è senz'altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perché non si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare anche interessi generali (Sez. 2, n. 19449, 28/09/2004, Rv. 578209; ma già prima, Cass. nn. 12894/1999 e 4366/2001).
L’indirizzo risulta essere stato, successivamente reiteratamente confermato. Con la decisione n. 27373/2021 si è approfonditamente fatto nuovamente il punto.
Appare utile riprenderne il passaggio motivazionale saliente, di evidente chiarezza: <<Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti,
in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi, essendo dettate -contrariamente a quelle del codice civile- a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non sono derogabili dai privati: di qui l'invalidità -anche nei rapporti interni- delle convenzioni stipulate fra proprietari confinanti le quali si rivelino in contrasto con le norme urbanistiche in materia di distanze (Cass., Sez. II, 04.02.2004, n. 2117; Cass., Sez. III, 22.03.2005, n. 6170; Cass., Sez. II, 23.04.2010, n. 9751).
Questo indirizzo è stato ribadito, successivamente alla proposizione del presente ricorso, da Cass., Sez. II, 18.10.2018, n. 26270, da Cass., Sez. II, 20.05.2019, n. 13513, e da Cass., Sez. II, 02.09.2020, n. 18218.
Né questo approdo è in contrasto con quanto statuito da Cass., Sez. II, 22.02.2010, n. 4240, con riguardo alla usucapibilità della servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme inderogabili degli strumenti urbanistici locali.
Infatti, la usucapibilità del diritto a tenere un immobile a distanza inferiore a quella legale non equivale alla stipula pattizia di una deroga in tal senso, perché risponde all'esigenza ulteriore della stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo.
In sostanza, altro è incidere sui poteri pubblici, o consentire una generalizzata derogabilità, il che può cagionare effetti lesivi permanenti dell'interesse generale tutelato; altro è ammettere che operi il fenomeno dell'usucapione. Esso vale soltanto a riportare il meccanismo di contemperamento dei diritti soggettivi nell'alveo ordinario previsto dal legislatore, escludendo la sussistenza, nel circoscritto ambito della proprietà immobiliare, di diritti soggettivi a tutela rafforzata
>>.
4. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in quanto, si afferma, la condanna si sarebbe potuta risolvere in una trasformazione delle finestre in luci. Ciò era stato evidenziato con l’impugnazione, ma la Corte territoriale non aveva reso risposta.
4.1. La doglianza è priva di fondamento.
È pur vero che la Corte d’appello non ha pronunciato espressamente sul punto.
Tuttavia, dal complesso argomentativo della decisione si trae la piena consapevolezza del Giudice che la manifestata disponibilità a trasformare le vedute in luci, al fine di evitare l’arretramento del fabbricato, non poteva in alcun modo essere presa in considerazione, stante che la regola dettata dal d.m. n. 1444/1968 fa riferimento alla sussistenza anche della parete finestrata su uno solo dei due fabbricati e, nel caso in esame, la Corte locale, con accertamento in fatto, in questa sede non riesaminabile, ha verificato che l’immobile attoreo è dotato di finestre.
A pag. 4, p. 4, la sentenza, dopo avere puntualizzato che <<
l’obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata, non alla tutela della riservatezza ma alla salvaguardia dell’interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici antistanti, quando uno dei due abbia una parete finestrata>>, ha puntualmente richiamato la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. nn. 19.02.2019 n. 4834, 5017/2018, 13547/2011, S.U. n. 14953/2011) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 22.03.2024 n. 7744).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di centro abitato e sua rilevanza urbanistica.
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Edilizia e urbanistica – Centro abitato – Individuazione – Codice della strada – Strumenti – Differenza.
La nozione di centro abitato trova riscontro nell’art. 3 del nuovo codice della strada, che, in un’ottica finalistica di diversificazione delle regole di circolazione stradale, lo identifica in un “insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine”.
Lo stesso va, dunque, individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili.
La sua rilevanza urbanistica discende, peraltro, dalla legge n. 765 del 1967 (cosiddetta legge ponte) che, introducendo l’art. 41-quinquies nella l. n. 1150 del 1942, lo utilizza quale concetto per disciplinare l’edificazione nei comuni privi di piano regolatore o di programma di fabbricazione e, quindi, dal d.m. 01.04.1968, n. 1404, in ordine alle distanze dell’edificazione dal nastro stradale. (1)

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   (1) Precedenti in senso conforme: Cons. Stato, sez. IV, 19.08.2016, n. 3656.
         In senso difforme: Cons. Stato, sez. II, 17.06.2020, n. 3900; Cons. Stato, sez. IV, 11.03.1999
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.03.2024 n. 2798 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
10. Nel merito, l’appello è fondato.
11. Punto essenziale della vicenda è la chiusura di un vano, già utilizzato come corridoio d’accesso, successivamente adibito a rimessaggio a servizio del ristorante.
12. Rileva il Collegio come la difesa civica non neghi affatto la preesistenza volumetrica, ma pretenda di dequotarne la sussistenza in ragione dell’originaria finalizzazione, sicché solo la nuova tipologia di utilizzo avrebbe reso il locale “volume autonomo”.
La tesi non può essere condivisa. Il volume di un edificio, infatti, espresso in metri cubi vuoto per pieno, è costituito dalla sommatoria della superficie delimitata dal perimetro esterno dei vari piani per le relative altezze effettive misurate da pavimento a pavimento del solaio sovrastante. L’inclusione nella stessa di un determinato locale, dunque, prescinde dalla finalizzazione dello stesso a mero transito per accedere ad altre stanze, ovvero, una volta venuta meno ridetta necessità, a magazzino/deposito.
La destinazione d’uso, infatti, ammesso e non concesso possa assumere rilievo quella di una porzione del manufatto comunque a servizio dell’intero, non implica certo la decurtazione dal computo, ovvero la sua inclusione solo in ragione di ridetta mutata finalizzazione.
13. Chiarito quanto sopra, il Collegio reputa dirimente individuare la data di realizzazione dell’immobile nella sua consistenza finale, comprensiva del corridoio, comunque lo si voglia denominare e a prescindere dalla sua concreta utilizzazione.
Al riguardo, la giurisprudenza ha da sempre affermato che l’obbligo di comprovare la preesistente consistenza di un immobile all’epoca di edificazione libera grava sulla proprietà. Il privato, cioè, è onerato a provare la data di realizzazione dell’intervento edilizio, non solo per poter fruire del beneficio di una sanatoria, ma anche -in generale- per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi.
Solo il privato, infatti, può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, in via generale, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio negli anni precedenti al 1967 (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2019, n. 903; id., 04.03.2019, n. 1476; 20.04.2020, n. 2524; 09.06.2023, n. 5668).
Come è noto, infatti, solo con l’art. 10 della l. n. 765/1967 (entrata in vigore il 01.09.1967), l’obbligo di licenza edilizia è stato esteso a tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sull’intero territorio comunale.
In precedenza, l’art. 31, comma 1, della l. n. 1150 del 1942 lo prevedeva solo per certi interventi edilizi e limitatamente ad alcune zone territoriali, ovvero, per quanto qui di interesse, i centri abitati e, ove esisteva il piano regolatore comunale, anche le zone di espansione ivi espressamente indicate, salvo quanto dettato per altre zone o per tutto il territorio comunale dal Regolamento edilizio, accompagnato o meno dal Programma di fabbricazione comunale.
14. Al fine di agevolare la prova di tale stato legittimo dell’immobile, laddove si tratti di manufatti che insistono in loco da molti anni, il legislatore ha introdotto il comma 2-bis nell’art. 9-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (d.l. n. 76 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120 del 2020), che consente di attingere ai titoli abilitativi relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche alle sue successive vicende trasformative.
15. Nel caso di specie, è documentato che il corridoio preesistesse al 1967.
La sentenza del Tribunale di Bari n. 1853 del 2023, i cui esiti sono richiamati anche dalla difesa civica, afferma espressamente che il volume di cui è causa «[…] costituito essenzialmente da mura perimetrali, volte e due portoni in ferro risulta presente in catasto approssimativamente dal 1953, tempo in cui l’immobile era in proprietà alla sig.ra Porcelli Nicoletta fu Francesco che acquista in data 03/03/1953 rep. n. 14547 come accertato a suo tempo dal tecnico del Catasto a seguito di sopralluogo (cfr. rif. Mod. 5) per una superficie di circa 34.25 mq.».
Ciò trova conferma in tutte le indicazioni catastali dettagliatamente evocate da parte appellante, nonché nella rappresentazione dello stato dei luoghi al momento della presentazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia del 2000.
15.1. Il Comune ritiene tuttavia di trarre la prova dell’abusività dell’opera dalla mancata produzione della licenza edilizia che comunque sarebbe stata necessaria per chiudere il corridoio, giusta l’insistenza dell’immobile nel “borgo antico”.
Affermazione questa che avrebbe potuto avere una qualche plausibilità ove fosse stato versato in atti il titolo originario in forza del quale è stato realizzato il fabbricato, con conseguente prova dell’apertura verso la strada del corridoio, e quindi, indirettamente, della sua chiusura solo in epoca successiva.
Diversamente, non è dato comprendere da quale circostanza, anche fattuale, la difesa civica evinca che la chiusura sia sopravvenuta e non originaria, e che solo per la stessa sarebbe stata necessaria una licenza aggiuntiva.
16. Del resto, neppure è stata data prova che per quella zona la «licenza del podestà» fosse davvero necessaria a far data dal 1942, stante che l’ubicazione del fabbricato nel c.d. “borgo antico” non implica affatto la sua riconduzione a ciò che, secondo le indicazioni pianificatorie dell’epoca, doveva essere perimetrato come centro abitato.
17. Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di precisare (Cons. Stato, sez. IV, 19.08.2016, n. 3656), la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre far riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza.
Esso trova ora riscontro nell’art. 3 del c.d. nuovo codice della strada, che lo identifica in un «insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine», che tuttavia nasce per esigenze di diversificazione delle regole di circolazione stradale. Va dunque individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili.
La sua rilevanza urbanistica discende dalla legge n. 765 del 1967 (cosiddetta legge ponte) che introducendo l’art. 41-quinquies nella l. n. 1150 del 1942, lo utilizza quale concetto per disciplinare l’edificazione nei comuni privi di piano regolatore o di programma di fabbricazione e, quindi, dal D.M. 01.04.1968, n. 1404, in ordine alle distanze dell’edificazione dal nastro stradale.
Non risponde dunque al preciso disposto del richiamato art. 41-quinquies, comma 6, della l. 17.08.1942, n. 1150, assimilare ciò che nel lessico comune fa pensare all’originario nucleo abitato (il “borgo antico”, appunto), alla necessaria perimetrazione di una zona espressamente richiesta dalla legge. Scolorano quindi le considerazioni del Comune di Bari sull’irrilevanza della vetustà della chiusura, in quanto non risulta affatto provata la necessita del titolo edificatorio in quella zona del Comune di Bari sin dal 1942, ammesso e non concesso essa sia sopravvenuta alla realizzazione originaria del manufatto.
18. Anche a non voler dare rilievo ai dati catastali, la concessione edilizia n. 550/2000 del 23.04.2001, rilasciata ai signori Giovanni Spizzico e Angela Ranieri per la ristrutturazione con cambio di destinazione d’ uso e fusione di due unità immobiliari, a piano terra, rappresenta chiaramente l’esistenza del corridoio chiuso.
In particolare, esso risulta nell’elaborato grafico di rilievo dello stato dei luoghi come corridoio coperto di accesso e nell’elaborato di progetto come trasformazione da corridoio di accesso in locale di deposito e passaggio di servizio, ad uso esclusivo del locale commerciale, nonché nella relazione tecnico-descrittiva dei lavori.
Né può assumere rilievo contrario il fatto che esso non sia graficizzato nella successiva d.i.a. n. 2730/2001 del 13.09.2001, favorevolmente esaminata dall’Amministrazione in data 15 ottobre 2001, in quanto avente ad oggetto interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria all’interno delle predette unità immobiliari, tra le quali non rientra la riapertura del vano mediante rimozione del portone.
19. Per quanto sopra detto, l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Puglia n. 552 del 2023, va accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.03.2024 n. 2798 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: È illegittima l’ordinanza che impone l’affissione del crocifisso in tutti gli edifici pubblici.
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Atto amministrativo - Provvedimenti di urgenza - Ordinanze contingibili e urgenti – Ordine di immediata affissione del crocifisso in tutti gli edifici pubblici – Presupposti – Esclusione - Illegittimità per difetto di attribuzione.
È illegittimo per difetto di attribuzione l’ordinanza contingibile e urgente adottata da un sindaco che ordina l’immediata affissione del crocifisso in tutti gli edifici pubblici con l’urgenza di “preservare le attuali tradizioni ovvero mantenere negli edifici pubblici …la presenza del crocifisso quale simbolo fondamentale dei valori civili e culturali del nostro paese”, non ravvisandosi alcuno dei presupposti che giustificano l’adozione di tale tipologia di provvedimento (1).
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   (1) Precedenti conformi: in generale, sui caratteri delle ordinanze contingibili e urgenti, Cons. Stato, sez. V, 20.02.2012, n. 904. Sulla necessità dei presupposti dell’urgenza e della contingibilità per l’adozione di ordinanze contingibili e urgenti, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.06.2017, n. 2847; Cons. Stato, sez. II, 11.07.2020, n. 4474.
         Precedenti difformi: non si ravvisano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 18.03.2024 n. 2567 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Vigili urbani, l’incarico di comandante è riservato ai dipendenti della municipale. Si tratta di mansioni di una certa delicatezza che non sono abilitati a svolgere funzionari e dirigenti di altri settori “ordinari” dell’ente.
La norma che ha reso possibile il conferimento di incarichi dirigenziali anche ai dirigenti della polizia municipale non consente il contrario, ossia che dirigenti esterni ai ruoli della municipale possano diventarne comandanti.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 15.03.2024 n. 2518.
Il caso
Un dipendente comunale con il profilo professionale di istruttore direttivo di vigilanza ha impugnato la determinazione con la quale il dirigente ad interim della Polizia municipale lo ha nominato responsabile dell'ufficio supporto operativo e il decreto con cui il sindaco ha conferito l'incarico di comandante ad interim al dirigente dell'Avvocatura comunale.
Ha contestato che secondo la normativa statale e regionale il ruolo di comandante della municipale può essere attribuito solo a personale inquadrato nei ruoli del Corpo o Servizio ed è incompatibile con lo svolgimento di altre funzioni o incarichi.
Il Tar ha dichiarato fondato il ricorso recependo l'istanza secondo cui il ruolo di comandante può essere attribuito solo a personale inquadrato nei ruoli della polizia locale e a tale regola non deroga l'articolo 1, comma 221, della legge 208/2015, che consente al personale della Polizia municipale di assumere l'incarico di dirigente di altri settori del comune, ma non consente ai dirigenti comunali di assumere il ruolo di comandante della municipale.
Gli incarichi
L'appello proposto dal Comune viene ora rigettato dalla quinta sezione del Consiglio di Stato, che rileva la carenza di potere dirigenziale in quanto la funzione di comandante dei vigili urbani può essere assunta soltanto da personale dei ruoli della stessa, come espressamente previsto dalla legge regionale, la cui ratio risiede nel fatto che il personale dei ruoli della municipale viene originariamente reclutato con certi criteri e secondo determinati profili professionali e formativi tali da poter svolgere funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale. 
Mansioni che i giudici di Palazzo Spada giudicano «di una certa delicatezza che non sono abilitati a svolgere funzionari e dirigenti di altri settori ordinari dell'ente».
Del resto, affermano, in caso di assenza o impedimento del comandante può sopperire solo il vice oppure, in assenza anche di quest'ultimo, il personale comunque del Corpo o Servizio di polizia locale. 
Nemmeno soccorre il comma 221 della legge 208/2015, che consente il conferimento degli incarichi dirigenziali anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale, ma non il contrario, ossia che dirigenti esterni alla municipale possano diventarne comandanti, per due ragioni: per la formulazione letterale della disposizione, di stretta interpretazione, e per la ratio di tale divieto di inversione, che risiede nella constatazione che i dirigenti esterni non sono formati e reclutati per assumere e svolgere determinate specifiche funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.03.2024).
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SENTENZA
5. Tutto ciò premesso l’appello è infondato e deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.
In via preliminare va comunque rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’appello atteso che la formulazione della deliberazione della giunta comunale n. 489 in data 11.12.2018 (il cui art. 9 riguarda proprio la disciplina degli “INCARICHI AD AVVOCATI ESTERNI”) è tale per cui, mentre alla giunta è riservata la decisione di ricorrere ad avvocati esterni per motivi di conflitto di interessi, al segretario generale può essere riservata la decisione di circoscrivere tale scelta anche attraverso la specifica indicazione del legale da incaricare.
E ciò in quanto la formulazione della suddetta delibera non vincola la giunta a disporre una nomina che sia allo stesso tempo anche fiduciaria ossia indirizzata ad un legale già ben individuato (una simile attività di individuazione concreta può infatti ben essere riservata al segretario generale che, in questi termini, si muove nel rispetto del principio di legalità e di economicità dell’azione amministrativa).
Anche la seconda eccezione di inammissibilità è chiaramente infondata in quanto la sostituzione del De Na. con altro dirigente comunale è stata disposta in stretta esecuzione della sentenza di primo grado e senza operare acquiescenza alcuna rispetto alla suddetta decisione di primo grado (la ridetta sostituzione è avvenuta dunque in maniera coatta e non spontanea).
6. Tanto ulteriormente puntualizzato, va ulteriormente rigettata la riproposta questione di giurisdizione dal momento che si tratta di atti di macro-organizzazione e dunque si verte pacificamente su linee fondamentali della organizzazione e del funzionamento degli uffici.
Come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, il provvedimento impugnato “pianifica le attività complessive e le ripartisce fra il personale in dotazione alla struttura”.
Sulla base di quanto pure affermato dalla difesa della parte appellata, sono infatti definiti “atti di macro organizzazione”, attratti alla giurisdizione amministrativa, i provvedimenti con i quali si definisce l’assetto complessivo di un apparato amministrativo e si distinguono dagli “atti di micro organizzazione”, riservati alla cognizione del giudice ordinario, i quali invece presuppongono già definito l’assetto della struttura e sono destinati a disciplinare in modo particolare i rapporti di lavoro del personale addetto a quell’apparato.
In questa direzione, l’atto di macro organizzazione si occupa dunque di individuare le funzioni, gli obiettivi di azione e relativi i centri di responsabilità di un apparato amministrativo e, laddove ne individua i ruoli (dirigenti responsabili, addetti) definendone l’organigramma, non conforma il rapporto di lavoro di coloro che li rivestono, ma resta sul piano della gestione generale del servizio, conservando un contenuto funzionale inscindibile che definisce le interazioni di mezzi, compiti, programmi e attività.
Gli effetti che l’atto di macro organizzazione riflette in concreto sui rapporti di lavoro degli addetti all’Ufficio sono dunque indiretti; ciò da un lato ne esclude la devoluzione al giudice ordinario, dall’altro radica la posizione differenziata che legittima coloro che sono incardinati nella relativa struttura amministrativa ad impugnarli davanti al giudice amministrativo (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 29/04/2019, n. 2774; Consiglio di Stato sez. III, 11/10/2017, n. 4719).
Ne consegue da quanto detto che la determinazione impugnata ha chiaramente natura di atto di organizzazione di una struttura amministrativa del Comune dell’Aquila al quale sono estranei profili di gestione di specifici rapporti di lavoro del personale addetto.
L’eccezione (ora divenuta motivo di appello) merita dunque ancora di essere respinta.
...
10. Con riguardo al quarto motivo di appello, la carenza di potere dirigenziale in effetti sussiste dal momento che:
   10.1. La funzione di Comandante dei Vigili Urbani può essere assunta soltanto da personale dei “ruoli” della stessa polizia locale. Ciò è espressamente previsto dalla legge regionale n. 42 del 2013. Numerose in tal senso le segnalazioni della Regione Abruzzo che, nel corso del giudizio di primo grado, è tra l’altro intervenuta ad adiuvandum. Si veda a tal fine la nota in data 12.03.2018 del Dipartimento Riforme Istituzionali della stessa amministrazione regionale;
   10.2. Come individuato in quest’ultima nota, infatti, la ratio di tale scelta legislativa risiede nel fatto che il personale dei ruoli della PM viene originariamente reclutato con certi criteri e secondo determinati profili professionali e formativi, tali da poter svolgere funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (mansioni di una certa delicatezza che non sono abilitati a svolgere funzionari e dirigenti di altri settori “ordinari” dell’ente);
   10.3. Del resto, in caso di assenza o impedimento del comandante possono sopperire solo il vice comandante oppure, in assenza anche di quest’ultimo, il personale comunque del Corpo o Servizio di polizia locale (cfr. art. 5, comma 5, della citata legge regionale n. 42 del 2013);
   10.4. Né potrebbe valere quanto previsto dalla legge n. 208 del 2015, comma 221, il quale prevede in particolare al secondo periodo che: “Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale”. Dunque i dirigenti della PM e dell’avvocatura comunale possono eccezionalmente assumere la direzione di uffici ordinari dell’ente ma non anche il contrario (ossia dirigenti esterni alla PM non possono diventare comandanti della stessa);
   10.5. Depone in tal senso, innanzitutto, la formulazione letterale della disposizione secondo cui può essere attribuito il “conferimento degli incarichi dirigenziali” ma non anche il ruolo di avvocato dell’ente oppure di comandante della polizia locale;
   10.6. Sul piano logico e sistematico, la ragione giustificatrice alla base di tale “divieto di inversione” (dirigenti di struttura oppure anche della avvocatura che assumano incarico di comandante della polizia locale) risiede pur sempre nella constatazione che i medesimi –al netto di ogni caso particolare– non sono in via generale stati formati e reclutati per assumere e svolgere determinate specifiche funzioni di polizia giudiziaria, di sicurezza pubblica e stradale (cfr. punto 9.2.);
   10.7. In altre parole la richiamata disposizione ha consistenza di norma derogatoria ed eccezionale, rispetto alla ordinaria assegnazione delle funzioni dirigenziali (a seguito di procedura pubblicistica e comunque a dirigenti appartenenti ai relativi ruoli dell’amministrazione), e dunque di stretta interpretazione. Interpretazione che, per le ragioni sopra esposte, va intesa in chiave soltanto unidirezionale (dirigenti avvocatura e della polizia locale che assumono temporaneamente funzioni dirigenziali ordinarie) e non bidirezionale (dirigenti amministrativi e della polizia locale che assumono funzioni di avvocato dell’ente oppure dirigenti amministravi e della avvocatura che assumono le funzioni di comandante della Polizia Locale), e ciò proprio per la specificità sopra ricordata delle funzioni riservate a tali peculiari organi della PA (avvocatura e polizia locale).
10. A ciò si aggiunga che l’attuale comandante della PM è stato originariamente reclutato nella PM ma è poi transitato, previo concorso, nei ruoli della avvocatura comunale. Pertanto non è più nei ruoli della PM così perdendo non solo gradi ed inquadramento ma anche le specifiche funzioni di polizia giudiziaria;
10.7. Nei termini suddetti, anche tale motivo di appello deve dunque essere rigettato.

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: DIRITTO DEL LAVORO – Abuso di permessi ex L. n. 104/1992 – Lavoratore dipendente – Giusta causa di licenziamento – Sussiste – Controllo del datore di lavoro – Per mezzo di agenti investigativi – Adempimento della prestazione – Illegittimità – Verifica comportamenti penalmente rilevanti – Legittimità.
L’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex lege n. 104/1992 per attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, violando le finalità per cui il beneficio è concesso, costituisce giusta causa di licenziamento.
L’assenza dal lavoro per usufruire del permesso deve essere in relazione diretta con l’assistenza del disabile: la normativa di riferimento non consente, infatti, di utilizzare il permesso per motivi diversi da quelli propri della funzione cui l’assenza è preordinata.
In questo contesto è legittimo il controllo del dipendente da parte del datore di lavoro per mezzo di agenti investigativi, il controllo demandato all’agenzia è legittimo se non ha per oggetto l’adempimento della prestazione, ma la verifica di comportamenti che possono configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente.

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DIRITTO DEL LAVORO – Legge 104 natura e finalità – Licenziamento per abuso – Sacrificio organizzativo per il datore di lavoro e dell’Ente assicurativo – Nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile mancante – Violazione dei doveri di correttezza e buona fede – Accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio – Giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato – Limiti di sindacabilità in sede di legittimità – Onere probatorio e principio di specificità del ricorso.
Il beneficio di cui alla L. n. 104/1992, comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela, ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto, o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo.
Ciò posto, la verifica in concreto, sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito, esorbitando dai poteri la pretesa di altro apprezzamento sui fatti in sindacato di legittimità.
Infatti, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato, implica inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione sul punto della sentenza impugnata manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili.
Sicché il ricorrente, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità.
Infine, il lamentato principio secondo cui è necessario che il datore di lavoro “offra all’incolpato la documentazione necessaria al fine di consentirgli un’adeguata difesa”, compete al giudice del merito, sulla base degli atti di causa, scrutinare la sussistenza di tale rapporto di necessarietà, incombendo inoltre sul lavoratore l’onere di specificare “quali sarebbero stati i documenti la cui messa a disposizione –in tesi negata– sarebbe stata necessaria al predetto fine”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 12.03.2024 n. 6468 - link a www.ambientediritto.it).
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2. il primo e il quinto motivo, che possono valutarsi congiuntamente per connessione, non possono trovare accoglimento;
2.1. essi presentano diffusi profili di inammissibilità laddove prospettano come errores in iudicando ciò che è l’apprezzamento dei giudici del merito in ordine alla valutazione del materiale probatorio e al governo delle prove, nella sostanza proponendo una inammissibile diversa ricostruzione fattuale, asserendo che le attività svolte dalla S. erano comunque connesse con l’assistenza ai genitori disabili;
2.2. in diritto, poi, la sentenza è conforme alla giurisprudenza di questa Corte in tema di condotte abusive di lavoratori che fruiscano di sospensioni autorizzate del rapporto per l’assistenza o la cura di soggetti protetti; invero, per pacifica giurisprudenza di legittimità può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore, di permessi ex lege n. 104 del 1992 in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 8784 del 2015; Cass. n. 5574 del 2016; Cass. n. 9749 de1 2016; più di recente: Cass. n. 23891 del 2018; Cass. n. 8310 del 2019; Cass. n. 21529 del 2019); in coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile; tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela; ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (cfr. Cass. n. 17968 del 2016), o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo (v. Cass. n. 9217 del 2016); ciò posto, la verifica in concreto, sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito (in termini: Cass. n. 509 del 2018; v. anche Cass. n. 29062 del 2017; Cass. n. 30676 del 2018; Cass. n. 21529 del 2019), sicché la pretesa di un sindacato di legittimità sul punto esorbita dai poteri di questa Corte (ancora di recente: Cass. n. 25290 del 2022; Cass. n. 8306 del 2023; Cass. n. 17993 del 2023);
2.3. infine, si critica con modalità inammissibili anche il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato, che, secondo un costante insegnamento (da ultimo, v. Cass. n. 36427 del 2023), è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003); difatti, la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione sul punto della sentenza impugnata manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata –che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi– la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016);   

APPALTI: Gare, valida l’esclusione adottata dal responsabile di fase ratificata dal Rup.
Un’ordinanza del Tar Abruzzo consente di tracciare con chiarezza i confini di ruolo tra Responsabile del progetto e le nuove figure di collaborazione introdotte dal Codice 36.

La recente ordinanza 12.03.2024 n. 74 del Tar Abruzzo-Pescara -che respinge la richiesta di ordinanza cautelare di sospensione di una serie di provvedimenti della stazione appaltante (compresa l’aggiudicazione)- riveste un certo interesse in tema di riparto di competenze tra la nuova figura –almeno per il codice dei contratti- del responsabile di fase dell’affidamento ed il responsabile unico del progetto.
L'ordinanza, infatti, consente di rimarcare ulteriormente anche per gli atti adottati dalla stazione appaltante le non irrilevanti differenze che esistono tra i due attori del procedimento/procedura di affidamento/aggiudicazione del contratto pubblico. Due attori, di cui uno appunto il responsabile di fase, solo eventuale a differenza del responsabile unico del progetto che è sempre presente.
La necessità del Rup
Sulla necessità del Rup, ad esempio, si può citare il comma 1 dell'articolo 15 in cui si legge che «nel primo atto di avvio dell'intervento pubblico da realizzare mediante un contratto le stazioni appaltanti e gli enti concedenti nominano nell'interesse proprio o di altre amministrazioni un responsabile unico del progetto (RUP) per le fasi di programmazione, progettazione, affidamento e per l'esecuzione di ciascuna procedura soggetta al codice».
Disposizione che deve leggersi in combinato con gli ultimi due periodi del comma 2 della stessa disposizione citata in cui si ribadisce che «l'ufficio di Rup è obbligatorio e non può essere rifiutato» e l'inedita (almeno per il codice dei contratti) precisazione, che chiude il comma in parola, secondo cui «in caso di mancata nomina del Rup nell'atto di avvio dell'intervento pubblico, l'incarico è svolto dal responsabile dell'unità organizzativa competente per l'intervento».
Precisazione, questa, che riporta quanto già indicato nell'art. 5, comma 2, della legge 241/1990 che non viene richiamata espressamente nell'articolo 15 (a differenza di quanto accadeva con il pregresso articolo 31).
Mancato richiamo che, come gli estensori hanno voluto sottolineare, ricorda la oramai definitiva constatazione che il Rup non è un semplice responsabile di procedimento ma il responsabile di un intervento/progetto che al suo interno si compone di una serie di procedimenti amministrativi (e non sub-procedimenti).
Il responsabile di fase
Come anticipato, il nuovo codice dei contratti nell'articolo 15, comma 4, prevede che il Rup possa essere affiancato da collaboratori ed in specie dai responsabili di fase. Uno per la fase di affidamento e uno, si potrebbe dire, a competenza tecnica per le fasi della programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto.
Fin dalle prime indicazioni normative non appare dubbio il fatto che i responsabili di fase siano semplicemente dei responsabili di procedimento ed in quanto tali privi della possibilità di adottare provvedimenti a valenza esterna, prerogativa, quest'ultima, invece espressamente attribuita dal nuovo codice, a conferma anche di indirizzi giurisprudenziali consolidati, al responsabile unico del progetto a prescindere dal fatto che coincida con il dirigente/responsabile del servizio.
Pertanto, se il responsabile della fase di affidamento, se nominato, è tenuto ad acquisire il Cig (come previsto nell'allegato I.2 dedicato ai compiti/attività del Rup) è altrettanto vero che al responsabile unico compete, ad esempio, decidere le procedure/procedimenti di aggiudicazione, adottare il provvedimento di esclusione dalla competizione. Mentre solo se coincidesse con il dirigente/responsabile del servizio, può adottare il provvedimento (la decisione) di aggiudicazione.
Dal nuovo codice, quindi, emerge un quadro più chiaro delle competenze del Rup strutturato, anche in ossequio ad una istanza di valorizzazione della figura, come organo con chiare competenze decisorie e quindi, per espressa previsione normativa.
L'ordinanza
Giungendo al caso trattato nell'ordinanza del giudice pescarese si rileva che il provvedimento di esclusione (del ricorrente) viene adottato dal responsabile di fase e non dal Rup. Non a caso, tra l'altro, il responsabile di fase viene espressamente individuato come «Responsabile di Procedimento per la fase di affidamento».
Il Rup, come si legge nell'ordinanza, viene chiamato addirittura post aggiudicazione ad adottare un provvedimento di ratifica del provvedimento di esclusione adottato dal responsabile di fase. Circostanza, almeno una delle circostanze, che inducono il giudice a non concedere la sospensiva (non solo sul provvedimento di esclusione ma sullo stesso provvedimento di aggiudicazione adottato dal soggetto competente).
L'importanza pratico-operativa dell'ordinanza -fermo restando che si tratterà di verificare, comunque, l'epilogo della trattazione nel merito- è data dalla prospettata possibilità di ratificare l'atto adottato dal responsabile di fase da parte del Rup.
Atto del responsabile di fase, invece, che avrebbe potuto essere considerato come non coerente con il chiaro disposto che ora si legge nell'articolo 7, comma 1, lett. d), dell'allegato I.2, in cui si rimarca che il responsabile unico (e non il responsabile di fase) «dispone le esclusioni dalle gare». Prospettiva che conferma il ruolo fondamentale -irrinunciabile e insostituibile- del responsabile unico del progetto in ogni fase di realizzazione dell'intervento pubblico (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 28.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, la demolizione a 4 anni dalla condanna non viola in sé il diritto abitativo.
Non ci si può opporre validamente all’ordine di demolizione del manufatto abusivo semplicemente adducendo che è destinato ad abitazione familiare dell’autore del reato. Infatti, l’interesse pubblico alla tutela del territorio e alla repressione di condotte illecite può sì recedere di fronte al diritto garantito alla tutela del domicilio, ma solo a seguito di un concreto giudizio di proporzionalità.
Quest’ultimo parametro relativo alla misura esecutiva di demolizione va comunque valutato solo nel caso, appunto, che l’immobile abusivo sia effettivamente utilizzato come dimora abituale. Ma la valutazione può propendere per la legittimità della demolizione anche in base al considerevole lasso di tempo intercorso tra la definitività della decisione che impone la demolizione e la concreta esecuzione della stessa.
Dato temporale che può ben essere valutato come congruo se consente alla persona dimorante nel manufatto di reperire una nuova e alternativa soluzione abitativa.
L’ordine di demolizione e il criterio di proporzionalità
Nel caso concreto la Corte di Cassazione IV Sez. penale -con la sentenza 08.03.2024 n. 9907- ha respinto il ricorso del privato che riteneva sproporzionata e quindi illegittima l’ingiunzione di demolizione assunta dalla Corte di appello ben 4 anni dopo la condanna per l’abuso.
Secondo il ricorrente la Corte di appello in funzione di giudice dell’esecuzione non avrebbe tenuto conto del proprio diritto alla “casa” incidendolo illegittimamente con una misura del tutto sproporzionata.
La violazione lamentata sarebbe stata -secondo il ricorso- quella dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che garantisce il diritto al rispetto della «vita privata e familiare» e al domicilio.
L’importante precisazione della Suprema Corte
La Cassazione nel rigettare il ricorso fa il punto al fine di delineare il perimetro del giudizio di proporzionalità che il giudice è tenuto a svolgere ed esplicitare nell’assumere la propria decisione.
E precisa che, appunto, non è sufficiente che l’imputato asserisca che l’immobile abusivo colpito dall’ordine di demolizione sia destinato a propria dimora abituale, ciò non arresta di per sé l’azione esecutiva, ma obbliga il giudice a verificarne la proporzionalità ossia l’assenza di violazione di diritti fondamentali della persona e, in particolare, della garanzia offerta dalla norma convenzionale Cedu.
Infine, la Suprema corte chiarisce che il giudice nel procedere al raffronto degli interessi contrapposti non può applicare un giudizio puramente discrezionale, ma deve attenersi al dare rilevanza ad alcuni specifici elementi:
   - l’età del ricorrente;
   - lo stato di salute e
   - le risorse economiche di chi vive in una casa abusiva.
E, ripercorrendo la propria giurisprudenza e quella della Corte Edu, afferma che ha anche rilevanza -al fine di affermare la proporzionalità della misura, cioè il rispetto della garanzia del domicilio- anche il tempo intercorso tra l’accertamento dell’abuso e l’esecuzione della demolizione dello stesso.
Un tempo che garantisce il rispetto del diritto “abitativo” -e non proprietario- della persona. Infatti la tutela del diritto di proprietà afferma la giurisprudenza di legittimità- non è spendibile in sé per affermare la sproporzione dell’ingiunzione di demolizione (articolo NT+Diritto del 08.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione della richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica in sanatoria, secondo giurisprudenza constante, comunque non influisce sulla legittimità dell’ordine di demolizione, che va valutato secondo il principio tempus regit actum, né sulla procedibilità del gravame potendo al più determinare l’impossibilità di portare ad esecuzione l’ordinanza nelle more della definizione dell’istanza.
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Per consolidata e condivisa giurisprudenza, ai fini dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento e, dunque, non è necessario acquisire le preventive deduzioni dell’interessato.
E, comunque, la censura di difetto di partecipazione trova, nel caso in questione, dequotazione per l’applicabilità nel caso di specie dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990, atteso che le censure volte a contestare la legittimità dell’ordine di demolizione sono infondate, come di seguito esposto.

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Giova ricordare che la giurisprudenza è univoca nel sostenere che in ordine alla risalenza e alla consistenza edilizia, quali specificamente contestate dall'amministrazione, l'onere della prova per evitare sanzioni demolitorie incombe, sulla base del principio di vicinanza della prova, sul soggetto destinatario della sanzione.
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Il ricorso è infondato e va respinto secondo quanto segue.
Si rileva in primis che la presentazione successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione della richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica in sanatoria, secondo giurisprudenza constante anche della sezione, comunque non influisce sulla legittimità dell’ordine di demolizione, che va valutato secondo il principio tempus regit actum, né sulla procedibilità del gravame potendo al più determinare l’impossibilità di portare ad esecuzione l’ordinanza nelle more della definizione dell’istanza (cfr., tra le altre, Tar Napoli, Sez. VI, sent. n. 3264 del 2021 e n. 1125 del 2021; Sez. II, sent. n. 1345 del 2021, con la giurisprudenza citata).
Tento premesso, infondati sono innanzitutto i primi due motivi di ricorso, considerato che il comune di Capri, tenuto conto che l’immobile interessato dalle opere abusive era (ed è) in comproprietà dei sig.ri -OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS- mentre l’ordinanza di demolizione n. 150/2019 era stata notificata ad uno solo dei comproprietari, ha ritenuto opportuno, con l’ordinanza in questione, ritirare la precedente ordinanza di demolizione per sostituirla con una nuova ordinanza con cui l’ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi è stato indirizzato ad entrambi i proprietari, con ciò emendando solo per questo specifico aspetto l’ordinanza precedente.
Anche l’ordinanza n. 8 del 2022 trova, quindi, fondamento nei precedenti accertamenti tecnici già effettuati dall’Ufficio Tecnico del Comune di Capri unitamente al Comando della Guardia di Finanza e non necessitava l’avvio di un nuovo iter istruttorio e, del resto, i ricorrenti non comprovano in alcun modo che lo stato dei luoghi sia mutato rispetto agli accertamenti già compiuti e, anzi, rappresentano di aver presentato istanza di compatibilità paesaggistica in relazione ai manufatti per cui è causa.
Inoltre, per consolidata e condivisa giurisprudenza, ai fini dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento (cfr. tra le altre Cons di Stato 12.05.2020, n. 2980; Cons di Stato 11.03.2019, n. 1621) e, dunque, non è necessario acquisire le preventive deduzioni dell’interessato. E comunque la censura di difetto di partecipazione trova, nel caso in questione, dequotazione per l’applicabilità nel caso di specie dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990, atteso che le censure volte a contestare la legittimità dell’ordine di demolizione sono infondate, come di seguito esposto.
Infondate sono le censure relative al manufatto di cui al punto 1) dell’ordinanza di demolizione (“realizzazione, sul terrazzamento lato monte, di un manufatto completamente abusivo delle dimensioni in pianta di circa 6.00 mt. X 6,50 realizzazione con muratura con pietrame a faccia a vista e solaio in poutrelles e tavelloni, di altezza media mt. 2,45 utilizzato allo stato come deposito. Il locale si presenta con porta d'accesso e finestra parzialmente chiusa da elementi in legno”), in quanto le allegazioni di parte ricorrente, rimaste sfornite di un adeguato supporto probatorio, non valgono ad incrinare l’impianto istruttorio su cui fonda l’ordinanza impugnata.
Si rileva, infatti, che i ricorrenti non offrono prova adeguata della asserita preesistenza dell’opera (nella consistenza rilevata dal comune nel sopralluogo del 2019) all’anno 1967.
In proposito giova ricordare che la giurisprudenza è univoca nel sostenere che in ordine alla risalenza e alla consistenza edilizia, quali specificamente contestate dall'amministrazione, l'onere della prova per evitare sanzioni demolitorie incombe, sulla base del principio di vicinanza della prova, sul soggetto destinatario della sanzione (ex multis, Cons. di Stato, Sez. II, 30.04.2020, n. 276; Cons. di Stato, Sez. VI, 24.01.2020, n. 588; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, n. 1073/2017; n. 3813/2020).
Orbene, la carenza finanche di un principio di prova -che non può essere rinvenuto né nel volo aereo del 1955 depositato in giudizio (che offre un immagine del tutto inidonea a comprovare la esistenza e consistenza del manufatto in questione così come accertata dal comune nei sopralluoghi del 2019) né nelle mere asserzioni contenute nella perizia tecnica di parte- circa (non solo la esistenza in sé, ma) la effettiva consistenza del manufatto in data antecedente al 1967 depriva di concreta significanza le censure di parte ricorrente.
E, invero, la asserita “preesistenza” al 1967 -in quanto funzionale a contrastare l’ordinanza in questione- deve riferirsi al manufatto nelle dimensioni e nella consistenza accertata all’esito dei sopralluoghi effettuati dall’amministrazione nel 2019 e posti alla base del provvedimento impugnato.
Sul punto, i ricorrenti, oltre ad aver prodotto un volo aereo del 1955 che offre una immagine sgranata e poco chiara e del tutto inidonea a provare l’esistenza e la consistenza dello specifico manufatto in questione così come accertata dal comune nei sopralluoghi del 2019, si limitano a produrre un perizia tecnica di parte che formula dei generici rilievi in ordine alla realizzazione non recente del manufatto che “verosimilmente” risalirebbe “a circa 50 anni addietro” e ciò in considerazione delle “tecniche costruttive impiegate”, della “tipologia dei mattoni rossi utilizzati (oggi prodotti in maniera limitata e usati per lo più in restauro)” e dello “stato avanzato di deterioramento che fa apparire la malta di colore scuro”: rilievi che restano mere e apodittiche asserzioni di parte, attesa la mancanza di qualsivoglia supporto di analisi stratigrafiche dei materiali utilizzati dalle quali si potrebbe desumere una possibile e prossima epoca di realizzazione delle opere in questione, come persuasivamente rilevato dal tecnico del comune nella relazione del 05.06.2020 depositata in atti; e come tali non idonee all’assoluzione dell’onere probatorio ricadente in carico ai ricorrenti.
Né l’asserita esistenza nel 2008, secondo la lettura della ortofoto della regione Campania propugnata dai ricorrenti, di opera del genere di quella in questione -pacificamente realizzata sine titulo– potrebbe valere a deprivare di fondamento l’ordinanza impugnata, né può valere a tal fine il certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune in data 21.07.1986 all’atto della compravendita dell’intero immobile, non essendo elementi idonei ad attestare la preesistenza dello specifico manufatto in questione ante 1967 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.03.2024 n. 1595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante e condivisa giurisprudenza, nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo la regola è quella dell'autonomia, fermo il disposto di cui all'art. 654 c.p.p., secondo cui il giudicato penale non determina un vincolo assoluto all'amministrazione per l'accertamento dei fatti rilevanti nell'attività di vigilanza edilizia. Né la sentenza penale può condizionare in modo inderogabile il giudizio amministrativo.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre solo l'accertamento dei “fatti materiali” e non anche la loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane circoscritta al processo penale e non può condizionare l'autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o civile o dell’amministrazione.
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Per giurisprudenza costante e condivisa, “Nel momento in cui un'opera è realizzata al soddisfacimento di esigenze non temporanee non è possibile beneficiare, anche quando la stessa sia stata realizzata con materiali facilmente amovibili, del regime delle opere precarie”.
D’altra parte, ciò che assume rilevanza nella indagine circa la esistenza di una duratura trasformazione del territorio è un criterio di tipo teleologico-funzionale, piuttosto che di natura meramente morfologico-strutturale.
Per cui, ai fini dello scrutinio circa la necessità del permesso di costruire, si devono valutare come opere di “nuova costruzione” quelle opere che comunque implichino una stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze non precarie del committente sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile, dovendosi, pertanto, da ciò logicamente inferire che, allora, sono soggetti a titolo edilizio tutti i manufatti che, pur semplicemente aderenti al suolo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale.
Inoltre, va ricordato che, come da costante giurisprudenza in materia, “a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva, al fine dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che urbanistico”.
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Infondate anche sono le censure relative alle ulteriori opere abusive sanzionate dal comune basate sull’asserito rilievo pertinenziale e sulla asserita carenza di incidenza delle stesse sul carico urbanistico e paesaggistico.
In primis, si rileva che per costante e condivisa giurisprudenza nei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo la regola è quella dell'autonomia, fermo il disposto di cui all'art. 654 c.p.p., secondo cui il giudicato penale non determina un vincolo assoluto all'amministrazione per l'accertamento dei fatti rilevanti nell'attività di vigilanza edilizia. Né la sentenza penale può condizionare in modo inderogabile il giudizio amministrativo.
In particolare, sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre solo l'accertamento dei “fatti materiali” e non anche la loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane circoscritta al processo penale e non può condizionare l'autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o civile o dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 9656 del 03.11.2022 con la giurisprudenza citata).
Tanto premesso, le censure sono infondate.
Per giurisprudenza costante e condivisa, infatti, “Nel momento in cui un'opera è realizzata al soddisfacimento di esigenze non temporanee non è possibile beneficiare, anche quando la stessa sia stata realizzata con materiali facilmente amovibili, del regime delle opere precarie” (cfr. Cons. di Stato, VI, 10.01.2020, n. 260) e, nella fattispecie in questione, il carattere stabile e duraturo del fabbricato di cui al punto a) dell’ordinanza è del resto pacificamente riconosciuto dagli stessi ricorrenti che nel ricorso affermano che il manufatto “è strutturalmente funzionale all’immobile principale” e realizzato “da oltre un decennio”, oltre che riscontrato dall’amministrazione, e anche il fabbricato di cui al punto b) ha carattere stabile e duraturo (nella stessa perizia di parte si afferma che “per come indicato dal proprietario è adibito ad uso abitazione” ed è anche dotato di un bagno).
D’altra parte, ciò che assume rilevanza nella indagine circa la esistenza di una duratura trasformazione del territorio è un criterio di tipo teleologico-funzionale, piuttosto che di natura meramente morfologico-strutturale (cfr. Cons. di Stato, VI, 01.04.2016, n. 1291).
Per cui, ai fini dello scrutinio circa la necessità del permesso di costruire, si devono valutare come opere di “nuova costruzione” quelle opere che comunque implichino una stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze non precarie del committente sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile, dovendosi, pertanto, da ciò logicamente inferire che, allora, sono soggetti a titolo edilizio tutti i manufatti che, pur semplicemente aderenti al suolo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale (TAR Campania, III, 02.03.2020, n. 948; TAR Campania, VI, 05.08.2019, n. 4286).
Inoltre, va ricordato che, come da costante giurisprudenza in materia, “a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva, al fine dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che urbanistico” (così Tar Napoli, sent. n. 1524 del 2022, sent. n. 3264 del 2021; cfr., tra le altre, anche Consiglio di Stato, sent. n. 7426 del 2021) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.03.2024 n. 1595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIAtti tributari con firma a stampa del funzionario. Va indicato il provvedimento dirigenziale. La Cassazione chiarisce i contenuti degli avvisi di accertamento emanati dagli enti locali.
Gli avvisi di accertamento emanati dagli enti territoriali possono essere sottoscritti con firma a stampa del funzionario responsabile del tributo. È speciale la norma che attribuisce agli enti locali questa facoltà e non è stata abrogata da disposizioni di legge successive. È però richiesto che gli atti siano prodotti mediante sistemi informatici automatizzati e che il funzionario e la fonte dei dati siano riportati in un provvedimento dirigenziale, i cui estremi vanno indicati nell'atto impositivo.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 07.03.2024 n. 6142.
Per i giudici di legittimità, la sottoscrizione dell'avviso può avvenire in maniera autografa, ovvero mediante l'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, in base a quanto stabilito dall'articolo 1, comma 87, della legge 549/1995, norma che “è speciale e non abrogata da successivi provvedimenti di legge”.
E' imposto che “gli atti siano prodotti mediante sistemi informatici automatizzati” e “che il nominativo del funzionario responsabile e la fonte dei dati siano riportati in un apposito provvedimento di livello dirigenziale”. Inoltre, gli estremi del provvedimento dirigenziale devono essere indicati “nell'avviso di accertamento, insieme alla dicitura che si tratta di firma a stampa”.
Dunque, sono legittimi gli atti di accertamento riguardanti i tributi regionali e locali sottoscritti con firma a stampa, purché siano prodotti da sistemi informativi automatizzati. La sottoscrizione può essere sostituita dall'indicazione a stampa del soggetto responsabile, a condizione che ciò risulti da un'apposita determina dirigenziale, i cui estremi devono essere riportati negli atti impositivi, come previsto dall'articolo 1, comma 87, della legge sopra citata.
Questa disposizione si applica non solo alla gestione diretta, ma anche a quella in concessione delle attività di recupero dei crediti. Infatti, nonostante il provvedimento di livello dirigenziale si riferisca a un atto della pubblica amministrazione, lo stesso principio vale qualora l'attività sia gestita da un concessionario.
In questo caso la firma autografa può essere sostituita da quella a stampa, a condizione che il nominativo del responsabile, nonché la fonte dei dati, risultino indicati in un apposito atto sottoscritto dal concessionario oppure da un altro soggetto che da questi abbia ricevuto il relativo potere. Non è necessaria una nomina ad hoc qualora il legale rappresentante della società concessionaria abbia mantenuto la responsabilità diretta dell'attività.
Mentre in un caso c'è delega di poteri al dirigente pubblico, nell'altro il potere discende dalla carica ricoperta nell'ambito dell'organigramma societario. La verifica della nomina può essere effettuata tramite il registro delle imprese, istituito presso le camere di commercio. Forma oggetto di contenzioso l'obbligo o meno di allegare all'atto impositivo la determina dirigenziale che autorizza la firma a stampa.
La corte di giustizia tributaria di primo grado di Salerno (sentenza 781/2023) ha stabilito che sono nulli gli avvisi di accertamento o le ingiunzioni di pagamento sottoscritti con la firma a stampa se non viene prodotto in giudizio, in caso di contestazione del contribuente, il provvedimento dirigenziale che autorizza la sottoscrizione senza la firma autografa.
Il mancato deposito impedirebbe all'interessato e al giudice di verificare l'esistenza e la validità della delega del potere di firma del funzionario che ha emanato il provvedimento amministrativo.
Per i giudici tributari, l'ingiunzione di pagamento era stata regolarmente sottoscritta con firma a stampa ed erano stati indicati gli estremi del prodromico provvedimento dirigenziale, che però non risultava depositato in giudizio. Pertanto, ha ritenuto fondata la contestazione dell'omessa allegazione dell'atto amministrativo (articolo ItaliaOggi del 29.03.2024).
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ORDINANZA
1. La prima censura deduce <ex art. art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sulla mancanza della firma autografa, non sostituibile dalla firma digitale>.
Secondo la società ricorrente, l’avviso di accertamento n. 231 del 12.06.2019 avente a oggetto l’imposta comunale di soggiorno per l’anno 2017 non reca alcuna firma autografa, in quanto la possibilità di sottoscrizione digitale, e dunque l’applicabilità dell’art. 2, comma 6-bis, d.lgs. 18.11.2005, n. 85 (in vigore dal 27.01.2018), estesa anche agli atti di natura sanzionatoria tributaria, è subordinata alla successiva emanazione dei decreti attuativi, mai emessi.
Il fatto controverso, pertanto, investe la necessità o meno della firma autografa dell’atto di accertamento impugnato ovvero l’ammissibilità della firma digitale anche in assenza di un decreto attuativo per l’applicabilità del Codice digitale.
Detto fatto inoltre è stato oggetto di discussione tra le parti, tant’è che sia l’appellante Ta. sia l’appellato Comune di Racines avevano discusso la tematica da pagina 5 a pagina 8 del ricorso in appello del 21.09.2020 ( doc. n. 9 del fascicoletto ex art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., già costituente l’atto introduttivo di secondo grado) rispettivamente da pagina 3 a pagina 7 della comparsa di costituzione con controdeduzioni del 20.10.2020 (doc. n. 10 del fascicoletto ex art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., già costituente l’atto di costituzione del Comune di Racines in secondo grado).
La C.T. di I° grado di Bolzano, nella sentenza n. 59/2020 aveva erroneamente ritenuto che il nuovo comma 6-bis dell’art 2 del d.lgs. 07.03.2005, n. 82 prevedesse, ai fini dell’applicabilità del Codice digitale, l’emanazione di un decreto attuativo solo per le attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale e non invece per gli atti di accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria di cui al comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005.
Mentre i giudici di appello hanno risolto la controversia in funzione della ragion più liquida senza esaminare la questione pregiudiziale di merito.
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7. La prima censura è destituita di fondamento.
Indubbiamente, i giudici di appello hanno omesso di statuire sull’eccezione pregiudiziale relativa alla nullità dell’avviso per la presenza della firma digitale.
Tuttavia, la deduzione della omessa pronuncia su un motivo di appello integra un error in procedendo che legittima il giudice di legittimità all'esame degli atti del giudizio, in quanto l'oggetto di scrutinio attiene al modo in cui il processo si è svolto, ossia ai fatti processuali; quando, con il ricorso per cassazione, venga dedotto un error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l'invalidità denunciata, mediante l'accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (Cass. 16028 del 07/06/2023; Cass. del 13/08/2018, n. 20716; Cass. 30684 del 21/12/2017).
Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo eIDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17.09.2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 01.07.2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.
Ai sensi dell’art. 40 C.A.D., le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. 13.11.2014.
Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo. La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.
Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicché l’applicazione del C.A.D. determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti (Cass. 2021 n. 1557).
Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all'art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell'atto impositivo emesso "ante tempus", l'osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.
Il d.lgs. 13.12.2017, n. 217 art. 2, lett. e), che ha aggiunto all’art. 2 C.A.D., il comma 6-bis, ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.
Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.
Deve ritenersi applicabile il Codice dell’Amministrazione digitale, modificato dal d.lgs. 13.12.2017, n. 217 all’attività dell’Agenzia delle entrate concernente gli atti di accertamento, rettifica, liquidazione e, come nel caso in esame, irrogazione sanzioni, firmati digitalmente e notificati al domicilio digitale del privato. In realtà, il descritto intervento normativo ha sciolto una serie di precedenti dubbi interpretativi sull’applicabilità di detto Codice alle attività ispettive e di controllo dell'Agenzia che, comunque, rientrano nell’attività di accertamento lato sensu.
Ai sensi dell’art. 23 CAD, <Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato>.
Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo presentava la sottoscrizione digitale (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017; Cass. 08.07.2022, n. 21712; Cass. 21.01.2021, n. 1150).
Questa Corte (ordinanza n. 29820/2021) ha confermato la legittimità della sottoscrizione degli avvisi di accertamento mediante l'apposizione della "firma a stampa" del funzionario responsabile del tributo.
L'articolo 1, comma 162, della legge 27.12.2006, n. 296 stabilisce che l'avviso di accertamento deve essere sottoscritto dal funzionario responsabile del tributo. La sottoscrizione dell'avviso di accertamento può avvenire in diversi modi, a seconda della forma dell'avviso stesso.
Nel caso dell'avviso di accertamento cartaceo, normalmente ancora utilizzato per i contribuenti che non sono dotati di un domicilio digitale, la sottoscrizione dell'avviso può avvenire in maniera autografa, ovvero mediante l'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, in base a quanto previsto dall'articolo 1, comma 87, della legge 28.12.1995, n. 549 norma che, ha sottolineato la Corte di cassazione, è speciale e non abrogata da successivi provvedimenti di legge (Cassazione n. 20628/2017, n. 9079/2015).
Nel caso dei tributi regionali o locali ciò può avvenire solo a una serie di condizioni:
   - che gli atti siano prodotti mediante sistemi informatici automatizzati;
   - che il nominativo del funzionario responsabile e la fonte dei dati siano riportati in un apposito provvedimento di livello dirigenziale;
   - che gli estremi del provvedimento dirigenziale siano indicati nell'avviso di accertamento, insieme alla dicitura che si tratta di firma a stampa e l'indicazione della fonte normativa.

La legittimità dell'utilizzo della firma a stampa, alle condizioni sopra indicate, è confermata anche da altre pronunce di questa Corte di cassazione (n. 20628/2017 e n. 12756/2019) ed è altresì possibile che la stessa venga impiegata dal concessionario dei tributi comunali, come confermato dalla sentenza n. 31707/2018.

EDILIZIA PRIVATA: Decadenza del titolo edilizio e regime giuridico delle opere parzialmente eseguite e non successivamente completate.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Permesso di costruire – Decadenza – Opere edilizie parzialmente eseguite – Regime giuridico.
E’ rimesso all’Adunanza plenaria il seguente quesito:
   - quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio.
Da un lato, la giurisprudenza dominante ha ritenuto che la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini -cioè per fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di utilizzo/inutilizzo del titolo- ha efficacia ex nunc e non ex tunc e, quindi, non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non possono essere ritenute abusive) -ove queste risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire- ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate.
Con la conseguenza che, in mancanza di proroga o rinnovo del titolo, gli interventi effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, il che comporta la legittimità dell'ordine di demolizione solo per quanto realizzato successivamente all'intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza.
Dall’altro, l’art. 38 del d.P.R. 380 del 2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene. (1)

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   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. VI, 27.06.2022, n. 5258; Cons. Stato, 19.03.2021, n. 1377; Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2019 n. 5588; Cons. Stato, sez. VI, 19.12.2019 n. 8605; Cons. Stato, sez. VI, 2018, n. 2155
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza non definitiva 07.03.2024 n. 2228 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA NON DEFINITIVA
28. Viene, a questo punto, in esame il profilo di appello relativo alla sorte delle opere eseguite in costanza di un titolo edilizio successivamente decaduto.
28.1. Come esposto in premesse, il giudice di prime cure ha affermato che, sebbene il permesso decada –decorso inutilmente il termine di conclusione dei lavori– per la sola parte non eseguita, il mantenimento delle opere presuppone la possibilità di portare a compimento l’opera iniziata; diversamente opinando, dovrebbe ammettersi la possibilità per il privato titolare di un permesso di costruire di abbandonare l’opera incompiuta –specie se funzionalmente non autonoma– con ingiustificato deturpamento del contesto circostante, specie se l’opera contrasti con la regolamentazione urbanistica dell’area.
28.2. L’appellante censura il capo di sentenza, osservando che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio valido ma poi decaduto non possono essere oggetto di ordine di demolizione ex art. 31 del D.P.R. 380/2001, che riguarda le opere eseguite sine titulo ovvero abusivamente, e data la tassatività delle norme sanzionatorie non può essere esteso a fattispecie non espressamente contemplate.
29. Il Collegio osserva che sulla questione si è ripetutamente espressa la giurisprudenza di questo Consiglio, affermando che la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini -cioè per fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di utilizzo /inutilizzo del titolo- ha efficacia ex nunc e non ex tunc e quindi non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non possono essere ritenute abusive) -ove queste risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire- ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate; in mancanza di proroga o rinnovo del titolo, gli interventi effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, il che comporta la legittimità dell'ordine di demolizione solo per quanto realizzato successivamente all'intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza (Consiglio di Stato sez. VI, 27/06/2022, n. 5258, 19/03/2021, ord n. 1377 ed ivi richiam. Cons. St., IV, 06.08.2019 n. 5588).
Per Consiglio di Stato, sez. VI, 19.12.2019 n. 8605, una eventuale decadenza del titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nel termine triennale non consentirebbe la demolizione del manufatto, operando l'effetto decadenziale ex nunc e lasciando, pertanto, salve le opere a tale data già realizzate: <Invero, in una corretta interpretazione dell'articolo 15 del DPR n. 380 del 2001, la decadenza impedisce solo l'ulteriore corso dei lavori ma non determina illeceità urbanistica di quanto già realizzato nella vigenza del titolo edificatorio.
Come più sopra precisato, infatti, l'abusività dell'opera (e la sua conseguente demolizione) avrebbe potuto legittimamente predicarsi solo per effetto dell'annullamento del permesso di costruire per vizi di legittimità, determinazione questa nella specie mai assunta
.>.
29.2. D’altra parte, si può osservare che, se l’art. 31 del D.P.R. 380/2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione, l’art. 38 dello stesso Decreto ha disciplinato il particolare caso di “interventi eseguiti in base a permesso di costruire annullato”, prevedendo la possibilità che in luogo dell’ingiunzione a demolire possa essere applicata dall’Amministrazione una sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere.
Il Consiglio di Stato (cfr. ad es. sent. n. 6753/2018 della Sez. VI) ha evidenziato che l’art. 38 del DPR 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (cfr. ex multis Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 2155/2018).
Motivo per cui striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art. 31 in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto.
30. D’altra parte, il Collegio osserva che l’orientamento del giudice di prime cure appare non irragionevole e tuttavia, in carenza di una norma che espliciti il regime delle opere parzialmente eseguite cui non faccia seguito il completamento dei lavori in virtù di un nuovo titolo (come nel caso in questione, in cui l’impresa si è vista respingere per due volte un progetto di completamento, in virtù di atti cui ha prestato acquiescenza), andrebbe esclusa l’applicazione analogica di una disciplina sanzionatoria espressamente circoscritta ad opere eseguite senza titolo (o in difformità dallo stesso).
31. Potrebbe, tuttavia, ritenersi che l’opera parziale costituisca un manufatto difforme dall’intervento edilizio autorizzato, e per questa via possa ritenersene precluso il mantenimento.
32. Poiché la tesi da ultimo suggerita potrebbe porsi in frizione con gli orientamenti precedentemente richiamati, il Collegio ritiene di sollecitare l’intervento dell’Adunanza plenaria.
33. Viene dunque rimesso all’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato il seguente quesito:
  
quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza non definitiva 07.03.2024 n. 2228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono, nullo l’atto del Comune che non rispetta la scadenza per le integrazioni. Il Tar Campania boccia il diniego dell’ente che anticipa con un preavviso di diniego il termine di 90 giorni concesso al proprietario per documentare la richiesta.
Nella pratica di condono è nullo l’atto del Comune che non rispetta il termine di 90 giorni per la presentazione di integrazioni.
È quanto emerge da una sentenza 04.03.2024 n. 587 pronunciata dal TAR Campania-Salerno, Sez. II, in merito alla richiesta di condono presentata da una persona al Comune di Angri per un’opera realizzata senza titolo in un’area non distante da un corso d’acqua che scorre su un alveo in cemento.
La vicenda ha inizio quando viene presentata istanza di condono edilizio per un'opera realizzata senza titolo.
Dal Comune arriva il diniego per carenza dell'autorizzazione paesaggistica, del nulla osta del Consorzio di Bonifica per aree ricadenti nei 10 metri dai fiumi e dai canali (L.R.C. 14/1982), della relazione di compatibilità idrogeologica (in quanto le opere ricadono nel Piano Stralcio dell'Autorità di Bacino) e della denuncia ai fini della T.A.R.R.U..
Nel ricorso si eccepisce che «il temine per l'integrazione documentale deve essere pari a novanta giorni, mentre, nella fattispecie, con il preavviso di diniego del 02.12.2021, al ricorrente sono stati concessi solo trenta giorni per fornire la documentazione richiesta».
Per i giudici il ricorso è fondato.
Ricordando le norme relative ai tempi per la presentazione di integrazioni documentali i magistrati, guardano al caso in specie rimarcano che «il Comune ha emesso un provvedimento recante Avvio del procedimento di diniego, con cui ha richiesto documentazione integrativa e disposto che la mancata trasmissione della stessa entro il termine di trenta giorni avrebbe comportato l'improcedibilità della domanda».
Non solo: «Successivamente ha disposto, con il provvedimento in questa sede impugnato, il diniego dell'istanza di condono per il mancato deposito delle integrazioni - argomentano ancor a-. Risulta quindi evidente che l'Amministrazione, non avendo rispettato il termine previsto dalla legge a vantaggio della parte per procedere alle integrazioni documentali, è incorsa nel vizio lamentato dalla ricorrente.
Né vale, in senso contrario, invocare l'improcedibilità della domanda di sanatoria per mancato riscontro alla richiesta di integrazione del 27.10.2006, posto che tale circostanza non è stata posta a fondamento del gravato diniego, avendo anzi il Comune, nel riattivato procedimento, rinnovato la domanda di integrazione documentale (senza però, come detto, riconoscere in favore della parte il termine minimo legale)
».
In conclusione, «il ricorso è manifestamente fondato sotto tale assorbente profilo, con conseguente annullamento del provvedimento del Comune» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.03.2024).
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SENTENZA
Il ricorso è fondato.
Invero, ai sensi dell’art. 39, comma 4, della Legge n. 724/1994, come modificato dall’art. 2, comma 37, lett. d), della Legge n. 662/1996, “La mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune comporta l'improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione”.
Osserva il Collegio che, come chiarito dal Consiglio di Stato, “La stessa causa di improcedibilità vige anche per le domande presentate ai sensi del condono edilizio ex L. n. 326/2003, il quale richiama e rinvia alle stesse procedure di cui alla L. n. 47/1985 e L. n. 724/1994 tramite i commi 25, 38 e 40 dell’art. 32 D.L. n. 269-2003 convertito con modifiche in L. n. 326/2003” (Cons. Stato, Sez, II, sentenza n. 1766/2020).
Orbene, nel caso di specie il Comune ha emesso un provvedimento recante “Avvio del procedimento di diniego ai sensi dell’art. 10-bis della Legge 241/1990 della domanda di concessione edilizia in sanatoria del 10/12/2004, prot. n. 28616, pratica n. 2004/00442/CON326 presentata ai sensi della Legge 326/2004”, con cui ha richiesto documentazione integrativa e disposto che la mancata trasmissione della stessa entro il termine di trenta giorni avrebbe comportato l’improcedibilità della domanda.
Successivamente ha disposto, con il provvedimento in questa sede impugnato, il diniego dell’istanza di condono per il mancato deposito delle integrazioni.
Risulta quindi evidente che l’Amministrazione, non avendo rispettato il termine previsto dalla legge a vantaggio della parte per procedere alle integrazioni documentali, è incorsa nel vizio lamentato dalla ricorrente.
Né vale, in senso contrario, invocare l’improcedibilità della domanda di sanatoria per mancato riscontro alla richiesta di integrazione del 27.10.2006, posto che tale circostanza non è stata posta a fondamento del gravato diniego, avendo anzi il Comune, nel riattivato procedimento, rinnovato la domanda di integrazione documentale (senza però, come detto, riconoscere in favore della parte il termine minimo legale).
In conclusione, il ricorso è manifestamente fondato sotto tale assorbente profilo, con conseguente annullamento del provvedimento del Comune di Angri prot. 28616 di data 10.02.2022.

EDILIZIA PRIVATA: Sul permesso di costruire che si è formato a seguito del decorso del tempo, in assenza di un espresso diniego da parte del Comune.
Il consolidato orientamento secondo il quale il silenzio-assenso previsto in tema di permesso di costruire non si forma per il solo fatto dell'inutile decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa dell'amministrazione comunale e dell'adempimento degli oneri documentali necessari per l'accoglimento della domanda, ma presuppone che la parte onerata dia prova della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo edilizio, risulta allo stato mutato alla luce della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato.
In particolare, il Consiglio di Stato ha affermato che: “va richiamata quella giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la quale ritiene che anche ove l’attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l'adozione non sia conforme alle norme, si rende comunque configurabile la formazione del silenzio-assenso.
Ciò, si ritiene confermato da puntuali ed univoci indici normativi con il quali il legislatore ha inteso chiaramente sconfessare la tesi secondo cui la possibilità di conseguire il silenzio-assenso sarebbe legata, non solo al decorso del termine, ma anche alla ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo: in tal senso si fa richiamo tra l’altro per la parte di interesse ai fini della questione in esame alla espressa previsione della annullabilità d'ufficio di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990 anche nel caso in cui il “provvedimento si sia formato ai sensi dell'art. 20”, presuppone evidentemente che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell'atto”.
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... per l'annullamento del provvedimento di rigetto della richiesta presentata dal ricorrente in data 15.02.2023, prot. n. -OMISSIS-/2023, volta ad ottenere, in relazione alla istanza di permesso di costruire presentata il 15.07.2022, "l''attestazione del silenzio-assenso ex artt. 20 d.P.R. n. 380/2001 e 62 D.L. Semplificazioni n. 77/2021, convertito nella L. n. 108/2021, in relazione all’art. 20 L. n. 241/1990 (comma 2-bis)".
...
1. Con il ricorso in esame è impugnato il provvedimento del 01.03.2022 con cui il Comune di Capri, a seguito della richiesta del ricorrente circa il rilascio di una attestazione relativa alla avvenuta formazione del silenzio assenso sulla istanza di rilascio di permesso a costruire, ha opposto che il titolo edilizio non si era formato.
Il Comune ha ritenuto che non si fosse perfezionato il silenzio assenso sulla istanza di permesso a costruire ai sensi dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. 380 del 2001 in quanto, nella specie, i progettati interventi di “riqualificazione funzionale e straordinaria manutenzione con diverso utilizzo del locale commerciale, fusione e cambio di destinazione d’uso di abitazione in ristorante” non fossero consentiti dal vigente strumento urbanistico e che non potessero applicarsi le disposizioni contenute nel SIAD rappresentando le stesse un mero indirizzo per lo sviluppo delle attività commerciali escludendo la loro capacità di derogare alla vigente normativa a tutela del regolare assetto del territorio, del paesaggio e comunque delle norme igienico-sanitarie.
All’uopo il Comune evidenzia che l’istanza in parola prevedeva l’unione dell’immobile ad uso residenziale con un preesistente immobile già a destinazione commerciale il che era in contrasto il vigente PRG il quale prevede che "a condizione che non venga modificata la destinazione residenziale, sono ammessi interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di restauro conservativo dell'edilizia esistente, senza incrementi della cubatura complessiva e della superficie interna utile e senza alterazione sostanziale della preesistente volumetria”: dunque il PRG non consentirebbe aumenti di cubatura e che tale regola avrebbe prevalenza anche sugli indirizzi contenuti nel SIAD.
2. Il ricorrente impugna la predetta determinazione rilevandone la illegittimità per molteplici profili di violazione di legge ed eccesso di potere.
2.1 Secondo la prospettiva del ricorrente, risulterebbe violato l'art. 20 del d.P.R. n. 380/01 poiché sarebbero stati applicati principi che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ritiene ormai superati a seguito delle innovazioni introdotte in materia dal d.lgs. n. 127/2016, in vigore dal 28.07.2016, e dal d.l. n. 77/2021, in vigore dal 01.07.2021.
Il potere dell’amministrazione di opporre un diniego tardivo verrebbe meno con il decorso del termine procedimentale, residuando successivamente la sola possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi ‘silenziosamente’.
A sostegno delle sue difese il ricorrente ha indicato le norme di legge che concorrono a delineare il predetto principio.
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4. Il ricorso è fondato.
L’art. 20, comma 8, del d.P.R. 380 del 2001 dispone che: “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 14 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241. Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti”.
Nel caso in esame, come si evince dalla documentazione in atti, parte ricorrente aveva presentato istanza volta al rilascio del permesso a costruire in data 15.07.2022 rilasciando le dichiarazioni richieste dal formulario predisposto dal Comune di Capri.
Il Comune non ha adottato alcun provvedimento espresso di diniego né ha svolto istruttoria in contraddittorio con l’interessato tendente ad promuovere chiarimenti sulla consistenza delle opere da eseguirsi o sulla necessità di acquisire altri permessi o nulla osta.
Tuttavia, alla formale richiesta del privato di rilascio della attestazione della avvenuta formazione del titolo per silentium, l’Amministrazione ha opposto che il permesso di costruire non poteva dirsi formato per contrasto dell’intervento edilizio con la disciplina urbanistica vigente.
6. Orbene, sul punto, va rilevato che la giurisprudenza da sempre ferma nel ritenere che il silenzio assenso sul permesso a costruire potesse formarsi solo in presenza di requisiti non solo formali ma anche sostanziali a sostegno della istanza del privato, ha da ultimo virato verso una interpretazione dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. 380 del 2001 ritenuta più coerente con le esigenze di semplificazione perseguite dal legislatore.
6.1 Ed infatti, il consolidato orientamento secondo il quale il silenzio-assenso previsto in tema di permesso di costruire non si forma per il solo fatto dell'inutile decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa dell'amministrazione comunale e dell'adempimento degli oneri documentali necessari per l'accoglimento della domanda, ma presuppone che la parte onerata dia prova della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.02.2021, n. 1629; Cons. Stato Sez. IV, 01.07.2021, n. 5018) risulta allo stato mutato alla luce della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato.
In particolare, il Consiglio di Stato ha affermato che: “va richiamata quella giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato sez. VI - 08/07/2022, n. 5746), condivisa dal Collegio, la quale ritiene che anche ove l’attività oggetto del provvedimento di cui si chiede l'adozione non sia conforme alle norme, si rende comunque configurabile la formazione del silenzio-assenso.
Ciò, si ritiene confermato da puntuali ed univoci indici normativi con il quali il legislatore ha inteso chiaramente sconfessare la tesi secondo cui la possibilità di conseguire il silenzio-assenso sarebbe legata, non solo al decorso del termine, ma anche alla ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo: in tal senso si fa richiamo tra l’altro per la parte di interesse ai fini della questione in esame alla espressa previsione della annullabilità d'ufficio di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990 anche nel caso in cui il “provvedimento si sia formato ai sensi dell'art. 20”, presuppone evidentemente che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell'atto
” (ex multis, Cons. St. 04.09.2023, n. 8156).
6.2 Nel prendere atto di tale orientamento, ritiene il Collegio che illegittimamente il Comune di Capri abbia opposto la mancata formazione del titolo edilizio per contrasto dell’intervento con le norme del vigente P.R.G. poiché il permesso di costruire si è formato a seguito del decorso del tempo, in assenza di un espresso diniego da parte del Comune di Capri.
7. In conclusione, il ricorso va accolto e va accertata l’avvenuta formazione del silenzio-assenso sull’istanza n. prot. 18204 del 15.07.2022 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.02.2024 n. 1388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In tema di edilizia e urbanistica, l'obbligazione assunta da chi stipula una convenzione edilizia di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione riveste natura propter rem, sicché dev'essere adempiuta non solo dal firmatario dell'atto, ma anche dai soggetti che richiedono la concessione, da quelli che realizzano l'edificazione e dai loro aventi causa.
Per pacifica giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem.
La natura reale dell'obbligazione comporta dunque che all'adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa.
In senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l'assunzione, all'atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell'ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res, per cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti, risultando inopponibile all'Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
Invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in "parti" a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni presi”.
Analogamente, è stato chiarito che “Relativamente agli obblighi assunti con le convenzioni urbanistiche, il dato normativo di riferimento, univocamente individuato dalla giurisprudenza, per postulare la sussistenza di tale tipologia di obbligazione, è l'art. 28, comma 7, della L. 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'art. 8 della L. 06.08.1967, n. 765.
Secondo la norma in questione "Il rilascio delle licenze edilizie nell'ambito dei singoli lotti è subordinato all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relativa ai lotti stessi.".
La sua interpretazione, nel senso di costituire la fonte di un'obbligazione propter rem, è il frutto di un consolidato orientamento giurisprudenziale, il quale si è anche premurato di individuare quali sono i possibili successori nell'obbligo, in ragione della presupposta ambulatorietà dell'obbligazione.
Invero è stato affermato che tale obbligazione ob rem "va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa; non anche i soggetti che utilizzano le opere di urbanizzazione da altri realizzate per una loro diversa edificazione, senza avere con i primi alcun rapporto, e che, per ottenere la loro diversa concessione edilizia, devono pagare al Comune concedente, per loro conto, i relativi oneri di urbanizzazione.".
Principi analoghi sono stati sanciti anche questo Consiglio, che ha ribadito come, dovendosi qualificare come obbligazione propter rem quella scaturente dalla convenzione di lottizzazione, "legittimati passivi dell'obbligazione di realizzazione delle opere di urbanizzazione debbono ritenersi non solo i lottizzanti che hanno concluso la convenzione, ma anche coloro che risultano attuali proprietari delle aree incluse nel comparto lottizzato e che utilizzano le stesse, quali aventi causa degli originali lottizzanti o successivi aventi causa, e comunque in ogni caso di acquisto a titolo originario o a titolo derivativo." .
Non è superfluo rilevare che secondo un recente precedente di questo Consiglio, che il Collegio condivide e intende ribadire, l'orientamento relativo alla natura reale delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche può essere riferito anche ad obblighi diversi da quelli strettamente attinenti alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, in ragione della specifica natura di tali convenzioni, finalizzate non solo alla realizzazione di interessi privati, ma soprattutto all'interesse pubblico al corretto assetto del territorio”.
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1. L’odierno appellante ha acquistato nel 1991 un’area interessata dalla convenzione di lottizzazione stipulata fra il suo dante causa ed il Comune di Amaroni.
A partire dal 1996, il Comune avanzava nei confronti degli aventi causa, nel frattempo titolari delle relative concessioni edilizie, pretese di carattere patrimoniale relative all’adempimento degli oneri connessi all’esecuzione delle opere di urbanizzazione, relative agli immobili edificati in base alle suddette concessioni, che il Comune stesso aveva dovuto eseguire, previa stipula di un mutuo bancario, nell’inerzia dei ridetti proprietari.
Con sentenza n. 1232/2018 il TAR della Calabria, sede di Catanzaro, all’esito della riassunzione di identico ricorso dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione dalla Corte di Appello di Catanzaro con sentenza n. 372 del 2018, ha in parte respinto, e in parte dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’odierno appellante per l’annullamento dell’ingiunzione del 23.09.2005, con la quale il Comune di Amaroni ha richiesto il pagamento di 36.836,16 euro per la realizzazione di tali opere di urbanizzazione primaria.
Il ricorrente in primo grado ha impugnato l’indicata sentenza con ricorso in appello.
Il Comune di Amaroni si è costituito in giudizio per resistere al ricorso.
Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione all’udienza straordinaria del 10.01.2024.
2. Va anzitutto osservato che la sentenza gravata ha respinto le censure di carattere formale avanzate dal ricorrente nel giudizio di primo grado: su tale capo di sentenza non c’è impugnazione, onde lo stesso è passato in autorità di cosa giudicata.
Nei tre motivi di gravame l’appellante contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibili le censure, di merito, relative alla pretesa comunale, sul presupposto della mancata impugnazione delle precedenti ingiunzioni adottate nel 2001 e nel 2003 dal Comune di Amaroni per sollecitare il ricorrente all’esecuzione delle opere di cui si tratta (primo motivo).
Con il secondo ed il terzo motivo di appello deduce invece l’illegittimità del provvedimento comunale impugnato in primo grado per le ragioni non esaminate dal TAR, arrestatosi alla declaratoria d’inammissibilità.
3. Il primo motivo di appello è fondato.
Come correttamente dedotto dall’appellante la pretesa oggetto di giudizio, estrinsecantesi attraverso atti paritetici e non autoritativi dell’amministrazione, attiene alla tutela di un diritto soggettivo del proprietario, la cui cognizione è devoluta al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 2, lett. f), cod. proc. amm.: tale tutela è dunque soggetta all’ordinario termine di prescrizione, e non soggiace a termini decadenziali (ex multis, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 12/2018; sez. II; sentenza n. 3327/2020).
4. Con il secondo motivo l’appellante lamenta anzitutto che la lottizzazione “Scianni”, in forza della quale il Comune di Amaroni pretende il pagamento degli oneri di urbanizzazione, sarebbe priva di effetti giuridici perché priva del prescritto nulla-osta regionale; che la scrittura privata sottoscritta dal procuratore del lottizzante (in base a procura della cui validità l’appellante pure dubita) e dall’amministrazione, recante gli obblighi assunti dal primo, sarebbe invalida perché avrebbe dovuto assumere le forme dell’atto pubblico, e perché nulla ex art. 1346 cod. civ. in quanto “in essa non sono state previste in modo univoco le obbligatorie garanzie fidejussorie che il lottizzante avrebbe dovuto fornire al comune a garanzia del completo adempimento delle obbligazioni a suo carico”, e comunque perché non risulta trascritta nei pubblici registri immobiliari (e sottoscritta da soggetto privo di valido mandato).
La convenzione avrebbe poi lasciato in bianco la parte relativa alla determinazione degli oneri.
La vendita frazionata dell’area sarebbe stata dunque consentita al lottizzante, che “non ha mai provveduto a realizzare alcuna urbanizzazione, primaria e secondaria, né mai ha ceduto gratuitamente all’amministrazione le aree interessate dalle suddette”, “pur se la stessa fosse priva di alcuna opera di urbanizzazione e senza nemmeno aver richiesto la concessione edilizia perpetrando, così, una vera e propria lottizzazione abusiva”.
L’appellante deduce poi che “l’amministrazione comunale, allorquando ha autorizzato le varie costruzioni nella località “Scianni”, ha omesso di imporre ai richiedenti delle concessioni edilizie l’obbligo di provvedere alle opere di urbanizzazione, relative ai rispettivi manufatti”; e che “la P.A. non ha mai inteso fare ricadere, almeno in parte, i relativi oneri sul proprietario terriero, bensì quello di addossarli tutti ai malcapitati acquirenti dei vari “appezzamenti” di terreno i quali, tra l’altro, hanno versato la rispettiva quota-parte di urbanizzazione, al momento del rilascio delle relative concessioni edilizie”.
5. Con il terzo motivo l’appellante lamenta che la richiesta comunale di eseguire le opere di urbanizzazione sarebbe stata avanzata “allorquando (anno 1996) la convenzione era già divenuta inefficace sia per decorso del termine quinquennale, ex articolo 2 della “convenzione”, sia di quello decennale ex art. 20 L. n. 1150/1942”, e che “Tale ingiunzione e le successive diffide sindacali non sono state trascritte presso il competente Ufficio dei Registri Immobiliari per come imposto dal comma 3 del richiamato art. 20 legge n. 1150”.
6. Va preliminarmente osservato che per pacifica giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (si veda in tal senso, ex multis, la sentenza n. 199/2019), “l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382);
   d) la natura reale dell'obbligazione comporta dunque che all'adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571);
   e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l'assunzione, all'atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell'ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res (Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in senso conforme Tar Campania, Napoli, sez. II, 09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 16.04.2014, n. 2170; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747), risultando inopponibile all'Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
   f) invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in "parti" a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni presi (Tar Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843)
”.
Analogamente, la sentenza n. 6894/2020 ha chiarito che “Relativamente agli obblighi assunti con le convenzioni urbanistiche, il dato normativo di riferimento, univocamente individuato dalla giurisprudenza, per postulare la sussistenza di tale tipologia di obbligazione, è l'art. 28, comma 7, della L. 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall'art. 8 della L. 06.08.1967, n. 765 (cfr. Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382; Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947).
Secondo la norma in questione "Il rilascio delle licenze edilizie nell'ambito dei singoli lotti è subordinato all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relativa ai lotti stessi.".
La sua interpretazione, nel senso di costituire la fonte di un'obbligazione propter rem, è il frutto di un consolidato orientamento giurisprudenziale (può nuovamente citarsi, Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382, ripresa dalle successive pronunce), il quale si è anche premurato di individuare quali sono i possibili successori nell'obbligo, in ragione della presupposta ambulatorietà dell'obbligazione.
Invero è stato affermato che tale obbligazione ob rem "va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia (vedi Cassazione civile sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cassazione civile, sez. II, 26.11.1988 n. 6382, citata dallo stesso ricorrente); ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione (vedi Cassazione civile sez. III, 17.06.1996, n. 5541). La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa; non anche i soggetti che utilizzano le opere di urbanizzazione da altri realizzate per una loro diversa edificazione, senza avere con i primi alcun rapporto, e che, per ottenere la loro diversa concessione edilizia, devono pagare al Comune concedente, per loro conto, i relativi oneri di urbanizzazione." (Cass. civ., sez. II, 27.08.2002, n. 12571; cfr. anche Cass. civ., sez. III, 15.05.2007, n. 11196).
Principi analoghi sono stati sanciti anche questo Consiglio, che ha ribadito come, dovendosi qualificare come obbligazione propter rem quella scaturente dalla convenzione di lottizzazione, "legittimati passivi dell'obbligazione di realizzazione delle opere di urbanizzazione debbono ritenersi non solo i lottizzanti che hanno concluso la convenzione, ma anche coloro che risultano attuali proprietari delle aree incluse nel comparto lottizzato e che utilizzano le stesse, quali aventi causa degli originali lottizzanti o successivi aventi causa, e comunque in ogni caso di acquisto a titolo originario o a titolo derivativo." (Cons. Stato, sez. IV, 09.01.2019, n. 199). Non è superfluo rilevare che secondo un recente precedente di questo Consiglio, che il Collegio condivide e intende ribadire, l'orientamento relativo alla natura reale delle obbligazioni derivanti dalle convenzioni urbanistiche può essere riferito anche ad obblighi diversi da quelli strettamente attinenti alla realizzazione delle opere di urbanizzazione (Cons. Stato, sez. II, 23.09.2019, n. 6282: nel caso deciso da questa pronuncia si trattava della cessione gratuita delle aree prevista nella convenzione), in ragione della specifica natura di tali convenzioni, finalizzate non solo alla realizzazione di interessi privati, ma soprattutto all'interesse pubblico al corretto assetto del territorio
”.
7. L’applicazione dei surrichiamati princìpi alla fattispecie dedotta nel presente giudizio conduce al rigetto, perché infondati, dei due motivi di appello in esame (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 28.02.2024 n. 1952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una piscina interrata (con volumetria lorda pari a 123,28 mc e con una superficie lorda pari a 68,49 mq) al servizio della propria abitazione unifamiliare è da qualificarsi come "nuova costruzione". Inoltre, il medesimo intervento è oneroso.
La giurisprudenza nettamente prevalente ritiene che la piscina interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell’edificio principale in ragione della significativa trasformazione del territorio giacché “la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001”.
In materia, si richiamano altresì i seguenti principi affermati dalla recente giurisprudenza:
   - “Pure infondata è la terza censura con cui parte ricorrente lamenta che la piscina avrebbe carattere pertinenziale e non richiederebbe il permesso di costruire.
E infatti, giova richiamare anche sul punto l’orientamento dominante della giurisprudenza amministrativa secondo cui la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire [...]
Pertanto, è da escludere che, nella fattispecie, possano trovare applicazione le normative invocate con le censure che prevedono titoli di autoamministrazione (s.c.i.a.) compatibili unicamente con la conservazione delle preesistenze, in funzione della tutela del diritto di proprietà senza alcuna “innovazione” sul territorio e la cui mancanza è sanzionabile solo pecuniariamente.
Non appare poi corretta l’affermazione di parte ricorrente secondo cui la realizzazione di una piscina e la sostituzione del suolo agricolo con pavimentazione non immuti lo stato dei luoghi e non abbia impatto paesaggistico, tenuto conto che si tratta di modifiche sostanziali alla configurazione del territorio sul quale tali opere insistono; sotto questo profilo la circostanza che la piscina interrata e la pavimentazione non si sviluppino in verticale, non esclude che esse alterino la consistenza dei suoli e costituiscano interventi edilizi sostanzialmente innovativi e modificativi dell’assetto edilizio del territorio, senza che, come detto, residui alcun margine di ponderazione tra interessi pubblici e privati, come, invece, preteso da parte attrice”;
   - “6.2. Come è noto, la giurisprudenza amministrativa tende a circoscrivere la nozione di “pertinenza urbanistica”, fornendone una definizione più ristretta rispetto a quella civilistica. […]
6.5. In particolare, è stato condivisibilmente affermato che “le piscine non sono pertinenze in senso urbanistico in quanto comportanti trasformazione durevole del territorio. L’aspetto funzionale relativo all’uso del manufatto è altresì condiviso da altra recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell’edificio cui accede.
La piscina, infatti, a differenza di altri manufatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all’uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula, pertanto, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire” […]
7. Orbene dal momento che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio (nella specie, trattasi di un’opera interrata, avente una superficie totale di circa 62,50 mq.), non può essere ascritta al novero degli “interventi di manutenzione straordinaria” e degli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del2001, rientrando invece nel novero degli interventi di nuova costruzione, ne deriva che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380cit., per la relativa edificazione è richiesto il permesso di costruire, trattandosi di attività qualificabile come intervento di nuova costruzione, che comporta la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
In applicazione dei richiamati principi giurisprudenziali, risulta pertanto corretta la qualificazione da parte dell’Amministrazione comunale dell’intervento oggetto di segnalazione quale “nuova costruzione”.
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E' destituita di fondamento la tesi difensiva della ricorrente laddove sostiene che l’esclusione dell’onerosità dell’intervento edilizio in questione dovrebbe desumersi da quanto previsto dall’art. 17, comma 3, lett. b), D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale “Il contributo di costruzione non è dovuto: […] b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Secondo la ricorrente, infatti, se la legge, al fine di favorire la piccola proprietà immobiliare, ha escluso in questi casi l’obbligo del pagamento del contributo di costruzione, a maggior ragione dovrebbe esserne esente, a pena di irrazionalità del sistema, la realizzazione di una piscina pertinenziale non eccedente il 20% del volume dell'edificio principale.
Al riguardo, premesso che l’intervento oggetto di segnalazione non può pacificamente qualificarsi né come ristrutturazione né come ampliamento ai sensi della predetta norma (la quale, peraltro, avendo natura eccezionale, non può essere applicata analogicamente), il Collegio ritiene che non sussista la prospettata irrazionalità del sistema paventata da parte ricorrente.
Ed invero, secondo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza, “…l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato”.
Ciò posto, essendo la ratio della citata norma di esclusione dal contributo di costruzione quella di agevolare gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare, non risulta ravvisabile alcuna irragionevolezza nel non contemplare tra le predette ipotesi di esclusione la costruzione di un nuovo manufatto esterno all’abitazione non strettamente connesso alle citate necessità abitative del nucleo familiare.
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La sig.ra -OMISSIS- ha presentato al Comune di -OMISSIS- una segnalazione certificata di inizio attività, protocollata dall’ente in data -OMISSIS-, per la realizzazione di una piscina interrata (con volumetria lorda pari a 123,28 mc e con una superficie lorda pari a 68,49 mq) al servizio della propria abitazione unifamiliare.
Con provvedimento prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS- il Comune di -OMISSIS- –rilevato che “La costruzione di nuova piscina interrata al servizio della residenza privata costituisce opera di nuova costruzione e non di ristrutturazione, ancorché riferita a pertinenza, accessorio, o qualsivoglia definizione del nuovo manufatto interrato venga utilizzata dal Segnalante: per tale motivo è assoggettata a Permesso di Costruire ovvero a SCIA sostitutiva del permesso di Costruire…”– ha ordinato alla sig.ra -OMISSIS- di non effettuare l’intervento segnalato, avvertendo che qualunque opera eseguita sarebbe stata priva di titolo abilitativo.
Avverso tale provvedimento, la sig.ra -OMISSIS- ha proposto ricorso davanti a questo Tribunale chiedendone l’annullamento.
...
La ricorrente, con unico motivo di ricorso, censura il provvedimento impugnato per violazione degli artt. 3, comma 1, lett. e), 17, comma 3, lett. b), D.P.R. n. 380/2001 e 27 l.r. n. 12/2005, in quanto avrebbe erroneamente qualificato l’intervento oggetto di segnalazione quale “nuova costruzione”, soggetta a permesso di costruire o a SCIA ad esso alternativa, e non quale attività edilizia “gratuita” soggetta a semplice SCIA.
Il ricorso è infondato.
In primo luogo, parte ricorrente sostiene che la costruzione di una piscina di volume inferiore al 20% dell’edificio principale consisterebbe in un intervento pertinenziale non rientrante tra quelli indicati dall’art. 3, comma 1, lett. e.6), D.P.R. n. 380/2001 (“gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”), e quindi non qualificabile quale “intervento di nuova costruzione”.
La tesi non è condivisibile.
Ed invero, in un precedente analogo questa Sezione ha rilevato che “La giurisprudenza nettamente prevalente, che il Collegio condivide, ritiene che la piscina interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell’edificio principale in ragione della significativa trasformazione del territorio giacché “la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez. II, 02/08/2022, n. 703; TAR Napoli, sez. VII, 16/03/2017, n. 1503)” (Tar Lombardia–Brescia, sent. n. 993/2022).
In materia, si richiamano altresì i seguenti principi affermati dalla recente giurisprudenza:
   - “Pure infondata è la terza censura con cui parte ricorrente lamenta che la piscina avrebbe carattere pertinenziale e non richiederebbe il permesso di costruire. E infatti, giova richiamare anche sul punto l’orientamento dominante della giurisprudenza amministrativa secondo cui la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n. 42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642) [...] Pertanto, è da escludere che, nella fattispecie, possano trovare applicazione le normative invocate con le censure che prevedono titoli di autoamministrazione (s.c.i.a.) compatibili unicamente con la conservazione delle preesistenze, in funzione della tutela del diritto di proprietà senza alcuna “innovazione” sul territorio e la cui mancanza è sanzionabile solo pecuniariamente. Non appare poi corretta l’affermazione di parte ricorrente secondo cui la realizzazione di una piscina e la sostituzione del suolo agricolo con pavimentazione non immuti lo stato dei luoghi e non abbia impatto paesaggistico, tenuto conto che si tratta di modifiche sostanziali alla configurazione del territorio sul quale tali opere insistono; sotto questo profilo la circostanza che la piscina interrata e la pavimentazione non si sviluppino in verticale, non esclude che esse alterino la consistenza dei suoli e costituiscano interventi edilizi sostanzialmente innovativi e modificativi dell’assetto edilizio del territorio, senza che, come detto, residui alcun margine di ponderazione tra interessi pubblici e privati, come, invece, preteso da parte attrice” (Tar Campania–Napoli, sent. n. 3874/2020);
   - “6.2. Come è noto, la giurisprudenza amministrativa tende a circoscrivere la nozione di “pertinenza urbanistica”, fornendone una definizione più ristretta rispetto a quella civilistica. […] 6.5. In particolare, è stato condivisibilmente affermato che “le piscine non sono pertinenze in senso urbanistico in quanto comportanti trasformazione durevole del territorio. L’aspetto funzionale relativo all’uso del manufatto è altresì condiviso da altra recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell’edificio cui accede. La piscina, infatti, a differenza di altri manufatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all’uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula, pertanto, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 09/09/2020, n. 3730; Cons. di Stato, sent. n. 35/2016)” […] 7. Orbene dal momento che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio (nella specie, trattasi di un’opera interrata, avente una superficie totale di circa 62,50 mq.), non può essere ascritta al novero degli “interventi di manutenzione straordinaria” e degli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del2001, rientrando invece nel novero degli interventi di nuova costruzione, ne deriva che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380cit., per la relativa edificazione è richiesto il permesso di costruire, trattandosi di attività qualificabile come intervento di nuova costruzione, che comporta la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio” (Tar Puglia–Lecce, sent. n. 845/2022).
In applicazione dei richiamati principi giurisprudenziali, risulta pertanto corretta la qualificazione da parte dell’Amministrazione comunale dell’intervento oggetto di segnalazione quale “nuova costruzione”.
La ricorrente sostiene inoltre che l’esclusione dell’onerosità dell’intervento edilizio in questione dovrebbe desumersi da quanto previsto dall’art. 17, comma 3, lett. b), D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale “Il contributo di costruzione non è dovuto: […] b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Secondo la ricorrente, infatti, se la legge, al fine di favorire la piccola proprietà immobiliare, ha escluso in questi casi l’obbligo del pagamento del contributo di costruzione, a maggior ragione dovrebbe esserne esente, a pena di irrazionalità del sistema, la realizzazione di una piscina pertinenziale non eccedente il 20% del volume dell'edificio principale.
Anche tale tesi risulta destituita di fondamento.
Premesso che l’intervento oggetto di segnalazione, come anche ammesso dalla ricorrente, non può pacificamente qualificarsi né come ristrutturazione né come ampliamento ai sensi della predetta norma (la quale, peraltro, avendo natura eccezionale, non può essere applicata analogicamente), il Collegio ritiene che non sussista la prospettata irrazionalità del sistema paventata da parte ricorrente.
Ed invero, secondo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza, da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, “…l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia-Milano, sez. IV – 02/07/2014 n. 1707)” (Tar Lombardia–Brescia, sent. n. 449/2018, cfr. di recente Tar Emilia Romagna, Bologna, sent. n. 848/2022).
Ciò posto, essendo la ratio della citata norma di esclusione dal contributo di costruzione quella di agevolare gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare, non risulta ravvisabile alcuna irragionevolezza nel non contemplare tra le predette ipotesi di esclusione la costruzione di un nuovo manufatto esterno all’abitazione non strettamente connesso alle citate necessità abitative del nucleo familiare.
Alla luce di tutte le argomentazioni suesposte, il ricorso risulta infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 11.01.2024 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Negozi, ampliamento della superficie possibile solo entro il 20%. Il Tar Lazio ricorda i limiti ammessi in caso di ristrutturazioni: in termini assoluti l’aumento non può comunque mai superare i 200 mq.
In caso di lavori di ristrutturazione di immobili commerciali, l’eventuale ampliamento della superficie utile lorda non può superare il 20 per cento della superficie utile lorda originaria e, comunque, i 200 metri quadrati. Anche in caso di realizzazione di soppalchi.

È quanto emerge da una sentenza 20.12.2023 n. 19294 del TAR Lazio-Roma, Sez. IV-ter, relativa a una vicenda che riguardava alcuni interventi portati avanti all’interno di un locale commerciale.
Roma Capitale aveva respinto l'istanza di condono presentata dall'azienda proprietaria del locale in merito alla realizzazione di due soppalchi commerciali di 98 metri quadrati e 274 metri cubi all'interno dell'immobile.
Quindi il ricorso contro il diniego. 
I giudici ricordano, nella ricostruzione del procedimento che «il provvedimento negativo si fonda sul rilevato superamento dei limiti di superficie stabiliti dall'art. 2, comma 1, lett. e), della citata legge regionale che, per le opere di ristrutturazione edilizia degli immobili ad uso commerciale, prevede che l'eventuale ampliamento della superficie utile lorda non può superare il 20 per cento della superficie utile lorda originaria e, comunque, i 200 metri quadrati».
Alla luce di questa premessa il Collegio giudicante «ritiene che le censure proposte da parte ricorrente non sono meritevoli di favorevole esame».
Oltre a dichiarare non fondata la parte relativa a un eventuale silenzio-assenso i giudici, nel caso specifico, sottolineano che «nel caso di specie, è incontroverso, sul piano fattuale, che la superficie dei soppalchi realizzati superi il 20% della superficie originaria dell'immobile e che, quindi, non ricorresse la condizione richiesta dalla legge regionale per l'accoglimento dell'istanza di condono, risultando superato il limite di superficie imposto dall'art. 2, comma 1, lett. e), della menzionata legge regionale» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.01.2024).
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SENTENZA
5. Giova premettere, in punto di fatto e per il migliore inquadramento della vicenda contenziosa, che viene in rilievo l’impugnazione del diniego di condono di cui all’istanza di parte ricorrente presentata ai sensi della legge n. 326 del 2003, per opere consistenti nella realizzazione di realizzazione senza titolo, all’interno dell’immobile sito in Via ... n. 28, di due soppalchi commerciali di mq. 98,00 rispetto alla superficie originaria di 172,60 mq..
Il provvedimento negativo si fonda sul rilevato superamento dei limiti di superficie stabiliti dall’art. 2, comma 1, lett. e), della citata legge regionale che, per le opere di ristrutturazione edilizia degli immobili ad uso commerciale, prevede che “l’eventuale ampliamento della superficie utile lorda non può superare il 20 per cento della superficie utile lorda originaria e, comunque, i 200 metri quadrati”.
6. Tanto premesso, il Collegio ritiene che le censure proposte da parte ricorrente non sono meritevoli di favorevole esame.
7. Con riguardo al primo motivo di ricorso, con il quale la parte ricorrente afferma essersi formato il silenzio-assenso sull’istanza presentata ben prima dell’emanazione del gravato diniego, va richiamato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “il silenzio-assenso previsto in tema di condono edilizio non si forma solo in virtù dell’inutile decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa dell’amministrazione comunale e dell’adempimento degli oneri documentali ed economici necessari per l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova della ricorrenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è subordinata l’ammissibilità del condono. Ne deriva che il titolo abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto ove la domanda sia conforme al relativo modello legale e, quindi, sia in grado di comprovare che ricorrano tutte le condizioni previste per il suo accoglimento” (cft. Consiglio di Stato sez. VII - 12/06/2023, n. 5742).
Nel caso di specie, è incontroverso, sul piano fattuale, che la superficie dei soppalchi realizzati superi il 20% della superficie originaria dell’immobile e che, quindi, non ricorresse la condizione richiesta dalla legge regionale per l’accoglimento dell’istanza di condono, risultando superato il limite di superficie imposto dall’art. 2, comma 1, lett. e), della menzionata legge regionale.
Pertanto deve escludersi che, nella vicenda in esame, si possa essere consolidato il silenzio-assenso sull’istanza presentata dalla parte ricorrente.
8. Anche il secondo motivo di ricorso, di ordine procedimentale, risulta privo di pregio, tenuto conto che nella motivazione del provvedimento impugnato vi è un passaggio espressamente dedicato alle controdeduzioni presentate dalla parte ricorrente a seguito della trasmissione del preavviso di rigetto, le quali vengono considerate inidonee a superare l’ostacolo relativo al “superamento dei limiti di superficie regionali”.
Peraltro, come evidenziato dalla giurisprudenza, la norma sulla comunicazione dei motivi ostativi e sul conseguente dovere dell’Amministrazione procedente di indicare nella motivazione del provvedimento finale le ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate dall’interessato trova un limite nelle ipotesi in cui l’Amministrazione svolga attività vincolata, come nel caso di specie, stante la contestuale presenza dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della stessa legge 07.08.1990, n. 241, che trova applicazione anche nel caso in cui la violazione procedimentale sia costituita dall’omessa motivazione circa il mancato accoglimento delle osservazioni comunicazione dei motivi ostativi.

VARI: La caduta sul marciapiede va risarcita in base alle Tabelle di Milano. Non è un incidente stradale quindi non si applicano i valori ministeriali, più bassi.
Il danno biologico riportato da un pedone caduto su un marciapiede a causa dell’inclinazione di un tombino non va risarcito con i criteri previsti dal Codice delle assicurazioni private (Cap, Dlgs 209/2005) per gli incidenti stradali: va fatto riferimento dal diritto comune.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con l'ordinanza 21.11.2023 n. 32373 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.12.2023).

VARI: Su Facebook si può dire (quasi) tutto ciò che si pensa dei politici.
Secondo la Cassazione utilizzare su Facebook espressioni apparentemente offensive nei confronti di un’alta carica istituzionale non per forza costituisce reato di diffamazione.
Secondo la Corte di Cassazione - Sez. V penale (sentenza 20.11.2023 n. 46496) utilizzare su Facebook espressioni apparentemente offensive nei confronti di un’alta carica istituzionale o persino –come nella vicenda– nei confronti di un Ministro non per forza costituisce reato di diffamazione.
E ciò è vero soprattutto in caso di espressioni offensive che pur aspre, sono comunque strettamente connesse all’attività politica del soggetto passivo, tanto più se incentrate su dati veri (articolo NT+Diritto del 14.12.2023).
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SENTENZA
1. Va premesso che,
in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145; Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706).
2. Ciò detto, il ricorso è fondato.
3. Nel caso di specie non si discute della verità o veridicità del fatto esposto, né dell'interesse pubblico alla notizia.
Non è in discussione che, nel momento in cui il commento del quale si discute fu pubblicato, fosse in corso un dibattito sul c.d. decreto Lorenzin e che fosse del tutto corrispondente all'interesse pubblico l'approfondimento ed il dibattito, anche in chiave critica, di tutte le questioni che l'obbligo vaccinale da tale decreto introdotto comportava.
In materia di diffamazione a mezzo stampa o, come nel caso sottoposto a giudizio, con «altro mezzo di pubblicità», il diritto di critica politica consentito, che trova fondamento nell'interesse all'informazione dell'opinione pubblica e nel controllo democratico nei confronti degli esponenti politici e dei pubblici amministratori, non deve comunque essere avulso da un nucleo di verità (Sez. 5, sentenza 09.11.2020 n. 31263, Capozza, Rv. 279909). Il nucleo di verità insito nel commento critico è, appunto, relativo alla decisione che il Ministro aveva proposto.
Detto ciò, non si discute del diritto del ricorrente di esprimere la propria opinione, anche con toni aspri proprio in ragione della natura pubblica del personaggio oggetto di attacchi, e cioè del Ministro della Salute che si identificava con la persona e con la responsabile dell'istituzione direttamente coinvolta nella scelta politica sottoposta a censura. Si discute, invece, del tono e delle espressioni utilizzate, nella prospettiva del riconoscimento, o meno, dell'invocata scriminante.
La parte civile, nella memoria con la quale ha replicato alle argomentazioni del Procuratore generale, ha correttamente osservato che non corrisponde alla verità o veridicità del fatto storico la circostanza che il Ministro della Salute fosse corrotta; ed altrettanto correttamente ha osservato che la frase utilizzata dal ricorrente (si discute, come è chiaro, della seconda parte del commento, quello cioè nel quale si parla di "politici più corrotti del mondo" e di "vaccino anticorruzione") fosse suscettibile di ledere la reputazione del soggetto preso di mira.
Partendo dall'ultima osservazione, nel momento stesso in cui si invoca, da parte del ricorrente, la scriminante del diritto di critica si dà per presupposto che la reputazione sia stata lesa, perché se la frase di cui si discute non fosse stata offensiva mancherebbe la stessa tipicità del fatto, e cioè appunto l'offesa alla reputazione; il ricorrente, invece, invoca il diritto di critica che incide, come ogni causa di giustificazione, sull'antigiuridicità del fatto, certamente tipico.
Dunque, non si discute dell'offensività della frase, ma della sua illiceità alla luce del diritto di critica politica.
Nemmeno coglie nel segno l'ulteriore osservazione che riguarda la "verità" del fatto. Non si discute certo della verità o veridicità di una notitia criminis di corruzione, bensì della notizia relativa all'annunciato decreto vaccinale.
Su di esso si è innestata la reazione critica del ricorrente (e di altri frequentatori della piattaforma sulla quale il commento fu pubblicato), espressa con la frase di cui si discute, e della quale dunque non va valutata la verità o veridicità, ma solo la continenza, secondo gli approdi cui è giunta la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di c.d. critica politica.
4.
Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che, postulando l'esistenza del fatto elevato a oggetto o spunto del discorso critico, trova una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; di conseguenza va esclusa la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano adeguate e funzionali all'opinione o alla protesta, in correlazione con gli interessi e i valori che si ritengono compromessi (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Surano, Rv. 261122).
La critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284). Nondimeno, occorre rispettare il requisito della "continenza" delle espressioni utilizzate per esprimere la propria opinione.
Nella valutazione di tale requisito non si può prescindere dal considerare le "espressioni utilizzate"
(Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651), il lessico (Sez. 5, n. 6925 del 21/12/2000, dep. 2001, Arcomanno, Rv. 218282), la modalità espositiva e il tenore del linguaggio (Sez. 5, sentenza 04.03.2021 n. 8898, Fanini, Rv. 280571; Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010, dep. 2011, Morelli, Rv. 250218; Sez. 5, n. 31096 del 04/03/2009, Spartà, Rv. 244811; Sez. 5, n. 25138 del 21/02/2007, Feltri, Rv. 237248).
Occorre però tener presente che, ferma l'esigenza di evitare gratuite ed immotivate aggressioni, il diritto di critica consente l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, sentenza 05.06.2020 n. 17243, Lunghini, Rv. 279133); e che occorre considerare il significato che le espressioni assumono nel contesto comune, laddove sono accettate dalla maggioranza dei cittadini espressioni più aggressive e disinvolte di quelle ammesse nel passato, per effetto del mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (cfr. Sez. 5, sentenza 24.09.2019 n. 39059, Fiorato, Rv. 276961).
Ciò è tanto più vero quando si discuta di commenti pubblicati sui social networks, dove è frequente l'uso di espressioni forti in chiave di immediato e poco meditato commento critico, espressioni che vanno considerate penalmente illecite solo laddove immediatamente e inequivocabilmente percepibili come offensive secondo parametri di comune comprensione, ancorati al registro di verifica dell'uomo medio (Sez. 5, sentenza 16.01.2023 n. 1365, Simone, Rv. 284044): pena, altrimenti, la violazione dei principi che la giurisprudenza interna ha stabilito, in ossequio alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull'art. 10 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, che richiede la più ampia tutela e protezione della libertà di espressione, specie quando riguardi la manifestazione di opinioni su questioni di interesse pubblico (su quest'ultimo punto si veda Corte EDU, Antunes Emídio e Soares Gomes da Cruz c. Portogallo, 24/09/2019).
Inoltre,
anche una frase che pure abbia connotazioni indubitabilmente offensive può connotarsi in termini di mero giudizio critico negativo, a seconda del contesto nel quale essa viene pronunciata (Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866).
Da questo punto di vista, va sottolineato che il commento pubblicato dal ricorrente si inseriva in un più ampio contesto, inaugurato da un messaggio offensivo che proveniva da un esponente politico di opposizione, al quale avevano fatto seguito diversi messaggi, dal tono più o meno pesante. Si trattava, dunque, di un contesto nel quale l'oggetto del dibattere era costituito dal decreto vaccini, rispetto al quale i partecipanti alla discussione esprimevano il proprio punto di vista di radicale dissenso.
Non va taciuto, nella ricostruzione del contesto, che se non vi è dubbio che il Ministro della salute pro tempore fosse nominativamente indicata, sia nel messaggio in oggetto che in altri messaggi, come il soggetto cui erano indirizzate le critiche, la frase che riveste tono offensivo è in questo caso rivolta alla classe politica intera, apostrofata in chiave critica attraverso l'uso, in termini generici e grossolani, dell'aggettivo "corrotta".
L'espressione finale, poi, si caratterizza per una formula iperbolica (attraverso il riferimento al "vaccino anticorruzione") tipica di un linguaggio volutamente polemico e acceso, ma non contenente un argomento ad hominem.
La parte civile ricorda una sentenza di questa Sezione che non ha ritenuto scriminata l'accusa di "corruzione" rivolta ad un magistrato, ed invoca parità di trattamento per un esponente politico.
In generale l'osservazione va naturalmente condivisa, ma occorre considerare che il caso citato dalla parte civile (Sez. 5, n. 27930 del 13/04/2018, Morini, non massimata) era decisamente diverso da quello qui esaminato, sia perché il commento offensivo definiva espressamente il giudice preso di mira, indicato per nome, come "giudice corrotto", sia perché l'affermazione offensiva era
accompagnata dall'allegazione di circostanze false, sicché difettava anche il preliminare requisito della verità o veridicità del fatto commentato.
Verità o veridicità che, nel contesto qui giudicato, sussiste con riguardo al fatto al quale il commento offensivo si riferisce, e cioè all'iniziativa politica dell'odierna parte civile.
A proposito di quest'ultimo aspetto, ed in conclusione,
si deve tener conto anche della perdita di carica offensiva di alcune espressioni nel contesto politico, in cui la critica assume spesso toni aspri e vibrati e del fatto che la critica può assumere forme tanto più incisive e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del destinatario (Sez. 5, n. 27339 del 13/06/2007, Tortoioli, Rv. 237260): come ha correttamente osservato il Procuratore generale, «il livello e l'intensità, pur notevoli delle censure indirizzate a mo' di critica a coloro che occupano posizioni di rilievo nella vita pubblica, non escludono l'operatività della scriminante, poiché nell'ambito politico risulta preminente l'interesse generale al libero svolgimento della vita democratica».
In conclusione, le espressioni offensive utilizzate, pur aspre, sono strettamente connesse all'attività politica del soggetto passivo, tanto più che il commento davvero irriverente è genericamente riservato, quale chiosa all'esposizione del dato vero della volontà politica del Ministro che il ricorrente non apprezzava, all'intera classe politica.
Il fatto tipico dunque sussiste, ma esso non è antigiuridico in quanto scriminato ai sensi dell'art. 51 cod. pen.
5. Pertanto la sentenza va annullata senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato.

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia senza permessi se serve a riparare dalla pioggia un punto di accesso.
Il Tar Campania passa in rassegna i vari casi di interventi in edilizia libera e accoglie il ricorso di un proprietario contro un’ordinanza di demolizione.

Torniamo a soffermarci ancora sulle tettoie, ma questa volta per dimostrare come non sempre il privato sia artefice di un abuso edilizio.
Molto istruttiva, al riguardo, la sentenza 08.11.2023 n. 6151, emessa del TAR Campania-Napoli - Sez. IV, che ha accolto il ricorso di un privato contro un’ordinanza comunale di demolizione avente ad oggetto proprio una tettoia (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 21.11.2023).
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SENTENZA
6. Il ricorso è fondato, condividendosi il secondo motivo, con il quale parte ricorrente contesta la correttezza della configurazione giuridica dell’opera come “intervento di ristrutturazione edilizia”, ex art. 3, comma 1, lett. d), del citato d.P.R. 380/2001.
7. Pare opportuno preliminarmente precisare che, in materia di struttura esterne annesse ad edifici e realizzate in aree aperte (terrazzi, giardini, patii), con funzione di riparo da agenti atmosferici, non vi è allo stato un quadro normativo che brilla per chiarezza.
Le disposizioni normative di riferimento, che vanno interpretate, per quanto possibile, secondo il loro tenore letterale (Cons. Stato, IV sez., 02.10.2023, n. 8610), da un lato, non prendono in considerazione la tipologia della “tettoia”, dall’altro, qualificano come soggette al regime dell’edilizia libera, ex art. 6 del d.P.R. 380/2001, (tra l’altro) gli interventi edilizi esemplificati nel glossario del D.M. 02.03.2018, costituiti dalla “installazione, riparazione, sostituzione, rinnovamento di tenda, tenda a pergola, pergotenda, copertura leggera di arredo".
Cosicché, è stata l’attività interpretativa della giurisprudenza a riempire di contenuto, ad esempio, la nozione di “pergotenda” allo scopo di distinguerla,
   -
per un verso, dalle altre tipologie di strutture comunque elencate nel glossario e sottoposte al medesimo regime giuridico, ex art. 6 del d.P.R. 380/2001, come ad esempio i gazebo e le “tende retrattili” [cfr. Cons. Stato, Sez. II, 04.05.2022, n. 3488 “non sembra esservi totale chiarezza, nella giurisprudenza amministrativa, sulla distinzione tra i concetti di tenda retrattile e di c.d. "pergotenda" (cosa che, peraltro, pare essere logica conseguenza del fatto che tale ultima dizione, piuttosto che integrare un bene giuridicamente ben definito, è frutto del recepimento nel più recente lessico giuridico di terminologie semplicemente trasfuse dalla prassi, anche commerciale, degli operatori del settore).
Sicché non sembra inutile, in argomento, uno sforzo definitorio più perspicuo: che, pur muovendo necessariamente dalla riferita prassi, individui l'elemento differenziale della c.d. "pergotenda", rispetto a una mera tenda retrattile, nella necessaria esistenza -non già, come si sostiene da parte del Comune appellante, di una struttura di supporto, laterale o frontale, rigida e leggera (solitamente in alluminio) a sostegno del telo (la quale è invece in sé necessaria a mantenere in tensione ogni tenda esposta al vento: cfr. C.d.S., VI, 27.04.2016, n. 1619); quanto piuttosto- di una serie di profili rigidi (nella prassi c.d. "frangitratta"), distanziati loro di circa 50-100 centimetri, aventi la specifica funzione di dare alla copertura maggior resistenza strutturale alla formazione di sacche d'acqua o al carico nevoso accidentale (altresì consentendone la chiusura "a pacchetto", anziché a rullo), tanto da consentirne l'utilizzo a copertura di superfici notevolmente più ampie
”];
   -
per un altro verso, dalla “tettoia” –nozione invece non rinvenibile negli atti legislativi nazionali– che, seppure aperta su tre lati e quindi inidonea a creare nuova volumetria, sarebbe comunque sottoposta al regime del permesso di costruire, anche alla stregua dell’attuale quadro normativo.
In dettaglio,
la pergotenda, analogamente ad un’altra tipologia di struttura indicata come “pergolato”, si distinguerebbe dalla “tettoia” soprattutto per le caratteristiche della sua copertura.
La giurisprudenza, anche recente, infatti qualifica come “pergolato” la struttura aperta su tre lati e anche nella parte superiore, che come tale rientra nell’edilizia libera, ex art. 6 del d.P.R. 380/2001, mentre ritiene che debba parlarsi di “tettoia”, soggetta al permesso di costruire ex art 10 del medesimo d.P.R. 380/2001, se il “pergolato” è coperto da una struttura “non facilmente amovibile (cfr. da ultimo Cons. Stato, VI sez., 22.09.2023, n. 8475 che richiama il precedente Cons. St., Sez. IV, 22.08.2018, n. 5008, comunque antecedente alla novella dell’art. 6 del d.P.R. 380/2001).
Secondo l’opinione che si riporta, pertanto,
   -
se la struttura, comunque ancorata al suolo anche per realizzare in sicurezza la funzione di riparo dagli agenti atmosferici, ha la copertura in lamelle orientabili di alluminio, non è annoverabile tra le opere di “edilizia libera ex art. 6 del d.P.R. 380/2001;
   -
se invece è coperta da una struttura in PVC impacchettabile, pur avendo la medesima funzione dell’altra copertura, per le prestazioni di efficientamento energetico che assicura, nonché di sicurezza per la tutela dell’incolumità dei soggetti che usufruiscono della struttura all’aperto, e pur non essendo la copertura in PVC non facilmente amovibile (che è cosa diversa dall’essere impacchettabile), corrisponderebbe alla nozione di pergotenda indicata dal legislatore (cfr. da ultimo TAR Lazio-Roma Sez. II-bis, 27.07.2023, n. 12772; TAR Emilia Romagna Bologna Sez. II, 06.03.2023, n. 112; TAR Lazio, Sez. II-quater, 23.01.2023, n. 1117; Cons. Stato, sez. VI, 02.11.2022 n. 9470; TAR Puglia Bari, sez. III, 18.11.2022 n. 1562; TAR Campania, Napoli, sez. II, 17.05.2022, n. 3332; TAR Campania Napoli, sez. III, 25.01.2022 n. 479).
Per esigenze di completezza di motivazione, deve però anche essere menzionato un orientamento minoritario, benché più risalente, secondo cui una struttura aperta sui lati, con coperture in lamelle orientabili, sarebbe “in tutto e per tutto assimilabile alla "pergotenda", non trattandosi infatti di opera che determina volumi chiusi, né che costituisce aumento della superficie utile, avendo infatti le caratteristiche di elemento di arredo urbano (…) in ragione delle sue caratteristiche costruttive (la struttura è aperta da tutti i lati ed è quindi priva di tamponature; le lamelle site nella parte superiore sono usualmente in posizione verticale e quindi vi è una apertura anche verso l'alto” (Cons. Stato Sez. VI, 09.07.2018, n. 4177).
Così come va rilevato che, a rendere la cornice di riferimento ancora più complessa, concorre, all’attualità, la recente novella dell’articolo 6 del D.P.R. n. 380 del 2001 per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 33-quater "Norme di semplificazione in materia di installazione di vetrate panoramiche amovibili" del D.L. 09.08.2022, n. 115 "Misure urgenti in materia di energia, emergenza idrica, politiche sociali e industriali", convertito dalla L. 21.09.2022, n. 142 in vigore dal 22.09.2022 che disciplina "gli interventi di realizzazione e installazione di vetrate panoramiche amovibili e totalmente trasparenti, cosiddette VEPA, dirette ad assolvere a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche, riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche dei balconi aggettanti dal corpo dell'edificio o di logge rientranti all'interno dell'edificio, purché tali elementi non configurino spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di superfici, come definiti dal regolamento edilizio-tipo, che possano generare nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d'uso dell'immobile anche da superficie accessoria a superficie utile. Tali strutture devono favorire una naturale microaerazione che consenta la circolazione di un costante flusso di arieggiamento a garanzia della salubrità dei vani interni domestici ed avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l'impatto visivo e l'ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee architettoniche", specificando così dettagli tecnici che riguardano le chiusure laterali, senza prendere in considerazione la tipologia della copertura.
Con l’effetto che, alla stregua della normativa vigente e dell’orientamento maggioritario sopra riportato,
mentre una “pergotenda” aperta su tre lati e con copertura in lamelle orientabili non rientra nel regime di edilizia libera, vi rientra la medesima struttura, anche se chiusa da VEPA su tre lati e ancorata al suolo e generalmente costituita da elementi portanti di alluminio, purché sia coperta da una struttura in PVC retraibile o in tessuto.
8. Alla luce di tale ricostruzione, ritiene il Collegio che la qualificazione della struttura come “tettoia” non sia sufficiente a supportare la legittimità della qualificazione giuridica contenuta nel provvedimento impugnato, poiché tale nozione, come sopra osservato, non ha alcun riferimento normativo nell’ordinamento giuridico.
È invece dirimente la questione della sua qualificabilità alla stregua delle categorie giuridiche di interventi edilizi rinvenibili nel d.P.R. 380/2001 ovvero, nello specifico, della sussumibilità dell’opera specifica, come descritta negli atti di accertamento (ivi compresa la documentazione fotografica), tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia”, ex art. 3, lett. d), e 33 del d.P.R. 380/2001, secondo la prospettazione del Comune.
9. L’art. 3, comma 1, lett. d), nella formulazione vigente ratione temporis (l’atto impugnato è stato adottato in data -OMISSIS-), prevede che gli “interventi di ristrutturazione edilizia", sono quelli “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per l'applicazione della normativa sull'accessibilità, per l'istallazione di impianti tecnologici e per l'efficientamento energetico. L'intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”, essendo stata la lettera d) novellata dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120.
Anche al momento dell’adozione dell’ordinanza di demolizione pertanto, il carattere essenziale –mantenuto poi anche nella formulazione vigente– della ristrutturazione cd. pesante è costituito dall’effetto dell’intervento complessivo che, pur incidendo su un manufatto preesistente, deve condurre ad un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” per effetto di un “insieme sistematico di opere”.
Con riguardo alle strutture poste in aree esterne,
la giurisprudenza ha ad esempio precisato (prendendo comunque l’abbrivio dalla nozione di “tettoia”) che “una tettoia di rilevanti dimensioni” che determini un'evidente alterazione dello stato dei luoghi e incida sull'assetto edilizio precedente, sì da integrare gli estremi dell'intervento di ristrutturazione edilizia, comportante modifica della volumetria e della sagoma complessive dell'edificio, determina la realizzazione di un organismo edilizio diverso dal precedente ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 necessitante, ai fini di una legittima realizzazione, del titolo abilitativo espresso, conformemente al disposto dell'art. 10, comma 1, lett. c), del medesimo d.P.R. (TAR Lazio Roma, II Stralcio, 22.05.2023, n. 8727).
10. Tanto premesso, ritiene il Collegio che tali caratteristiche, però, non sussistano nel caso di specie, per la modesta dimensione del manufatto (che copre una superficie di 15 metri quadri), come peraltro già rilevato nel precedente sopra citato (TAR Napoli, II Sez., 25.06.2022, n. 2650), per la sua evidente funzione di riparo dagli agenti atmosferici derivante dalla sua specifica collocazione in una zona di passaggio tra un livello e l’altro dei lastrici di copertura, per la sua inidoneità a trasformare anche solo in parte l’edificio cui è annesso, idoneità di di cui non è traccia né negli atti istruttori o né nel provvedimento impugnato.
Ne consegue che l’applicazione degli articoli 3, comma 1, lett. d), e 33 del d.P.R. 380/2001, non appare sorretta da un’adeguata istruttoria, che, alla luce delle categorie giuridiche di interventi edilizi delineati dal legislatore, abbia considerato la specifica opera di cui si tratta, come dedotto da parte ricorrente nel relativo motivo di ricorso.
11. Quanto al richiamato Regolamento Edilizio del Comune di Napoli ex art. 33 L. 1150/1942 approvato dal Consiglio Comunale con del. 104 del 28/04/1998, va osservato che
le norme relative alle categorie degli interventi edilizi, alla individuazione del conseguente regime giuridico (permesso di costruire, S.C.I.A., c.d. super-S.C.I.A., attività libera, C.I.L. e C.I.L.A.), nonché del regime sanzionatorio degli abusi edilizi, ivi compresi i presupposti per la misura demolitoria o pecuniaria, rientrano tra i principi fondamentali della materia del “governo del territorio” che, secondo un consolidato orientamento della Corte Costituzionale, sono riservati alla legislazione nazionale (cfr., tra le altre con riguardo ai titoli edilizi, Corte cost. 01.10.2003, n. 303; Corte cost. 20.11.2014, n. 259; Corte cost. 17.06.2021, n. 124; Sentenza Corte cost. 13.01.2021, n. 2).
Tuttavia, nel caso in esame, anche la lettura della normativa edilizia locale conduce al medesimo risultato, poiché, come correttamente rilevato da parte ricorrente, gli interventi di manutenzione ordinaria (come tali, pertanto, esclusi dal previo rilascio del permesso di costruire) sono quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture delle costruzioni e quelle necessarie a integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, sempre che non comportino alterazione delle preesistenti caratteristiche degli edifici, ed in particolare quelli “: a) relativi alle opere di finitura quali […] sostituzione di tegole lesionate o mancanti; sostituzione di parti deteriorate dei sistemi di smaltimento delle acque piovane; riparazione e rinnovo di impermeabilizzazione delle coperture piane …” (art. 5) e, come sopra osservato, nessuna alterazione delle preesistente caratteristiche dell’edificio è stata apportata, con la sostituzione della copertura in plastica.
12. In conclusione il ricorso va accolto, con assorbimento delle restanti censure.

APPALTI: Turbativa d’asta, la perdita di guadagno (chance) fa scattare l’estorsione.
Lo afferma una informazione provvisoria delle SS.UU. penali sciogliendo il quesito posto con l’ordinanza di rinvio n. 41379 dell’ottobre 2023.
Arriva la stretta delle Sezioni Unite su chi allontani, con violenza e minacce, gli altri concorrenti da una gara pubblica. Il reato di turbata libertà degli incanti può infatti concorrere con quello di estorsione nel caso in cui la perdita di chance sia “seria e consistente”.

Lo afferma un’informazione provvisoria delle Sezioni Unite penali sciogliendo il quesito posto con l’ordinanza di rinvio 12.10.2023 n. 41379 (Sez. VI penale).
In sintesi, le due questioni poste riguardavano:
   l’una, la configurabilità, oltre al reato di “Turbata libertà degli incanti” (articolo 353 cod. pen.) anche del reato di estorsione (articolo 629 cod. pen.) nella condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani gli offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private;
   l’altra, strettamente connessa alla prima, relativa al se nella nozione di danno patrimoniale di cui all’articolo 629 cod. pen. rientri anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico.
La necessità di risolvere una volta per tutte le “anzidette questioni”, spiega l’ordinanza di rinvio, è legata, principalmente, alla necessità di definire la “nozione di perdita di chance, in relazione alla quale si registrano orientamenti contrastanti, con conseguenti ripercussioni sulla sussistenza o meno di un danno rilevante ai sensi dell’art. 629 cod. pen. e, quindi, sulla configurabilità del concorso del delitto di estorsione con quello di turbata libertà degli incanti, nell’ipotesi di allontanamento, con violenza o minaccia, di offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private”.
La VI Sezione penale, dunque, nel rinvio, ha posto l’accento sulla necessità di comprendere il “significato da assegnare alla categoria chance e, quindi, di sciogliere il nodo sul se nella nozione di danno del reato di estorsione rientri qualsiasi chance o debba ricomprendersi soltanto la chance come delineata in sede civile, che presuppone la prova in via presuntiva e probabilistica della concreta e consistente possibilità di conseguire vantaggi economicamente apprezzabili”. E “ancora più radicalmente” di capire “se la perdita di chance, come delineata in sede civile, possa concretizzare il danno del reato di estorsione”.
Per il massimo consesso, informazione provvisoria pubblicata oggi sul sito della Corte, “rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 cod. pen. anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale”.
Anche riguardo l’altra questione, e cioè se, in relazione alla condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani gli offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, il reato di turbata libertà degli incanti possa concorrere con quello di estorsione, le Sezioni unite penali rispondono affermativamente: “Nella nozione di danno collegata alla estorsione rientra anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico”. “A condizione però -specifica la Corte  che ricorrano gli elementi costitutivi di entrambi i reati, in rapporto di specialità reciproca fra loro” (articolo NT+Diritto del 29.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Non può ritenersi incompatibile con la destinazione agricola di un terreno il suo uso per lo svolgimento di attività sportiva dilettantistica all’aperto e senza l’utilizzo di attrezzature idonee a pregiudicare definitivamente la destinazione naturale del fondo o che comportino la deruralizzazione del territorio.
Il Collegio condivide l’orientamento alla stregua del quale devono ritenersi compatibili con la destinazione agricola anche usi del territorio diversi, ovvero, comunque, non immediatamente riferibili all’uso agricolo-produttivo, dovendo escludersi che la suddetta destinazione imponga un obbligo a carico del proprietario di utilizzare effettivamente il proprio fondo per tali finalità.
Ciò che la destinazione agricola impone è, dunque, la preservazione delle caratteristiche di naturalità del territorio, ciò sia in funzione di un futuro ed eventuale suo utilizzo per finalità produttive, sia in funzione di tutela del territorio nella sua dimensione paesaggistica ed ambientale.
Invero,
   - “I terreni a destinazione agricola sono aree del territorio urbano sottratte all’edilizia residenziale e destinate sia alla salvaguardia degli interessi dell’agricoltura che alla tutela del paesaggio in genere poiché tendono ad evitare l’edificazione di ulteriori insediamenti edilizi che possano risultare pregiudizievoli per il più conveniente equilibrio di vivibilità della popolazione
”;
   - “Non è preclusa al proprietario di un terreno agricolo la possibilità di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport e l'agriturismo”.
Dunque, salvo che a ciò non ostino le previsioni urbanistiche di zona, non può ritenersi incompatibile con la destinazione agricola di un terreno il suo uso per lo svolgimento di attività sportiva dilettantistica all’aperto e senza l’utilizzo di attrezzature idonee a pregiudicare definitivamente la destinazione naturale del fondo o che comportino la deruralizzazione del territorio.
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Con il ricorso all’esame, la società Campo Base ha impugnato il provvedimento del 07.03.2022 con il quale il Comune di Abano Terme ha vietato la prosecuzione dell’attività sportiva a cielo aperto, dalla stessa esercitata su un’area a destinazione agricola di proprietà del socio sig. Cl.Co..
La ricorrente deduce di essere una società sportiva dilettantistica, dedita alla promozione dell’esercizio di attività sportive agonistiche e non agonistiche, di attività ludico-motorie ed amatoriali all’aperto.
Intendendo dare avvio a corsi per lo svolgimento di attività motoria a corpo libero sul fondo del socio sig. Co., la ricorrente ha presentato al SUAP di Abano Terme, in data 18.06.2021, l’autocertificazione del possesso dei requisiti professionali per l’esercizio di attività motorie e sportive non finalizzate all’agonismo, ai sensi dell’art. 22 L.R. 8/2015.
In data 13.12.2021, dopo lo svolgimento di tre sopralluoghi, il Comune ha notificato la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato al divieto di prosecuzione dell’attività e, successivamente, in data 07.03.2022, le ha comunicato il provvedimento definitivo di divieto oggetto di impugnazione.
La ricorrente ha impugnato il provvedimento per i seguenti motivi:

   1. Violazione degli artt. 19, 20 L. 241/1990 Eccesso di potere per difetto d’istruttoria, errata interpretazione degli artt. 18, 18-bis e 19 L. 241/1990 e degli artt. 46 e 47 D.P.R. 445/2000.
Sull’istanza presentata dalla ricorrente in data 18.06.2021 (autocertificazione del possesso dei requisiti professionali per l’esercizio di attività motorie e sportive non finalizzate all’agonismo ex art. 22 L.R. n. 8/2015) si sarebbe formato il silenzio-assenso, ovvero sarebbe maturato il titolo di autolegittimazione previsto dall’art. 19 L. 241/1990. Il provvedimento impugnato, non costituente esercizio di autotutela, sarebbe tardivo e, pertanto, illegittimo.

   2. Eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e contraddittorietà manifesta. Motivazione erronea e violazione dell’art. 3 L. 241/1990, violazione dell’art. 5 L.R. 8/2015.
La motivazione del provvedimento di divieto è costituita dall’asserita incompatibilità dell’attività sportiva che in essa si svolge con la destinazione agricola (ZTO AcE) dell’area. Tale motivazione è erronea, dovendo ritenersi compatibile con la zona agricola lo svolgimento di attività sportiva, ove avvenga con modalità tali da non determinare trasformazioni del territorio che ne alterino permanentemente i caratteri di naturalità.

   3. Violazione degli artt. 3 e 10, L. 241/1990. Eccesso di potere per erronea ed insufficiente istruttoria.
Non risultano valutate e, dunque, motivatamente respinte, le osservazioni presentate dalla ricorrente a riscontro della comunicazione di avvio del procedimento. Ne deriverebbe il difetto di istruttoria e motivazione del provvedimento finale.
...
1. Il ricorso merita accoglimento, essendo fondato il secondo motivo di ricorso.
Il Collegio condivide l’orientamento alla stregua del quale devono ritenersi compatibili con la destinazione agricola anche usi del territorio diversi, ovvero comunque, non immediatamente riferibili all’uso agricolo-produttivo, dovendo escludersi che la suddetta destinazione imponga un obbligo a carico del proprietario di utilizzare effettivamente il proprio fondo per tali finalità.
Ciò che la destinazione agricola impone è, dunque, la preservazione delle caratteristiche di naturalità del territorio, ciò sia in funzione di un futuro ed eventuale suo utilizzo per finalità produttive, sia in funzione di tutela del territorio nella sua dimensione paesaggistica ed ambientale (“
I terreni a destinazione agricola sono aree del territorio urbano sottratte all’edilizia residenziale e destinate sia alla salvaguardia degli interessi dell’agricoltura che alla tutela del paesaggio in genere poiché tendono ad evitare l’edificazione di ulteriori insediamenti edilizi che possano risultare pregiudizievoli per il più conveniente equilibrio di vivibilità della popolazione” C.d.S., sez II, n. 2536/1994 e sez. V, n. 968/1993; “Non è preclusa al proprietario di un terreno agricolo la possibilità di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport e l'agriturismo”. Cass. SS.UU 10.11.2010 n. 22802, cass. n. 12862 del 2010; cass. n. 10280 del 2004).
Dunque, salvo che a ciò non ostino le previsioni urbanistiche di zona, non può ritenersi incompatibile con la destinazione agricola di un terreno il suo uso per lo svolgimento di attività sportiva dilettantistica all’aperto e senza l’utilizzo di attrezzature idonee a pregiudicare definitivamente la destinazione naturale del fondo o che comportino la deruralizzazione del territorio.
Nel caso di specie, non risulta contestato che per lo svolgimento dell’attività sportiva sul fondo del sig. Co., la ricorrente non abbia installato né utilizzi attrezzature idonee a determinare una trasformazione permanente del territorio o a determinarne la deruralizzazione.
Dagli atti risulta, infatti, che “l’area (…) è stata adibita a palestra a cielo aperto con percorsi training costruiti tramite utilizzo di alcuni tronchi d’albero legati assieme, gomme da trattore, fusti di ferro e attrezzi vari” (cfr. verbale di sopralluogo del 03.07.2021 doc. 7) ed, inoltre, lo stesso Comune nel provvedimento impugnato afferma trattarsi di opere assentibili previa C.I.L.A.
L’attività svolta non appare neppure in contrasto con le previsioni urbanistiche che disciplinano l’area.
Essa è classificata dallo strumento urbanistico comunale come zona agricola di conservazione (AcE), facente parte del più ampio “sistema ambientale”, ossia di quelle aree del territorio nelle quali il Comune prevede di “favorire l'utilizzo a parco dell'ambiente rurale, compatibilmente con l'uso agricolo del territorio; favorire la realizzazione di aree boscate nel territorio agricolo; mantenere e ripristinare il sistema dei canali e delle scoline al fine di favorire e migliorare il regolare deflusso delle acque”.
L’utilizzo a parco dell’ambiente rurale implica la conservazione del territorio agricolo nella sua dimensione naturale per consentirne la pubblica fruizione, dunque, senza prevederne uno sfruttamento agricolo-produttivo. Non si vede, dunque, come tale finalità possa dirsi incompatibile con un’attività sportiva a corpo libero che si svolge mediante l’utilizzo di attrezzature in legno, evocanti elementi naturalistici, non idonee per la loro facile amovibilità e la loro funzione, equiparabile a quella di elementi d’arredo volti a rendere maggiormente fruibile l’utilizzo dell’area (ad es. panchine, o attrezzature per pic nic) a modificare in modo permanente e stabile l’assetto dei luoghi ed a deruralizzare il contesto.
Né la tipologia di opere presenti sul fondo appare incompatibile con gli interventi ammissibili nell’area.
Ai sensi dell’art. 21 N.T.A. del P.I. sono consentiti nelle zone AeC “gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione (esclusa la demolizione con ricostruzione per i soli edifici vincolati ai sensi della parte seconda del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 o con valore storico, testimoniale o ambientale.) nonché gli ampliamenti degli edifici esistenti, per il mantenimento delle attività e degli elementi del paesaggio esistenti. Sono consentiti interventi di nuova edificazione limitatamente alla costruzione di nuovi annessi rustici con le specificazioni di cui al punto 2.3 di questo stesso articolo”.
Le attrezzature presenti sul fondo, che, per ammissione dello stesso Comune sarebbero autorizzabili con C.I.L.A., rientrano negli interventi sopra menzionati.
Tenuto conto della sostanziale assenza di opere idonee a determinare una permanente trasformazione del suolo e la sua deruralizzazione e delle norme urbanistiche che disciplinano l’area non risulta, dunque, una radicale incompatibilità dell’attività svolta dalla ricorrente sull’area.
Dunque -in disparte la necessità di regolarizzare sotto il profilo strettamente edilizio le opere realizzate in assenza di CILA- il provvedimento di diniego deve ritenersi illegittimo nella parte in cui fonda il divieto di svolgimento dell’attività sportiva dilettantistica sul contrasto della stessa con la destinazione urbanistica del fondo.
2. Il ricorso è, dunque, fondato. Le spese, tenuto conto della peculiarità delle questioni esaminate, possono essere compensate (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.01.2023 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste la responsabilità del Comune per aver definito la pratica di condono edilizio a distanza di 30 anni laddove l’istante e il suo avente causa non hanno dimostrato di essersi interessati alla definizione della domanda di sanatoria nel corso dei decenni trascorsi essendosi attivati solo in occasione della richiesta di altro permesso di costruire.
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Con ricorso, notificato il 30.10.2019 e depositato il 29.11.2019, Ti.Lu. -che in virtù di testamento pubblico del 27/09/1999, riceveva dal bisnonno, Ti.Lu., un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale e capannoni adibiti sempre all’attività agricola- riferisce, in fatto, che:
   - il di lui bisnonno, Ti.Lu., con prot. n. 25215/86, depositava presso il Comune di Benevento domanda di condono edilizio ai sensi della Legge 47/1985, (allegando alla suddetta domanda relazione tecnica illustrativa, planimetria degli immobili e bollettini postali comprovanti il versamento dell’oblazione) con la quale chiedeva che venissero sanate le costruzioni da lui realizzate consistenti in una ampliamento di mq. 18,02 della propria abitazione rurale (realizzazione di un bagnetto e ampliamento della cucina) nonché un deposito pari a complessivi mq 72,62 adibito a ricovero di merce e mezzi agricoli nonché a forno e in parte a pollaio e le opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola;
   - con il deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu. aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione 1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc., opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986 come da documentazione che si allega (all. n. 3);
   - la pratica giaceva presso il Comune di Benevento per oltre 33 anni senza che l’Ente avesse mai emesso alcun provvedimento o richiesto alcun documento, tant’è che soltanto a seguito di richiesta di permesso di costruire formulata dal ricorrente, il citato Comune si accorgeva finalmente dell’esistenza della suddetta pratica e chiedeva una integrazione della stessa e, precisamente, una relazione tecnica che comprovasse la idoneità statica del fabbricato, documento previsto dal legislatore successivamente alla domanda di condono del Ti.;
   - a tanto provvedeva tempestivamente il ricorrente come da documentazione del 30/07/2019 depositata in data 02/08/2019 al prot. n. 71462 presso il Comune di Benevento Sportello Unico delle Attività Produttive che, conseguentemente emetteva provvedimento dirigenziale intitolato “Atto di determinazione delle somme dovute a titolo di sanatoria”, con il quale, a riscontro della domanda di sanatoria di abuso edilizio presentata da Ti.Lu., in data 05.09.1986 con protocollo n. 25125, relativamente all’ampliamento di un fabbricato rurale sito alla c.da San Domenico, “Vista la documentazione integrativa prodotta in data 02/08/2019 con protocollo n. 71462 dalla ditta Ti.Lu.”, ”Considerato che per l’abuso commesso l’oblazione versata è congrua”, “determinava la somma da versare per contributo di costruzione in euro 64.872,69”.
Date tali premesse e preso atto che l’atto con il quale è stata determinata la somma dovuta a titolo di sanatoria era incomprensibile non essendo stato chiarito dall’Ente, seppur formalmente richiesto, i criteri adottati e, in ogni caso, errato, Ti.Lu., nella spiegata qualità, ha impugnato, innanzi a questo Tribunale, il predetto atto.
...
Il ricorso è infondato nei termini di seguito precisati.
...
Con la terza censura si deduce la decorrenza dei termini previsti dall’art. 35 della Legge 47/1985, per la formazione del silenzio-assenso, atteso che:
   - l’art. 35 prevede che: “Decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento. Trascorsi trentasei mesi si prescrive l’eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti”, mentre nella specie non sono decorsi 36 mesi ma circa 33 anni dal deposito della domanda di condono, in quanto la stessa venne protocollata il 05/05/1986 con gli allegati, ratione termporis, richiesti dall'art. 35 e, precisamente, descrizione delle opere per le quali si chiedeva la sanatoria, apposita dichiarazione da cui risultava il completamento delle opere che fra l’altro erano state anche ritualmente accatastate come da richiesta del 26/08/1986 che si allega in copia;
   - tuttavia, parte della documentazione allegata dal ricorrente è stata smarrita dal Comune di Benevento, come accertato dal ricorrente nel visionare la pratica ma, in ogni caso, dalla copia della richiesta di condono, risultano chiaramente indicati i documenti depositati per modo che può affermarsi che l’allora richiedente avesse provveduto a depositare la pratica in maniera completa ed esaustiva, come previsto dall’art. 35, anteriormente alla modifica pervenuta con il dlgs. n. 2 del 12/01/1988;
   - ne consegue che essendo decorsi i termini cui al citato art. 35, il comune avrebbe dovuto concedere il permesso di costruire in sanatoria per silenzio-assenso e prendere atto della prescrizione per ogni eventuale diritto di conguaglio o rimborso dovuto;
   - in ogni caso, anche a prescindere dal più breve termine previsto dal richiamato articolo 35 della legge 47/1985, appare evidente che il lasso di tempo intercorso dalla presentazione della domanda (datata 05.05.1986) e la richiesta da parte del Comune delle somme dovute a titolo di contributo di costruzione (datata 06.08.2019) conseguente, peraltro, ad una attività posta in essere dall’erede del signor Ti.Lu., ossia il signor Ti.Lu., sia tale da non lasciare spazio a dubbi circa l’intervenuta prescrizione di qualsivoglia diritto in capo alla Pubblica Amministrazione.
La censura è destituita di fondatezza.
Infatti, secondo l’univoca giurisprudenza amministrativa: <<Il termine di prescrizione può decorrere soltanto dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c. e, quindi, soltanto dal momento in cui l’amministrazione disponga di tutti gli elementi necessari per quantificare la misura del conguaglio eventualmente dovuto>> (C.d.S., sez. II, 27.04.2020, n. 2701; sez. II, 29.11.2019, n. 8181; sez. II, 10.08.2018, n. 4900).
Correttamente, il Comune di Benevento ha escluso che si fosse maturata alcuna ipotesi di prescrizione estintiva del credito, rilevando che, nel caso di specie, la pratica di sanatoria non era completa di tutta la documentazione all’uopo occorrente, tant’è che, nel mese di luglio 2019, il Comune ha chiesto un’integrazione documentale riscontrata dal privato ad agosto 2019 (in modo peraltro non integralmente esaustivo non avendo il Ti. prodotto il certificato di imprenditore agricolo a titolo principale).
Pertanto, oltre a non essersi formato alcun silenzio-assenso, il termine di prescrizione è iniziato a decorrere dalla data della integrazione documentale e, per l’effetto, non si è verificata alcuna estinzione del diritto al pagamento del contributo di costruzione.
In via gradata e nella denegata ipotesi in cui l’adito Tribunale dovesse ritenere per qualsivoglia motivo ancora dovuti gli oneri così come determinati dal resistente a titolo di contributo di costruzione, parte ricorrente chiede che gli stessi vengano rideterminati in base ai valori vigenti all’epoca del deposito della domanda, attesa comunque la responsabilità dell’ente che ha fatto cattivo uso della buona amministrazione come prevista dall’art. 97 della carta costituzionale.
Ad avviso di parte ricorrente, la quantificazione all’attualità delle somme dovute a titolo di oneri di costruzione consegue esclusivamente alla inerzia della Pubblica Amministrazione, e nella specie del competente compulsato Comune di Benevento, essendo stata la pratica edilizia, come detto, regolarmente presentata nei termini di legge per modo che la quantificazione dei detti oneri dovrà essere senza dubbio effettuata con riguardo a quanto dovuto all’epoca della presentazione della domanda.
Tale censura non ha miglior sorte delle precedenti.
Al riguardo giova ribadire che la domanda non era completa e non poteva essere istruita e definita all’epoca della presentazione, essendo ciò avvenuto solo con l’integrazione documentale riscontrata dal privato nel mese di agosto 2019: quindi, l’istanza di condono è stata correttamente definita secondo i valori vigenti al momento della definizione del procedimento.
Infine, in merito alla responsabilità del Comune per aver definito la pratica di sanatoria a distanza di 30 anni, si evidenzia che l’istante e il suo avente causa non hanno dimostrato di essersi interessati alla definizione della domanda di condono nel corso dei decenni trascorsi essendosi attivati solo in occasione della richiesta di altro permesso di costruire.
In definitiva il ricorso si appalesa infondato e va, quindi, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.10.2021 n. 6655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon rientrano nella ristrutturazione edilizia le modifiche rilevanti dell'edificio.
Non costituisce ristrutturazione edilizia ma nuova costruzione l'intervento con il quale si stravolge il preesistente manufatto nelle sue caratteristiche essenziali, determinando una vera e propria trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio realizzabile con permesso di costruire (in caso di conformità con il Prg) e non con Scia.
Nella nozione di nuova costruzione art. 3, lett. e), del dpr 380/2001 rientrano non solo gli interventi segnati dal carattere di stabilità al suolo e permanenza temporale ma anche quelli che -mediante una modifica radicale dell'originario immobile- diano vita a un'opera oggettivamente diversa rispetto a esso.
Anche dopo la novella normativa contenuta nel Dl 76/2020, convertito dalla legge 120/2020, (1° decreto semplificazioni) che ha dilatato il perimetro della qualificazione giuridica della ristrutturazione edilizia a seguito del colpo di scure della sentenza n. 70/2020 della Corte Costituzionale, va ribadito con nettezza il criterio distintivo con la nuova costruzione.

Secondo il Consiglio di Stato (sentenza 13.01.2021 n. 423) la ristrutturazione edilizia può comprendere esclusivamente modifiche volumetriche e di sagoma di portata limitata e facilmente riconducibili all'organismo preesistente e non anche, come nel caso risolto, una modifica volumetrica e un insieme di opere che lo rendano evidentemente diverso.
Torna cosi di attualità la vexata quaestio della definizione dell'istituto della ristrutturazione edilizia previsto dall'articolo 3, lettera d) del Dpr 380/2001 che, dopo il Dl 76/2020, relativamente agli immobili non vincolati dal codice del paesaggio (intendendo per questi sia i manufatti che le aree), può ricomprendere anche gli interventi di demolizione e ricostruzione di un fabbricato esistente con modifica di sagoma, prospetti, area di sedime, caratteristiche plano-volumetriche e tipologiche.
Restano immodificabili, invece, la volumetria complessiva e la destinazione d'uso dell'immobile, realizzandosi in caso contrario una nuova costruzione, assentibile soltanto con permesso di costruire o segnalazione certificata di inizio attività.
Sul punto, va segnalata la sentenza 124/2021 della Corte Costituzionale che ha censurato una norma della Regione Liguria che aveva ritenuto ammissibili con Scia i cambi di destinazione d'uso previsti dall'articolo 23-ter del dpr 380/2001, anche fra diverse categorie funzionali e senza opere, sul presupposto che la destinazione d'uso condiziona il carico urbanistico, legato al fabbisogno di strutture e di spazi pubblici, e incide sull'ordinata pianificazione del territorio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.08.2021).
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SENTENZA
12.2 Con gli altri motivi di gravame, suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, parte appellante lamenta l’erroneità della impugnata pronuncia, poiché questa non ha considerato la reale consistenza dell’intervento, tale da stravolgere la fisionomia del rustico preesistente anche con l’aggiunta di due piani (di cui uno interrato).
Giova rammentare, prima di esaminare tali rilievi, i seguenti passaggi della vicenda di causa:
   - l’odierno appellato conseguiva, in data 19.07.2002, la concessione edilizia n. 8259 per la costruzione di un annesso agricolo, costituito da un corpo di fabbrica posto su un solo piano, interamente fuori terra e composto da due rimesse, un porticato e un magazzino per una superficie complessiva coperta di mq. 248;
   - con istanza del 09.04.2008, l’appellato chiedeva il rilascio di un permesso di costruire per completamento e variante, istanza che veniva respinta con atto del 04.12.2008, per avere l’Amministrazione riscontrato, a seguito di un sopralluogo del 22.10.2008, la presenza delle seguenti difformità: un ulteriore piano soppalco, accessibile dall’interno del piano terra; un ulteriore piano interrato, accessibile mediante scala interna dal piano terra, destinato a garage e quindi munito di un autonomo accesso dall’esterno; un portico di dimensioni maggiori rispetto a quelle in progetto e la sua traslazione sul lato opposto della costruzione;
   - con una ulteriore istanza del 23.12.2008, l’appellato, dopo aver apportato talune modifiche alla costruzione per rendere inaccessibili sia il piano interrato che il piano soppalcato, nell’intento di ricondurre il manufatto nei parametri urbanistici consentiti, chiedeva la sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, delle seguenti difformità: del piano interrato così come tombato; di due lucernari d’areazione; del soppalco “plafonato” e quindi reso non accessibile per mancanza di scala di collegamento; di talune aperture esterne sull’edificio assentito; di un portico;
   - erano emessi, quindi, i provvedimenti impugnati in primo grado, coi quali l’Amministrazione respingeva la domanda di sanatoria e, conseguentemente, ordinava la demolizione del manufatto così come realizzato;
   - tale ulteriori determinazioni sono motivate, essenzialmente, per il fatto che le difformità apportate alla costruzione, così come assentita con la concessione edilizia originaria, sono di tale rilevanza da rendere l’immobile qualificabile come nuova costruzione, così incorrendo nelle previsioni ostative della variante generale al PRG (adottata con la deliberazione di C.C. n. 28 del 21.03.2006 e approvata con la deliberazione di C.C. n. 75 del 13.08.2008), che riconduce l’area alla zona G7, di tutela ambientale e verde privato, che esclude la nuova edificazione.
Venendo al merito delle deduzioni sollevate dall’appellante, occorre osservare che, per quanto riguarda la questione afferente alla effettiva o meno sanabilità dell’intervento, la distanza tra le contrapposte posizioni delle parti di causa attiene alla qualificazione dell’opus così come esistente, cioè il rustico frutto dei lavori autorizzati con la citata concessione edilizia e poi interrotti, siccome oggetto di variante in corso d’opera non autorizzata.
La tesi del Comune è che si tratterebbe di un edificio non più riconducibile a quello inizialmente autorizzato, in quanto la concessione edilizia del 2002 consentiva la realizzazione di un manufatto monopiano , quando invece quello oggi esistente è dislocato su più livelli; osserva altresì il Comune che le modifiche apportate dal ricorrente dopo la domanda di variante rimasta denegata costituiscono meri ‘palliativi’, non eliminando i due piani in più realizzati, ma soltanto rendendoli inaccessibili e pertanto il manufatto, così come esistente, verrebbe a costituire una nuova costruzione non assentibile, in considerazione della rilevanza ambientale dei luoghi, tutelata dalla variante generale al PRG nell’assegnare all’area destinazione G7.
Ritiene il Collegio che l’intervento edilizio descritto in atti ha senz’altro determinato una notevole trasformazione dell’assetto edilizio preesistente, tanto che da un volume distribuito su di un unico livello si è pervenuti ad un edificio su tre livelli. Le modifiche interne apportate al manufatto, finalizzate a rendere inaccessibili parti del fabbricato che, per le loro caratteristiche morfologiche, si atteggiano a veri e propri due autonomi livelli, ovverosia piano interrato e soppalco, non sono idonee a neutralizzare la notevole portata innovativa delle difformità realizzate rispetto al progetto iniziale, nella loro permanente fisicità oltre che verosimile incidenza su sagoma e prospetto.
Fatta questa precisazione di ordine costruttivo, il Collegio ritiene di non condividere il ragionamento che affiora dai passaggi motivazionali dell’impugnata sentenza, perché il Tar indulge nel ritenere tecnicamente esistente il manufatto sulla base di considerazioni che si muovono sul piano della mera astrazione concettuale, evidenziando che il Comune avrebbe implicitamente riconosciuto l’esistenza del manufatto così da essere attratto alla più favorevole disciplina introdotta dalla variante generale laddove consente, in zona G7, il completamento degli edifici “esistenti”. Ci si riferisce al seguente significativo passaggio della motivazione: “La qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione appare innanzitutto in contraddizione con la riconosciuta possibilità di completamento della costruzione”.
Ritiene invece il Collegio che la questione sollevata dall’appellante deve essere affrontata alla luce del consolidato orientamento di questo Consiglio secondo cui quando un manufatto viene stravolto nelle sue caratteristiche essenziali, così come autorizzate, l’intervento è da qualificare non di “ristrutturazione” bensì di “nuova costruzione”.
Con tale locuzione si intende qualsiasi intervento che consista in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o nell’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma stabilita (Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2020, n. 1536).
Orbene, nella nozione di nuova costruzione possono rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell’entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell’immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l’opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente (Cons. Stato, sez. II, 06.04.2020, n. 2304).
La ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione.
Pur consentendo l’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.01.2016, n. 328).
Così tracciata la linea di demarcazione tra ristrutturazione dell’esistente e nuova costruzione, non può innanzitutto condividersi quanto affermato dal Tar nel senso che “non si comprende perché il Comune consideri il titolo edilizio decaduto quale unico parametro di riferimento dell’attività di completamento”, dovendosi invece rilevare se la differenza tra quanto originariamente assentito e quanto invece realizzato sia tale da attribuire al manufatto esistente una fisionomia edilizia del tutto nuova che recide il legame con l’opera in progetto. Non può essere infatti ricompreso nel tessuto edilizio esistente ciò che si palesa abusivamente realizzato.
Orbene, le caratteristiche del manufatto sono completamente diverse da quelle inizialmente assentite già solo per il fatto che, come traspare dai rilievi planimetrici allegati alla domanda di “Rinnovo titolo per completamento” (depositato agli atti del presente giudizio in data 31.01.2020 e comunque acquisibile ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a. perché “indispensabile ai fini della decisione della causa”), l’edificio ha una diversa ubicazione (con parziale rototraslazione) rispetto a quella assentita e presenta, oltre ai due ulteriori livelli di cui si è detto, le seguenti difformità come elencate nella stessa istanza:
   “1) variazione della quota d’imposta e del sistema di fondazione a causa della natura e morfologia del terreno non idonea alla fondazione superficiale,
   2) variante di orientamento (parallelo alle curve di livello) e di ubicazione contenuto nei limiti ammissibili (area insediabile L1-1/6L1 e L2-1/6L2,
   3) approfondimento del piano di posa su terreno di natura marnosa ubicato mediamente a ml 2.00 circa dal piano di campagna originale,
   4) diminuzione di ml 2.00 della dimensione longitudinalmente del corpo di fabbrica,
   5) conseguente modifica della dimensione e ubicazione del portico
.”
A ciò deve aggiungersi una diversa, sia pur ridotta, volumetria, del corpo di fabbrica principale (232 mq lordi –di cui mq. 214 netti– in luogo dei 248 mq assentiti) e l’aumento di quella del portico (mq. 32 in luogo dei 28 assentiti).
La consistenza complessiva delle difformità realizzate fa sì che il manufatto si atteggi ad un quid alium rispetto a quanto assentito, cosicché costituisce una nuova costruzione integralmente abusiva.
Per esigenze di completezza va tuttavia rilevato che, come dianzi rilevato, gli accorgimenti ai quali l’appellato ha fatto ricorso per rendere inaccessibili i due livelli non assentiti sono inefficaci, perché non ne elidono la consistenza fisico-materiale; inoltre apportare modifiche, peraltro così significative (tali da “isolare” due livelli dell’edificio), ad un’opera edilizia di cui si chiede la sanatoria ex art. 36 del T.u.ed. é in stridente contrasto con la stessa ratio della norma, che è quella di consentire la conservazione degli immobili interessati da abusi solo formali.
Questo Consiglio ha già avuto modo di osservare che (sentenza, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410) l’art. 36 cit. “non prevede sanatorie parziali o condizionate di edificazioni strutturalmente unitarie”.
Si è quindi consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui “il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell’opera, dimostrando che tale conformità non sussiste se non attraverso l’esecuzione di modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria)”.
A medesime conclusioni si deve pervenire quando le modifiche allo status quo sono apportate preliminarmente su iniziativa dello stesso richiedente il titolo in sanatoria, tanto più che esse rappresentano un ulteriore stadio costruttivo a sua volta non autorizzato e quindi comunque, financo se dettato da esigenze manutentive, di carattere abusivo (Cons. Stato, sez. VI, 12.10.2020, n. 6060).
Ne deriva che l’appello è fondato ove si assume, in termini decisivi della controversia, che l’intervento descritto in atti non è comunque assentibile in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, sia perché in contrasto con la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della realizzazione dell’intervento (tanto più che lo stesso ricorrente ammette di aver realizzato le opere prima della richiesta di variante e quindi in totale difformità al titolo rilasciato secondo la disciplina urbanistica localmente vigente) sia in relazione alla disciplina “al momento della presentazione della domanda”, appunto perché, destinandola a zona G7, essa riconosce la rilevanza ambientale dei luoghi ed esclude la edificabilità di una nuova costruzione avente la diversa sagoma, quale appunto deve intendersi quella in questione.
12. In conclusione, l’appello va accolto e pertanto, in riforma dell’impugnata sentenza, il ricorso di primo grado, e relativi motivi aggiunti, sono da respingere.

AGGIORNAMENTO AL 31.03.2024 (ore 23,59)

In materia di accesso ai documenti amministrativi della P.A.:

   1) l'esame è gratuito, mentre
  
2) il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura, sicché
  
3) è illegittimo il provvedimento (nella specie, una delibera di Giunta comunale) che introduca una tariffa per la visione degli atti e preveda oneri economici maggiori, rispetto a quelli anzidetti, per l'estrazione di copia.
Poi, in materia di
accesso civico:
  
4) l’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso;
  
5) la possibilità di imputare diritti di ricerca non è prevista dalla disciplina di settore;
  
6) è ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis l’esclusione dei costi del personale impiegato nella gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità generale:
  
7) detto altrimenti, la disciplina del F.O.I.A. (Freedom of Information Act) prevede il principio di gratuità dell’accesso: possono essere addebitati solo i costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere a carico del cittadino (id est, le spese per il personale e quelle riferibili a servizi commerciali come l’I.V.A.).
In particolare, il costo rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione”, non include il costo per il personale impiegato nella trattazione delle richieste di accesso, essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio, grava sulla collettività che intenda dotarsi di un’amministrazione moderna e trasparente.
Quindi, ribadito che "Il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall'amministrazione per la riproduzione su supporti materiali", nel costo di riproduzione del quale l’amministrazione può chiedere il rimborso rientrano le seguenti voci:
      - il costo per la fotoriproduzione su supporto cartaceo;
      - il costo per la copia o la riproduzione su supporti materiali (ad es. CD-rom);
      - il costo per la scansione di documenti disponibili esclusivamente in formato cartaceo, in quanto attività assimilabile alla fotoriproduzione e comunque utile alla più ampia fruizione favorita dalla dematerializzazione dei documenti (art. 42, d.lgs. n. 82 del 2005);
      - il costo di spedizione dei documenti, qualora espressamente richiesta in luogo dell’invio tramite posta elettronica o posta certificata e sempre che ciò non determini un onere eccessivo per la pubblica amministrazione.

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso ai documenti amministrativi: è illegittimo il provvedimento che introduce una tariffa per la visione degli atti o impone oneri economici maggiori di quelli previsti dall'art. 25, comma 1, l. 241/1990 per l'estrazione di copia.
In tema di accesso ai documenti amministrativi, ai sensi dell'art. 25, comma 1, della l. 07.08.1990, n. 241 («Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»),
   «[l]'esame dei documenti è gratuito», mentre
   «[i]l rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura».
Sicché è illegittimo il provvedimento (nella specie, una delibera di Giunta comunale) che introduca una tariffa per la visione degli atti e preveda oneri economici maggiori, rispetto a quelli anzidetti, per l'estrazione di copia.
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... per la riforma della sentenza 26.04.2019 n. 615 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), resa tra le parti, della deliberazione della Giunta del Comune di Lucca n. 252 del 11.12.2012 avente ad oggetto "Richieste di visione o estrazione di copie, riferite a pratiche giacenti presso gli archivi dell’Edilizia privata, presso l’Archivio storico e presso l’archivio di deposito di San Filippo – Approvazione nuove tariffe".
...
1. Con la delibera giuntale n. 252 dell’11.12.2012 il Comune di Lucca stabiliva la revisione delle tariffe relative alla richiesta di visione o estrazione di copia riferita a pratiche giacenti presso gli archivi degli Uffici “Edilizia privata”, in particolare presso l’Archivio storico e presso l’Archivio San Filippo.
2. Con il ricorso iscritto al N.R.G. 1061/2013, proposto dinanzi al TAR per la Toscana, il Sig. St.To., Geometra, ha impugnato il provvedimento deducendo che detta tariffa sarebbe stata superiore ai meri costi di riproduzione, in violazione del principio della gratuità del diritto di accesso sancito dalla L. 241 del 1990, oltre che dallo Statuto comunale.
3. Il TAR adito, con la sentenza 26.04.2019 n. 615 ha accolto il ricorso, annullando il provvedimento impugnato.
In particolare, il primo giudice richiamava la sentenza n. 11 del 2017 emessa fra le medesime parti che, muovendo dal dato normativo di cui all’art. 25 della legge n. 241/1990, affermava che l'esame e l’ostensione dei documenti sono gratuiti, salvo il mero pagamento dei costi di riproduzione, sicché la facoltà delle amministrazioni di determinare i predetti costi non può spingersi fino ad elidere il principio di gratuità, dovendo la stessa essere esercitata secondo il canone di ragionevolezza e proporzionalità.
...
7. Con il primo motivo, l’appellante censura la sentenza di prime cure per aver respinto l’eccezione di difetto di legittimazione e carenza di interesse proposta in primo grado.
All’uopo, il Comune evidenzia come la mera iscrizione ad un Albo Professionale non potrebbe costituire ragione sufficiente a fondare una posizione giuridica astrattamente tutelata in relazione all’azione proposta. Evidenzia che e l’odierno appellato non aveva allegato alcun interesse concreto e attuale ad accedere a pratiche di archivio presso il Comune di Lucca.
In particolare, l’accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990, definisce come “interessati” all’accesso non già tutti i soggetti indiscriminatamente, ma esclusivamente i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
7.1 Il motivo è infondato.
7.2 In generale, il riconoscimento del diritto di accesso e la legittimazione all'esercizio della correlata pretesa ostensiva postulano, in quanto riferiti a "soggetti privati", ancorché eventualmente portatori di interessi superindividuali, la sussistenza di un "interesse diretto, concreto e attuale”, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso.
7.3 Peraltro, nel caso di specie viene in oggetto l’interesse non tanto all’accesso ai documenti quanto all’impugnativa di un atto lesivo della situazione giuridica azionata dall’odierno appellato che, nell’espletamento della propria attività professionale, effettua frequenti accessi alla documentazione edilizia del Comune di Lucca.
7.4 Conseguentemente sussiste la invocata legittimazione, in quanto il rapporto che scaturisce dalla determinazione della tariffa in questione intercorre tra l'Amministrazione e gli amministrati che professionalmente agiscono attraverso l’esercizio di una situazione giuridica soggettiva specifica che viene ad essere disciplinata, sul versante organizzativo ed economico, dagli atti impugnati; quindi, il singolo professionista subisce il pregiudizio giuridico ed economico derivante dalla supposta erronea determinazione delle voci di costo, cosicché in capo allo stesso soggetto sussiste la facoltà (e l'onere) di contestare la determinazione tariffaria.
8. Con il secondo motivo, il Comune appellante censura la sentenza di prime cure per non aver adeguatamente motivato l’accoglimento dei motivi di ricorso.
In particolare, il Giudice di prime cure non censura l’asserita irragionevolezza delle motivazioni poste dal Comune di Lucca con il proprio provvedimento, ma si limita a rilevare che, sempre in forza del proprio medesimo precedente, quest’ultimo aveva già statuito sulla non sussistenza di un distinguo –ai fini appunto della gratuità del diritto all’accesso- tra diritto all’accesso per sola visione ovvero mediante (o anche mediante) estrazione di copia, distinguo invece sussistente allorché il secondo è oneroso.
Erroneamente il Giudice di primo grado ammetterebbe per l’Amministrazione la sola facoltà di stabilire costi di riproduzione, ma in tal caso i costi di riproduzione dovrebbero comprendere anche i diritti di ricerca che, invece, la norma invocata prevede espressamente come voce ulteriore e diversa rispetto al costo di riproduzione (art. 25, comma 1, della L. n. 241/1990).
Ne discende che il costo di riproduzione comprenderebbe anche il costo o comunque i diritti per la ricerca e l’evasione della pratica, costi che, peraltro, verrebbero sostenuti anche per la visione e non soltanto nel caso di richiesta di copia.
8.1 Anche tale motivo è infondato.
8.2 Ai sensi dell'art. 25, l. n. 241 del 1990 “L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
8.3 Pur dinanzi alla generalità della formulazione, la norma statuisce che, sul punto in questione, il diritto di accesso consta di due momenti: quello dell'esame e della estrazione di copia degli atti.
L'esame è gratuito, mentre l'estrazione di copia è subordinato alla corresponsione dei diritti di segreteria. Gli interessati, pertanto, dopo aver formulato l'istanza di accesso hanno diritto di verificare che gli atti messi a disposizione dall'Amministrazione coincidano con quanto di loro interesse; svolta tale verifica e circoscritta la documentazione che intendono acquisire, essi devono corrispondere i predetti diritti di segreteria.
8.4 In materia, la visione dei documenti non può che essere gratuita; se così non fosse, la regola della trasparenza, ormai vigente come principio generale dell'azione amministrativa e quindi da intendersi anche come ampliativo ed estensivo delle disposizioni in materia di diritto di accesso, non avrebbe una idonea attuazione. L’Amministrazione, nella fissazione dei costi per la riproduzione deve limitarsi a richiedere l'importo esatto dell'onere di riproduzione in concreto delle copie secondo i criteri di ragionevolezza e proporzionalità. In ogni caso quindi la somma richiesta non può eccedere i costi effettivi sopportati, escluso ovviamente qualsiasi utile, non potendo l'amministrazione ricavare profitti dall'esercizio di un'attività istituzionale connessa al diritto di accesso.
8.5 Gli oneri conseguenti all’esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno quindi, finanziati attraverso la fiscalità, in tema di bollo e di diritti di segreteria e di visura, al pari di quanto avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo democratico.
8.6 Pertanto, va condivisa la conclusione del Tar, che esclude come possa istituirsi una specifica e nuova tassa extra ordinem, come avvenuto nel caso di specie in cui la tariffa di 20 o 35 euro per la visione delle pratiche sarebbe finalizzata a coprire i costi delle attività di ricerca e messa a disposizione della documentazione.
8.7 In definitiva, la previsione impugnata è illegittima sia laddove prevede un costo per la visione, in diretto contrasto con il principio predetto, sia laddove introduce una somma autonoma e distinta, per lo svolgimento di un’attività (quindi in termini di tassa) di ricerca, rispetto alle vigenti disposizioni in tema di bollo e di diritti di segreteria e di visura.
8.8 È evidente che l’incremento delle attività connesse all’attuazione del principio di trasparenza abbia dei costi in termini di tempo e di risorse organizzative, in termini di politica economica; le relative conseguenze tuttavia non possono essere individuate con modalità scollegate dalla norma di principio che regola l’esercizio di un diritto, quale quello di accesso, posto a garanzia del cittadino nei confronti dell’attività autoritativa (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.02.2024 n. 1366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sui presupposti dell’accesso civico generalizzato e sul rapporto con l’accesso documentale.
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Atto amministrativo – Accesso civico – Presupposti – Accesso ai documenti – Rapporto – Inclusione e completamento.
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso.
Il rapporto tra la disciplina dell’accesso documentale e quella dell’accesso civico generalizzato deve essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca, quanto piuttosto di inclusione e completamento, finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle singole discipline (1).

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   (1) Precedenti conformi: sui presupposti per l’accesso civico generalizzato, Cons. Stato, sez. V, 04.01.2021, n. 60; Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861. Sul rapporto tra accesso civico generalizzato e accesso documentale, Cons. Stato, Ad. plen., 02.04.2020, n. 10.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2024 n. 1117 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
L’appello non è fondato.
Con un primo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i. - difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, il giudice di primo grado avrebbe errato nel disattendere l’eccezione di inammissibilità, formulata dal comune in primo grado e fondata sul rilevo della mancata impugnazione, nei termini di legge, dell’unico e solo provvedimento di diniego espresso, emesso dal Responsabile dell’U.T.C. con nota prot. del 24.11.2022, atteso che la successiva nota del Responsabile dell’U.T.C. prot. n. 786 del 14.02.2023 costituirebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, un atto meramente confermativo del precedente diniego prot. n. 6138 del 24.11.2022.
La premessa, da cui muove il comune appellante, è quella secondo cui la mera reiterazione di una richiesta di accesso agli atti, già oggetto di un provvedimento di rifiuto, che non sia basata su elementi nuovi rispetto alla richiesta originaria o su una diversa prospettazione dell’interesse a base della posizione legittimante l’accesso, non vincola l’amministrazione ad un riesame della stessa e rende legittimo e non autonomamente impugnabile il provvedimento meramente confermativo del precedente rigetto.
Dall’accoglimento di tale premessa la parte appellante fa pertanto discendere l’inammissibilità del ricorso di primo grado, essendo stato lo stesso esperito a fronte di un atto meramente confermativo del primo diniego, non impugnato.
L’assunto della parte appellante, pur essendo astrattamente condivisibile, in quanto conforme alla constante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. IV, 13.01.2020 n. 279 e, nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV, 22.09.2020 n. 5549), non può trovare applicazione alla fattispecie oggetto del presente giudizio, in relazione alla quale, contrariamente a quanto ritenuto nel primo motivo di appello, non viene in rilievo una mera reiterazione della prima richiesta di accesso documentale, in assenza di nuovi elementi, ma una nuova richiesta di accesso basata sul diverso istituto dell’accesso civico generalizzato.
L’accesso civico generalizzato, come noto, costituisce un diritto fondamentale che contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato rinviene, infatti, fondamento, oltre che nella Carta costituzionale (artt. 1, 2, 97 e 117) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42), anche nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione include la libertà di ricevere informazioni e le eventuali limitazioni, per tutelare altri interessi pubblici e privati in conflitto, sono solo quelle previste dal legislatore, risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva di legge.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a ricercare informazioni, quale diritto che consente la partecipazione al dibattito pubblico e di conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni al fine di rendere possibile quel controllo “democratico” che l’istituto intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability) della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non occorre verificare, così come per l’accesso documentale, la legittimazione dell’accedente, né è necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente, contrariamente a quello documentale, a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge, mentre l’accesso documentale( e ancor di più quello difensivo) risponde al paradigma del “need to know”, con tutto ciò che ne consegue in punto di
Dalle considerazioni che precedono emerge la netta distinzione, sul piano strutturale e funzionale, tra l’istituto dell’accesso documentale e quello civico generalizzato, da cui ulteriormente discende la legittima facoltà di azionare il secondo anche quando non sussistono ( o non sussistono più) i presupposti per esercitare il primo.
Con un secondo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i. - difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, la sentenza di primo grado sarebbe erronea per avere il giudice di primo grado apoditticamente ritenuto “sussistenti” tutti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di accesso ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 33/2013.
Ciò, in quanto l’istanza di accesso del 02.02.2023 e, ancor di più, la successiva domanda giurisdizionale, lungi dal raggiungere un benché minimo grado di concretezza, sarebbero fondate soltanto su mere e indimostrate “illazioni” circa la possibile perdita del finanziamento e come tali si rileverebbero del tutto pretestuose.
Inoltre, tali richieste di accesso sarebbero state formulate in modo del tutto disfunzionale rispetto alla finalità che si propongono di realizzare, trasformandosi, in ragione dell’ampia e ingiustificata ostensione documentale, in una causa di intralcio al buon funzionamento della P.A., tale da compromettere lo svolgimento degli ordinari compiti di ufficio che già spettano al funzionario comunale
Il motivo non è fondato.
Per individuare l’ambito di estensione e gli eventuali limiti dell’accesso civico generalizzato si possono richiamare i principi espressi nel parere della sez. I del Consiglio di Stato 30.03.2021, n. 545.
È stato in precedenza ricordato che l’accesso civico “generalizzato” consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse, concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso (tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 04.01.2021, n. 60; sez. VI, 05.10.2020, n. 5861).
E’ stato precisato (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861) che con l’accesso civico generalizzato il legislatore ha inteso superare il divieto di controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche amministrazioni, su cui è incentrata la disciplina dell’accesso di cui agli artt. 23 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, così che l’interesse individuale alla conoscenza è protetto in sé, ferme restando le eventuali contrarie ragioni di interesse pubblico o privato di cui alle eccezioni espressamente stabilite dalla legge a presidio di determinati interessi ritenuti di particolare rilevanza per l’ordinamento giuridico.
E’ stato altresì puntualizzato che il rapporto tra le due discipline (dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato, oltre il rapporto tra tali due discipline generali e quelle settoriali) deve essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca, quanto piuttosto di inclusione/completamento, finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle singole discipline (cfr. Adunanza Plenaria 10/2020).
La regola della generale accessibilità è peraltro temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono state classificate in assolute e in relative e al loro ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel secondo) rifiutare l'accesso.
Le eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato sono quelle individuate all'art. 5-bis, comma 3 (segreto di Stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990), mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del medesimo articolo (la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive; la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida Anac, adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016 (recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso civico generalizzato), è stato chiarito che il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata dalle Amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione degli atti possa comunque determinare un pericolo di concreto pregiudizio agli interessi indicati dal Legislatore.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Collegio rileva che dalla analisi della motivazione del provvedimento di diniego si ricava l’assenza di qualsivoglia riferimento ad una delle suindicate ragioni che precludono i diritti all’accesso generalizzato.
Più in radice, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, in riferimento all’istanza presentata ai sensi dell’accesso civico generalizzato, di fatto, il comune non si è proprio pronunciato.
Il che appare già sufficiente per la conferma della sentenza impugnata.
Peraltro, nemmeno può essere condiviso l’assunto che, nel caso in esame, si verserebbe nell’ipotesi di abuso del diritto all’accesso civico generalizzato.
Come noto, l’abuso del diritto, secondo la definizione più accreditata anche in dottrina, consiste nella deviazione dell'esercizio del diritto rispetto allo "scopo" per il quale il diritto stesso è stato riconosciuto.
Orbene, dalla natura degli atti richiesti al Comune di Cotrone, (relativi al procedimento di riqualificazione di un edificio storico) emerge, contrariamente a quanto ritenuto dal comune appellante, non solo la ragionevole esigenza conoscitiva dei ricorrenti in primo grado, ma, venendo in rilievo l’utilizzo di risorse pubbliche, anche la conformità della richiesta documentale alle finalità cui è preordinata la previsione dello strumento dell’accesso civico generalizzato, che, come anticipato, mira, a favorire forme di diffuse di controllo sull’ esercizio dei pubblici poteri.
Il riferimento, infine, alla possibile paralisi dell’ufficio tecnico comunale a fronte della massiva richiesta di accesso, costituisce, ad avviso del Collegio, una inammissibile integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento di diniego dell’accesso.
Il maggioritario e condivisibile indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato assume, infatti, l’inammissibilità della motivazione postuma (specie quando, come nel caso in esame, avviene per il tramite degli scritti difensivi), ritenendola in contrasto anche con le regole del giusto procedimento amministrativo.
Tale condivisibile orientamento trae ulteriore argomento dalla condivisibile considerazione per cui «il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti» (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, 07.04.2014, n. 1629; sezione sesta, 22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247; sezione quinta, 27.03.2013, n. 1808).
L’indirizzo giurisprudenziale in esame ha ricevuto, inoltre, l’autorevole avallo della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato, con l’ordinanza 26.05.2015, n. 92, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della n. 241 de 1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, da una sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che la rimettente si era sottratta al doveroso tentativo di sperimentare l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, chiedendo un improprio avallo a una determinata interpretazione della norma censurata.
Dalle considerazioni che precedono discende il respingimento dell’appello con conseguente conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2024 n. 1117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Tar Piemonte: i costi di riproduzione per l’accesso civico generalizzato non devono tradursi in una tassa extra ordinem.
Con la sentenza 23.03.2021 n. 332, il TAR Piemonte -Sez. II- dichiara l’illegittimità di un provvedimento di rigetto di una richiesta di accesso civico generalizzato, richiamando le circolari del Dipartimento della Funzione Pubblica a proposito del regime dei costi. La disciplina Foia prevede il principio di gratuità dell’accesso: è ammesso l’addebito dei soli costi di riproduzione, tra i quali non possono ricomprendersi le spese per il personale e quelle riferibili a servizi commerciali come l’I.V.A.
Ecco la storia.
Un Comitato ha chiesto a una società in house l’ostensione –cumulativamente, a titolo di accesso procedimentale, accesso civico generalizzato e accesso ambientale– di una serie di dati relativi ai flussi veicolari su base oraria registrati nell’area urbana di Torino in un determinato lasso di tempo. La società ha ritenuto l’istanza inammissibile, data la inesistenza dei dati richiesti e l’assenza di un obbligo di elaborarli a richiesta.
A seguito dell’accoglimento del ricorso da parte del Tar Piemonte con pronuncia n. 720/2020 la società in house ha comunicato all’istante di essere disponibile a mettere a disposizione un DVD contenente i dati richiesti, previo pagamento di un importo superiore a 2mila euro a copertura dei costi sostenuti per le attività di estrazione, così calcolati: 3 giorni uomo per un analista dati (euro 1.536,00 IVA esclusa) e 1 giorno uomo per un gestore servizi (euro 560,00 IVA esclusa).
L’istante ha nuovamente proposto ricorso al TAR Piemonte, lamentando, tra le altre cose, la violazione del principio della gratuità esplicitato all’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013, secondo cui “il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali” (disposizione peraltro richiamata esplicitamente dal Regolamento sull’accesso civico della società).
Nell’accogliere il ricorso, il Tar Piemonte ha, anzitutto, fatto proprio il chiarimento fornito nella Circolare n. 1/2019 del Ministro della pubblica amministrazione, secondo cui “possono essere addebitati solo i costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere a carico del cittadino.
In particolare, il costo rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione”, non include il costo per il personale impiegato nella trattazione delle richieste di accesso, essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio, grava sulla collettività che intenda dotarsi di un’amministrazione moderna e trasparente
” (par. 4).
Su questa base, constatato che i costi inerenti ad attività umane sono generalmente quelli di ricerca ed estrazione del dato/documento, ha chiarito che tali costi non possono essere posti interamente a carico dei richiedenti, neppure in base all’art. 25 della L. n. 241/1990, che prevede la possibilità di imporre “diritti di ricerca” (da aggiungersi ai costi di riproduzione), ma intendendoli al più come compartecipazione alle spese, e non come prestazione di servizi a carattere commerciale (alla cui logica, peraltro, sembra ispirarsi il provvedimento impugnato, assoggettando a IVA la prestazione).
A sostegno di tale orientamento, il TAR Piemonte ha altresì invocato l’iter parlamentare che ha portato all’approvazione del d.lgs. n. 97/2016, rilevando che, mentre l’iniziale schema di decreto sul punto (art. 6) subordinava il rilascio di dati in formato elettronico o cartaceo “al rimborso del costo sostenuto dall’amministrazione”, il testo finale approvato fa riferimento al più restrittivo concetto di “costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali”.
Pertanto, secondo il Tar Piemonte, in virtù “di una interpretazione non solo letterale della norma ma anche logico-evolutiva, è ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis l’esclusione dei costi del personale impiegato nella gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità generale. Ciò vale, in linea di principio per tutte le forme di accesso, come peraltro ribadito dalla più recente giurisprudenza”.
Questa pronuncia si pone in linea di continuità con altri precedenti sul tema. Tra questi, si può richiamare il Tar Toscana (sez. I, sentenza 26.04.2019 n. 615) secondo cui “la garanzia del diritto di accesso costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a carico delle amministrazioni a garanzia della trasparenza che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto individuale”, cosicché “gli oneri conseguenti all'esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno finanziati attraverso la fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo democratico come quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem”  (commento tratto da e link a https://foia.gov.it).
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MASSIMA
DIVIETO DI ADDEBITO AL CITTADINO DEI COSTI DI RICERCA ED ESTRAZIONE DEI DATI IN CASO DI RICHIESTA DI ACCESSO CIVICO
La disciplina dettata dall’art. 25, comma 1, L. 241/1990 in materia di accesso documentale prevede la possibilità di imporre diritti di ricerca (da aggiungersi ai costi di riproduzione), da intendersi comunque come compartecipazione alle spese e mai come mero ribaltamento dei costi o come prestazione di servizi a carattere commerciale.
In materia di accesso civico la possibilità di imputare diritti di ricerca non è prevista dalla disciplina di settore.
Alla luce di una ragionevole interpretazione non solo letterale della norma ma anche logico-evolutiva, è ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis l’esclusione dei costi del personale impiegato nella gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità generale.
Tuttavia, la più recente giurisprudenza
(TAR Toscana (Firenze), Sez. I, 26.04.2019, n. 615) ha ribadito che tale conclusione si estenderebbe, in linea di principio, a tutte le forme di accesso (tratta da www.consiglio.provincia.tn.it)

ATTI AMMINISTRATIVI:  E' illegittimo l’atto amministrativo (impugnato) nella parte in cui richiede alla parte ricorrente la corresponsione di costi diversi da quelli di mera riproduzione su supporto materiale.
Il regime dei costi legati al diritto di accesso è un tema che è stato a lungo dibattuto con riferimento a tutte le diverse forme con cui tale istituto è stato disciplinato nell’ordinamento.
Per quanto qui interessa il legislatore dispone, all’art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 33/2013, che “il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali”.
Tale previsione è stata oggetto della circolare esplicativa n. 1/2019 del Ministero della pubblica amministrazione che, al paragrafo 4 (Regime dei costi), precisa la portata del principio di gratuità sancito dalla disposizione normativa.
In particolare prevede che possono essere addebitati solo i costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere a carico del cittadino. In particolare, il costo rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione”, non include il costo per il personale impiegato nella trattazione delle richieste di accesso, essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio, grava sulla collettività che intenda dotarsi di un’amministrazione moderna e trasparente.
Nel costo di riproduzione del quale l’amministrazione può chiedere il rimborso rientrano le seguenti voci:
   - il costo per la fotoriproduzione su supporto cartaceo;
   - il costo per la copia o la riproduzione su supporti materiali (ad es. CD-rom);
   - il costo per la scansione di documenti disponibili esclusivamente in formato cartaceo, in quanto attività assimilabile alla fotoriproduzione e comunque utile alla più ampia fruizione favorita dalla dematerializzazione dei documenti (art. 42, d.lgs. n. 82 del 2005);
   - il costo di spedizione dei documenti, qualora espressamente richiesta in luogo dell’invio tramite posta elettronica o posta certificata e sempre che ciò non determini un onere eccessivo per la pubblica amministrazione.
In assenza di discipline speciali di settore che stabiliscano specifiche modalità di accesso, l’applicazione della disciplina generale in tema di accesso civico generalizzato non esclude che ai costi addebitabili al richiedente possano cumularsi –come avviene per l’accesso procedimentale alla documentazione urbanistica e/o edilizia– gli oneri in materia di bollo e i diritti di ricerca e visura.
La Relazione tecnica di accompagnamento al d.lgs. n. 97 del 2016 (art. 6), infatti, fa salve le disposizioni in materia, precisando che “all’esercizio [del diritto di accesso civico generalizzato] da parte dei consociati le amministrazioni fanno fronte nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo l’accesso civico gratuito, lo stesso è comunque subordinato al rimborso del costo sostenuto dall’amministrazione per il rilascio di dati e documenti in formato elettronico o cartaceo, ferme restando le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
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In tema di accesso i costi inerenti attività umane sono generalmente quelli di ricerca del dato/documento che includono l’estrazione degli stessi. Ma anche questi non sono ribaltabili e non possono essere posti interamente a carico dei richiedenti. La disciplina dettata dall’art. 25 della L. n. 241/1990, ad esempio, prevede la possibilità di imporre “diritti di ricerca” (da aggiungersi ai costi di riproduzione) intesi come compartecipazione alle spese, ma mai come mero ribaltamento dei costi né come prestazione di servizi a carattere commerciale (alla cui logica, peraltro, sembra ispirarsi il provvedimento impugnato dal momento in cui assoggetta ad IVA la prestazione, indicando gli importi come “IVA esclusa”).
Occorre inoltre precisare che, in materia di accesso civico, la possibilità di imputare diritti di ricerca non è neanche prevista dalla disciplina di settore.
Ad ulteriore precisazione si consideri che il testo dello schema di decreto legislativo -trasmesso al Parlamento ed al Consiglio di Stato per i relativi pareri e poi versato con modifiche nel D.Lgs. n. 97/2016 (il cd. FOIA) che ha modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 in commento– sul punto, all’art. 6, recava la seguente previsione: “Il rilascio di dati in formato elettronico o cartaceo è subordinato soltanto al rimborso del costo sostenuto dall’amministrazione”.
La relazione di accompagnamento (come evidenziato peraltro anche dalla citata circolare n. 1/2019) precisava che “all'esercizio di tale diritto da parte dei consociati le amministrazioni fanno fronte nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo l'accesso gratuito, lo stesso è comunque subordinato al rimborso del costo sostenuto dall'amministrazione per il rilascio di dati e documenti in formato elettronico cartaceo, ferme restando le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
Tale disposizione è stata oggetto di vaglio critico in sede consultiva
   - sia avanti le Commissioni Parlamentari (nei relativi pareri infatti si legge: “[All'articolo 6, comma 1, capoverso Art. 5, comma 3], sopprimere la previsione del rimborso a carico del cittadino, rendendo sicuramente gratuito l'accesso ai documenti in modalità digitale, con il solo rimborso, comunque da giustificare, dei costi effettivamente sostenuti per l'eventuale riproduzione su supporti materiali”)
   - che del Consiglio di Stato (che nel parere n. 515/2016 così si esprime “11.4 […] Orbene, la Sezione invita l'Amministrazione ad immaginare, […] con riduzione evidente di costi per la finanza pubblica e di oneri per il personale, un percorso più semplice, efficiente e lineare che veda, da una parte, l'inoltro esclusivamente telematico della domanda, quanto meno "di norma", e fatti salvi casi veramente eccezionali, dall'altra l'individuazione di un unico ufficio sportello, per ogni amministrazione, deputato alla ricezione e alla prima gestione delle istanze, correttamente segnalato nella sezione del sito istituzionale, che agisca come una sorta di "desk telematico unico per la trasparenza", costituendo così esso l'interfaccia naturale, facilmente individuabile, per il cittadino che intende accedere. 11.5 Tale previsione ridurrebbe considerevolmente, fino forse a renderli irrilevanti, anche i costi sostenuti dall'amministrazione, che devono essere rimborsati dal richiedente ai sensi dell'ultimo periodo del medesimo comma 3; sicché, a completamento della riformulazione suggerita sub 11.4, ben si potrebbe espungere la previsione del rimborso a carico del cittadino”).
A valle dell’iter appena descritto, la previsione di un rimborso del “costo sostenuto dall’amministrazione” (descritto come il “costo sostenuto dall'amministrazione per il rilascio dei dati e dei documenti”) è scomparsa e la norma ha assunto la formulazione definitiva che, invece, prevede il “costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali”.
Alla luce, pertanto, di una interpretazione non solo letterale della norma ma anche logico-evolutiva, è ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis l’esclusione dei costi del personale impiegato nella gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità generale.
Ciò vale, in linea di principio per tutte le forme di accesso, come peraltro ribadito dalla più recente giurisprudenza. Invero:
   - “La garanzia del diritto di accesso costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a carico delle amministrazioni a garanzia della trasparenza che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto individuale. Gli oneri conseguenti all'esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno quindi, finanziati attraverso la fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo democratico come quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem”.
Del resto sia la prassi che la giurisprudenza hanno individuato temperamenti al rischio di una possibile lievitazione dei costi dovuti alla gestione della trasparenza “reattiva” per il sistema pubblico. L’ANAC, nella Delibera 1309/2016 (recante Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013) ha previsto, con riferimento alle richieste cd. “massive” che “L’amministrazione è tenuta a consentire l’accesso generalizzato anche quando riguarda un numero cospicuo di documenti ed informazioni, a meno che la richiesta risulti manifestamente irragionevole, tale cioè da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione. Tali circostanze, adeguatamente motivate nel provvedimento di rifiuto, devono essere individuate secondo un criterio di stretta interpretazione, ed in presenza di oggettive condizioni suscettibili di pregiudicare in modo serio ed immediato il buon funzionamento dell’amministrazione”.
Questo Tribunale ha avuto modo di precisare che “Possono costituire oggetto di accesso civico, come precisato da consolidati orientamenti di prassi e di giurisprudenza, esclusivamente informazioni e dati immediatamente ostendibili, non richiesti in forma massiva (tale da ingolfare il regolare svolgimento dei compiti e l’ordinaria organizzazione dei soggetti destinatari) indipendentemente dalla loro forma di rappresentazione, purché versabili su un qualsiasi tipo di supporto adatto alla comunicazione e trasmissione. Questo al fine di evitare sia atteggiamenti meramente esplorativi sia la surrettizia committenza gratuita di forniture o servizi di elaborazione dati”.
Anche il Consiglio di Stato ha avuto modo di evidenziare che “notevole sarebbe l’incremento dei costi di gestione del procedimento di accesso da parte delle singole pubbliche amministrazioni (e soggetti equiparati), del quale -nell’attuale applicazione della normativa sull’accesso generalizzato, che si basa sul principio della gratuità (salvo il rimborso dei costi di riproduzione)- si è fatto carico l’interprete (in particolare, con riferimento alle richieste “massive o manifestamente irragionevoli”, cfr. Linee Guida ANAC, par. 4.2, nonché gli arresti giurisprudenziali che fanno leva sulla nozione di “abuso del diritto”)".
L’ordinamento, pertanto, legittima il rigetto delle richieste massive che, o in unica soluzione, o mediante la proposizione di più istanze in sequenza, ostacolino il lavoro ed il buon andamento della pubblica amministrazione aggravandone in modo sproporzionato i costi (e dopo che tale eccessiva onerosità emerga a valle di un doveroso dialogo cooperativo con l'istante finalizzato a ridefinire l'oggetto della domanda entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità).
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SENTENZA
... per l'annullamento e/o declaratoria della contrarietà a diritto
   - della nota prot. n. 715/2020 del 09.12.2020, con cui 5T s.r.l. ha comunicato al Comitato Torino Respira l'obbligo di corrispondere euro 2.096,00 iva esclusa per le attività di estrazione dei dati oggetto di richiesta di accesso agli atti, nonché della successiva nota prot. n. 762/2020 del 18.12.2020, con cui 5T s.r.l. ha reiterato la propria posizione quanto alla debenza di euro 2.096,00 iva esclusa, nonché di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenziali anche se non conosciuti

nonché per la condanna
   - di 5T s.r.l. alla ostensione della documentazione oggetto di richiesta di accesso agli atti così come riconosciuto dal Tar Piemonte n. 720/2020, senza che ciò generi l'obbligazione di pagamento imposta dall'Ente al Comitato Torino Respira come da atti sopra indicati

od occorrendo, in subordine, per l'esatta ottemperanza
   - della sentenza Tar Piemonte, Sez. I, 12.11.2020, n. 720, non sospesa ed esecutiva, previo ogni opportuna declaratoria di nullità degli atti impugnati con il presente ricorso.
...
1. Il Comitato Torino Respira, costituito nel 2018, ha lo scopo di promuovere ed adottare iniziative finalizzate a tutelare e migliorare la qualità dell’aria nella Città di Torino e nell’area metropolitana torinese.
Con ricorso n. 503/2020 il Comitato impugnava un diniego di accesso agli atti emanato dalla 5T S.r.l., società in house del Comune di Torino, della Regione Piemonte e della Città Metropolitana, a fronte di una istanza di accesso multipla (formulata contemporaneamente sia come accesso documentale, ai sensi degli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990, sia come accesso civico generalizzato, ex art. 5 D.Lgs. n. 33/2013, sia come accesso alle informazioni ambientali ex art. 6 del D.Lgs. n. 195/2005).
Questo Tribunale con sentenza n. 720/2020 riconosceva la parziale fondatezza del ricorso ed in particolare riconosceva il diritto del ricorrente ad accedere a parte delle informazioni richieste (a titolo di accesso civico e/o di accesso alle informazioni ambientali) ed il dovere della Società all’ostensione delle informazioni, rimettendone al suo prudente apprezzamento le modalità tecnico operative.
La Società, in esecuzione della sentenza, comunicava con nota del 09.12.2020 (prot. n. 715) l’assolvimento dell’obbligo, la produzione di un DVD quale supporto ritirabile presso la sede sociale ed una richiesta di spese pari a 2.096,00 (IVA esclusa) ottenuti dal ribaltamento dei seguenti costi: 3 giorni uomo per un analista dati (per euro 1.536,00 IVA esclusa) e 1 giorno uomo per un gestore servizi (per euro 560,00 IVA esclusa).
Seguiva un carteggio tra le parti, terminato con nota della Società del 18.12.2020 (prot. 762/2020) in cui confermava l’addebito delle somme indicate quali costi di estrazione e riproduzione.
2. Avverso tali atti è insorto il Comitato con ricorso notificato il 08.01.2021 e depositato avanti questo Tribunale con il quale se ne chiede l’annullamento, la condanna all’ostensione senza il pagamento delle somme indicate e, in subordine, l’esatta ottemperanza della sentenza n. 720/2020.
In data 08.02.2021 si è costituita la 5T s.r.l. eccependo inammissibilità del ricorso e controdeducendo nel merito.
Sono seguite il deposito di memorie di entrambe le parti (in data 01.03.2020) e delle memorie di replica (il 05.03.2021 ed il 06.03.2021).
Alla camera di consiglio del 17.03.2021, sentiti i difensori delle parti ai sensi dell’art. 25 del D.L. n. 137/2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
3. Il ricorso è fondato.
4. Il Collegio ritiene di scrutinare preliminarmente l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Società resistente nella propria memoria di costituzione, nella quale censura la scelta di procedere mediante il rito previsto dall’art. 116 c.p.a. invece che con giudizio di ottemperanza.
A tacere il fatto che il ricorso presenta, in subordine, anche domanda di ottemperanza della sentenza n. 720/2020, si osserva che l’iter del percorso di accesso non si è compiuto in quanto anche se la documentazione è stata messa a disposizione della ricorrente, sulla stessa incombe comunque l’onere di rifondere le somme richieste. La posizione giuridica dedotta nel presente ricorso, in altri termini, risulta strettamente connessa e funzionale al regolare e pieno riconoscimento ed esercizio del diritto di accesso.
Ciò a prescindere dal fatto che la Società abbia imposto o meno il preventivo pagamento delle somme richieste rispetto al materiale ritiro del DVD prodotto. A legittimare il rito speciale di cui all’art. 116 c.p.a. infatti, non è la prospettazione delle parti o il segmento procedimentale dedotto in giudizio, quanto l’intero rapporto giuridico coperto dal diritto di accesso che include tutte le prestazioni e gli adempimenti dovuti sino alla sua piena soddisfazione, incluse quelle funzionali ed accessorie.
Per tali ragioni l’eccezione non è condivisibile.
5. Con il primo (ed unico) motivo di ricorso si lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, e dell’art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 33/2013, dell’art. 6 d.lgs. n. 195/2005, oltre che della circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 2/2017, della circolare del Ministro per la pubblica amministrazione n. 1/2019 e dell’art. 2.1 del Regolamento 5T per l’accesso civico.
Il Comitato ricorrente sostiene, sostanzialmente, la violazione del principio della gratuità esplicitato all’art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 (disposizione richiamata esplicitamente dall’art. 2.1 del Regolamento 5T sull’accesso civico) e alla circolare 1/2019 citata.
La censura coglie nel segno.
Il regime dei costi legati al diritto di accesso è un tema che è stato a lungo dibattuto con riferimento a tutte le diverse forme con cui tale istituto è stato disciplinato nell’ordinamento.
Per quanto qui interessa il legislatore dispone, all’art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 33/2013, che “il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali”.
Tale previsione è stata oggetto della circolare esplicativa n. 1/2019 del Ministero della pubblica amministrazione che, al paragrafo 4 (Regime dei costi), precisa la portata del principio di gratuità sancito dalla disposizione normativa.
In particolare prevede che possono essere addebitati solo i costi strettamente necessari per la riproduzione di dati e documenti richiesti, ad esclusione di qualsiasi altro onere a carico del cittadino. In particolare, il costo rimborsabile, corrispondente a quello “effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione”, non include il costo per il personale impiegato nella trattazione delle richieste di accesso, essendo quest’ultimo un onere che, in linea di principio, grava sulla collettività che intenda dotarsi di un’amministrazione moderna e trasparente.
Nel costo di riproduzione del quale l’amministrazione può chiedere il rimborso rientrano le seguenti voci:
   - il costo per la fotoriproduzione su supporto cartaceo;
   - il costo per la copia o la riproduzione su supporti materiali (ad es. CD-rom);
   - il costo per la scansione di documenti disponibili esclusivamente in formato cartaceo, in quanto attività assimilabile alla fotoriproduzione e comunque utile alla più ampia fruizione favorita dalla dematerializzazione dei documenti (art. 42, d.lgs. n. 82 del 2005);
   - il costo di spedizione dei documenti, qualora espressamente richiesta in luogo dell’invio tramite posta elettronica o posta certificata e sempre che ciò non determini un onere eccessivo per la pubblica amministrazione.
In assenza di discipline speciali di settore che stabiliscano specifiche modalità di accesso, l’applicazione della disciplina generale in tema di accesso civico generalizzato non esclude che ai costi addebitabili al richiedente possano cumularsi –come avviene per l’accesso procedimentale alla documentazione urbanistica e/o edilizia– gli oneri in materia di bollo e i diritti di ricerca e visura.
La Relazione tecnica di accompagnamento al d.lgs. n. 97 del 2016 (art. 6), infatti, fa salve le disposizioni in materia, precisando che “all’esercizio [del diritto di accesso civico generalizzato] da parte dei consociati le amministrazioni fanno fronte nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo l’accesso civico gratuito, lo stesso è comunque subordinato al rimborso del costo sostenuto dall’amministrazione per il rilascio di dati e documenti in formato elettronico o cartaceo, ferme restando le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
La Società resistente sostiene che la norma prevedendo la rimborsabilità dei costi “per la riproduzione” questi possano comprendere gli oneri di “estrazione”, vale a dire le attività necessarie per il reperimento dei dati e/o dei documenti da versare successivamente su supporto materiale divulgabile.
Tale ricostruzione non risponde alla ratio della norma in commento.
In tema di accesso, infatti, i costi inerenti attività umane sono generalmente quelli di ricerca del dato/documento che includono l’estrazione degli stessi. Ma anche questi non sono ribaltabili e non possono essere posti interamente a carico dei richiedenti. La disciplina dettata dall’art. 25 della L. n. 241/1990, ad esempio, prevede la possibilità di imporre “diritti di ricerca” (da aggiungersi ai costi di riproduzione) intesi come compartecipazione alle spese, ma mai come mero ribaltamento dei costi né come prestazione di servizi a carattere commerciale (alla cui logica, peraltro, sembra ispirarsi il provvedimento impugnato dal momento in cui assoggetta ad IVA la prestazione, indicando gli importi come “IVA esclusa”).
Occorre inoltre precisare che, in materia di accesso civico, la possibilità di imputare diritti di ricerca non è neanche prevista dalla disciplina di settore.
Ad ulteriore precisazione si consideri che il testo dello schema di decreto legislativo -trasmesso al Parlamento ed al Consiglio di Stato per i relativi pareri e poi versato con modifiche nel D.Lgs. n. 97/2016 (il cd. FOIA) che ha modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 33/2013 in commento– sul punto, all’art. 6, recava la seguente previsione: “Il rilascio di dati in formato elettronico o cartaceo è subordinato soltanto al rimborso del costo sostenuto dall’amministrazione”.
La relazione di accompagnamento (come evidenziato peraltro anche dalla citata circolare n. 1/2019) precisava che “all'esercizio di tale diritto da parte dei consociati le amministrazioni fanno fronte nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, anche in considerazione del fatto che, pur essendo l'accesso gratuito, lo stesso è comunque subordinato al rimborso del costo sostenuto dall'amministrazione per il rilascio di dati e documenti in formato elettronico cartaceo, ferme restando le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura”.
Tale disposizione è stata oggetto di vaglio critico in sede consultiva sia avanti le Commissioni Parlamentari (nei relativi pareri infatti si legge: “[All'articolo 6, comma 1, capoverso Art. 5, comma 3], sopprimere la previsione del rimborso a carico del cittadino, rendendo sicuramente gratuito l'accesso ai documenti in modalità digitale, con il solo rimborso, comunque da giustificare, dei costi effettivamente sostenuti per l'eventuale riproduzione su supporti materiali”) che del Consiglio di Stato (che nel parere n. 515/2016 così si esprime “11.4 […] Orbene, la Sezione invita l'Amministrazione ad immaginare, […] con riduzione evidente di costi per la finanza pubblica e di oneri per il personale, un percorso più semplice, efficiente e lineare che veda, da una parte, l'inoltro esclusivamente telematico della domanda, quanto meno "di norma", e fatti salvi casi veramente eccezionali, dall'altra l'individuazione di un unico ufficio sportello, per ogni amministrazione, deputato alla ricezione e alla prima gestione delle istanze, correttamente segnalato nella sezione del sito istituzionale, che agisca come una sorta di "desk telematico unico per la trasparenza", costituendo così esso l'interfaccia naturale, facilmente individuabile, per il cittadino che intende accedere.
11.5 Tale previsione ridurrebbe considerevolmente, fino forse a renderli irrilevanti, anche i costi sostenuti dall'amministrazione, che devono essere rimborsati dal richiedente ai sensi dell'ultimo periodo del medesimo comma 3; sicché, a completamento della riformulazione suggerita sub 11.4, ben si potrebbe espungere la previsione del rimborso a carico del cittadino
”).
A valle dell’iter appena descritto, la previsione di un rimborso del “costo sostenuto dall’amministrazione” (descritto come il “costo sostenuto dall'amministrazione per il rilascio dei dati e dei documenti”) è scomparsa e la norma ha assunto la formulazione definitiva che, invece, prevede il “costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali”.
Alla luce, pertanto, di una interpretazione non solo letterale della norma ma anche logico-evolutiva, è ragionevole sostenere che corrisponda alla voluntas legis l’esclusione dei costi del personale impiegato nella gestione delle pratiche di accesso civico, inclusi quelli relativi all’attività di estrazione dei dati e dei documenti dai relativi archivi, facendo gli stessi carico alla fiscalità generale.
Ciò vale, in linea di principio per tutte le forme di accesso, come peraltro ribadito dalla più recente giurisprudenza. “La garanzia del diritto di accesso costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a carico delle amministrazioni a garanzia della trasparenza che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto individuale. Gli oneri conseguenti all'esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno quindi, finanziati attraverso la fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo democratico come quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem” (Tar Toscana, Sez. I, 26.04.2019, n. 615).
Del resto sia la prassi che la giurisprudenza hanno individuato temperamenti al rischio di una possibile lievitazione dei costi dovuti alla gestione della trasparenza “reattiva” per il sistema pubblico. L’ANAC, nella Delibera 1309/2016 (recante Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013) ha previsto, con riferimento alle richieste cd. “massive” che “L’amministrazione è tenuta a consentire l’accesso generalizzato anche quando riguarda un numero cospicuo di documenti ed informazioni, a meno che la richiesta risulti manifestamente irragionevole, tale cioè da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione. Tali circostanze, adeguatamente motivate nel provvedimento di rifiuto, devono essere individuate secondo un criterio di stretta interpretazione, ed in presenza di oggettive condizioni suscettibili di pregiudicare in modo serio ed immediato il buon funzionamento dell’amministrazione”.
Questo Tribunale ha avuto modo di precisare che “Possono costituire oggetto di accesso civico, come precisato da consolidati orientamenti di prassi e di giurisprudenza, esclusivamente informazioni e dati immediatamente ostendibili, non richiesti in forma massiva (tale da ingolfare il regolare svolgimento dei compiti e l’ordinaria organizzazione dei soggetti destinatari) indipendentemente dalla loro forma di rappresentazione, purché versabili su un qualsiasi tipo di supporto adatto alla comunicazione e trasmissione. Questo al fine di evitare sia atteggiamenti meramente esplorativi sia la surrettizia committenza gratuita di forniture o servizi di elaborazione dati” (TAR Piemonte, sent. 12/11/2020, n. 720).
Anche il Consiglio di Stato ha avuto modo di evidenziare che “notevole sarebbe l’incremento dei costi di gestione del procedimento di accesso da parte delle singole pubbliche amministrazioni (e soggetti equiparati), del quale -nell’attuale applicazione della normativa sull’accesso generalizzato, che si basa sul principio della gratuità (salvo il rimborso dei costi di riproduzione)- si è fatto carico l’interprete (in particolare, con riferimento alle richieste “massive o manifestamente irragionevoli”, cfr. Linee Guida ANAC, par. 4.2, nonché gli arresti giurisprudenziali che fanno leva sulla nozione di “abuso del diritto”)” (Cons Stato, sent. 02/08/2019, n. 5502).
L’ordinamento, pertanto, legittima il rigetto delle richieste massive che, o in unica soluzione, o mediante la proposizione di più istanze in sequenza, ostacolino il lavoro ed il buon andamento della pubblica amministrazione aggravandone in modo sproporzionato i costi (e dopo che tale eccessiva onerosità emerga a valle di un doveroso dialogo cooperativo con l'istante finalizzato a ridefinire l'oggetto della domanda entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità).
Ciò precisato, appare inconferente il richiamo al passaggio della sentenza n. 720/2020 di questo Tribunale, più volte ripetuto nelle memorie di parte resistente, che recita “quanto alle modalità tecnico-operative di assolvimento queste sono rimesse al prudente apprezzamento della Società”. Tale passaggio non può, per le ragioni sopra esposte, costituire una deroga al principio della gratuità o un ulteriore temperamento rispetto a quelli normativamente previsti.
Non colgono nel segno le argomentazioni di parte resistente che mirano a differenziare la posizione della società in house rispetto a quella delle pubbliche amministrazioni strettamente intese, poiché tale distinzione non è riconosciuta e legittimata né dalla legge (cfr art. 2, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 33/2013) né dalla prassi (cfr. la citata delibera ANAC n. 1309/2016 che precisa “2. […] La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni sopra richiamate è estesa, “in quanto compatibile”, anche a: a) enti pubblici economici e ordini professionali; b) società in controllo pubblico come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 18 della legge 07.08.2015, n. 124 (d.lgs. 175/2016 c.d. Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) […] Per le categorie di soggetti di cui ai punti 2 e 3 il legislatore prevede che la disciplina della trasparenza si applichi “in quanto compatibile”.
Il principio della compatibilità, tuttavia, concerne la sola necessità di trovare adattamenti agli obblighi di pubblicazione in ragione delle caratteristiche organizzative e funzionali dei citati soggetti. Non è invece operante per quel che concerne l’accesso generalizzato, stante la ratio e la funzione del generalizzato descritta nel primo paragrafo delle presenti Linee guida.
L’accesso generalizzato, pertanto, è da ritenersi senza dubbio un istituto “compatibile” con la natura e le finalità dei soggetti sopra elencati ai punti 2 e 3, considerato che l’attività svolta da tali soggetti è volta alla cura di interessi pubblici
”).
Allo stesso modo non colgono nel segno le considerazioni relative al fatto che l’attività implicita all’ostensione di cui si tratta non si limiti ad una mera collazione dei dati ma alla diversa attività di estrazione che non afferisce i normali protocolli dell’attività ordinaria di 5T (così come definiti negli accordi di servizio e/o negli atti di affidamento delle amministrazioni committenti).
Gli oneri di cui si parla, infatti, discendono direttamente dalla previsione legale e, come condivisibilmente precisato da ANAC nelle linee guida più volte citate “L’intento del legislatore è quello di garantire che la cura concreta di interessi della collettività, anche ove affidati a soggetti esterni all’apparato amministrativo vero e proprio, rispondano comunque a principi di imparzialità, del buon andamento e della trasparenza.
Si ritiene che nel novero di tali attività possano rientrare quelle qualificate come tali da una norma di legge, dagli atti costitutivi o dagli statuti delle società, l’esercizio di funzioni amministrative, la gestione di servizi pubblici nonché le attività che pur non costituendo diretta esplicazione della funzione o del servizio pubblico svolti sono ad esse strumentali
”.
Per le ragioni che precedono il primo motivo di ricorso è fondato.
6. In considerazione degli esiti relativi al primo motivo non si ritiene di dover scrutinare la domanda subordinata di cui al secondo motivo di ricorso.
7. Per le ragioni di cui ai punti precedenti il ricorso è fondato e dev’essere accolto.
Per l’effetto l’atto impugnato dev’essere annullato nella parte in cui richiede alla parte ricorrente la corresponsione di costi diversi da quelli di mera riproduzione su supporto materiale così come individuati nella presente sentenza; viene confermato il diritto di accesso già accertato dalla sentenza n. 720/2020 e, di conseguenza, la Società dev’essere condannata alla ostensione dei dati estratti e raccolti (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 23.03.2021 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' illegittimo un Regolamento comunale che preveda una tariffa per la mera "visione" delle pratiche.
La giurisprudenza -muovendo dal dato normativo ricavabile dall'art. 25, comma 1, della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che l'esame e l’ostensione dei documenti sono gratuiti, salvo il mero pagamento dei costi di riproduzione,- ha sancito che la facoltà delle amministrazioni di determinare i predetti costi non può spingersi fino ad elidere il principio di gratuità dovendo la stessa essere esercitata secondo il canone di ragionevolezza e proporzionalità.
Invero, è stato messo in evidenza come la distinzione fra diritto di accesso e visione delle pratiche non abbia fondamento normativo non potendo differenziarsi la natura del diritto a seconda che sia esercitato da un privato o da un professionista su incarico del primo.
A ciò va aggiunto che la garanzia del diritto di accesso costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a carico della amministrazioni a garanzia della trasparenza che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto individuale.
Gli oneri conseguenti all’esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno quindi, finanziati attraverso la fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo democratico come quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem.
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... per l'annullamento:
   - della deliberazione della Giunta del Comune di Lucca n. 252 del 11.12.2012 avente ad oggetto "Richieste di visione o estrazione di copie, riferite a pratiche giacenti presso gli archivi dell’Edilizia privata, presso l’Archivio storico e presso l’archivio di deposito di San Filippo – Approvazione nuove tariffe".
...
Il ricorrente, che agisce nella sua qualità di geometra che svolge regolarmente nell’espletamento della sua attività professionale accessi alla documentazione edilizia del Comune di Lucca, si duole del fatto che con la delibera n. 252/2011 la Giunta del predetto ente avrebbe assoggettato l’estrazione e la visione di atti giacenti presso l’Archivio storico ad una tariffa superiore ai meri costi di riproduzione in violazione del principio della gratuità del diritto di accesso sancito dalla L. 241 del 1990 oltre che dallo Statuto comunale.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di Lucca ha eccepito il difetto di legittimazione ed interesse a ricorrere avendo agito il ricorrente alla stregua di un quisque de populo, e, nel merito, ha sostenuto che oggetto della delibera non sarebbe il diritto di accesso di cui alla L. 241/1990 ma la "visione di pratiche" di archivio da parte di professionisti per finalità diversa dalla mera trasparenza.
Infatti, mentre il diritto di accesso ai documenti amministrativi sarebbe istituto di garanzia del cittadino direttamente e personalmente interessato alla conoscenza di atti e documenti che lo riguardano, nell'ambito dei principi di trasparenza e partecipazione riferiti all'agire delle amministrazioni, la richiesta di visione o rilascio di copie di atti contenuti nelle "pratiche" degli archivi comunali sarebbe riferita ad una platea di soggetti legittimati più vasta ed indeterminata.
Si tratterebbe, solitamente, di richieste presentate da professionisti o "terzi" privati, i quali, rispettivamente, preferirebbero, per loro comodità, compulsare direttamente gli archivi pubblici anziché il committente, ovvero integrare lacune o smarrimenti dei fascicoli personali.
Il ricorso è ammissibile e fondato.
Il Collegio non può che rifarsi alla recente sentenza n. 11 del 2017 emessa fra le medesime parti che ha deciso il ricorso con cui il Sig. St. aveva impugnato una delibera precedente a quella oggetto dell’odierno gravame con la quale, parimenti, veniva sottoposta a tariffa l’estrazione di documenti dagli archivi edilizi.
In quella sede è stato deciso che la qualità di geometra iscritto al relativo Albo professionale costituisce una posizione legittimante al ricorso comportando un accesso continuo agli archivi di cui si tratta che vale a differenziare lo status del ricorrente dal quisque de populo.
Nel merito la sentenza muovendo dal dato normativo ricavabile dall'art. 25, comma 1, della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che l'esame e l’ostensione dei documenti sono gratuiti, salvo il mero pagamento dei costi di riproduzione, ha sancito che la facoltà delle amministrazioni di determinare i predetti costi non può spingersi fino ad elidere il principio di gratuità dovendo la stessa essere esercitata secondo il canone di ragionevolezza e proporzionalità.
La sentenza ha, inoltre, messo in evidenza come la distinzione fra diritto di accesso e visione delle pratiche non abbia fondamento normativo non potendo differenziarsi la natura del diritto a seconda che sia esercitato da un privato o da un professionista su incarico del primo.
A ciò va aggiunto che la garanzia del diritto di accesso costituisce un vero e proprio compito che la legge pone a carico della amministrazioni a garanzia della trasparenza che è valore pubblico ancor prima di tradursi in diritto individuale.
Gli oneri conseguenti all’esercizio di tale diritto, per la parte che eccede il mero costo di riproduzione, vanno quindi, finanziati attraverso la fiscalità (al pari di quanto avviene per gli altri diritti correlati al funzionamento del meccanismo democratico come quello di voto) senza che sia consentito trasferirli sul cittadino istituendo una vera e propria tassa extra ordinem.
Ciò è quanto è, invece, accaduto nel caso di specie atteso che, stando alla ricostruzione offerta dalla difesa comunale, la tariffa di 20 o 35 euro per la visione delle pratiche sarebbe finalizzata a coprire i costi delle attività di ricerca e messa a disposizione della documentazione dei quali, per le ragioni già dette, deve farsi carico la p.a.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 26.04.2019 n. 615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Al riguardo si legga anche:
  
● M. Lucca, Il costo della trasparenza e del diritto di accesso (18.05.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
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La I sez. del TAR Toscana, con la sentenza 26.04.2019 n. 615, definisce i poteri dell’Amministrazione sulla determinazione dei costi in materia di accessibilità ed estrazione copia dei documenti amministrativi.
Si premette che la questione investe il diritto di accesso documentale (ex art. 22 della Legge n. 241/1990) considerato (prima dell’accesso civico inserito in quel processo di accountability che anima la recente riforma in tema di trasparenza, ex D.Lgs. n. 33/2013, secondo il modello FOIA) il principale strumento di partecipazione, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse: principio generale dell’attività amministrativa, finalizzato a favorire e ad assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa: un istituto di controllo democratico delle decisioni amministrative da parte dei cittadini generalmente considerati, che sostanzia uno strumento a disposizione del singolo per tutelare propri interessi giuridici nei rapporti con l’Amministrazione pubblica. (...continua).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La “ratio” dell’esenzione di cui cui all’art. 17, comma 3, lett. b), del TUE è quella di favorire gli edifici unifamiliari, quindi la piccola proprietà immobiliare, meritevole di un trattamento contributivo differenziato per agevolare interventi di ristrutturazione o di limitato ampliamento di unità immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni abitativi di una famiglia;
Insomma si tratta di un’esenzione da contributo per finalità di carattere eminentemente sociale laddove la finalità della norma è quella di garantire una “decorosa sistemazione abitativa”.
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... per l'annullamento
- per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
   dell'Avviso di rilascio del Permesso di Costruire n. 72/2018, prot. n. 13345 del 04.09.2018, notificato in pari data, nella parte in cui dispone che, ai fini del rilascio del Permesso di Costruire, debba essere pagato il contributo di costruzione ammontante complessivamente ad € 25.332,12 (doc. 1), e di ogni atto presupposto o conseguente o comunque connesso alla liquidazione del contributo di costruzione e l'accertamento del diritto della ricorrente all'esonero dal pagamento del contributo di costruzione e comunque della non debenza dello stesso o, eventualmente, del minore importo da corrispondere, con richiesta di restituzione della somma indebitamente pagata, pari ad € 25.332,12 o a quella diversa somma che risulterà in corso di causa;
- per quanto riguarda i motivi aggiunti:
   per l’annullamento degli atti già impugnati con ricorso introduttivo del giudizio e per l’accoglimento delle altre domande ivi formulate, nonché per l’accertamento e la declaratoria del diritto in capo alla ricorrente allo scomputo del contributo di costruzione e/o alla riconduzione ad equità degli impegni assunti mediante sottoscrizione di atto unilaterale d’obbligo allegato al permesso di costruire n. 72/2018.
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1. La signora An.Ci. otteneva dal Comune di Olginate (LC) il permesso di costruire (PdC) n. 72/2018 per il restauro conservativo di un fabbricato adibito a residenza rurale, per la ristrutturazione del fabbricato ad uso deposito e il suo mutamento di destinazione d’uso in fabbricato residenziale, con riguardo ad un compendio immobiliare sito alla via ... n. 1.
Con il ricorso principale in epigrafe la stessa contestava la pretesa del Comune di ottenere il pagamento del contributo di costruzione per euro 25.332,12 in relazione al permesso di cui è causa.
Contestualmente era chiesto l’accertamento del diritto all’esonero dal pagamento del contributo, con richiesta di restituzione delle somme pagate.
Con ricorso per motivi aggiunti –sottoscritto da un nuovo difensore che aveva sostituito quello originario– l’esponente confermava la propria richiesta di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione per l’intervento edilizio di cui è causa e contestualmente chiedeva l’accertamento della non debenza o in ogni caso la riduzione delle somme da essa dovute ai sensi dell’art. 21 delle norme di attuazione (NTA) del Piano di Governo del Territorio (PGT, vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale ai sensi degli articoli 7 e seguenti della legge regionale n. 12 del 2005).
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2. Il ricorso principale ed i motivi aggiunti possono essere trattati congiuntamente, attesa la loro omogeneità.
2.1 Nel primo motivo del gravame principale e nel motivo aggiunto n. 3 (continua la numerazione del ricorso introduttivo) l’esponente lamenta la violazione sotto vari profili degli articoli 16 e 17 del DPR n. 380 del 2001 (Testo Unico dell’edilizia o anche solo “TUE”) e degli articoli 43 e 44 della legge regionale sul governo del territorio n. 12 del 2005.
La tesi di parte ricorrente è che il proprio intervento edilizio non dovrebbe essere assoggettato a contributo di costruzione, dovendo applicarsi l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lettera b), del TUE, che prevede la gratuità degli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, degli edifici unifamiliari.
La censura non merita condivisione.
La “ratio” dell’esenzione di cui sopra è quella di favorire gli edifici unifamiliari, quindi la piccola proprietà immobiliare, meritevole di un trattamento contributivo differenziato per agevolare interventi di ristrutturazione o di limitato ampliamento di unità immobiliari destinate al soddisfacimento dei bisogni abitativi di una famiglia; insomma si tratta di un’esenzione da contributo per finalità di carattere eminentemente sociale (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sezione I, sentenza n. 449 del 2018, peraltro richiamata seppure impropriamente dall’esponente, nella quale si evidenzia correttamente che la finalità della norma è quella di garantire una “decorosa sistemazione abitativa”; si veda anche nello stesso senso, TAR Veneto, Sezione II, sentenza n. 289 del 2019).
Dalla documentazione versata in giudizio appare però evidente che l’immobile di cui è causa non può essere minimamente ricondotto all’ipotesi di cui al succitato art. 17 del TUE.
Il complesso immobiliare ricade in zona A1 agricola ed è costituito da un fabbricato principale un tempo destinato ad abitazione del coltivatore diretto e da un altro fabbricato ad uso stalla o deposito.
L’intervento assentito con il PdC di cui è causa comporta la ristrutturazione con cambio d’uso da rurale a residenziale, la creazione di un pergolato ad uso parcheggio, la sistemazione dell’area esterna con realizzazione di un cancello carrabile sulla via Bedesco (cfr. il doc. 1 della ricorrente).
La relazione tecnica di progetto (cfr. il doc. 3 della ricorrente) ammette che quest’ultimo riguarda “la ristrutturazione dell’esistente fabbricato rurale allo scopo di renderlo idoneo all’uso abitativo” (si veda pag. 3 della relazione, punto 1.3).
Inoltre, se il fabbricato principale è considerato in “discrete condizioni”, quello accessorio è definito come fatiscente e in parte crollato, sicché sullo stesso dovranno realizzarsi interventi importanti per creare un’unità abitativa, con nuovi locali ad uso bagno e lavanderia (si vedano sul punto anche le fotografie degli immobili, doc. 19 della ricorrente e le planimetrie degli interventi, in particolare quella doc. 13 della ricorrente).
A ciò si aggiunga che il complesso immobiliare non può certamente qualificarsi come edificio unifamiliare; è sufficiente a tale proposito ancora la lettura della relazione di progetto e delle fotografie allegate, che individuano con chiarezza due strutture distinte (cfr. ancora il doc. 3 della ricorrente).
Anche la documentazione catastale evidenzia due diverse unità immobiliari (cfr. i documenti n. 1 e n. 2 del resistente).
Non si tratta, quindi, di un edificio unifamiliare, senza contare che la trasformazione in residenza del vecchio edificio fatiscente un tempo adibito ad uso stalla e fienile implica un aumento della superficie utile ben superiore alla misura di legge del 20%.
Nello stesso ricorso principale (cfr. pag. 14) l’esponente ammette peraltro che l’immobile è composto da ben nove vani per una superficie abitabile di circa 200 metri quadrati, il che appare di per sé incompatibile con la nozione di “edificio unifamiliare”.
Non può neppure sostenersi, come invece viene affermato nei motivi aggiunti, che l’intervento edilizio non darebbe luogo ad aumento del carico urbanistico in quanto anche il vecchio edificio abitato dal coltivatore diretto aveva comunque destinazione residenziale.
L’argomento difensivo è privo di pregio, considerato che si realizza la trasformazione ad uso abitativo del fabbricato ad uso deposito (stalla e fienile), senza contare che la vecchia casa del coltivatore diretto è ormai di fatto non più abitabile, sicché la creazione della nuova e più ampia residenza darà luogo ad incremento del carico urbanistico.
I motivi n. 1 e n. 3 devono quindi rigettarsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.03.2024 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'intervento edilizio di ampliamento del fabbricato unifamiliare, la superficie residenziale (passata da mq. 82,88 a mq. 116,56) ha subito un incremento del 40,63%, mentre la superficie accessoria (passata da mq. 18,22 a mq. 46,51) ha subito un incremento del 155%.
Per entrambe le tipologie di superficie, l’intervento edilizio ha comportato un incremento superiore al 20% di quella esistente e, pertanto, non può (poteva) considerarsi gratuito ex art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001.

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... per l'accertamento e la declaratoria del diritto del ricorrente all'esenzione, ai sensi dell'art. 17, comma 3, lett. b), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, dal pagamento del contributo di costruzione di cui al precedente art. 16 del medesimo D.P.R. in relazione all'intervento edilizio di ampliamento del proprio fabbricato unifamiliare, con conseguente annullamento e/o disapplicazione della nota del Comune di Monte San Vito n. 6995 del 26.06.2009 limitatamente alla parte contenente la determinazione e quantificazione del predetto contributo, insieme agli atti successivi.
...
1. Il ricorrente allega di essere proprietario di un edificio unifamiliare di civile citazione (composto da vani residenziali e vani accessori) e di aver chiesto, al Comune di Monte San Vito, il permesso di costruire per un ampliamento della destinazione residenziale sull’area di sedime occupata dai vani accessori di cui era prevista la totale demolizione.
Il Comune, nell’assentire il progetto, ha chiesto il pagamento del contributo concessorio che, tuttavia, il ricorrente contesta ritenendo trattasi di intervento edilizio gratuito, ex art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001, poiché l’ampliamento è inferiore al 20% della superficie esistente.
L’amministrazione comunale si è costituita per resistere al gravame.
2. Va innanzitutto disattesa l’eccezione di tardività del ricorso. L’odierna controversia riguarda diritti soggettivi paritetici tutelabili entro il termine di prescrizione di 10 anni (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 30/08/2018 n. 12).
3. Con un’unica ed articolata censura viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 16 e 17 del DPR n. 380/2001 nonché eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità dell’azione amministrativa.
In particolare viene dedotto che l’amministrazione, nell’effettuare il proprio calcolo della misura dell’ampliamento (concludendo che fosse superiore al 20%), abbia erroneamente escluso il computo del corpo accessorio che viene demolito per lasciare spazio all’ampliamento residenziale.
La superficie di tale struttura andava invece computata poiché parte integrante dell’edificio unifamiliare originario.
Le censure non possono trovare condivisione.
In disparte la riconducibilità dell’intervento alla parziale nuova costruzione (come sostiene il Comune anche attraverso i propri scritti difensivi) o alla ristrutturazione con ampliamento (come sostiene parte ricorrente), a giudizio del Collegio la controversia va risolta confrontando le superfici dell’edificio prima e dopo l’intervento (al netto dei muri come emerge dagli elaborati progettuali depositati dal Comune in data 12/01/2010 e non oggetto di contestazione).
L’esistente era così composto:
SUPERFICIE RESIDENZIALE
   PT cucina mq. 15,12;
   PT vano soggiorno mq. 26,54;
   P1 camera mq. 15,12;
   P1 disimpegno mq. 3, 57;
   P1 bagno mq. 4,50;
   P1 camera mq. 18,03,
per un totale di mq. 82,88 oltre alla scala interna di superficie non quantificata.
SUPERFICIE ACCESSORIA
   PT ripostiglio mq. 3,76;
   PT deposito mq. 14,46,
per un totale di mq. 18,22.
L’edificio, dopo l’ampliamento, presenta la seguente configurazione:
SUPERFICIE RESIDENZIALE
   PT + P1 mq. 82,88 come da esistente oltre alla scala interna di superficie non quantificata;
   PT nuovo bagno mq. 4,62;
   PT nuovo disimpegno mq. 1,37;
   PT nuova camera mq. 15,33,
per un totale di mq. 116, 56 oltre alla scala interna.
SUPERFICIE ACCESSORIA
   P1 nuova terrazza mq. 46,51.
Da quanto sopra si può quindi facilmente dedurre che la superficie residenziale (passata da mq. 82,88 a mq. 116,56) ha subito un incremento del 40,63%, mentre la superficie accessoria (passata da mq. 18,22 a mq. 46,51) ha subito un incremento del 155%.
Per entrambe le tipologie di superficie, l’intervento edilizio ha comportato un incremento superiore al 20% di quella esistente e, pertanto, non poteva considerarsi gratuito ex art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380/2001.
4. Il ricorso va quindi respinto (TAR Marche, sentenza 27.02.2024 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 9 della legge n. 10/1977 stabilisce per le ipotesi dallo stesso previste l’esenzione dal contributo di cui al precedente art. 3, provvedendo esclusivamente ad individuare –in deroga al principio di onerosità del permesso di costruire- delle fattispecie tipiche di esenzione, senza in alcun modo voler concepire una forma di concessione differente rispetta a quello di carattere generale.
Con riferimento all’interpretazione del citato art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977 quale ipotesi di esenzione dal pagamento del contributo concessorio “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari”, occorre rammentare che, secondo la costante giurisprudenza in materia di edilizia il pagamento degli oneri concessori rappresenta la regola, con la conseguenza che si impone un’interpretazione restrittiva delle deroghe, da ritenere, pertanto, quali ipotesi tassativamente previste dalla legge.
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L’art. 9, comma 1, lett. d), della legge n. 10/1977, nel prevedere che il contributo non è dovuto per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari, si pone l’obiettivo di esentare dal contributo concessorio ogni intervento edilizio sugli edifici esistenti destinati all'abitazione di un solo nucleo familiare.
Il legislatore, pertanto, individua -quali beneficiari dell’esenzione- i nuclei familiari, per l’appunto proprietari di alloggi unifamiliari, nell’ottica di migliorare in loro favore le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi.
D'altronde il presupposto del contributo di costruzione, se per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla compartecipazione alle spese che il maggiore carico urbanistico derivante dall'intervento genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è correlato all'aumento di valore che consegue all'intervento. Pertanto, si giustifica la sottrazione all'imposizione dell'aumento di valore che la famiglia consegue per effetto della ristrutturazione solo per le finalità di ordine sociale sopra individuate.
Ne discende la condivisibilità della tesi sostenuta dal giudice di primo grado secondo cui che la deroga all’onerosità della concessione prevista dal citato art. 9 della legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001) ha “un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale, ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie”.
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1. La sig.ra Ol.Ca. ha chiesto la riforma della sentenza n. 631, depositata l’01.10.2018, con la quale il giudice di primo grado ha respinto la domanda volta all’annullamento della clausola della concessione edilizia n. 67/96 del 16.09.1996 che ha imposto il pagamento di 34.550.290 di vecchie lire, a titolo di oneri di urbanizzazione, e di 13.600.000 milioni di vecchie lire, a titolo di contributo di concessione, e alla conseguente declaratoria del diritto alla restituzione delle somme versate, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
1.2. L’appellante ha esposto che:
   a) ha ottenuto dal Comune di Ancona la concessione edilizia n. 67/96 per la demolizione e ricostruzione di un edificio unifamiliare per civile abitazione e cambio d'uso con opere di annesso agricolo, ubicato in via ... n. 32, concessione seguita da due varianti;
   b) con nota del 17.11.1998 ha fatto riserva avverso la clausola di onerosità, essendo la concessione stata sottoposta al pagamento di 34.550.290 di vecchie lire, a titolo di oneri di urbanizzazione, e di 13.600.000 milioni di vecchie lire, a titolo di contributo di concessione;
   c) con lettera del 15.07.1999 prot. n. 49817 il Comune di Ancona ha richiesto il versamento di 13.600.000 di vecchie lire, corrispondente al costo di costruzione;
   d) con nota del 28.07.1999 la sig.ra Ca. ha dedotto che il termine di pagamento di tale importo non era ancora scaduto, attesa la proroga correlata alle varianti intervenute e con successiva nota dell’11.08.1999 ha osservato che la concessione è stata illegittimamente sottoposta ad onerosità, dovendo esserne esente, ai sensi dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, rientrando la demolizione e ricostruzione nella nozione di ristrutturazione, e ai sensi dell'art. 11 della medesima legge, atteso che l'istante ha dovuto eseguire a proprie spese le opere di urbanizzazione;
   e) con nota dell’11.10.1999 il Comune ha reiterato quanto affermato il 15.07.1999 e il 30.12.1999 la sig.ra Ca. ha versato la somma richiesta, riservandosi di agire per la restituzione di tutto quanto pagato.
1.3. L’appellante deduce l’erroneità della sentenza di primo grado laddove, pur dando atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui l'esenzione dal costo di costruzione, di cui alla lettera d) dell'art. 9 della legge n. 10/1977, fosse applicabile anche agli interventi di demolizione e ricostruzione, afferma “la deroga all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9 della legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito dall’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar Campania Salerno, 22.06.2015, n. 1416; Tar Lombardia Milano, 10.10.1996, n. 1480; Tar Toscana, 26.04.2017, n. 616; Tar Marche, 09.01.2018, n. 9).”.
In particolare l’appellante lamenta che l'interpretazione restrittiva seguita dal giudice di primo grado, frutto di un più recente orientamento della giurisprudenza, si porrebbe in contrasto con l'art. 111 Cost. essendo mancata un'attenta ponderazione degli effetti del mutamento dell'interpretazione normativa a significativa distanza dall'introduzione del giudizio e dal rilascio del titolo edilizio, nonché deduce l’erroneità della sentenza laddove afferma che parte istante non avrebbe assolto all’onere probatorio relativo al carattere unifamiliare del fabbricato non avendo il Comune contestato che si trattasse di una ex tipica casa colonica delle campagne marchigiane, che l’intervento fosse qualificabile come ristrutturazione e che l'ampliamento fosse contenuto nel 20%.
La sentenza sarebbe erronea anche per la parte in cui ha negato l’applicabilità dell’art. 11 della legge n. 10/1977 in quanto, secondo la giurisprudenza anche in assenza di un atto d'obbligo l'amministrazione potrebbe tenere conto della domanda di scomputo delle opere già realizzate senza il previo dettato comunale ove sussista la relativa previsione, anche se solo in forma generica, nella concessione edilizia ovvero la discrezionale determinazione di accettazione ex post delle opere da parte del Comune che secondo parte istanze dovrebbe desumersi nel caso di specie dal parere favorevole della C.E. del 22.07.1997.
2. Il Comune di Ancona si è costituito in giudizio ed ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità della produzione in giudizio da parte dell’appellante chiedendo lo stralcio e la cancellazione dei seguenti documenti nuovi depositati:
"2. relazione arch. Ro.Pa. 05.07.1999; 3. concessione in variante; 4. relazione arch. Ro.Pa. 17.11.1998.", nonché l’inammissibilità dell’appello per genericità ed assenza di specificità delle censure che integrano una mera richiesta di riesame dei motivi di impugnazione formulati in primo grado.
2.1. Nel merito il Comune ha concluso per il rigetto dell’appello e per la conferma della sentenza di primo grado che correttamente avrebbe escluso l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’esenzione dall’onerosità, ai sensi dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, così come l’applicabilità dell’art. 11 della medesima legge n. 10/1977.
...
5. L’appello non è fondato nel merito e va respinto, circostanza che esime il Collegio dall’esame delle eccezioni preliminari, ivi compresa quella di inammissibilità della produzione di nuovi documenti da parte dell’appellante in considerazione della loro non rilevanza ai fini della decisione.
6. Il Collegio osserva che l’art. 9 della legge n. 10/1977 stabilisce per le ipotesi dallo stesso previste l’esenzione dal contributo di cui al precedente articolo 3, provvedendo esclusivamente ad individuare –in deroga al principio di onerosità del permesso di costruire- delle fattispecie tipiche di esenzione, senza in alcun modo voler concepire una forma di concessione differente rispetta a quello di carattere generale (Consiglio di Stato, IV sez., 01.06.2020, n. 3405).
Con riferimento all’interpretazione del citato art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977 quale ipotesi di esenzione dal pagamento del contributo concessorio “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari”, occorre rammentare che, secondo la costante giurisprudenza in materia di edilizia il pagamento degli oneri concessori rappresenta la regola, con la conseguenza che si impone un’interpretazione restrittiva delle deroghe, da ritenere, pertanto, quali ipotesi tassativamente previste dalla legge (Consiglio di stato, IV sez., 07.06.2018, n. 3422; Consiglio di stato, V sez., 07.05.2013, n. 2467).
7. Nel caso di specie dalla documentazione in atti emerge che l’intervento assentito è consistito in una demolizione e ricostruzione dell’edificio di cui si controverte, nonché nel cambio di destinazione d’uso dello stesso da rurale a residenziale e che sin dal suo rilascio la concessione è stata sottoposta a “contributo per complessive £. 48.150.290, di cui £. 34.550.290 per oneri di urbanizzazione e £. 13.600.000 per costo di costruzione”.
7. A fronte della contestazione della clausola di onerosità da parte dell’appellante, il Collegio osserva che l’art. 9, comma 1, lettera d), della legge n. 10/1977, nel prevedere che il contributo non è dovuto per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari, si pone l’obiettivo di esentare dal contributo concessorio ogni intervento edilizio sugli edifici esistenti destinati all'abitazione di un solo nucleo familiare. Il legislatore, pertanto, individua -quali beneficiari dell’esenzione- i nuclei familiari, per l’appunto proprietari di alloggi unifamiliari, nell’ottica di migliorare in loro favore le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi.
D'altronde il presupposto del contributo di costruzione, se per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla compartecipazione alle spese che il maggiore carico urbanistico derivante dall'intervento genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è correlato all'aumento di valore che consegue all'intervento. Pertanto, si giustifica la sottrazione all'imposizione dell'aumento di valore che la famiglia consegue per effetto della ristrutturazione solo per le finalità di ordine sociale sopra individuate.
7.1. Ne discende la condivisibilità della tesi sostenuta dal giudice di primo grado secondo cui che la deroga all’onerosità della concessione prevista dal citato art. 9 della legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001) ha “un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale, ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie”.
7.2. Nel caso in esame dalla documentazione allegata non risulta l’esatta consistenza dell’edificio e continua a mancare la prova del suo carattere di edificio unifamiliare nel senso appena detto di “piccola proprietà immobiliare” meritevole di un trattamento differenziato, prova che avrebbe dovuto essere fornita dall’appellante.
Al contrario l’importo elevato degli oneri concessori sembra far deporre diversamente soprattutto con riguardo alla consistenza dell’edificio.
7.3. Né, infine, sussiste il lamentato contrasto con l’art. 111 Cost. in quanto il giudice di primo grado ha applicato un orientamento giurisprudenziale consolidatosi da lungo tempo, rammentando anche che in precedenza vi era stato un contrasto tra orientamenti diversi.
E, infatti, il contrasto tra diversi orientamenti della giurisprudenza in ordine alla medesima questione non integra una lesione del diritto ad un processo equo e giusto, né può ingenerare un legittimo affidamento in capo alla parte che la sua causa sarà decisa secondo uno piuttosto che secondo l’altro orientamento (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 09.01.2024 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è costante nell’affermare che la concessione gratuita è una figura eccezionale, mentre la regola è quella dell’onerosità: infatti, la norma che la prevede, l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001 -ai sensi del quale “il contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”- è sempre stata intesa come previsione derogatoria rispetto alla suindicata regola e, dunque, da interpretare restrittivamente.
La chiara finalità della previsione dettata all’art. 17, c. 3, lett. b), è di natura sociale, essendo essa diretta ad apprestare un concreto strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per quegli interventi di adeguamento dell'immobile che siano effettivamente funzionali alle necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di "edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare è meritevole di un trattamento differenziato.
Invero, è stato ritenuto non manifestamente illogico o irrazionale definire "edificio unifamiliare", non soggetto al pagamento del contributo concessorio, "un alloggio che abbia ... una superficie utile non superiore a 110 mq'', con l'ulteriore previsione che "le limitazioni di cui ai bagni ed alla superficie utile possono essere superate" nel "caso in cui venga dimostrato che nell'alloggio la superficie utile per abitante non è superiore a 20 mq . ... ".
La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell'art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, "in relazione al quale la giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell'edificio, in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte di un unico nucleo familiare".
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Nel caso di specie, per le ampie dimensioni del fabbricato –una volumetria di 982 mc e una superficie di oltre di 300 mq- e per essere destinato ad un nucleo familiare che, al momento del rilascio del permesso di costruire, era composto da tre sole persone, il medesimo edificio non può qualificarsi quale “piccola proprietà immobiliare” e non è, quindi, meritevole di esenzione dal contributo di costruzione.
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Il sig. Gi.Co. ha contestato la decisione del Comune di Colle Brianza di assoggettare a contributo di costruzione (pari a euro 20.602,20) l’intervento edilizio di ristrutturazione e ampliamento dell’immobile di sua proprietà, oggetto del permesso di costruire n. 14/2012, deducendone l’illegittimità per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, comma 3, lett. b), d.P.R. n. 380/2001, eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto dei presupposti, arbitrarietà, ingiustizia manifesta, sviamento di potere.
...
Il Comune di Colle Brianza ha negato l’esenzione dal contributo di costruzione prevista all’art. 17, c. 3, lett. b), d.P.R. n. 380/2001, in caso di “interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”, ritenendo non riconducibile a tale fattispecie l’abitazione di proprietà del sig. Co., occupata da un nucleo di tre persone, avente una volumetria oggetto di ristrutturazione di 877,58 mc oltre a un volume di 105,02 mc di ampliamento.
Il ricorrente ha contestato la legittimità di tale decisione deducendo la violazione dell’art. 17, c. 3, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 e il travisamento dei fatti: nel caso di specie sussisterebbero i presupposti richiesti dalla norma, poiché l’edificio è strutturalmente destinato all’uso abitativo di un solo nucleo familiare, la destinazione ad esclusiva residenza abitativa preesiste all’intervento e permane anche dopo di esso e l’intervento edilizio non ha carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità dell’edificio medesimo.
A suo avviso, l’utilizzo di un criterio dimensionale per individuare la nozione di edificio unifamiliare non sarebbe corretto ma, quand’anche volesse essere farsi ricorso ad esso, l’intervento edilizio sull’immobile –un edificio strutturato su due livelli: un piano terra (di 151,45 mq) e un piano seminterrato (di 151,45 mq) i cui locali non sono abitabili, avendo un’altezza non superiore a 2,60 m.- andrebbe comunque esente dal contributo.
Il ricorso è infondato.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che la concessione gratuita è una figura eccezionale, mentre la regola è quella dell’onerosità: infatti, la norma che la prevede, l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001 -ai sensi del quale “il contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”- è sempre stata intesa come previsione derogatoria rispetto alla suindicata regola (cfr. C.d.S., Sez. IV, 14.02.2018, n. 945; Sez. V, 07.05.2013, n. 2467, e 24.03.2006, n. 1523; sull’art. 9 cit. cfr. Corte cost., ord. 23.06.1988, n. 714; C.d.S., Sez. V, 06.02.2003, n. 617) e, dunque, da interpretare restrittivamente (C.d.S., Sez. IV, 01.06.2020, n. 3405).
La chiara finalità della previsione dettata all’art. 17, c. 3, lett. b), è di natura sociale, essendo essa diretta ad apprestare un concreto strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per quegli interventi di adeguamento dell'immobile che siano effettivamente funzionali alle necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di "edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare è meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 02.07.2014, n. 1707, che ha ritenuto non manifestamente illogico o irrazionale definire "edificio unifamiliare", non soggetto al pagamento del contributo concessorio, "un alloggio che abbia ... una superficie utile non superiore a 110 mq'', con l'ulteriore previsione che "le limitazioni di cui ai bagni ed alla superficie utile possono essere superate" nel "caso in cui venga dimostrato che nell'alloggio la superficie utile per abitante non è superiore a 20 mq . ... ").
La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell'art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, "in relazione al quale la giurisprudenza (cfr. TAR 07.09.1999 n. 770; TAR Veneto 30.03.1996 n. 480) aveva avuto modo di chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell'edificio, in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte di un unico nucleo familiare" (cfr. TAR Brescia, sez. I , 13.05.2011 n. 713).
Nel caso di specie, l’edificio oggetto dell’intervento edilizio si struttura su due piani, con un piano terra di 151,45 mq (articolato in un ampio soggiorno con cucina a vista, un piccolo ripostiglio due stanze da letto e bagni) e un piano seminterrato anch’esso di 151,45 mq (con un ampio locale destinato a taverna, bagno, cantina, ripostiglio, lavanderia, magazzino, locale caldaia e locale ricovero attrezzi) (doc. 8).
Al piano seminterrato, alcuni locali, per quanto formalmente non abitabili, hanno comunque altezze ragguardevoli e destinazioni tali da consentirne, di fatto, un uso abitativo (la taverna e il bagno). Anche i locali adibiti a deposito, lavanderia, magazzino, cantina, centrale termica e ricovero attrezzi, per quanto non abitabili, vanno, comunque, ad incrementare le dimensioni dell’edificio e non possono essere ritenuti privi di rilievo.
Proprio per le sue ampie dimensioni –una volumetria di 982 mc e una superficie di oltre di 300 mq- e per essere destinato ad un nucleo familiare che, al momento del rilascio del permesso di costruire, era composto da tre sole persone, non può qualificarsi quale “piccola proprietà immobiliare” e non è quindi meritevole di esenzione dal contributo di costruzione.
Per le ragioni esposte il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.12.2023 n. 3093 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La questione circa la debenza degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione nel caso di un intervento di demolizione e ricostruzione dello stesso immobile, senza variazione di volumetria e superficie, di sagoma o di destinazione d'uso, profilandosi dunque lo stesso carico urbanistico è stata affrontata più volte dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “non verificandosi una nuova e diversa attività di trasformazione del territorio, già oggetto della precedente edificazione, non sussistono i presupposti per l'imposizione degli oneri di urbanizzazione”.
In particolare, sul tema è stato statuito quanto segue:
   “Il Collegio ritiene opportuno esaminare separatamente i presupposti per l'applicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
   Con riferimento ai primi, la ricorrente ha rilevato l'assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito della demolizione e ricostruzione dell’originario edificio avente destinazione in parte a cinema ed in parte a uffici.
   Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
   Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa all'alloggio, di tal che l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico.
   Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata accompagnata da un'alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che l’intervento di cui si discute ha interessato un edificio avente in precedenza destinazione a cinema e uffici.
   In ogni caso, ritiene il Collegio che in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali, l'amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione”.
Ed ancora, (sul tema della demolizione/ricostruzione senza cambiamento di destinazione d’uso):
   “In materia urbanistica, il contributo per oneri di urbanizzazione è definito dalla giurisprudenza un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché l'uso dà la giustificazione giuridica dell'"an debeatur", mentre le modalità dell'uso danno la ragione del "quantum".
   La causa giuridica della debenza del contributo va ricercata, quindi, anche nella utilità che la nuova costruzione trae dalle opere di urbanizzazione già esistenti, utilità che sta in stretta relazione con l'uso della costruzione e, pertanto, con la destinazione d'uso della stessa.
   Ne consegue che nel caso di demolizione e ricostruzione di un edificio la cubatura preesistente va esentata dal contributo soltanto nella ipotesi in cui per essa non si sia verificato un cambiamento di destinazione d'uso incidente sulle spese di urbanizzazione e quindi urbanisticamente rilevante”.
Con riferimento al costo di costruzione, la conclusione cui perviene questo Decidente è identica, sebbene per ragioni differenti.
La giurisprudenza, sia amministrativa che tributaria, ha avuto modo di precisare che il contributo in questione ha natura tributaria: esso è, invero, dovuto in quanto l’attività di trasformazione del territorio è considerata dal legislatore manifestazione di “ricchezza”, cioè indice di capacità contributiva.
Quindi, in linea di principio esso è dovuto per ogni attività di trasformazione edilizia, salve le esenzioni previste dalla legge (come è noto, in materia tributaria le esenzioni sono di stretta interpretazione).
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... per l'accertamento e la declaratoria della non debenza degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione in assenza di un maggiore carico urbanistico.
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La questione circa la debenza degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione nel caso di un intervento di demolizione e ricostruzione dello stesso immobile, senza variazione di volumetria e superficie, di sagoma o di destinazione d'uso, profilandosi dunque lo stesso carico urbanistico è stata affrontata più volte dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha statuito che “non verificandosi una nuova e diversa attività di trasformazione del territorio, già oggetto della precedente edificazione, non sussistono i presupposti per l'imposizione degli oneri di urbanizzazione” (cfr. TAR Veneto–Venezia, Sez. II, 06/04/2006, n. 878).
In particolare, sul tema si richiama un precedente di questo TAR Sicilia–Sezione distaccata di Catania che, con la pronuncia n. 2249/2013 del 19.09.2013 ha statuito quanto segue:
Il Collegio ritiene opportuno esaminare separatamente i presupposti per l'applicazione degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Con riferimento ai primi, la ricorrente ha rilevato l'assenza di un maggiore carico urbanistico a seguito della demolizione e ricostruzione dell’originario edificio avente destinazione in parte a cinema ed in parte a uffici.
Va ribadito sul tema che il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 21.04.2006, n. 2258; TAR Sicilia Catania, sez. I, 13.01.2011, n. 485; TAR Puglia Bari, sez. III - 10/02/2011 n. 243).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa all'alloggio, di tal che l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico.
Nella fattispecie non affiorano elementi utili a comprovare che la nuova modalità di utilizzo dei locali sia stata accompagnata da un'alterazione del carico urbanistico, tenendo conto che l’intervento di cui si discute ha interessato un edificio avente in precedenza destinazione a cinema e uffici.
In ogni caso, ritiene il Collegio che in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali, l'amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, avrebbe dovuto dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evinceva il maggior carico urbanistico addebitabile alla nuova destinazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV - 04/05/2009 n. 3604)
”.
Dall’esame del progetto depositato agli atti del giudizio, si evince che non vi è stato alcun aumento del carico urbanistico né cambio di destinazione d’uso (sul tema della demolizione/ricostruzione senza cambiamento di destinazione d’uso si segnala tra tutte TRGA Trentino-Alto Adige Bolzano, 06/03/2000, n. 59 secondo cui “In materia urbanistica, il contributo per oneri di urbanizzazione è definito dalla giurisprudenza un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché l'uso dà la giustificazione giuridica dell'"an debeatur", mentre le modalità dell'uso danno la ragione del "quantum". La causa giuridica della debenza del contributo va ricercata, quindi, anche nella utilità che la nuova costruzione trae dalle opere di urbanizzazione già esistenti, utilità che sta in stretta relazione con l'uso della costruzione e, pertanto, con la destinazione d'uso della stessa. Ne consegue che nel caso di demolizione e ricostruzione di un edificio (come nella specie) la cubatura preesistente va esentata dal contributo soltanto nella ipotesi in cui per essa non si sia verificato un cambiamento di destinazione d'uso incidente sulle spese di urbanizzazione e quindi urbanisticamente rilevante”).
Deve, in conclusione ritenersi non dovuto l’importo richiesto dell’Ente a titolo di oneri di urbanizzazione.
Con riferimento al costo di costruzione, la conclusione cui perviene questo Decidente è identica, sebbene per ragioni differenti.
La giurisprudenza, sia amministrativa che tributaria, ha avuto modo di precisare che il contributo in questione ha natura tributaria: esso è, invero, dovuto in quanto l’attività di trasformazione del territorio è considerata dal legislatore manifestazione di “ricchezza”, cioè indice di capacità contributiva. Quindi, in linea di principio esso è dovuto per ogni attività di trasformazione edilizia, salve le esenzioni previste dalla legge (come è noto, in materia tributaria le esenzioni sono di stretta interpretazione).
Nel caso in esame, il ricorrente invoca l’applicazione dell’art. 17, terzo comma, lettera b), del D.P.R. n. 380/2001. La norma si riferisce espressamente agli “interventi di ristrutturazione di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”.
Ai sensi dell’art. 3, primo comma, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001 negli interventi di ristrutturazione edilizia “(…) sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche (…)” persino con aumento di volumetria, sempre se sia consentito dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali.
Nel caso di specie, la volumetria non è stata incrementata, anzi sembra esservi stata una diminuzione (vedi progetto definitivo depositato agli atti).
Ne deriva che l’esenzione è applicabile, atteso che, come risulta dalla concessione edilizia n. 5061 del 28.07.2014, si tratta di demolizione e ricostruzione di un edificio unifamiliare.
Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio, ritenendo non dovuti gli oneri di urbanizzazione e i costi di costruzione richiesti dall’Ente locale, accoglie il ricorso (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 15.11.2023 n. 3434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il criterio orientativo generale in materia è quello della onerosità del permesso di costruire. Il contributo di costruzione –come anche di recente evidenziato dal Consiglio di Stato nella sua più autorevole composizione (cfr. Adunanza Plenaria n. 12 del 2018)- rappresenta un corrispettivo di diritto pubblico nel quale si concretizza la compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
In sostanza, fatte salve le ipotesi di esenzione dal contributo indicate dall’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001, il contributo è sempre dovuto, sicché le ipotesi di esenzione non possono configurarsi in casi non previsti dalla norma citata.
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Con specifico riguardo all’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), la giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare come tutte le ipotesi di riduzione ed esenzione dall'obbligo contributivo contenute nell'art. 17 D.P.R. n. 380/2001 sono volte al perseguimento di interessi generali, di natura solidaristica o di incentivo ad attività o interventi che abbiano un positivo impatto sull'ambiente.
Non può, pertanto, fare eccezione la causa di esenzione prevista dalla lett. b) della norma in parola, secondo cui "il contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari" - che deve essere interpretata in conformità allo scopo di tutela cui è preposta.
La ratio dell'esenzione di cui alla norma citata va, cioè, rinvenuta nella tutela e salvaguardia delle necessità abitative del nucleo familiare, perseguite attraverso la gratuità degli interventi funzionali all'adeguamento dell'immobile ove il nucleo risiede.
La nozione di "edificio unifamiliare" richiamata dalla norma deve, pertanto, essere intesa nella sua accezione socio-economica che coincide "con la piccola proprietà immobiliare", poiché soltanto ove presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato.
D'altronde il presupposto del contributo di costruzione, se per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla compartecipazione alle spese che il maggiore carico urbanistico derivante dall'intervento genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è correlato all'aumento di valore che consegue all'intervento.
Pertanto la sottrazione all'imposizione dell'aumento di valore che la famiglia consegue per effetto della ristrutturazione si giustifica solo per le finalità di ordine sociale sopra individuate.
Altresì, circa gli estremi per l’applicazione dell’esenzione di cui al ridetto art. 17, comma 3, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001 pacifica giurisprudenza circoscrive l’operatività agli interventi che non abbiano mutato sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile, e non ne abbiano elevato in modo apprezzabile il valore economico.
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5. Il ricorso è infondato e va respinto.
Osserva preliminarmente il Collegio che il criterio orientativo generale in materia è quello della onerosità del permesso di costruire. Il contributo di costruzione –come anche di recente evidenziato dal Consiglio di Stato nella sua più autorevole composizione (cfr. Adunanza Plenaria n. 12 del 2018)- rappresenta un corrispettivo di diritto pubblico nel quale si concretizza la compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
In sostanza, fatte salve le ipotesi di esenzione dal contributo indicate dall’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001, il contributo è sempre dovuto, sicché le ipotesi di esenzione non possono configurarsi in casi non previsti dalla norma citata.
Con specifico riguardo all’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17, comma 3, lettera b), la giurisprudenza (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 05.03.2019, n. 289; TAR Sez. I, Brescia, 26.04.2018, n. 449; TAR Toscana, Sez. III, 26.04.2017 n. 616; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 22.06.2015 n. 1416; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014 n. 2180 e TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707) ha avuto modo di evidenziare come tutte le ipotesi di riduzione ed esenzione dall'obbligo contributivo contenute nell'art. 17 D.P.R. n. 380/2001 sono volte al perseguimento di interessi generali, di natura solidaristica o di incentivo ad attività o interventi che abbiano un positivo impatto sull'ambiente.
Non può, pertanto, fare eccezione la causa di esenzione prevista dalla lettera b) della norma in parola, secondo cui "il contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari" - che deve essere interpretata in conformità allo scopo di tutela cui è preposta.
La ratio dell'esenzione di cui alla norma citata va, cioè, rinvenuta nella tutela e salvaguardia delle necessità abitative del nucleo familiare, perseguite attraverso la gratuità degli interventi funzionali all'adeguamento dell'immobile ove il nucleo risiede.
La nozione di "edificio unifamiliare" richiamata dalla norma deve, pertanto, essere intesa nella sua accezione socio-economica che coincide "con la piccola proprietà immobiliare", poiché soltanto ove presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato.
D'altronde il presupposto del contributo di costruzione, se per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla compartecipazione alle spese che il maggiore carico urbanistico derivante dall'intervento genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è correlato all'aumento di valore che consegue all'intervento.
Pertanto la sottrazione all'imposizione dell'aumento di valore che la famiglia consegue per effetto della ristrutturazione si giustifica solo per le finalità di ordine sociale sopra individuate (cfr. TAR Veneto, sez. II, 05/03/2019, n. 289; TAR sez. I, Brescia, 26/04/2018, n. 449; TAR Toscana, Sez. III, 26.04.2017 n. 616, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 22.06.2015 n. 1416, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014 n. 2180 e TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707; TAR Piemonte, 02.05.2022, n. 412).
5.1. Tanto premesso in linea generale, ritiene il Collegio che nel caso di specie queste finalità di ordine sociale non possano ritenersi sussistenti, tenuto conto della rilevanza dell'intervento assentito che ha evidentemente causato un sostanziale mutamento del fabbricato ed un apprezzabile aumento del suo valore economico.
È tranciante la lettura della relazione tecnica allegata al progetto di ristrutturazione (allegato 004 del deposito documentale del Comune di -OMISSIS- del 10.07.2023, pagg. 2 e 3), nella quale il tecnico incaricato evidenzia, per un verso, come “…L’intervento proposto prevede la fusione in un’unica unità immobiliare delle due distinte costruzioni da cui è attualmente costituito l’immobile in oggetto. Ciò comporta la ridistribuzione di ambienti e funzioni oltre al necessario miglioramento delle caratteristiche prestazionali dell’edificio…” e, per altro verso, che “…Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio...”.
In sostanza, la lettura della documentazione in atti esclude che nella fattispecie possano sussistere gli estremi per l’applicazione dell’esenzione di cui al ridetto art. 17, comma 3, lettera b), del D.P.R. n. 380 del 2001 di cui, come già detto, pacifica giurisprudenza, circoscrive l’operatività agli interventi che, a differenza di quanto risulta nella fattispecie, non abbiano mutato sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile, e non ne abbiano elevato in modo apprezzabile il valore economico (cfr. TAR Bologna, Sez. II, 26.10.2022, n. 848).
6. In conclusione per le ragioni esposte il ricorso è destituito di fondamento giuridico e va pertanto respinto (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 31.10.2023 n. 3249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In primis, devesi considerare che:
   - l’art. 17, comma 3, lett. a), del d.p.r. n. 380/2001 stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto … per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12 della l. 09.05.1975 n. 153»;
   - come enunciato dal Consiglio di Stato, «trattasi di una scelta evidentemente di favore ancorata alla sussistenza di due condizioni, una oggettiva, costituita dal rapporto con la conduzione del fondo, l'altra soggettiva, ovvero la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale del richiedente … in quanto norma derogatoria di una regola rispondente comunque a finalità di ordine generale, ne è evidente la necessaria lettura di rigore che le amministrazioni chiamate ad applicarla devono darne».
In secundis:
   - l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001 stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto … per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari»;
   - ebbene, il ricorrente neppure è riuscito a dimostrare, ai sensi dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., che il progetto approvato col PdC n. 59/2023 concernesse un “edificio unifamiliare”, ossia quella tipologia edilizia cui unicamente la disposizione citata circoscrive la propria portata applicativa, senza margini per interpretazioni estensive, incompatibili con la natura derogatoria ed eccezionale della premialità dalla stessa contemplata;
   - viceversa, il compendio immobiliare sottoposto all’assentita ristrutturazione edilizia, piuttosto che configurarsi a guisa di “edificio unifamiliare”, si presenta articolato in due distinti fabbricati, l’uno padronale, distribuito su tre piani (terra, primo e sottotetto) e ragguagliante una volumetria complessivamente pari a ben mc 3.889,85, e l’altro colonico, costituito da un unico piano terraneo e ragguagliante una volumetria complessivamente pari a mc 991,28;
   - non solo: come eccepito dal Comune, senza ricevere smentita ex adverso, il progetto assentito prevede la suddivisione del compendio immobiliare in parola in un numero di cinque unità abitative, debordante, all’evidenza, dal nesso di strumentalità all’esercizio imprenditoriale agricolo;
   - al riguardo, la giurisprudenza ha condivisibilmente statuito che: «La ratio dell'esenzione prevista dall'art. 17 del d.p.r. n. 380 del 2001 … risiede … nel promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l'operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l'entità strutturale e la dimensione spaziale dell'immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico …
Sotto un profilo più generale si deve osservare, condividendo, sul tema, il consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza ha statuito che l'esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore).
La chiara finalità della norma è di natura sociale, essendo essa diretta ad apprestare un concreto strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per quegli interventi di adeguamento dell'immobile che siano effettivamente funzionali alle necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di "edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare è meritevole di un trattamento differenziato».
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Da ultimo,
nel contempo:
   - per giurisprudenza consolidata, la quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve la prioritaria funzione di compensare la collettività per l’ulteriore carico urbanistico generato da un nuovo intervento edilizio, mediante redistribuzione dei costi sociali delle opere di urbanizzazione all’uopo necessarie; e si rende, quindi, esigibile, se e in quanto detto intervento comporti un incremento della domanda di servizi nella zona di relativa localizzazione, e cioè imponga all’amministrazione di sostenere le spese per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio;
   - se così è, e cioè se il pagamento degli oneri di urbanizzazione è da intendersi dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico, è evidente che la modalità di recupero del manufatto preesistente mediante restauro conservativo e ristrutturazione, senza ampliamenti o mutamenti delle destinazioni d’uso, così come prevista nel progetto assentito col PdC n. 59/2023, è insuscettibile di generare l’obbligazione ex art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, la cui insorgenza è sinallagmaticamente ancorata a tutti gli interventi implicanti una trasformazione funzionale o strutturale con incidenza quali-quantitativa sul carico urbanistico.

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Premesso che:
   - col ricorso in epigrafe, Be.Er.Ma. (in appresso, B.E.M.) agiva per:
-- l’annullamento, previa sospensione, della nota prot. n. 22412/2023, con la quale il Responsabile dell’Area Urbanistica – Edilizia Privata – Demanio – Patrimonio del Comune di Capaccio Paestum, con riferimento ai lavori assentiti col permesso di costruire (PdC) n. 59/2023 e consistenti nel “restauro e risanamento conservativo di un fabbricato diruto esistente”, ubicato in Capaccio Paestum, località Filette, e censito in catasto al figlio 17, particella 405, sub 2, 3, 4, 5 e 6, aveva determinato, ai sensi ex art. 16 del d.p.r. n. 380/2001, la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione nella misura di € 7.982,49 e la quota di contributo relativa al costo di costruzione nella misura di € 35.949,25;
-- l’accertamento negativo dell’obbligazione di pagamento delle somme richiestegli a titolo di contributo di costruzione;
-- la condanna del Comune di Capaccio Paestum alla restituzione delle somme indebitamente versategli a titolo di contributo di costruzione;
   - a sostegno dell’esperito gravame, deduceva, in estrema sintesi, che:
-- ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. a) e b), del d.p.r. n. 380/2001, egli avrebbe dovuto considerarsi esonerato dall’obbligo di pagamento del contributo di costruzione, l’intervento assentito ricadendo in zona agricola, essendo funzionale all’esercizio dell’attività imprenditoriale agricola del B. e consistendo in una mera ristrutturazione edilizia senza ampliamenti;
-- a fronte di quest’ultima connotazione progettuale, nonché dell’insussistenza di previsioni di mutamenti delle originarie destinazioni d’uso, non sarebbe stato configurabile alcun aggravio del carico urbanistico e non si sarebbe, quindi, giustificato l’addebito della quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione;
...
Considerato, innanzitutto, che:
   - l’art. 17, comma 3, lett. a), del d.p.r. n. 380/2001 stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto … per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'articolo 12 della l. 09.05.1975 n. 153»;
   - come enunciato da Cons. Stato, sez. II, n. 235/2022, «trattasi di una scelta evidentemente di favore ancorata alla sussistenza di due condizioni, una oggettiva, costituita dal rapporto con la conduzione del fondo, l'altra soggettiva, ovvero la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale del richiedente … in quanto norma derogatoria di una regola rispondente comunque a finalità di ordine generale, ne è evidente la necessaria lettura di rigore che le amministrazioni chiamate ad applicarla devono darne»;
   - nel caso in esame, la sussistenza dell’indefettibile requisito oggettivo per la fruizione dell’esonero dal pagamento del contributo di costruzione, costituito dalla preordinazione funzionale dell’intervento assentito rispetto alla conduzione del fondo ed alle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ossia dalla sua connessione alla gestione dell’attività agricola entro l’aera di relativa localizzazione, non è comprovata da parte ricorrente, ai sensi dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., ed è, anzi, sconfessata sia dalle evidenze documentali afferenti agli indirizzi della residenza (Roma, via ..., n. 85) del B. e della sede dell’impresa in sua titolarità (Agropoli, via ..., n. 112) –entrambi diversi da quelli corrispondenti al complesso edilizio ubicato in Capaccio Paestum, località Filette, e censito in catasto al figlio 17, particella 405, sub 2, 3, 4, 5 e 6–, sia dalle evidenze documentali afferenti alla natura ed all’entità dell’opera progettata, consistente nella ristrutturazione di un ingente compendio immobiliare (articolato in un grosso fabbricato padronale e in un annesso fabbricato colonico) e debordante la soglia dell’inerenza all’attività agricola;
   - a prescindere dal possesso del requisito soggettivo integrato dalla qualifica di imprenditore agricolo, non risulta, cioè, verificata, in capo al B., la necessità di risiedere all’interno del fondo onde assicurare la produttività dell’azienda agricola in sua titolarità (sul punto, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n. 973/2021); né, tanto meno, risulta verificato il nesso di strumentalità tra l’intervento assentito e la conduzione del fondo (sul punto, cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, n. 426/2016, secondo cui «la mera indicazione dell'impiego del bene e della sua localizzazione non soddisfa la dimostrazione del nesso di strumentalità tra l'opera per cui è chiesto il titolo edilizio e l'attività agricola, atteso che non tutte le opere realizzate in zona agricola sono, per tale solo fatto, funzionali alla conduzione del fondo, sicché spetta al privato fornire un riscontro documentale di tale destinazione»);
Considerato, poi, che:
   - l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.p.r. n. 380/2001 stabilisce che «il contributo di costruzione non è dovuto … per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari»;
   - ebbene, il ricorrente neppure è riuscito a dimostrare, ai sensi dell’art. 64, comma 1, cod. proc. amm., che il progetto approvato col PdC n. 59/2023 concernesse un “edificio unifamiliare”, ossia quella tipologia edilizia cui unicamente la disposizione citata circoscrive la propria portata applicativa, senza margini per interpretazioni estensive, incompatibili con la natura derogatoria ed eccezionale della premialità dalla stessa contemplata;
   - viceversa, il compendio immobiliare sottoposto all’assentita ristrutturazione edilizia, piuttosto che configurarsi a guisa di “edificio unifamiliare”, si presenta articolato in due distinti fabbricati, l’uno padronale, distribuito su tre piani (terra, primo e sottotetto) e ragguagliante una volumetria complessivamente pari a ben mc 3.889,85, e l’altro colonico, costituito da un unico piano terraneo e ragguagliante una volumetria complessivamente pari a mc 991,28;
   - non solo: come eccepito dal Comune di Capaccio Paestum, senza ricevere smentita ex adverso, il progetto assentito prevede la suddivisione del compendio immobiliare in parola in un numero di cinque unità abitative, debordante, all’evidenza, dal nesso di strumentalità all’esercizio imprenditoriale agricolo;
   - al riguardo, TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, n. 848/2022 ha condivisibilmente statuito che: «La ratio dell'esenzione prevista dall'art. 17 del d.p.r. n. 380 del 2001 … risiede … nel promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l'operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l'entità strutturale e la dimensione spaziale dell'immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico …
Sotto un profilo più generale si deve osservare, condividendo, sul tema, il consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 09.05.2012, n. 2136) ha statuito che l'esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore).
La chiara finalità della norma è di natura sociale, essendo essa diretta ad apprestare un concreto strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per quegli interventi di adeguamento dell'immobile che siano effettivamente funzionali alle necessità abitative del nucleo familiare.
Pertanto, nell'accezione socio-economica assunta dalla suddetta norma di carattere eccezionale, il concetto di "edificio unifamiliare" coincide, in concreto, con la piccola proprietà immobiliare, con la conseguenza che soltanto se presenti tali caratteri l'immobile unifamiliare è meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 02.07.2014, n. 1707)
»;
Considerato, nel contempo, che:
   - per giurisprudenza consolidata, la quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve la prioritaria funzione di compensare la collettività per l’ulteriore carico urbanistico generato da un nuovo intervento edilizio, mediante redistribuzione dei costi sociali delle opere di urbanizzazione all’uopo necessarie; e si rende, quindi, esigibile, se e in quanto detto intervento comporti un incremento della domanda di servizi nella zona di relativa localizzazione, e cioè imponga all’amministrazione di sostenere le spese per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 1586/2021; n. 148/2022; sez. II, n. 235/2022; n. 5297/2022; TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 607/2022; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 1550/2023; sez. IV, n. 6272/2023);
   - se così è, e cioè se il pagamento degli oneri di urbanizzazione è da intendersi dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2611/2004; n. 4950/2015; TAR Piemonte, Torino, sez. II, n. 1009/2013; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 2198/2018; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 207/2021), è evidente che la modalità di recupero del manufatto preesistente mediante restauro conservativo e ristrutturazione, senza ampliamenti o mutamenti delle destinazioni d’uso, così come prevista nel progetto assentito col PdC n. 59/2023 (cfr. Relazione tecnica a corredo dell’istanza del 13.12.2022, prot. n. 52387), è insuscettibile di generare l’obbligazione ex art. 16, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, la cui insorgenza è sinallagmaticamente ancorata a tutti gli interventi implicanti una trasformazione funzionale o strutturale con incidenza quali-quantitativa sul carico urbanistico;
Ritenuto, quindi, che:
   - stante la ravvisata fondatezza del solo ordine di doglianze in ultimo scrutinato, il ricorso in epigrafe va accolto limitatamente ad esso;
   - conseguentemente, va annullata in parte qua la gravata nota prot. n. 22412/2023, va negativamente accertato, nella misura di € 7.982,49, il credito con essa vantato (a titolo quota di contributo di costruzione relativa agli oneri di urbanizzazione) nei confronti del B. e va condannato il Comune di Capaccio Paestum alla restituzione della corrispondente somma indebitamente percepita (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.10.2023 n. 2376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' infondato il motivo di ricorso, in appello, laddove si lamenta che il Tar avrebbe errato nel ritenere sussistente l’ipotesi di esonero dal pagamento del contributo previsto dall’art. 17, comma 3, lett. b), T.U. edilizia, in quanto edificio unifamiliare, poiché la giurisprudenza amministrativa esclude il diritto al beneficio, in caso di edifici di grandi dimensioni, come accade nel caso di specie, trattandosi di immobile che sviluppa oltre 600 mc. di volumi abitabili, in contrasto con il parametro di cui all’art. 3 del D.M. 1444 del 1968 assunto a riferimento dalla giurisprudenza amministrativa.
E’ indubbiamente vero che la giurisprudenza amministrativa più recente, in merito alla ipotesi di esonero dal contributo riferita agli edifici unifamiliari, prevista dall’art. 17, comma 3, lett. b), T.U. edilizia, ha precisato che deve essere rispettata una regola implicita di proporzionalità tra le dimensioni dell’immobile e la funzione sociale di accoglienza di un nucleo familiare, computando un massimo di 80 mc. per ciascun componente il nucleo familiare, mutuando tale parametro dall’art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968, mentre nel caso di specie l’immobile cuba 626 mc. per una superficie utile di circa 200 mq., superiore al predetto parametro.
In senso opposto reputa il Collegio che nel caso di specie debba essere valorizzato il parametro successivamente introdotto dalla Regione Piemonte con l’art. 48, commi 1 e 1-bis, della legge regionale n. 56 del 1977, come integrata dall’art. 43 della l.r. 3/2015, secondo cui nel territorio piemontese possono essere eseguiti senza titolo e non sono onerosi i mutamenti di destinazione d'uso di unità immobiliari pari fino a 700 mc (interventi che possono anche determinare un aumento del carico urbanistico).
E’ vero, come eccepisce il Comune, che la disposizione, introdotta nel 2015, è successiva all’intervento in contestazione e alla richiesta di pagamento del comune e quindi non dovrebbe applicarsi per il principio del tempus regit actum ma è anche vero che tale disposizione sopravvenuta rileva certamente a fini interpretativi, nella individuazione del parametro normativo massimo di cubatura ritenuto compatibile con la non onerosità dell’intervento.
La legge statale, infatti, non solo non contempla in modo espresso tale limite ma neppure indica il relativo parametro di riferimento che è necessariamente variabile, da regione a regione, in relazione alle caratteristiche territoriali di densità della popolazione oltre che socio-economiche, non potendosi comparare, per intuitive ragioni, immobili posti in contesti rurali periferici con quelli situati in zone fortemente urbanizzate, tenuto conto che un immobile di 600 mc. e 200 mq., nel primo caso rappresenta una ordinaria fattispecie di abitazione unifamiliare della classe media, nella seconda configura invece una abitazione di lusso che non giustifica la finalità sociale dell’esonero.
Del resto la più risalente giurisprudenza della sezione aveva ritenuto che “Come appare evidente, l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il Legislatore che gli interventi edilizi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione”, a conferma che solo successivamente si è ritenuto di inserire il limite dimensionale –per finalità di contrasto ad iniziative speculative– invero non richiesto dalla legge sicché neppure si pone un problema di interpretazione restrittiva rispetto ad un presupposto normativo non previsto (il limite dimensionale dell’abitazione), valendo piuttosto la regola opposta, del diritto all’esonero nel caso di alloggi unifamiliari, ferma la necessità, intrinseca alla ratio della disposizione, di operare una verifica sui limiti massimi ammissibili che tenga conto, caso per caso, anche delle caratteristiche delle diverse zone geografiche e di quelle socio economiche di contesto, al fine di prevenire intenti speculativi che travalichino la finalità di tutela del diritto sociale all’abitazione.
E’ indubbiamente vero che l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, contemplando una previsione derogatoria al principio di onerosità da cui discende l’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione, debba essere interpretato in senso restrittivo ma ciò non può implicare la introduzione di presupposti normativi non contemplati dalla fattispecie se non nei limiti in cui gli stessi possano ritenersi oggettivamente desumibili dalla ratio della stessa e nei limiti della ragionevolezza.
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Nel caso di specie le dimensioni dell’immobile non sono tali da evidenziare finalità speculative, come si desume
   - sia dal parametro legale successivamente introdotto dal legislatore regionale (ma che evidentemente codifica indici socio-economico-territoriali preesistenti)
   - sia dal fatto che il volume complessivo e la superficie utile non sono mutate,
a conferma che l’immobile è rimasto adibito alle originarie, effettive, esigenze abitative del nucleo familiare che con l’intervento ha legittimamente inteso migliorare la fruibilità interni degli spazi, oltre che i profili igienico-sanitari (modifica dell’altezza interpiano e creazione di un bagno), prevedendo anche locali di servizio.
Il parametro desunto dall’art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968 può essere impiegato come criterio sussidiario per la verifica della congruità dei limiti dimensionali, in mancanza di indicazioni rinvenibili nella legislazione regionale ma ha comunque natura non vincolante bensì orientativa e, come tale, è suscettibile di confutazione da parte degli interessati che potranno dimostrarne in giudizio la inattendibilità, tenuto conto delle caratteristiche geografiche e socio economiche in cui si colloca l’immobile ma anche del fatto che l’edificio unifamiliare, nonostante la ristrutturazione, continui a soddisfare esigenze abitative ordinarie, in quanto immutate nel tempo.
Del resto lo stesso precedente citato dalla appellante precisa
   - “che la nozione di “edifici unifamiliari” va intesa in un’accezione non tanto strutturale –come pretende il Comune–, ma socio-economica, cioè riguardante la piccola proprietà immobiliare, poiché soltanto questa è meritevole di un trattamento differenziato”
laddove, come evidenziato, il riferimento alla accezione “socio-economica” va invero più opportunamente operato adattando il concetto giuridico al contesto geografico, territoriale e socio-economico che può condizionare in modo rilevante lo standard medio ordinario della abitazione adibita alle primarie esigenze di vita familiari: in particolare, come già evidenziato,
   - in contesti rurali e, in generale, meno urbanizzati, si registrano presenze di immobili unifamiliari di dimensioni sicuramente superiori al parametro dell’art. 3 del D.M. 1444 del 1968 –che peraltro, come noto, assolve ad altri finalità– e che comunque, pur non essendo necessariamente riconducibili al concetto di “piccola” proprietà immobiliare, sono, ciò non di meno, meritevoli del beneficio di legge, in quanto coerenti con la ratio di assicurare il diritto alla casa, secondo uno standard di adeguatezza ordinario, coerente con il contesto socio-economico di riferimento, rispetto al quale restano invece certamente escluse le abitazioni di lusso e quelle di dimensioni oggettivamente esorbitanti, come già chiarito nel precedente richiamato.

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I signori Cl.Mi. e Al.Se. in data 26.11.2010 hanno presentato denuncia di inizio attività n. 2033/2010 per la ristrutturazione del fabbricato unifamiliare residenziale di loro proprietà in via ... n. 39 nel Comune di Cambiano.
Il progetto prevedeva il rifacimento dei due solai esistenti e del balcone, modifiche alla tramezzatura interna, il rifacimento degli intonaci e dei pavimenti, la modifica delle aperture esterne, la realizzazione di un nuovo bagno al piano primo, la realizzazione del collettore solare, il recupero della legnaia da adibirsi a locale da sgombero.
L’edificio, essendo stato costruito prima del 1975 era già abitabile in via di fatto, su entrambi i piani, sebbene i locali fossero, prima della ristrutturazione, di altezza interna pari a 2,55 mt., inferiore all’altezza minima di 2,70 mt. prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975.
L’intervento di ristrutturazione consentiva di ottenere, per tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la demolizione e ricostruzione dei solai interni.
Per effetto dell’intervento di ristrutturazione non si determinavano incrementi di volume o di superficie utile o cambio di destinazione d’uso né veniva aumentato il numero di unità immobiliari.
Poiché il Comune di Cambiano determinava il contributo di costruzione, ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, in euro 9.749,35 i ricorrenti adivano il Tar per il Piemonte sostenendo la gratuità dell’intervento e deducendo, conseguentemente, la violazione degli artt. 11, 16, 17 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché eccesso di potere sotto diversi profili.
Con sentenza 21.04.2017 n. 532 il Tar per il Piemonte ha accolto il ricorso rilevando che il contributo di costruzione non era dovuto in quanto:
   - non vi era stato incremento del carico urbanistico, come erroneamente ritenuto dal Comune, anche perché non si trattava di d.i.a. alternativa a permesso di costruire ma di una ristrutturazione c.d. leggera;
   - la gratuità dell’intervento andava riconosciuta anche alla luce della previsione dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, trattandosi di ristrutturazione di edificio unifamiliare.
   - ha assorbito le ulteriori censure riferite alle delibere di Consiglio comunale ed alla delibera regionale n. 179/CR-4170 del 1977 di cui i ricorrenti avevano chiesto la disapplicazione nella parte in cui applicavano il contributo di costruzione anche agli interventi non comportanti aumento del carico urbanistico;
   - ha condannato il Comune alle spese di lite.
Avverso la predetta sentenza ha interposto appello il Comune di Cambiano per chiederne la integrale riforma in quanto errata in diritto.
...
1. Con un primo motivo il Comune lamenta che il Tar avrebbe errato nel ritenere assorbita la questione della legittimità della delibera del Consiglio Regionale 26.05.1977 n. 179/CR - 4170 e di quelle comunali nn. 100 e 101 del 13.09.1977 di determinazione del contributo di costruzione, nella parte in cui ne dispongono espressamente l’applicazione anche in caso di assenza di incremento di carico urbanistico, poiché, trattandosi del presupposto logico-giuridico necessario della richiesta di pagamento, occorreva esaminare preventivamente la loro legittimità. Nel merito osserva che i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare formalmente i predetti atti per chiederne l’annullamento, non potendosi nel caso di specie invocare il potere di disapplicazione del giudice amministrativo.
2. Con un secondo motivo deduce che il Tar avrebbe errato nel ritenere insussistente un incremento di carico urbanistico, pur in presenza di fattispecie di ristrutturazione leggera mediante d.i.a., ricorrendo nel caso di specie:
   a) un mutamento della realtà strutturale con modifica dell’altezza interpiano da 2.55 ml. a 2,70 ml.; una diversa distribuzione interna degli spazi; la praticabilità del tetto con apertura di due finestre;
   b) una maggiore fruibilità urbanistica dell’immobile considerato che per effetto della d.i.a. si passa da una abitabilità di fatto, tollerata, ad una di diritto, con altezza interpiano a 2,70 conforme al D.M. 05.07.1975;
   c) un conseguente incremento di valore dell’immobile.
Si tratterebbe infatti di ipotesi in cui la giurisprudenza amministrativa ha invero rivenuto sussistente l’incremento del carico urbanistico, affermando l’obbligo del pagamento del contributo di costruzione.
3. Con un terzo motivo lamenta che il Tar avrebbe errato nel ritenere sussistente l’ipotesi di esonero dal pagamento del contributo previsto dall’art. 17, comma 3, lett. b), T.U. edilizia, in quanto edificio unifamiliare, poiché la giurisprudenza amministrativa esclude il diritto al beneficio, in caso di edifici di grandi dimensioni, come accade nel caso di specie, trattandosi di immobile che sviluppa oltre 600 mc. di volumi abitabili, in contrasto con il parametro di cui all’art. 3 del D.M. 1444 del 1968 assunto a riferimento dalla giurisprudenza amministrativa.
4. Con un quarto motivo si duole della statuizione del Tar sulle spese di lite, rimarcando l’ingiustizia della decisione di condannare l'amministrazione comunale nonostante abbia agito in ottemperanza a norme che non poteva disattendere (la delibera regionale e quelle del Consiglio comunale.
Così sinteticamente esposti i motivi di appello, il Collegio reputa di poter prendere le mosse dalla terza doglianza, in applicazione del criterio della ragione più liquida (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del 2015, § 5.3. lett. a) punto IV).
Il motivo è infondato.
E’ indubbiamente vero che la giurisprudenza amministrativa più recente, in merito alla ipotesi di esonero dal contributo riferita agli edifici unifamiliari, prevista dall’art. 17, comma 3, lett. b), T.U. edilizia, ha precisato che deve essere rispettata una regola implicita di proporzionalità tra le dimensioni dell’immobile e la funzione sociale di accoglienza di un nucleo familiare, computando un massimo di 80 mc. per ciascun componente il nucleo familiare, mutuando tale parametro dall’art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968, mentre nel caso di specie l’immobile cuba 626 mc. per una superficie utile di circa 200 mq., superiore al predetto parametro.
Tali rilevanti dimensioni, per il Comune appellante, sarebbero incompatibili con la finalità sociale che giustifica la misura di esonero, finalizzata a garantire il diritto alla casa; inoltre, trattandosi di disposizione derogatoria rispetto alla regola della onerosità, sarebbe di stretta interpretazione.
In senso opposto reputa il Collegio che nel caso di specie debba essere valorizzato il parametro successivamente introdotto dalla Regione Piemonte con l’art. 48, commi 1 e 1-bis, della legge regionale n. 56 del 1977, come integrata dall’art. 43 della l.r. 3/2015, secondo cui nel territorio piemontese possono essere eseguiti senza titolo e non sono onerosi i mutamenti di destinazione d'uso di unità immobiliari pari fino a 700 mc (interventi che possono anche determinare un aumento del carico urbanistico).
E’ vero, come eccepisce il Comune, che la disposizione, introdotta nel 2015, è successiva all’intervento in contestazione e alla richiesta di pagamento del comune e quindi non dovrebbe applicarsi per il principio del tempus regit actum ma è anche vero che tale disposizione sopravvenuta rileva certamente a fini interpretativi, nella individuazione del parametro normativo massimo di cubatura ritenuto compatibile con la non onerosità dell’intervento.
La legge statale infatti non solo non contempla in modo espresso tale limite ma neppure indica il relativo parametro di riferimento che è necessariamente variabile, da regione a regione, in relazione alle caratteristiche territoriali di densità della popolazione oltre che socio-economiche, non potendosi comparare, per intuitive ragioni, immobili posti in contesti rurali periferici con quelli situati in zone fortemente urbanizzate, tenuto conto che un immobile di 600 mc. e 200 mq., nel primo caso rappresenta una ordinaria fattispecie di abitazione unifamiliare della classe media, nella seconda configura invece una abitazione di lusso che non giustifica la finalità sociale dell’esonero.
Del resto la più risalente giurisprudenza della sezione (cfr. Sez. IV, 11.10.2006, n. 6065), aveva ritenuto che “Come appare evidente, l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il Legislatore che gli interventi edilizi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione”, a conferma che solo successivamente si è ritenuto di inserire il limite dimensionale –per finalità di contrasto ad iniziative speculative– invero non richiesto dalla legge sicché neppure si pone un problema di interpretazione restrittiva rispetto ad un presupposto normativo non previsto (il limite dimensionale dell’abitazione), valendo piuttosto la regola opposta, del diritto all’esonero nel caso di alloggi unifamiliari, ferma la necessità, intrinseca alla ratio della disposizione, di operare una verifica sui limiti massimi ammissibili che tenga conto, caso per caso, anche delle caratteristiche delle diverse zone geografiche e di quelle socio economiche di contesto, al fine di prevenire intenti speculativi che travalichino la finalità di tutela del diritto sociale all’abitazione.
E’ indubbiamente vero che l’art. 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, contemplando una previsione derogatoria al principio di onerosità da cui discende l’obbligo di corrispondere il contributo di costruzione, debba essere interpretato in senso restrittivo (come rammentato da Cons. Stato, sez. II, 12.04.2021 n. 2939) ma ciò non può implicare la introduzione di presupposti normativi non contemplati dalla fattispecie se non nei limiti in cui gli stessi possano ritenersi oggettivamente desumibili dalla ratio della stessa e nei limiti della ragionevolezza.
Nel caso di specie le dimensioni dell’immobile non sono tali da evidenziare finalità speculative, come si desume sia dal parametro legale successivamente introdotto dal legislatore regionale (ma che evidentemente codifica indici socio-economico-territoriali preesistenti) sia dal fatto che il volume complessivo e la superficie utile non sono mutate, a conferma che l’immobile è rimasto adibito alle originarie, effettive, esigenze abitative del nucleo familiare che con l’intervento ha legittimamente inteso migliorare la fruibilità interni degli spazi, oltre che i profili igienico-sanitari (modifica dell’altezza interpiano e creazione di un bagno), prevedendo anche locali di servizio.
Il parametro desunto dall’art. 3 del D.M. n. 1444 del 1968 può essere impiegato come criterio sussidiario per la verifica della congruità dei limiti dimensionali, in mancanza di indicazioni rinvenibili nella legislazione regionale ma ha comunque natura non vincolante bensì orientativa e, come tale, è suscettibile di confutazione da parte degli interessati che potranno –come accaduto nel presente giudizio- dimostrarne in giudizio la inattendibilità, tenuto conto delle caratteristiche geografiche e socio-economiche in cui si colloca l’immobile ma anche del fatto che l’edificio unifamiliare, nonostante la ristrutturazione, continui a soddisfare esigenze abitative ordinarie, in quanto immutate nel tempo.
Del resto lo stesso precedente citato dalla appellante (Cons. Stato, sez. II, 12.04.2021 n. 2939) precisa che “che la nozione di “edifici unifamiliari” va intesa in un’accezione non tanto strutturale –come pretende il Comune–, ma socio-economica, cioè riguardante la piccola proprietà immobiliare, poiché soltanto questa è meritevole di un trattamento differenziato” laddove, come evidenziato, il riferimento alla accezione “socio-economica” va invero più opportunamente operato adattando il concetto giuridico al contesto geografico, territoriale e socio-economico che può condizionare in modo rilevante lo standard medio ordinario della abitazione adibita alle primarie esigenze di vita familiari: in particolare, come già evidenziato, in contesti rurali e, in generale, meno urbanizzati, si registrano presenze di immobili unifamiliari di dimensioni sicuramente superiori al parametro dell’art. 3 del D.M. 1444 del 1968 –che peraltro, come noto, assolve ad altri finalità– e che comunque, pur non essendo necessariamente riconducibili al concetto di “piccola” proprietà immobiliare, sono, ciò non di meno, meritevoli del beneficio di legge, in quanto coerenti con la ratio di assicurare il diritto alla casa, secondo uno standard di adeguatezza ordinario, coerente con il contesto socio-economico di riferimento, rispetto al quale restano invece certamente escluse le abitazioni di lusso e quelle di dimensioni oggettivamente esorbitanti, come già chiarito nel precedente richiamato.
Alla luce delle considerazioni che precedono il motivo deve, pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.09.2023 n. 8323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa ha precisato che la previsione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR 380/2001 ha “carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore)”, in quanto derogatoria alla regola generale che impone la corresponsione del contributo quale “obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia” e, in particolare, quale “corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto”.
L’esenzione in esame rinviene la propria ratio in esigenze <<di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all'adeguamento dell'immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l'edificio unifamiliare, nell'accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato>>”.
In sostanza, la disposizione in esame ha <<la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione>>.
La disposizione è, quindi, diretta <<a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l'operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l'entità strutturale e la dimensione spaziale dell'immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico>>.
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Con ricorso, notificato il 30.10.2019 e depositato il 29.11.2019, Ti.Lu. -che in virtù di testamento pubblico del 27/09/1999, riceveva dal bisnonno, Ti.Lu., un fondo agricolo con annesso fabbricato rurale e capannoni adibiti sempre all’attività agricola- riferisce, in fatto, che:
   - il di lui bisnonno, Ti.Lu., con prot. n. 25215/86, depositava presso il Comune di Benevento domanda di condono edilizio ai sensi della Legge 47/1985, (allegando alla suddetta domanda relazione tecnica illustrativa, planimetria degli immobili e bollettini postali comprovanti il versamento dell’oblazione) con la quale chiedeva che venissero sanate le costruzioni da lui realizzate consistenti in una ampliamento di mq. 18,02 della propria abitazione rurale (realizzazione di un bagnetto e ampliamento della cucina) nonché un deposito pari a complessivi mq 72,62 adibito a ricovero di merce e mezzi agricoli nonché a forno e in parte a pollaio e le opere realizzate insistevano su terreno avente destinazione agricola;
   - con il deposito della istanza di sanatoria, il Ti.Lu. aveva provveduto anche al pagamento dell’oblazione calcolata tenendo conto del periodo in cui le opere erano state realizzate (anno di ultimazione 1974) e della attività connessa alla conduzione agricola per un totale di superficie realizzata abusivamente pari a mq. 61.59 e pari a 323,28 mc., opere che sono state accatastate dal richiedente nell’agosto del 1986 come da documentazione che si allega (all. n. 3);
   - la pratica giaceva presso il Comune di Benevento per oltre 33 anni senza che l’Ente avesse mai emesso alcun provvedimento o richiesto alcun documento, tant’è che soltanto a seguito di richiesta di permesso di costruire formulata dal ricorrente, il citato Comune si accorgeva finalmente dell’esistenza della suddetta pratica e chiedeva una integrazione della stessa e, precisamente, una relazione tecnica che comprovasse la idoneità statica del fabbricato, documento previsto dal legislatore successivamente alla domanda di condono del Ti.;
   - a tanto provvedeva tempestivamente il ricorrente come da documentazione del 30/07/2019 depositata in data 02/08/2019 al prot. n. 71462 presso il Comune di Benevento Sportello Unico delle Attività Produttive che, conseguentemente emetteva provvedimento dirigenziale intitolato “Atto di determinazione delle somme dovute a titolo di sanatoria”, con il quale, a riscontro della domanda di sanatoria di abuso edilizio presentata da Ti.Lu., in data 05.09.1986 con protocollo n. 25125, relativamente all’ampliamento di un fabbricato rurale sito alla c.da San Domenico, “Vista la documentazione integrativa prodotta in data 02/08/2019 con protocollo n. 71462 dalla ditta Ti.Lu.”, ”Considerato che per l’abuso commesso l’oblazione versata è congrua”, “determinava la somma da versare per contributo di costruzione in euro 64.872,69”.
Date tali premesse e preso atto che l’atto con il quale è stata determinata la somma dovuta a titolo di sanatoria era incomprensibile non essendo stato chiarito dall’Ente, seppur formalmente richiesto, i criteri adottati e, in ogni caso, errato, Ti.Lu., nella spiegata qualità, ha impugnato, innanzi a questo Tribunale, il predetto atto.
...
Il ricorso è infondato nei termini di seguito precisati.
...
Con la seconda censura si chiede, in via gradata, l’esenzione soltanto parziale dell’onere di costruzione, atteso che il comune ha omesso di valutare che le opere che riguardano il fabbricato rurale sono consistite in un ampliamento non superiore al 20% dell’edificio unifamiliare, come previsto sia dall’art. 9 della legge 10/1977 che dall’art. 17 del DPR 380/2001: “3. Il contributo di costruzione non è dovuto: ... b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari; “).
Pertanto, il ricorrente chiede che sia decurtato l’importo relativo al fabbricato unifamiliare consistente nell’ampliamento dello stesso pari a 18 mq essendo lo stesso non superiore al 20% dell’edifico unifamiliare come da perizia che si allega. Ne consegue che va decurtato tale importo.
La censura non coglie nel segno.
In primo luogo la previsione dell’esenzione di cui alla lettera b) riguarda gli interventi al di fuori delle zone agricole, mentre per le opere in zona agricola (come quella per cui vi è causa) è applicabile unicamente -ove ovviamente ne sussistano i relativi presupposti- l’esenzione di cui alla lettera a), ossia quella relativa alle residenze degli imprenditori agricoli a titolo principale.
In ogni caso, non risultano provati né in sede amministrativa né tanto in giudizio i presupposti di applicabilità della normativa de qua, ossia la natura unifamiliare dell’edificio e l’ampliamento inferiore al 20%.
In argomento, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che la riferita previsione ha “carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore)” (cfr. TAR per la Lombardia – sede di Brescia, sez. I, 26.04.2018, n. 449), in quanto derogatoria alla regola generale che impone la corresponsione del contributo quale “obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia” (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.02.2017, n. 728), e, in particolare, quale “corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950).
L’esenzione in esame rinviene la propria ratio in esigenze <<di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all'adeguamento dell'immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l'edificio unifamiliare, nell'accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato>>” (TAR per la Lombardia–Brescia, sez. I, 26.04.2018, n. 449; TAR per la Lombardia–Milano, Sez. IV, 02.07.2014, n. 1707).
In sostanza, la disposizione in esame ha <<la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione>> (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2006, n. 6065).
La disposizione è, quindi, diretta <<a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l'operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l'entità strutturale e la dimensione spaziale dell'immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico>> (TAR per la Lombardia – sede di Brescia, sez. I, 26.04.2018, n. 449).
Nel caso di specie, parte ricorrente non ha fornito prova della riconducibilità degli interventi condonati nella previsione normativa invocata (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 22.10.2021 n. 6655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti hanno effettuato una ristrutturazione edilizia “leggera” senza demolire e ricostruire l’edificio, senza aumentare la superficie, il volume ed il numero di unità immobiliari, senza mutare la destinazione d’uso. E’ stato realizzato un nuovo bagno al piano primo.
Siccome costruito prima del 1975, l’edificio era già abitabile su entrambi i piani, sebbene i locali fossero, prima della ristrutturazione, di altezza interna pari a 2,55 mt. (e perciò inferiore all’altezza minima di 2,70 mt. prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975).
L’intervento di ristrutturazione ha consentito di ottenere, per tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la demolizione e ricostruzione delle solette interne. Ma ciò non ha determinato un incremento del carico urbanistico, come erroneamente ritenuto dal Comune.
Di talché, il suddetto intervento edilizio deve intendersi gratuito.
Invero, il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
Nella specie, per il combinato disposto dell’art. 22, terzo comma – lett. a) e quinto comma, e dell’art. 10, primo comma – lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, l’intervento non è soggetto a contributo di costruzione.
Peraltro, la gratuità dell’intervento discende (anche) dalla previsione dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo alle ristrutturazioni di edifici unifamiliari.
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... per l'accertamento
   - della gratuità dell’intervento di ristrutturazione edilizia oggetto della d.i.a. del 26.11.2010 n. 2033, relativa all’edificio in via ... n. 39 – Cambiano;
   - per l’annullamento del provvedimento prot. n. 791/956 in data 26.01.2011 a firma del responsabile del Servizio Edilizia Privata del Comune di Cambiano, che ha determinato il contributo in complessivi euro 9.749,35;
   - e per l’annullamento, ove occorra, delle delibere del Consiglio comunale di Cambiano n. 100 e n. 101 del 1977 e successivi aggiornamenti, nonché della deliberazione del Consiglio regionale n. 179/CR-4170 in data 26.05.1977;
...
I ricorrenti hanno presentato denuncia di inizio attività, in data 26.11.2010, per la ristrutturazione del fabbricato unifamiliare residenziale di loro proprietà in via ... n. 39.
Il progetto ha previsto il rifacimento del solaio del primo piano e del balcone, modifiche alla tramezzatura interna, il rifacimento degli intonaci e dei pavimenti, la modifica delle aperture esterne. Non sono stati realizzati incrementi di volume e superficie utile, né è aumentato il numero di unità immobiliari.
Con l’atto impugnato, il Comune di Cambiano ha determinato il contributo di costruzione, ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, in euro 9.749,35.
I ricorrenti rivendicano la gratuità dell’intervento e deducono, in tal senso, la violazione degli artt. 11, 16, 17 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché l’eccesso di potere sotto molteplici profili.
...
Il ricorso è fondato.
Con la d.i.a. n. 2033 del 2010, i ricorrenti hanno effettuato una ristrutturazione edilizia “leggera” senza demolire e ricostruire l’edificio, senza aumentare la superficie, il volume ed il numero di unità immobiliari, senza mutare la destinazione d’uso.
E’ stato realizzato un nuovo bagno al piano primo.
Siccome costruito prima del 1975, l’edificio era già abitabile su entrambi i piani, sebbene i locali fossero, prima della ristrutturazione, di altezza interna pari a 2,55 mt. (e perciò inferiore all’altezza minima di 2,70 mt. prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975).
L’intervento di ristrutturazione ha consentito di ottenere, per tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la demolizione e ricostruzione delle solette interne.
Ma ciò non ha determinato un incremento del carico urbanistico, come erroneamente ritenuto dal Comune.
Come è noto, il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (cfr., tra molte, TAR Piemonte, sez. I, 13.12.2013 n. 1346).
Nella specie, la d.i.a. presentata dai ricorrenti non era alternativa al permesso di costruire.
Per il combinato disposto dell’art. 22, terzo comma – lett. a) e quinto comma, e dell’art. 10, primo comma – lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, l’intervento non è soggetto a contributo di costruzione.
Peraltro, come correttamente affermato dai ricorrenti, la gratuità dell’intervento discende (anche) dalla previsione dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo alle ristrutturazioni di edifici unifamiliari.
In conclusione, ed assorbite le ulteriori censure riferite al regolamento comunale sugli oneri di urbanizzazione ed alla delibera regionale n. 179/CR-4170 del 1977, il ricorso è fondato a va accolto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuesto comune, in occasione delle prossime elezioni europee del mese di giugno, deve procedere alla costituzione dell'ufficio elettorale con relativa autorizzazione all'espletamento di lavoro straordinario.
È possibile includere nell'ufficio anche lavoratori somministrati con mansioni di operaio?

Al fine di rispondere al quesito proposto, evidenziamo come l'ultimo CCNL 16.11.2022 del comparto funzioni Locali 2019/2021 nulla dispone in merito ad eventuali indennità aggiuntive del personale in servizio presso l'Ente come "interinale" - "lavoratore somministrato" tramite le apposite agenzie e pertanto occorre ricorrere alla previgente disposizione contrattuale attualmente vigente.
Infatti, l'art. 52, comma 5, CCNL funzioni locali 2016/2018 del 21.05.2018 testualmente recita che: "I lavoratori somministrati, qualora contribuiscano al raggiungimento di obiettivi di performance o svolgano attività per le quali sono previste specifiche indennità, hanno titolo a partecipare all'erogazione dei connessi trattamenti accessori, secondo i criteri definiti in contrattazione integrativa. I relativi oneri sono a carico dello stanziamento di spesa per il progetto di attivazione dei contratti di somministrazione a tempo determinato, nel rispetto dei vincoli finanziari previsti dalle vigenti disposizioni di legge in materia.".
Tale disposizione sostanzialmente consente, previa autorizzazione dell'Ente ed eventuale impegno integrativo di spesa in favore della società fornitrice del servizio di somministrazione, di utilizzare personale somministrato (e nel caso di specie con mansioni esecutive) in occasione della tornata elettorale, ad esempio per l'allestimento dei seggi, per il montaggio e smontaggio dei tabelloni per la propaganda elettorale, ecc.
Ricordiamo che, ai sensi dell'art. 15, D.L. 18.01.1993, n. 8, l'autorizzazione al lavoro straordinario dei dipendenti deve essere adottata preventivamente rispetto all'effettivo svolgimento delle prestazioni, indicando i nominativi del personale previsto, il numero di ore di lavoro straordinario da effettuare e le funzioni da assolvere: la mancata deliberazione preventiva inibisce il pagamento dei compensi.
Si evidenzia altresì che la norma, riferita al personale stabilmente addetto agli uffici interessati, nonché a quello assegnato a supporto provvisorio, fissa, anche in deroga alle disposizioni vigenti, un limite medio di spesa per lo svolgimento del lavoro straordinario dei dipendenti comunali (applicabile ai soli comuni con più di cinque dipendenti) di 40 ore mensili pro capite sino ad un massimo individuale di 60 ore mensili.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 18.01.1993, n. 8, art. 15
Acc. 21.05.2018, art. 52
 (27.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

UTILITA'

ATTI AMMINISTRATIVI: RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO - AGGIORNATA AL 29.02.2024 (Ministero Dell’Interno, Ufficio del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza - tratto da www.interno.gov.it).
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Sommario


1. L’ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO: RATIO E FINALITÀ DELL’ISTITUTO
   CONS. STATO, SEZ. V, 03.02.2023 n. 1195
Secondo quanto previsto dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, l'accesso civico generalizzato è il diritto alla conoscenza di chiunque e ha lo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
   CONS. STATO, SEZ. V, 05.12.2022 n. 10628
L'istituto dell'accesso civico generalizzato, di cui all'art. 5, d.lgs. n. 33 del 2013, è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse, concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso. Attraverso l'istituto, il legislatore ha riconosciuto la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle Pubbliche Amministrazioni quale diritto fondamentale, promuovendo un dibattito pubblico informato e un controllo diffuso sull'azione amministrativa.
   CONS. STATO, SEZ. V, 03.08.2021 n. 5714
L’accesso civico generalizzato, azionabile da chiunque senza previa dimostrazione di un interesse personale, concreto e attuale in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazione in tal senso della richiesta, ha il solo scopo di consentire una pubblicità diffusa ed integrale in rapporto alle finalità esplicitate dall’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013: è funzionale ad un controllo diffuso dei cittadini, al fine di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa e di favorire un preventivo contrasto alla corruzione e concretamente si traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati, documenti ed informazioni, fermi in ogni caso i limiti di legge a salvaguardia di determinati interessi pubblici e privati che in tali condizioni potrebbero essere messi in pericolo
   TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. III, 07.03.2023 n. 589
L'accesso civico generalizzato, ampliando di molto la possibilità di conoscenza da parte del pubblico delle informazioni detenute dalla p.a. e, quindi, di partecipazione dei cittadini alla funzione amministrativa ne garantisce la democraticità e ne favorisce il buon andamento;
l'accesso civico e l'accesso civico generalizzato costituiscono attuazione dei principi di partecipazione democratica all'attività pubblica, di trasparenza, di buon andamento e di sussidiarietà sanciti negli artt. 1, 2, 97 e 118 Cost. e, per questa ragione, le determinazioni negative assunte sulle relative istanze necessitino di approfondita motivazione.

   TAR VENETO, SEZ. I, 06.02.2023 n. 166
L'accesso civico generalizzato, ex art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013, persegue l'obiettivo di favorire forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e l'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, e non può pertanto essere utilizzato per finalità di carattere egoistico-individuale come surrogato dell'accesso documentale.
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III QUATER, 01.02.2022 n. 1141
Il diritto di accesso civico generalizzato ai documenti amministrativi, oltre ad essere funzionale alla tutela giurisdizionale, consente ai cittadini di orientare i propri comportamenti sul piano sostanziale per curare o difendere i loro interessi giuridici, con la conseguenza che esso può essere esercitato in connessione a un interesse giuridicamente rilevante, anche quando non è ancora stato attivato un giudizio nel corso del quale potranno essere utilizzati gli atti così acquisiti, ovvero proprio al fine di valutare l'opportunità di una sua instaurazione.

2. I SOGGETTI LEGITTIMATI
   CONS. STATO, SEZ. IV, 18.01.2023 n. 621
L'accesso civico generalizzato è stato introdotto nell'ordinamento al fine di superare, se del caso, le restrizioni imposte dalla legittimazione all'accesso procedimentale e la cui fondatezza non viene meno per il fatto che il richiedente sia al contempo portatore di un interesse individuale alla conoscenza.
Nell'accesso civico l'interesse del richiedente non necessariamente deve essere altruistico o sociale, né deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, purché non risulti pretestuoso o contrario a buona fede. Nell'accesso civico generalizzato la finalità è quella di garantire il controllo democratico sull'attività amministrativa, nel quale il c.d. right to know, il diritto fondamentale alla conoscenza, è protetto in sé, purché non vi siano contrarie ragioni di interesse pubblico o privato, queste ultime espresse dalle cosiddette eccezioni relative di cui al citato art. 5-bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 33/2013.
Risulta, pertanto, che, anche nell'accesso civico generalizzato, l'interesse individuale alla conoscenza è protetto al pari di quello collettivo, con la conseguenza che, fuori dai casi marginali (istanze massive, vessatorie o emulative), non si può respingere un'istanza ostensiva civica generalizzata per il fatto che il richiedente ha anche un interesse personale alla conoscenza.
D'altra parte, l'istanza di accesso documentale ben può concorrere con quella di accesso civico generalizzato e la pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento tanto all'una che all'altra forma di accesso.

   TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. IV, 26.01.2023 n. 592
Il nuovo accesso civico, introdotto nell'ordinamento ad opera dell'art. 6, d.lgs. 25.05.2016, n. 97, che ha novellato l'art. 5 del decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013), è stato introdotto nell'ordinamento al fine di superare, se del caso, le restrizioni imposte dalla legittimazione all'accesso procedimentale e la cui fondatezza non viene meno per il fatto che il richiedente sia al contempo portatore di un interesse individuale alla conoscenza, posto che, nell'accesso civico, l'interesse del richiedente non necessariamente deve essere altruistico o sociale, né deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, purché non risulti pretestuoso o contrario a buona fede.
   TAR CAMPANIA-SALERNO, SEZ. III, 03.07.2023 n. 1618
Non vi è motivo di diniego dell'ostensione se vi è coerenza dell'esigenza conoscitiva dei ricorrenti rispetto alle finalità alle quali è preordinata la previsione dello strumento dell'accesso civico generalizzato, segnatamente la sua strumentalità a favorire forme di controllo sull'utilizzo delle risorse pubbliche erogate.
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 01.02.2022 n. 1141
L'accesso civico generalizzato, che può essere azionato da chiunque senza previa dimostrazione di un interesse personale, concreto e attuale, ha il mero scopo di consentire una pubblicità diffusa ed integrale, in rapporto alle finalità esplicitate dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013, essendo funzionale ad un controllo diffuso dei cittadini, al fine di assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa e di favorire un preventivo contrasto alla corruzione.
   TAR PUGLIA–BARI, SEZ. I, 15.03.2022 n. 382
L'accesso civico generalizzato è stato introdotto nell'ordinamento al fine di superare, se del caso, le restrizioni imposte dalla legittimazione all'accesso procedimentale e la cui fondatezza non viene meno per il fatto che il richiedente sia al contempo portatore di un interesse individuale alla conoscenza; nell'accesso civico l'interesse del richiedente non necessariamente deve essere altruistico o sociale, né deve sottostare ad un giudizio di meritevolezza, purché non risulti pretestuoso o contrario a buona fede.
   TAR LOMBARDIA–BRESCIA, SEZ. II, 14.02.2022 n. 136
Quando l'istanza di accesso civico generalizzato sia oggettivamente finalizzata alla tutela di un interesse generale, essa sarà ammissibile e tale resterà ancorché dal suo accoglimento possa derivare un'utilità anche per il richiedente, giacché il vantaggio personale di chi ha richiesto l'accesso non costituisce né un limite espresso all'accesso civico (art. 5-bis, d.lgs. n. 33/2013), né confligge con la sua ratio che prevede che l'accesso sia finalizzato a consentire il controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, senza vietare in alcun modo che, accanto a tale interesse generale, possa coesistere anche un interesse personale del richiedente, come avviene in talune situazioni.
Un settore ove tali interessi generali e individuali spesso coesistono è quello dell'accesso agli atti delle pratiche paesaggistiche ed edilizie dove, oltre all'interesse collettivo alla conoscenza degli atti di tutela del paesaggio e di governo del territorio, può sussistere contemporaneamente anche l'interesse del richiedente a conoscere le pratiche urbanistiche rilasciate nel suo territorio o nelle sue vicinanze.
Entrambi i citati interessi coesistenti sono espressione del fondamentale diritto alla conoscenza (art. 21 Cost. e art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013), funzionale al soddisfacimento di altri diritti della persona come quelli di formarsi un'opinione informata sulla qualità dell'operato della P.A., di esprimere le proprie valutazioni e di effettuare le proprie scelte consapevoli (art. 21 Cost.).

   TAR PIEMONTE, SEZ. II, 01.03.2021 n. 216
L'accesso civico generalizzato si configura come diritto di «chiunque», non sottoposto ad alcun limite quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e senza alcun onere di motivazione circa l'interesse alla conoscenza;
la formulazione della legge esprime la volontà del legislatore di superare quello che era e resta il limite connaturato all'accesso documentale che non può essere preordinato ad un controllo generalizzato sull'attività delle pubbliche amministrazioni;
si passa quindi da un accesso strumentale alla protezione di un interesse individuale, nel quale è l'interesse pubblico alla trasparenza ad essere occasionalmente protetto a un accesso dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull'attività amministrativa;
si realizza così una sorta di «rivoluzione copernicana» fondata sul principio di trasparenza, che si esprime anche nella conoscibilità dei documenti amministrativi e rappresenta il fondamento della democrazia amministrativa in uno Stato di diritto, garantendo anche il buon funzionamento della pubblica amministrazione, ai sensi dell'art. 97 Cost.


3. IL RAPPORTO TRA LE DIFFERENTI DISCIPLINE IN MATERIA DI ACCESSO
3.1. ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO E ACCESSO DOCUMENTALE
   CONS. STATO, ADUNANZA PLENARIA, 02.04.2020 n. 10
L'istanza di accesso documentale ben può concorrere con quella di accesso civico generalizzato e la pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento tanto all'una che all'altra forma di accesso.
L’art. 5, comma 11, del d.lgs. n. 33 del 2013 ammette chiaramente il concorso tra le diverse forme di accesso, allorquando specifica che restano ferme, accanto all'accesso civico c.d. semplice (comma 1) e quello c.d. generalizzato (comma 2), anche le diverse forme di accesso degli interessati previste dal capo V della legge 07.08.1990, n. 241.

   CONS. STATO, SEZ. IV, 02.02.2024 n. 1117
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso.
Il rapporto tra la disciplina dell’accesso documentale e quella dell’accesso civico generalizzato deve essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca, quanto piuttosto di inclusione e completamento, finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle singole discipline.

   CONS. STATO, SEZ. V, 03.02.2023 n. 1195
L'accesso civico generalizzato non è sottoposto a limiti quanto alla legittimazione soggettiva né a oneri di motivazione.
In particolare, non richiede la titolarità in capo all'istante di un interesse specifico, ciò che fa concludere che si tratta di una tipologia di accesso che non incontra il limite connaturale all'accesso documentale di cui alla L. n. 241 del 1990: questo, come noto, non può essere preordinato a un controllo generalizzato sull'attività delle pubbliche amministrazioni, restando strumentale alla protezione di un interesse individuale, laddove l'accesso civico generalizzato è finalizzato a garantire il controllo democratico sull'attività amministrativa.

   CONS. STATO, SEZ. III, 03.11.2022 n. 9567
Sussiste una differenza tra l'accesso ordinario e quello civico, ove si consideri che l'art. 22 della legge n. 241 del 1990 consente l'accesso ai documenti a chiunque vi abbia un interesse finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, mentre l'accesso civico generalizzato è riconosciuto e tutelato al fine di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico può essere esercitato da chiunque (quanto alla legittimazione soggettiva) e senza alcun onere di motivazione circa l'interesse alla conoscenza.
L'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013 ha inteso superare il limite del divieto del controllo generalizzato sull'attività delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti ad essa equiparati) previsto dallo strumento dell'accesso documentale come disciplinato dalla legge n. 241 del 1990.
Nell'accesso civico generalizzato, nel quale la trasparenza si declina come "accessibilità totale", si ha un accesso dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull'attività amministrativa. (Riforma TAR Puglia-Bari, Sez. I, n. 36/2022.)

   CONS. STATO, SEZ. V, 02.03.2021 n. 1780
Il rapporto tra le discipline generali dell'accesso documentale e dell'accesso civico generalizzato non può essere unicamente ed astrattamente secondo un criterio di specialità e di esclusione reciproca, bensì deve avvenire attraverso un canone ermeneutico di completamento-inclusione finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle singole discipline (così anche Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2020, n. 2496).
   TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. III, 07.03.2023 n. 589
Le forme di accesso previste dagli artt. 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33/2013 non hanno comportato il superamento delle forme di accesso agli atti amministrativi previste dalla L. n. 241 del 1990 ma ne hanno comportato un ampliamento: mentre l'accesso disciplinato da quest'ultima legge è assicurato per consentire al richiedente di soddisfare o tutelare una situazione giuridicamente tutelata e correlata al documento che si intende conoscere (need to know), e consente perciò un accesso più penetrante ma meno esteso, l'accesso civico e l'accesso civico generalizzato hanno la funzione di favorire la partecipazione dei privati alla funzione amministrativa indipendentemente dalla sussistenza di un loro particolare interesse correlato ad una situazione giuridicamente tutelata (right to know), e consente perciò un accesso più esteso ma meno penetrante assicurato solo ove non si superino i limiti indicati dal citato art. 5-bis del d.lgs. n. 33/2013.
Essendo le due forme di tutela complementari, la medesima istanza può essere proposta per farle valere entrambe.

   TAR ABRUZZO-PESCARA, SEZ. I, 05.01.2023 n. 17
In materia di accesso civico generalizzato, diversamente da quanto previsto dall'art. 25, comma 4, della L. n. 241 del 1990, una volta decorsi infruttuosamente trenta giorni dalla richiesta del privato -prescritti dall'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 33 del 2013- il silenzio serbato dalla P.A. sulla richiesta di accesso generalizzato non integra la formazione di un provvedimento tacito di diniego.
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 01.02.2022 n. 1141
L’accesso civico generalizzato, introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 6 del D.Lgs. n. 97/2016, si pone su un piano diverso rispetto all'accesso documentale di cui alla L. n. 241/1990, caratterizzato da un rapporto qualificato del richiedente con i documenti che si intendono conoscere, che deriva dalla titolarità, in capo al richiedente, di una posizione giuridica che l'ordinamento qualifica come tutelata.
   TRGA TRENTINO ALTO ADIGE–TRENTO, SEZ. I, 06.07.2021 n. 115
L’accesso civico generalizzato ex art. 5-bis, d.lgs. n. 33/2013 soddisfa un’esigenza di cittadinanza attiva, incentrata sui doveri inderogabili di solidarietà democratica, di controllo sul funzionamento dei pubblici poteri e di fedeltà alla Repubblica e non su libertà singolari, onde tale accesso non può mai essere egoistico.
Come tale, l’accesso civico non è utilizzabile come surrogato dell’accesso documentale ex art. 22, legge n. 241/1990, qualora si perdano o non vi siano i presupposti di quest’ultimo, perché serve ad un fine distinto, talvolta cumulabile, ma sempre inconfondibile, che, alla luce delle ragioni esplicitate nelle istanze di accesso e nel ricorso, non è riscontrabile nella fattispecie.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. II, 11.03.2021 n. 2987

Deve escludersi che, in forza della disciplina in materia di c.d. accesso civico generalizzato, possa essere consentita l’ostensione ad atti e dati non accessibili neppure sulla base della disciplina ordinaria, essendo ampiamente nota la minore profondità che connota l'accesso civico generalizzato, stante l'assenza di una specifica legittimazione, oltre alla diversità delle tecniche di bilanciamento degli interessi applicabili.
Del resto, la previsione dell'art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33/2013, introdotto dal d.lgs. n. 97 del 2016, esclude il diritto di cui all'art. 5, comma 2, del medesimo testo normativo non solo nei casi di segreto di Stato, ma anche in tutti gli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, nei quali è da ricomprendere il segreto di cui all'art. 7 del T.U.B.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I, 07.12.2020 n. 13081
Vi è una coesistenza ordinamentale di tre modelli di accesso ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni (ed equiparati), ciascuno caratterizzato da propri presupposti, limiti ed eccezioni: l'accesso documentale ordinario degli artt. 22 e seg. della legge. 07.08.1990, n. 241; l'accesso civico ai documenti oggetto di pubblicazione, già regolato dal d.lgs. 14.03.2013, n. 33; l'accesso civico generalizzato, introdotto dalle modifiche apportate a quest'ultimo impianto normativo dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97 (cfr., per le differenze tra i vari tipi di accesso, tra le altre Cons. Stato, Sez. IV, 12.08.2016, n. 3631 e, più di recente, id., Sez. V, 20.03.2019, n. 1817).
Tali istituti sono pari ordinati e, nei rapporti reciproci, ciascuno opera nel proprio ambito, senza assorbimenti dell'una fattispecie in un'altra e senza abrogazioni tacite o implicite da parte della disposizione successiva nel tempo.
L'accesso civico cd. "generalizzato", azionabile da "chiunque", senza previa dimostrazione della sussistenza di un interesse personale, concreto e attuale in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazione in tal senso della richiesta, ha il solo scopo di consentire una pubblicità diffusa ed integrale in rapporto alle finalità esplicitate dall'art.5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013.
In questo caso la trasparenza è considerata un mezzo per favorire un controllo diffuso del rispetto della legalità dell'azione amministrativa. Pertanto, la disciplina dell'accesso generalizzato non reca prescrizioni puntuali quanto alla sottrazione all'accesso, ma individua categorie di interessi, pubblici (art. 5-bis, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013) e privati (art. 5-bis, comma 2, id.) in presenza dei quali il diritto di accesso può a priori essere negato (fermi comunque i casi di divieto assoluto, ex art. 5-bis, comma 3) e rinvia a un atto amministrativo non vincolante (le linee guida ANAC) per ulteriormente precisare l'ambito operativo dei limiti e delle esclusioni dell'accesso civico generalizzato (Cons. Stato, Sez. V, 06.04.2020, n. 2309).
L'interesse alla riservatezza di una Società i cui atti siano stati oggetto di una richiesta di accesso generalizzato non rientra in nessuno dei casi di esclusione e limiti all'accesso civico, contenuta nell'art. 5-bis, del d.lgs. n. 33/2013, il quale fa riferimento, invece, alle sole esigenze di tutela di «interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali».


3.2. LA RIQUALIFICAZIONE DELL’ISTANZA ED IL DIALOGO COOPERATIVO
   CONS. STATO, SEZ. III, 15.07.2022 n. 6031
Qualora la richiesta di accesso sia formulata in modo alternativo, la pubblica amministrazione, accertata l'inesistenza di un interesse qualificato ai sensi dell'art. 22 della L. n. 241/1990, è tenuta a verificare le condizioni dell'accesso civico generalizzato di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013.
   CONS. STATO, SEZ. V, 10.03.2021 n. 2050
L'Amministrazione Pubblica ha il potere-dovere di esaminare l'istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo, senza riferimenti ad una specifica disciplina, anche alla stregua della normativa dell'accesso civico generalizzato, ad eccezione del caso in cui l'interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell'accesso documentale.
   TAR TOSCANA, SEZ. III, 06.12.2021 n. 1620
All’accesso cosiddetto documentale disciplinato dalla legge n. 241/1990 si affianca oggi l’accesso “civico”, semplice o generalizzato, introdotto nell'ordinamento dalla legge n. 190/2012 e dal d.lgs. n. 33/2013, che, all'art. 5 co. 11, prevede la coesistenza e la concorrenza delle differenti forme di accesso;
Pertanto, a fronte di un'istanza ostensiva la quale non faccia riferimento in modo specifico e circostanziato alla disciplina dell'accesso procedimentale o a quella dell'accesso civico, ma sia formulata in modo indistinto, ovvero non consenta di ritenere che il richiedente abbia inteso limitare il proprio interesse all'uno o all’altro, l’amministrazione ha il dovere di rispondere, in modo motivato, sulla sussistenza o meno dei presupposti per consentire l'accesso ai sensi di entrambe le discipline.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I, 01.02.2021 n. 1304
Se è vero che l'accesso documentale e quello civico generalizzato differiscono per finalità, requisiti e aspetti procedimentali, la P.A., nel rispetto del contraddittorio con eventuali controinteressati, deve esaminare l'istanza nel suo complesso, nel suo "anelito ostensivo", evitando inutili formalismi e aspetti procedimentali tali da condurre ad una defatigante duplicazione del suo esame, atteso che -con riferimento al dato procedimentale- in materia di accesso opera il principio di stretta necessità, che si traduce nel principio del minor aggravio possibile nell'esercizio del diritto, con il divieto di vincolare l'accesso a rigide regole formali che ne ostacolino la soddisfazione.

4. LIMITI PROCEDURALI - ISTANZE GENERICHE, MASSIVE O ECCESSIVAMENTE ONEROSE E DIVIETO DI ELABORAZIONE DEI DATI
   CONS. STATO, SEZ. II, 21.09.2023 n. 8447
Non sono ammissibili istanze di accesso generiche, vaghe, tali cioè da non consentire l'identificazione del documento accessibile, e tanto meno istanze generalizzate ad una pluralità di documenti tale da costituire un accesso "generalizzato" e dunque una forma di non consentito controllo sull'attività amministrativa, allo stesso modo l'amministrazione non può opporre, ai fini del diniego, generiche difficoltà di identificazione e reperimento del documento richiesto, laddove l'istante abbia fornito elementi di identificazione del medesimo ovvero di sua piana identificabilità.
   CONS. STATO, SEZ. V, 05.12.2022 n. 10628
In tema di accesso alle informazioni in possesso dalle Pubbliche Amministrazioni, sebbene il legislatore non chieda di motivare formalmente la richiesta di accesso generalizzato, rimane sempre necessario determinare l'oggetto della richiesta di accesso, essendo onere dell'interessato indicare in modo puntuale la documentazione di cui chiede l'ostensione, pena la genericità della richiesta e, di conseguenza, la sua inammissibilità.
   CONS. STATO, SEZ. III, 16.02.2021 n. 1426
Può essere respinta la richiesta di accesso civico generalizzato, nel caso in cui sia manifestamente onerosa o sproporzionata e comporti, quindi, un carico irragionevole di lavoro, tale da interferire con il buon andamento dell'Amministrazione (così anche Cons. Stato, n. 6220/2021).
In materia di accesso civico generalizzato le richieste massive uniche contenenti un numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi possono essere rifiutate dall'amministrazione pubblica cui sono rivolte.

   CONS. STATO, SEZ. VI, 22.06.2020 n. 3981
L'accesso agli atti amministrativi deve avere ad oggetto documentazione specifica in possesso dell'amministrazione pubblica non potendo lo stesso riguardare dati ed informazioni che per essere forniti richiedono un'attività di indagine e di elaborazione da parte della stessa con la conseguenza che l'oggetto dell'accesso va circoscritto mediante la puntuale indicazione di atti determinati non potendo la relativa istanza avere un contenuto esplorativo, diretta cioè a conoscere qualsiasi provvedimento formato o detenuto dall'amministrazione, ove eventualmente esistente, e riferito ad un determinato procedimento.
Lo strumento dell’accesso non può essere “strumentalizzato” per la ricerca di informazioni o per ottenere la spiegazione della valutazione effettuata, ovvero, in sostanza, per ottenere la “motivazione” di un dato risultato o di una specifica scelta. Questi ultimi aspetti attengono invero al processo valutativo della decisione e la loro mancata esternazione è suscettibile di rilevare, in ipotesi, sul piano del controllo di legittimità del provvedimento finale, ma non può essere ontologicamente oggetto di accesso, che presuppone, anche nella sua moderna accezione, un elemento acquisito, o formato dalla stessa amministrazione.
Non è pertanto configurabile un accesso ad atti che ancora non sono neppure tali, in quanto non ancora formati, poiché si tratterebbe di imporre all’amministrazione un (inammissibile) sforzo di elaborazione, che altrimenti, nell’ambito della propria attività, non sarebbe tenuta ad effettuare.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. V, 05.04.2023 n. 5801
Il diritto di accesso civico generalizzato è finalizzato a garantire, con il diritto all'informazione, il buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e non può finire per intralciare proprio il funzionamento della stessa, sicché il suo esercizio deve rispettare il canone della buona fede e il divieto di abuso del diritto, in nome, anzitutto, di un fondamentale principio solidaristico (art. 2 Cost.).
E' possibile e doveroso evitare e respingere: richieste manifestamente onerose o sproporzionate e, cioè, tali da comportare un carico irragionevole di lavoro idoneo a interferire con il buon andamento della pubblica amministrazione; richieste massive uniche contenenti un numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi; richieste vessatorie o pretestuose, dettate dal solo intento emulativo, da valutarsi ovviamente in base a parametri oggettivi (conforme TAR Veneto Sez. III, 17/07/2023, n. 1056).

   TAR PIEMONTE, SEZ. II, 30.01.2023 n. 116
In tema di accesso civico generalizzato le richieste massive uniche contenenti un numero cospicuo di dati o di documenti, o richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato e da parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi possono essere rifiutate dall'amministrazione pubblica cui sono rivolte.
In presenza di istanze di tale tipologia, comunque, prima di rigettare l'istanza l'ente pubblico deve prima instaurare un dialogo cooperativo con l'istante, finalizzato a ridefinire l'oggetto della domanda entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 26.09.2022 n. 12210
Il diritto di accesso civico generalizzato, se ha un'impronta essenzialmente personalistica, quale esercizio di un diritto fondamentale, conserva una connotazione solidaristica, nel senso che l'apertura della pubblica amministrazione alla conoscenza collettiva è funzionale alla disponibilità di dati di affidabile provenienza pubblica per informare correttamente i cittadini, con la conseguenza che il suddetto accesso, in quanto finalizzato a garantire, con il diritto all'informazione, il buon andamento dell'amministrazione, non può finire per intralciare proprio il funzionamento della stessa, sicché il suo esercizio deve rispettare il canone della buona fede e il divieto di abuso del diritto.
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III-QUATER, 06.07.2022 n. 9258
L'istanza di accesso deve attenere a documentazione già formata dalla pubblica amministrazione destinataria dell'istanza: questa, invero, pone in capo all'Amministrazione un mero dovere di dare (ossia di rendere conoscibile un quid già precostituito), non anche un preliminare dovere di facere (ossia di confezionare una documentazione prima inesistente) (cfr. Cons. Stato n. 8333/2021).
L’istanza deve essere, inoltre, rigettata quando risulta massiva ossia volta ad acquisire documentazione e dati che interessano un lungo arco temporale.
Nel caso di specie, l’accoglimento dell’istanza avrebbe richiesto un’attività di elaborazione dati molto complessa atteso che la p.a. avrebbe dapprima dovuto individuare i documenti contenenti i dati richiesti, poi elaborare la mole di informazioni richieste (vaccinati e non vaccinati, ingressi al Pronto Soccorso, diverse patologie riscontrate per eventuali effetti avversi, ecc.), quindi suddividere le stesse per categorie (fasce di età, tipologie di vaccini inoculati, suddivisione per patologie, ecc.), individuare eventuali "controinteressati" (che potrebbero risultare nei documenti contenenti i dati richiesti ed avviare con essi un'interlocuzione procedimentale al fine di acquisirne la posizione in merito all'ostensione degli atti richiesti, come previsto dall'art. 5, comma 5, d.lgs. n. 33 del 2013), infine oscurare i dati personali che avrebbero potuto ricondurre -direttamente o indirettamente- alla persona a cui si riferiscono, in ossequio a quanto disposto dall'art. 9 del Regolamento 2016/679/UE e dall'art. 2-septies del d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui i dati relativi alla salute devono essere trattati in conformità alle misure di garanzia disposte dal Garante della Privacy (cifratura, pseudonomizzazione, ecc.).

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 04.01.2022 n. 25
Dal momento che la richiesta di accesso civico generalizzato riguarda i dati e i documenti detenuti dalle Pubbliche Amministrazioni, resta escluso che -per rispondere a tale richiesta- l'Amministrazione sia tenuta a formare o raccogliere o altrimenti procurarsi informazioni che non siano già in suo possesso.
Pertanto, l'Amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare i dati ai fini dell'accesso generalizzato, ma solo di consentire l'accesso ai documenti nei quali siano contenute le informazioni già detenute e gestite dall'Amministrazione stessa.

   TAR LOMBARDIA–BRESCIA, SEZ. II, 03.12.2021 n. 1015
L'Amministrazione non è tenuta, nel caso di istanze di accesso manifestamente onerose, a effettuare un'attività di elaborazione dei dati o documenti richiesti, non essendo previsto un obbligo in tal senso nella normativa vigente.
La ricerca e l'individuazione di tutti gli atti che hanno comportato un impegno di spesa anche solo parzialmente sostenuto con i fondi per interventi di sostegno di carattere economico e sociale connessi con l'emergenza sanitaria da Covid 19, oggetto dell'istanza di accesso civico generalizzato, comporterebbe un'attività di rielaborazione dell'attività svolta integrante un onere aggiuntivo cui l'Amministrazione non è tenuta per soddisfare l'accesso generalizzato.

   TAR UMBRIA, SEZ. I, 06.04.2021 n. 221
Una istanza di accesso agli atti nella quale non siano stati indicati con precisione i documenti o gli atti in ordine ai quali chieda l'accesso, ma che comunque fornisca all'amministrazione gli elementi per l'individuazione sufficientemente precisa del procedimento amministrativo in cui rintracciare gli atti oggetto dell'istanza, è idonea a far sorgere nell'amministrazione intimata il dovere di provvedere esplicitamente sull'istanza di accesso.
In altre parole non è richiesto che l'oggetto dell'istanza ostensiva sia puntualmente determinato ma è sufficiente che esso sia determinabile, incombendo sull'Amministrazione un dovere di collaborazione con il soggetto istante, nel quadro di un ordinamento sempre più caratterizzato da esigenze di trasparenza dell'attività autoritativa per finalità di prevenzione della corruzione, tanto dall'aver persino indotto il legislatore mediante il d.lgs. n. 33 del 2013 e s.m.i. ad introdurre forme di accesso a legittimazione diffusa (c.d. diritto di accesso civico) e persino preordinate ad un controllo "generalizzato".

   TAR PUGLIA–BARI, SEZ. III, 19.02.2018 n. 234
È illegittimo il diniego alla istanza massiva di accesso civico generalizzato ogni volta in cui l'Ente ritenga irragionevole la richiesta senza aver prima instaurato un dialogo cooperativo con l'istante, finalizzato a ridefinire l'oggetto della domanda entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità.

5. ESCLUSIONI E LIMITI ALL’ACCESSO CIVICO: LE ECCEZIONI ASSOLUTE E RELATIVE
   CONS. STATO, SEZ. IV, 23.11.2023 n. 1117
La regola della generale accessibilità di cui all’accesso civico generalizzato è temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune informazioni. Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono state classificate in “assolute” e in “relative” e al loro ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel secondo) rifiutare l'accesso.
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida ANAC, adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016 (recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso civico generalizzato), è stato chiarito che il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata dalle Amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione degli atti possa comunque determinare un pericolo di concreto pregiudizio agli interessi indicati dal Legislatore (cfr. anche Cons. Stato, Sez. III, 10/02/2022, n. 990).

   CONS. STATO, SEZ. IV, 16.11.2023 n. 9849
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a ricercare informazioni nonché a conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni, al fine di rendere possibile quel controllo democratico che l’istituto intendere perseguire.
Non occorre verificare la legittimazione dell’accedente né è necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione, dal momento che chiunque può visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
L’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale, non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge.
L’amministrazione può negare la divulgazione dei documenti richiesti ove tale misura limitativa risulti necessaria per evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici e privati legalmente contemplati.
L’amministrazione vieta, invece, l’accesso civico generalizzato, nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
L’accesso civico generalizzato, pur consentendo l’ostensione dei documenti richiesti a prescindere dalla dimostrazione di un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite non superabile nelle cause ostative enucleate dall’articolo 5-bis, d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo difensivo nel conflitto con le contrastanti esigenze di riservatezza.

   CONS. STATO, SEZ. V, 05.12.2022 n. 10628
La regola dell'accessibilità alle informazioni possedute dalle P.A., è temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati, che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono classificate in assolute -individuate all'art. 5-bis, comma 3 (segreto di stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazioni previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, L. n. 241 del 1990), e relative- previste ai commi 1 e 2 del medesimo articolo (la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive; la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di persona fisica o giuridica ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).

   TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. VI, 06.07.2023 n. 4061
La regola generale è quella dell'accesso agli atti, "principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza" (art. 22, comma 2, l. 241/1990; cfr., art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013), afferente a livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali "di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione" (art. 29, comma 2-bis, l. 241/1990).
Tale regola generale non trova applicazione in alcune ipotesi espressamente contemplate dalla legge: "Tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6" (art. 22, comma 3, l. 241/1990).
L'art. 24 l. 241/1990, rubricato "esclusione dal diritto d'accesso" espressamente individua talune ipotesi eccettuative all'applicazione della generale disciplina in tema di accesso (es.: segreto di Stato ovvero altre ipotesi di segreto previste ex lege, documenti prodromici ad atti normativi, di pianificazione o di regolazione, o afferenti a procedimenti tributari) ovvero demanda alla normazione secondaria la individuazione di categorie di documenti in cui l'interesse alla conoscenza viene sacrificato sull'altare di interessi reputati di rango superiore ovvero di carattere preminente (difesa nazionale, politica monetaria, sovranità nazionale, prevenzione repressione della criminalità, riservatezza).

   TAR MARCHE, SEZ. I, 24.10.2022 n. 614
In tema di diniego all'accesso civico, la p.a. non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma deve indicare chiaramente quale, tra gli interessi elencati all'art. 5-bis, co. 1 e 2, del d.lgs. n. 33/2013 viene pregiudicato, valutare se il pregiudizio concreto prefigurato dipende direttamente dalla disclosure dell'informazione richiesta e, infine, valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure è un evento altamente probabile, e non soltanto possibile.
La valutazione del pregiudizio degli interessi ostativi all'accesso deve altresì avvenire in concreto.


5.1. L’INDEROGABILITÀ DELLE ECCEZIONI ASSOLUTE
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I, 22.02.2021 n. 2147
È legittimo il provvedimento con cui la Banca d’Italia ha respinto una richiesta di accesso agli atti degli accertamenti, delle ispezioni, delle istruttorie e delle relative risultanze eseguite ai sensi degli artt. 51, 53, 53-bis, 54 e ss., 67-ter, 68, d.lgs. n. 385/1993 (TUB).
Trovano applicazione le eccezioni assolute di cui al comma 3, art. 5-bis, del d.lgs. n. 33/2013 e, in particolare, il segreto speciale sancito dall’art. 7 del TUB, secondo cui “tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso della Banca d'Italia in ragione della sua attività di vigilanza sono coperti da segreto d'ufficio anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, a eccezione del Ministro dell'economia e delle finanze, Presidente del CICR”.
Tali limiti assoluti, come stabilito nelle Linee Guida ANAC n. 1309/2016 nonché dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10/2020, risultano non derogabili dall’amministrazione, che ha il dovere di rigettare la richiesta senza la possibilità di valutare discrezionalmente, come accade invece per le eccezioni relative, se l’accesso sia idoneo a cagionare un pregiudizio a determinati interessi indicati dal legislatore.


5.2 LE ECCEZIONI RELATIVE EX ART. 5-BIS, COMMA 1, DEL D.LGS. N. 33/2013
   CONS. STATO, SEZ. III, 18.10.2022 n. 8844 - ACCORDI INTERNAZIONALI DI COOPERAZIONE
L’appellante ha presentato istanza di accesso civico, ai sensi dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai testi dell'accordo internazionale di cooperazione concluso tra Italia e Gambia il 29.07.2010 e del Memorandum of understanding sottoscritto a Roma il 06.06.2015, così come modificato il 26.10.2017, ritenendoli, in quanto accordi internazionali, soggetti all’obbligo di pubblicazione previsto dall'art. 4 della legge 11.12.1984, n. 839.
La Corte sul punto ha statuito, sulla base dei riportati elementi di contenuto ed in applicazione dei principi enunciati con la sentenza parziale n. 4735/2022, tali documenti, a prescindere dal loro nomen juris, siano qualificabili come 'intese tecniche' non vincolanti sul piano internazionale e non produttive di obblighi, sottoscritte non dagli Stati e per loro da soggetti investiti dei relativi poteri rappresentativi, ma da articolazioni interne delle rispettive amministrazioni.
In ragione della loro natura, esse rientrano nell'ipotesi dell'accesso generalizzato, previsto per gli atti che non obbligatoriamente devono essere oggetto di pubblicazione.
Per esse vale, quindi, il limite di ostensione previsto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 33 del 2013, per il quale rileva in senso ostativo l'esigenza di evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti -tra l'altro- alla sicurezza pubblica e all'ordine pubblico.
Questa conclusione è anche in linea con l'art. 2, comma 1, lettera d), del D.M. 16.03.2022, con il quale il Ministro dell'Interno ha elencato le categorie di documenti sottratti all'accesso per motivi attinenti alla sicurezza, che si è riferito a "i documenti relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo ... o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecniche-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell'immigrazione".

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I-BIS, 01.02.2023 n. 1779
L'art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 consente, quindi, ai cittadini di accedere a dati e documenti (detenuti dalle Amministrazioni) "ulteriori" rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, ma pur sempre nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati individuati all'art. 5-bis del decreto, limiti che nella specie sono stati individuati, in modo chiaro, nel provvedimento impugnato, mediante il testuale riferimento al Decreto del Ministero dell'Interno datato 16/03/2022 il quale, nell'elencare le categorie di documenti sottratti all'accesso per i motivi di sicurezza, difesa e relazioni internazionali, annovera all'art. 2, comma 1, lett. d), "i documenti relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell'immigrazione".
I limiti che l'ordinamento prevede all'esercizio del diritto di accesso civico generalizzato sono di due categorie: i) eccezioni relative (art. 5-bis, comma 1 e comma 2, D.lgs. n. 33 del 2013); ii) eccezioni assolute (art. 5-bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013).
In presenza di una ipotesi di eccezione relativa è quindi rimesso all'Amministrazione effettuare un adeguato e proporzionato bilanciamento degli interessi coinvolti, bilanciamento da svolgersi in concreto tra l'interesse pubblico alla conoscibilità e il danno all'interesse-limite, pubblico o privato, alla segretezza e/o alla riservatezza, secondo i criteri del cd. harm test (o test del danno: dove si preserva l'interesse antagonista senza sacrificare del tutto l'esigenza di conoscibilità, anche parziale, nell'interesse pubblico) o del c.d. "public interest test" o "public interest override", dove occorre valutare se sussista un interesse pubblico al rilascio delle informazioni richieste rispetto al pregiudizio per l'interesse-limite contrapposto.
Viceversa nelle ipotesi delle eccezioni assolute (in cui rientrano ad esempio i "casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge" e i casi di cui all'art. 24, comma 1, L. n. 241 del 1990) il legislatore ha operato, a monte, una valutazione assiologica di determinati interessi ritenuti degni di protezione massima e pertanto li ha ritenuti superiori rispetto alla conoscibilità diffusa dei dati, delle informazioni e dei documenti amministrativi.

   CONS. STATO, SEZ. III, 10.06.2022 n. 4735 - SENTENZA NON DEFINITIVA SULLA NATURA DEGLI ACCORDI DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE - G.C. c. Ministero dell'Interno
La Corte ha formulato una serie di propedeutiche enunciazioni di principio intese a chiarire che, in materia di accesso civico semplice, ciò che rileva ai fini dell'obbligo di pubblicazione degli accordi internazionali, compresi quelli in forma semplificata, non è la loro natura amministrativa o politica, quanto piuttosto l'assunzione, da parte dello Stato italiano, di impegni nei confronti di uno Stato estero.
Ne consegue che, poiché gli accordi aventi ad oggetto la politica migratoria, il controllo delle frontiere e la lotta alla criminalità organizzata normalmente vengono adottati dagli organi del potere esecutivo comunemente riconosciuti come autorizzati ad impegnare lo Stato italiano nelle relazioni con i paesi esteri, ovvero da soggetti "plenipotenziari", a tanto autorizzati dai primi o dal Governo e dal momento che il Memorandum of understanding sottoscritto tra Italia e Ghana a Roma il 06.06.2015, così come modificato il 26.10.2017, prevede specifici obblighi a carico dei Paesi contraenti, ricorre la legittimazione soggettiva alla proposizione dell'istanza di accesso civico in capo all'avvocato che difende cittadini gambiani trattenuti presso i centri di rimpatrio e che, in forza dell'accordo di cui chiede l'accesso, sarebbero trattenuti con priorità rispetto ad altri, alla luce del disposto di cui all'art. 14, comma 1, del d.lgs.n. 286 del 1998.
Ove, dunque, il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale chiariscano che i suddetti accordi sono stati sottoscritti da essi o da soggetti a tanto autorizzati dai primi o dal Governo e contengono impegni dello Stato italiano, il diritto all'accesso civico dovrà essere riconosciuto.
Ove si ravvisi l'obbligo di pubblicazione ai sensi degli artt. 1 e 4 della legge n. 839 del 1984, il suo inadempimento comporta che gli accordi internazionali (nel caso di specie, gli accordi internazionali di cooperazione conclusi tra Italia e Gambia) possano essere oggetto di accesso civico semplice, poiché l'art. 5, co. 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, attribuisce a chiunque il diritto di accedere ai documenti, alle informazioni o ai dati oggetto di pubblicazione obbligatoria "ai sensi della normativa vigente" e non solo, quindi, in forza degli obblighi specificamente posti dal d.lgs. n. 33 del 2013.
L'attrazione degli accordi in questione all'ambito di operatività dell'accesso civico semplice comporta, altresì, che non possono rilevare le cause di esclusione indicate dall'art. 5-bis del medesimo decreto legislativo, perché esso, ai co. 1, 2 e 3, espressamente delimita la sua operatività in relazione al solo accesso civico generalizzato di cui all'art. 5, co. 2, avente ad oggetto gli atti diversi da quelli per cui il legislatore ha dettato la regola della necessaria pubblicità.

   CONS. STATO, SEZ. III, 12.04.2022 n. 2722 – ATTI DI PIANIFICAZIONE E UTILIZZO STRATEGICO DELLE FORZE DELL’ORDINE - Parti: Ministero dell’Interno c. D.M
L’appellata, in qualità di giornalista dell'Agenzia di Stampa AGI, in data 29.09.2020 ha chiesto all’amministrazione dell’Interno di poter accedere agli atti inerenti all’impiego ed il ritiro dei militari avvenuto, nel periodo 5-08.03.2020, nell’area territoriale dei Comuni di Nembro e di Alzano Lombardo come misura attuativa del piano governativo di contenimento della propagazione del virus Covid-19.
Il Tar Lazio, alla cui cognizione è stata portata l’impugnativa dell’atto di diniego -una volta inquadrata la materia nell’ambito dell’accesso civico generalizzato e dopo aver ritenuto doversi valutare la sola sussistenza delle esclusioni previste dall’art. 5 bis del d.lgs. n. 33 del 2013, attraverso un bilanciamento svolto in concreto, finalizzato cioè a verificare la reale sussistenza di un pregiudizio agli interessi indicati dallo stesso legislatore- ha concluso che una valutazione degli interessi a rischio di pregiudizio nel caso specifico non fosse stata adeguatamente resa da parte dell’amministrazione, essendosi questa limitata ad un mero e astratto richiamo ai possibili fattori ostativi, privo di spiegazioni puntuali e calate nel caso concreto.
In sede di appello, invece, il Consiglio di Stato ha riformato la sentenza ritenendo rilevanti ed apprezzabili le esigenze di riservatezza meglio esplicitate dall’amministrazione in relazione alla portata degli atti di pianificazione che verrebbero ostesi e della correlazione strategica che essi sottendono tra le attività di controllo del territorio e quelle di "contrasto al crimine e di tutela della sicurezza pubblica" ed, infine, dalla particolare delicatezza di alcune di queste specifiche funzioni, in particolare di quelle di "contrasto del Terrorismo".
In materia di accesso agli atti amministrativi, infatti, l'accesso civico generalizzato di cui all'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013 deve essere rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento.

   CONS. STATO, SEZ. III, 18.03.2022 n. 1989 – FONDI FIDUCIARI DELL’UE PER L’AFRICA - Parti: S.C. c. Ministero dell’Interno e altri
L’appellante, giornalista freelance interessata ai fenomeni connessi alle migrazioni forzate, aveva presentato una istanza volta ad ottenere documenti ed informazioni inerenti l’attuazione del programma IBM, finanziato dal Fondo Fiduciario dell’UE per l’Africa e volto ad “intensificare le attività a sostegno delle guardie di frontiera e costiera libiche per migliorarne la capacità di gestire efficacemente le frontiere del paese”.
Il Consiglio di Stato adito ha respinto l’appello ritenendo condivisibili le argomentazioni addotte dalle amministrazioni resistenti e dal RPCT in sede di riesame secondo cui la documentazione inerente i fondi fiduciari dell’Unione Europea stanziati per il continente Africano, costituiscono atti finalizzati alle relazioni internazionali, la cui ostensione può essere causa di tangibili pregiudizi alle relazioni che l’Italia intrattiene con Paesi Terzi.
La non ostensibilità di tali documenti si desume dalle previsioni di cui all’art. 5-bis, comma 1, lett. a) e d), d.lgs. n. 33/2013, in combinato disposto con l’art. 24, comma 1, legge n. 241/1990 e con gli artt. 2, comma 1, lett. a), b) e 3, comma 1, lett. a) e d), D.M. n. 415/1994.
Da un lato, il contenuto del progetto –le cui attività mirano alla fornitura di mezzi di trasporto, comunicazione ed equipaggiamento– e il coinvolgimento di uno Stato estero rendono applicabili i limiti di cui all’art. 5-bis, comma 1, venendo in evidenza possibili pregiudizi concreti alla sicurezza ed all’ordine pubblico nonché alle relazioni internazionali.
Dall’altro, vengono in rilevo le preclusioni di cui al D.M. n. 415/1994, il quale sottrae all’accesso la “documentazione relativa agli accordi intergovernativi stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia”, le “dichiarazioni di riservatezza e relativi atti istruttori dei documenti archivistici concernenti la politica estera o interna”, le “relazioni di servizio ed altri atti o documenti presupposto per l’adozione degli atti o provvedimenti dell'autorità nazionale e delle altre autorità di pubblica sicurezza, nonché degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza, ovvero inerenti all'attività di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione della criminalità”, nonché gli “atti e documenti concernenti l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi di polizia, ivi compresi quelli relativi all’addestramento, all’impiego e dalla mobilità del personale delle Forze di polizia”.
L'appellante chiedeva, inoltre, se vi fossero altri documenti in possesso dei Ministeri resistenti ed in particolare del Ministero dell'Interno, a cui sia stato illegittimamente negato l'accesso. Anche tale censura è stata ritenuta infondata, in quanto è "noto che i documenti sono ostensibili solo se esistenti, non potendosi predicare l'esibizione di atti che non risultano formati" (Cons. St., sez. III, 10.02.2022, n. 990).
L'appellante non ha dimostrato che vi siano documenti ulteriori, al di là di quelli che espone essere stati pubblicati o comunque non resi conoscibili, e pertanto la censura non può trovare accoglimento se e nella misura in cui essa si fonda su una mera asserzione congetturale, a fondamento della quale non può essere accolta, evidentemente, una istanza di accesso del tutto generica, avente ad oggetto documenti della cui esistenza, prima ancora che determinatezza, la stessa parte interessata non appare certa, esprimendosi su di essa in una forma del tutto eventuale e dubitativa, a fronte, peraltro, della dichiarazione, da parte dell'autorità amministrativa, che non vi sarebbero ulteriori documenti.
Né il giudice può ordinare un accesso meramente esplorativo, al fine di verificare se detti documenti esistano o meno, in quanto la funzione dell'accesso civico generalizzato, come ha chiarito l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 10 del 02.04.2020, è rispondere ad un fondamentale desiderio di conoscenza circa documenti o dati, da parte del cittadino, nella prospettiva di assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico e non quella, surrettizia, di svolgere una investigazione, di stampo inquisitorio o ispettivo, sulla base di mere ipotesi o congetture accertabili in sede di giurisdizione contabile o penale.

   CONS. STATO, SEZ. III, 02.09.2019 n. 6028 – MEMORANDUM DI INTESA ITALIA/LIBIA - Parti: S.F. c. Ministero dell’Interno
E' legittimo il diniego inerente alla richiesta di accesso civico agli atti concernenti lo stato di attuazione del Memorandum d'Intesa Italia - Libia sottoscritto in data 02.02.2017 in quanto che la diffusione e pubblicazione degli atti di cooperazione espletata in esecuzione di impegni internazionali, pertinenti ad attività dell'amministrazione della pubblica sicurezza, sarebbe suscettibile di ingenerare concretamente situazioni pregiudizievoli in grado di vanificare le misure preventive poste in essere a tutela dell'insieme delle azioni portate avanti. (Conferma TAR Lazio Sez. I, n. 8892/2018).
Sul punto, rileva inoltre il D.M. n. 415 del 1994 che sottrae all'accesso, tra l'altro, la "documentazione relativa agli accordi intergovernativi stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia" (art. 2, comma 1, lettera a), le "relazioni di servizio ed altri atti o documenti presupposto per l'adozione degli atti o provvedimenti dell'autorità nazionale e delle altre autorità di pubblica sicurezza, nonché degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza, ovvero inerenti all'attività di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione della criminalità, salvo che si tratti di documentazione che, per disposizione di legge o di regolamento, debba essere unita a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità" (art. 3, comma 1, lettera a), e gli "atti e documenti concernenti l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi di polizia, ivi compresi quelli relativi all'addestramento, all'impiego ed alla mobilità del personale delle Forze di polizia, nonché i documenti sulla condotta dell'impiegato rilevanti ai fini di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e quelli relativi ai contingenti delle Forze armate poste a disposizione dell'autorità di pubblica sicurezza" (art. 3, comma 1, lettera d).

   CONS. STATO, SEZ. III, 03.03.2022 n. 1522 – ATTIVITÀ ISPETTIVE
Openpolis, fondazione indipendente e senza scopo di lucro, presentava un’istanza di accesso civico semplice e generalizzato al Ministero dell’Interno per ottenere dati relativi al monitoraggio e controllo dei centri accoglienza per richiedenti asilo.
In primo grado il diniego, motivato dall’amministrazione con il richiamo al decreto del Ministero dell’Interno n. 415/1994, veniva ritenuto legittimo.
Il Consiglio di Stato, diversamente, ha accolto l’appello della Fondazione riformando così la sentenza di accoglimento di primo grado. Applicando la normativa primaria e le Linee Guida n. 1309/2016, ad avviso del giudice di secondo grado deve essere accolta l’istanza della Fondazione di ostensione dei documenti, con esclusione di quelli relativi ad attività ispettive ancora in atto se, a giudizio dell’amministrazione, il rilascio possa vanificare gli esiti dell’ispezione, nonché quelli relativi ad ispezioni sfociate in indagini penali.
La conclusione cui giunge il Consiglio di Stato muove dall’assunto che, nell’attuale contesto ordinamentale, l’accessibilità è la regola e i limiti alla stessa le eccezioni.
Tra queste ultime quella delle attività ispettive, peraltro, è relativa (non assoluta) e, come tale, presuppone un’attività valutativa da effettuare con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l’interesse alla disclosure e altri validi interessi indicati dal legislatore e con il ricorso, ove possibile, al differimento dell’accesso.

   CONS. STATO, SEZ. V, 15.06.2021 n. 4644 – ATTI ACQUISITI NELL’AMBITO DI PROCEDIMENTI PENALI E ATTIVITÀ ISPETTIVA
L’ostensione dei documenti non può riguardare gli atti acquisiti nell’ambito dei procedimenti penali o di procedimenti amministrativi di tipo ispettivo.
L’accesso è stato correttamente consentito solo con riferimento alla documentazione tecnica non più rilevante nei procedimenti penali o amministrativi, con le precauzioni di oscuramento volte a tutelare eventuali segreti industriali e commerciali.
Tali precauzioni sono necessarie in relazione alla qualifica di infrastruttura strategica, per la quale la tutela anche rispetto al rischio terroristico legittima più stringenti limiti all’accesso generalizzato.
Entro tali limiti, indicati nel provvedimento di riesame, l’accesso è consentito, in conseguenza di un corretto e proporzionato bilanciamento tra gli interessi in conflitto.

   CONS. STATO, SEZ. IV, 20.04.2020 n. 2496 - ATTI E INFORMAZIONI ATTINENTI ALL’ORGANIZZAZIONE DEL PERSONALE E DELLE RISORSE UMANE
Escludere dall'accesso generalizzato, oltre che da quello cd. semplice, la documentazione suscettibile di rivelare gli aspetti organizzativi -nell'ambito dei quali è essenziale la componente delle risorse umane- costituenti i punti di forza o di debolezza dell'organizzazione delle funzioni pubbliche tutelate, è coerente con l'obiettivo di evitare che la conoscenza di tali informazioni venga utilizzata per mettere in pericolo le funzioni primarie dello Stato.
E tale obiettivo è conseguito, in una equilibrata applicazione del limite previsto dall'art. 5-bis, comma 1, lett. a), b) e c), del d.lgs. n. 33 del 2013, secondo un canone di proporzionalità, proprio del test del danno, rispetto alle eccezioni assolute richiamate dal comma 3 dello stesso articolo, attraverso il rinvio ad interessi che già erano oggetto di protezione rispetto all'accesso cd. semplice.
La pronuncia conferma, pertanto, la legittimità del diniego dell’istanza di accesso civico generalizzato volta ad acquisire dal Comando generale della Guardia di Finanza i dati del “Sistema informativo sugli impieghi delle risorse umane” (contenenti il numero delle ore/persone effettivamente impiegate da tutto il personale del Corpo, distinto per missioni/funzioni), atteso che la diffusione di tali dati arrecherebbe un concreto pregiudizio alla sicurezza pubblica ed all’ordine pubblico, alla sicurezza nazionale, alla difesa e questioni militari ex art. 5-bis , comma 1, d.lgs. n. 33/2013, tenuto conto che la Guardia di Finanza costituisce un corpo di polizia ad ordinamento militare e che la conoscenza delle modalità di impiego del personale può costituire un concreto pericolo per la tutela dei predetti interessi pubblici. I dati richiesti sono riferiti, infatti, all’intera filiera organizzativa a livello territoriale.
La loro diffusione –unita ai dati già pubblici e all’utilizzo delle tecnologie– potrebbe comporterebbe un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi protetti dall’art. 5-bis, co. 1, d.lgs. n. 33/2013, in particolare la difesa nazionale, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico. Il diniego, inoltre, trova fondamento nell’art. 5-bis, co. 3, d.lgs. n. 33/2013, nella parte in cui richiama i casi di divieto di cui all’art. 24, co. 1, legge n. 241/1990. La lett. c) di tale comma prevede l’esclusione dall’accesso “nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione”.
In proposito, il D.M. 29.10.1996, n. 603, annovera tra le categorie di atti sottratti dall’accesso la documentazione suscettibile di rivelare gli aspetti organizzativi e il funzionamento, nonché i mezzi e le dotazioni dei servizi di polizia, a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e per la repressione della criminalità.

   TAR EMILIA ROMAGNA-PARMA, SEZ. I, 10.05.2021 n. 114 – ATTIVITÀ ISPETTIVE
È infondato il ricorso avverso il rigetto di una istanza di accesso civico generalizzato tesa a ottenere atti formati a seguito di un’attività di controllo.
Osta all’accoglimento dell’istanza la disposizione di cui all’art. 5-bis, d.lgs. n. 33/2013, che, al comma 1, lett. g), stabilisce che la richiesta è rifiutata se il rigetto è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela del regolare svolgimento di attività ispettive.
Risulta chiaro che, nel caso di specie, oggetto della richiesta è la relazione redatta al termine dell’attività ispettiva e la stessa attività potrebbe essere pregiudicata dal disvelamento dei dati relativi alle ispezioni svolte, al fine di verificare il rispetto della normativa anticorruzione all’esito di un conclamato fatto di cronaca giudiziaria che ha interessato un dipendente dell’ufficio.
Le esigenze di riservatezza della documentazione richiesta appaiono, dunque, correttamente valutate e ritenute prevalenti dall’amministrazione, atteso che una divulgazione degli esiti dell’ispezione sarebbe idonea a disvelare le modalità utilizzate in tale attività e, in definitiva, a pregiudicare il regolare svolgimento della medesima in future occasioni.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. II-TER, 19.01.2021 n. 748 – TUTELA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Non può essere accolta una istanza di accesso civico generalizzato volta a ottenere atti di provenienza governativa relativi a processi civili per i risarcimenti ai sopravvissuti di stragi e deportazioni a carico dello Stato tedesco. L’ostensione dei documenti richiesti determinerebbe un pregiudizio concreto e attuale alle relazioni internazionali ex art. 5, comma 1, lett. d), in quanto la documentazione attinente all’intervento dello Stato italiano nei processi civili in cui è parte lo Stato tedesco contengono e riflettono posizioni, oltre che interessi, di politica estera del Governo nazionale.
Come chiarito dalle Linee guida ANAC n. 1309/2016, per relazioni internazionali non si intende solo la politica estera di uno Stato, ma il sistema internazionale, nel quale operano vari attori a diversi livelli, riportando, a titolo semplificativo, alcuni atti meritevoli di attenzione, tra i quali è possibile far rientrare quelli della presente fattispecie.
Trattasi, infatti, di documenti attinenti a scelte e ad azioni di carattere politico, al cospetto dei quali il diritto di conoscere si arresta di fronte a un’attività che non solo non può catalogarsi quale avente natura amministrativa ma che, nell’ottica del bilanciamento fra interessi, fa sorgere la necessità, opportunamente valutata, di evitare un pregiudizio concreto e attuale all’interesse pubblico relativo a relazioni internazionali in atto che, chiaramente, proprio perché necessitanti di protezione, non possono essere disvelate più di quanto abbia fatto la resistente amministrazione nel corpo motivazionale del diniego.


5.3. LE ECCEZIONI RELATIVE EX ART. 5-BIS, COMMA 2, DEL D.LGS. N. 33/2013
   CONS. STATO, SEZ. VI, 25.06.2018 n. 3907 - TUTELA DEI DATI PERSONALI – INFORMAZIONI NON INERENTI ALL’ATTIVITÀ ISTITUZIONALE
L'accesso pubblico generalizzato di cui all'art. 5 d.lgs. n. 33 del 2013 ha l’esclusiva finalità di "favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico", non già di rendere pubblici colloqui privati -qual è quello svoltosi tra le parti ed inavvertitamente fatti oggetto di registrazione- che esulano dall'esercizio di funzioni istituzionali.
Inoltre l'accesso dell'accesso va bilanciato con il diritto alla protezione dei dati personali di cui è parola all'art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33 del 2013.
In coerente continuità normativa, l'art. 5, comma 5, d.lgs. cit., prescrive infatti che "fatti salvi i casi di pubblicazione obbligatoria, l'amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, ai sensi dell’articolo 5-bis, comma 2, d.lgs. cit. è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione" ai fini della eventuale opposizione.
Nel caso in esame non è dato individuare a monte l’interesse pubblico costituente il presupposto ai sensi dell'art. 11 del d.lgs. n. 196 del 2003 per il trattamento dei dati sensibili riguardanti manifestazioni di pensiero fra persone che (in quel particolare momento) non rivestono né esercitano funzioni pubbliche.
Gli obblighi di tutela dei dati personali sono oggi ancor più pregnanti dopo l’entrata in vigore degli artt. 5, 6 e ss. Regolamento UE 2016/679, laddove ribadiscono l'inderogabilità -neppure in nome della trasparenza e del diritto di accesso- di essi per effetto di disposizioni normative interne di eventuale segno opposto.

   TAR LOMBARDIA-BRESCIA, SEZ. I, 12.03.2018 n. 303 – TUTELA DATI PERSONALI ED ACCESSO PARZIALE
È illegittimo il diniego opposto alla richiesta di accesso agli atti di valutazione e selezione di uno specifico candidato nell’ambito di un concorso pubblico, motivato in base alla mera presenza di dati personali in tali documenti.
Nel dare riscontro a un’istanza, l’amministrazione deve verificare la presenza di un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali e valutare la possibilità di un rilascio con modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione di documenti con l’omissione dei dati personali laddove l’esigenza informativa possa essere raggiunta senza implicare il loro trattamento.
Peraltro, in una selezione pubblica, le ragionevoli aspettative di confidenzialità degli interessati riguardo a talune informazioni recedono o sono comunque depotenziate.
Alla luce di ciò, data la genericità della motivazione fornita, i documenti richiesti sono suscettibili di ostensione, salva la facoltà di oscurare i dati strettamente ed effettivamente personali –soprattutto di natura sensibile– per i quali la divulgazione può ritenersi eccessiva e non pertinente rispetto all’obiettivo di massima trasparenza dell’azione amministrativa.

   TAR TOSCANA, SEZ. III, 12.06.2021 n. 896 - PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI
L’art. 5-bis, comma 2, d.lgs. n. 33/2013 individua gli interessi privati ostativi all’accesso, fra cui la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza, e gli interessi economici e commerciali. Le allegazioni difensive dell’amministrazione non si riferiscono ad alcuno di tali interessi.
Avuto riguardo alla natura degli atti oggetto dell’istanza di ostensione, può ragionevolmente presumersi che sia stata in considerazione la sola tutela della riservatezza dei dati personali della contro interessata.
Tale riservatezza deve in ogni caso reputarsi recessiva rispetto all’interesse di ogni cittadino a verificare che l’ente eserciti correttamente i propri poteri di vigilanza urbanistico-edilizia sul territorio di competenza e, conseguentemente, ad accedere alle singole pratiche inerenti la realizzazione di interventi abusivi, oltretutto già sanzionati, come nella specie.
D’altro canto, non vi è motivo di presumere che, in concreto, la pratica edilizia in questione contenga dati personali che non siano già conosciuti, a partire dall’identità della contro interessata o dal luogo del commesso abuso, ovvero, quanto alle caratteristiche delle opere abusive, che quei dati personali meritino di essere tutelati al punto da prevalere nel bilanciamento con l’interesse generale sopradescritto.

   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. I-QUATER, 28.03.2019 n. 4122 – DIVIETO DI ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO AL FINE DI CONTROLLARE L'ATTIVITÀ DEI PRIVATI O I RAPPORTI TRA ESSI INTERCORRENTI – TUTELA DELLA RISERVATEZZA
L'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013 riconosce il diritto di accesso generalizzato allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, nonché di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Il diritto di accesso riconosciuto dalla norma, per la natura pubblicistica che è propria di esso, è un diritto funzionale a un interesse pubblico, ravvisabile, appunto, nel controllo generalizzato e diffuso sull'attività delle pubbliche amministrazioni. In ciò si distingue dal diritto di accesso documentale riconosciuto dalla legge sul procedimento amministrativo, posto a tutela di interessi privati e che presuppone una posizione soggettiva differenziata.
Trattandosi di un interesse diffuso, il diritto di accesso civico generalizzato è stato riconosciuto senza limiti di legittimazione attiva, per cui, nel caso di specie, la posizione del giornalista non si distingue, in tale ambito, da quella del comune cittadino. Affinché il diritto sia esercitabile, in ogni caso, è necessario che sia funzionale allo scopo stabilito dalla legge, ravvisabile nel controllo generalizzato sul buon andamento della p.a. e sul corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
Il diritto di accesso civico generalizzato non è invece riconosciuto dall'ordinamento per controllare l'attività dei privati o i rapporti tra essi intercorrenti come nel caso in cui l'istanza risultava finalizzata a conoscere i rapporti professionali tra l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali e il proprio legale.

   TAR ROMA–LAZIO, SEZ. I, 11.05.2021 n. 5463 - CORRISPONDENZA INTERNA ALLA P.A.
Il ricorrente ha impugnato i provvedimenti con i quali è stato negato dalle intimate amministrazioni l’accesso ad alcuni dei documenti richiesti con l'istanza di accesso civico generalizzato presentata dal ricorrente nonché -in sede di riesame- confermato il diniego dai Responsabili della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza dei rispettivi Ministeri.
In particolare al ricorrente è stato negato l’accesso, tra gli altri, alla corrispondenza intercorsa, definita come e-mail inviate e/o ricevute destinate o provenienti dai membri della Commissione istituita per gli approfondimenti necessari per l'individuazione delle possibili soluzioni, con particolare riferimento agli aspetti tecnici e di sicurezza informatica, pregiudiziali alla adozione di linee guida per la sperimentazione del voto elettronico e/o la corrispondenza dei collaboratori delegati con ruolo di segretariato e/o assistenza di direzione, utilizzando caselle di posta elettronica in uso, in funzione dello svolgimento degli incarichi svolti nella pubblica amministrazione.
Il Collegio ha evidenziato, nello specifico, che la finalità dell’accesso civico generalizzato, introdotto dall’articolo 5 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, è quella di “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico [...] nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis".
La previsione di tali limiti va certamente a giustificare il diniego all’accesso relativo alla corrispondenza intercorsa fra i membri della Commissione (e/o propri collaboratori delegati con ruolo di segretariato e/o assistenza di direzione) ex art. 5-bis, comma 2, lettera b), del d.lgs. n. 33/2013.
La corrispondenza presente sulla casella di posta elettronica personale, i cui contenuti si vorrebbero disvelati per la pubblica diffusione, costituiscono anche, per la genericità della richiesta, surrogati di comunicazioni per vie brevi (telefonate o scambi verbali in presenza) che non sono di regola soggette a registrazione/verbalizzazione, né, tanto meno, a pubblicazione.
Esse peraltro, il più delle volte, esauriscono la loro funzione una volta giunte al destinatario e la loro efficacia viene assorbita dalla attività istituzionale del gruppo di lavoro i cui esiti soltanto, in quanto ricavabili da atti o da documentazione amministrativa propriamente intesi, sono rilevanti per le finalità di cui alla legge 33/2013.
Anche ove si trattasse di bozze di proposte, le stesse, fintanto che non vengano formalizzate in un atto, frutto, verosimilmente, della riflessione congiunta, non sono attribuibili al gruppo di lavoro, unico soggetto la cui produzione documentale è soggetta all’obbligo di trasparenza.
Ne consegue che, al di là del carattere confidenziale della corrispondenza, la stessa è per lo più priva di un evidente interesse per la collettività interessata al “perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”.
Si tratta inoltre di documenti che l’Amministrazione non detiene stabilmente, ma che rimangono nella piena ed esclusiva disponibilità e gestione autonoma di ciascun titolare della casella di posta elettronica in dotazione e sono assistiti da garanzie costituzionali di segretezza.
Il fatto che si tratti di caselle di posta elettronica messe a disposizione dall’ufficio non significa che i contenuti della corrispondenza rientrino tra quelli che l’Amministrazione detiene istituzionalmente o che il singolo è obbligato a consegnare, in assenza di appositi provvedimenti dell’Autorità giudiziaria.

PRONUNCE DEL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI
   GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, 10.06.2021 n. 237 – ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO IN MATERIA DI CONCORSI PUBBLICI
Il caso sottoposto all’attenzione del Garante riguarda l’ostensione, tramite l’istituto dell’accesso civico, di dati e informazioni personali –di diversa natura e specie– riferiti ai candidati ammessi alla prova preselettiva per il concorso pubblico, quali: nome, cognome, indirizzo e posta elettronica.
La normativa statale in materia di trasparenza prevede che, fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare –oltre ai bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione, ai criteri di valutazione della Commissione e alle tracce delle prove– «le graduatorie finali, aggiornate con l'eventuale scorrimento degli idonei non vincitori» (art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013).
Tale regime di conoscibilità, come già rilevato in passato dal Garante, assolve alla funzione di rendere pubbliche le decisioni adottate dalla commissione esaminatrice e/o dall’ente pubblico procedente, anche al fine di consentire agli interessati l’attivazione delle forme di tutela dei propri diritti e di controllo della legittimità delle procedure concorsuali o selettive. Anche a questo riguardo devono essere diffusi i soli dati pertinenti e non eccedenti riferiti agli interessati.
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati concernenti i recapiti degli interessati ([quali fra l’altro] l’indirizzo di residenza o di posta elettronica […]» (cfr. parte seconda, part. 3.b. delle «Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati», provv. n. 243 del 15/05/2014, in G.U. n. 134 del 12/6/2014 e in www.gpdp.it, doc. web n. 3134436; punto 6.1 delle «Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico», provv. n. 23 del 14/06/2007, in G.U. n. 161 del 13/07/2007 e in www.gpdp.it, doc. web n. 1417809).
In tale quadro, si rileva cha –a differenza dei soggetti risultanti vincitori– la normativa in materia di trasparenza non prevede obblighi di pubblicità dei dati personali riferiti ai singoli partecipanti al concorso pubblico.
Pertanto, fermo restando la pubblicità delle graduatorie finali dei vincitori, un eventuale riconoscimento di un accesso civico agli ulteriori dati personali dei partecipanti al concorso richiesti –quali nome, cognome, indirizzo, posta elettronica– unito alla generale conoscenza e al particolare regime di pubblicità dei dati oggetto di accesso civico, può effettivamente arrecare ai soggetti interessati, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui i dati e le informazioni fornite possono essere utilizzate da terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013.

   GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, 07.11.2019 n. 200 - ACCESSO CIVICO IN MATERIA DI CONCORSI PUBBLICI – PROVE SCRITTE E CURRICULA DEI PARTECIPANTI
Il Garante per la protezione dei dati personali si è espresso circa la legittimità della richiesta di accesso civico, esaminando in primo luogo l’incidenza degli elaborati scritti di un concorso pubblico e dei curricula sui dati personali dei candidati.
A tal proposito, il Garante ha rilevato come detti elaborati scritti contengono al loro interno numerosi elementi che sono idonei a individuare le caratteristiche individuali del candidato.
In particolare, l’autorità di controllo ha evidenziato come dagli stessi siano ricavabili alcuni aspetti del carattere del candidato, quali per esempio la sua preparazione professionale, la sua cultura, la sua capacità di espressione o in generale il suo carattere: ciò, in quanto essi sono elementi che vengono valutati durante la selezione. In alcuni casi, inoltre, da tali elaborati è possibile anche evincere dati qualificabili come “categorie particolari”, in quanto attinenti alle opinioni politiche, filosofiche o di altro genere del candidato.
Per quanto riguarda il curriculum, il garante ha evidenziato come al suo interno sono contenuti numerosi dati di carattere personale del candidato come, per esempio, il nome cognome, la data e luogo di nascita, la residenza, il numero di telefono, la e-mail, la nazionalità, le esperienze professionali, l’istruzione, le competenze personali, le pubblicazioni, i riconoscimenti e i premi nonché la appartenenza a gruppi o associazioni.
Premesso tutto quanto sopra, il garante ha posto l’attenzione sul fatto che l’accesso civico fa sì che i documenti cui è concesso l’accesso diventino di pubblico dominio e possono essere conosciuti nonché utilizzati e riutilizzati da chiunque. In considerazione di ciò, l’accesso ai curricula e agli elaborati scritti di un concorso pubblico può determinare un pregiudizio concreto alla tutela dei dati personali dei candidati.
In considerazione di tutto quanto sopra nonché della normativa in materia di protezione dei dati personali, il garante ha quindi ritenuto di confermare i propri precedenti orientamenti espressi nei casi di accesso civico agli elaborati scritti dei candidati di un concorso pubblico e ai relativi curricula, ritenendo corretto il rifiuto di permettere all’istante di accedere ai documenti richiesti.
Infine, pur avendo escluso il diritto di accedere ai documenti in questione attraverso la forma dell’accesso civico, il Garante ha comunque ricordato all’istante che tale rifiuto non preclude allo stesso la possibilità di accedere ai curricula e agli elaborati scritti qualora egli abbia un interesse diretto, concreto ed attuale a prendere visione degli stessi in quanto egli ha una situazione giuridicamente tutelata da far valere attraverso la visione del documento.

   GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, 15.10.2020 n. 180 – RISCHIO DI IDENTIFICAZIONE INDIRETTA
Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013.
L'accesso può essere negato qualora si riveli necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali.
Anche la possibilità di un accesso parziale è da escludere, oscurando i nominativi degli interessati, poiché tale accorgimento non elimina del tutto la possibilità che questi ultimi possano essere re-identificati, anche all'interno dello stesso luogo di lavoro, tramite gli ulteriori dati di dettaglio e di contesto contenuti nella documentazione richiesta o mediante altre informazioni in possesso di terzi.
A tale riguardo, si considera infatti "identificabile" la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale (art. 4, par. 1, n. 1, del RGPD).


5.4. IL PREGIUDIZIO CONCRETO ED IL BILANCIAMENTO DEGLI INTERESSI COINVOLTI
   TAR CALABRIA–CATANZARO, SEZ. II, 05.04.2022 n. 596
Relativamente all'istanza di accesso c.d. civico generalizzato, di cui all'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, il semplice rifiuto opposto dalla controinteressata, alla quale era stata comunicata l'istanza di accesso, non è sufficiente per fondare il rigetto dell'ostensione, dovendo, invece, la Pubblica Amministrazione motivare analiticamente in merito alla sussistenza di uno dei limiti di cui all'art. 5-bis, comma 2 del d.lgs. n. 33 del 2013
   TAR CAMPANIA–NAPOLI, SEZ. VI, 10.12.2019 n. 5837
In tema di accesso civico, il test del pregiudizio concreto, da applicare per delimitare la conoscenza generalizzata di cui all'art. 5-bis comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, impone che il pregiudizio non deve essere solo affermato, ma anche dimostrato; inoltre, il test del pregiudizio concreto impone che il nesso di causalità che lega questo alla divulgazione deve superare la soglia del "meramente ipotetico" per emergere quale "probabile", sebbene futuro; pertanto, l'Amministrazione, nel rigettare una richiesta di ostensione, deve dimostrare che la stessa pregiudicherebbe l'interesse da tutelare ovvero che ciò sarebbe "molto probabile".

6. LA PARTECIPAZIONE DEI CONTROINTERESSATI
   CONS. STATO, SEZ. V, 15.06.2021 n. 4644
Non sussiste l’obbligo da parte dell’amministrazione di coinvolgere il controinteressato nella fase di riesame, atteso che la partecipazione è stata assicurata nel procedimento di prima istanza.
La richiesta di riesame non dà vita ad un nuovo procedimento ma costituisce un’appendice eventuale dell’unico procedimento avviato con l’istanza di accesso, cosicché il riesame si configura come una verifica della correttezza della decisione, senza che trovino ingresso nuove questioni e prospettazioni.
In tal senso è indicativa la Circolare n. 1/2019 del Ministro per la pubblica amministrazione (par. 6), secondo cui la partecipazione dei controinteressati alla fase di riesame deve essere assicurata soltanto nel caso in cui il RPCT constati che essa non sia avvenuta in prima istanza per una erronea valutazione circa la sussistenza del pregiudizio agli interessi di cui all’art. 5-bis, comma 2, d.lgs. n. 33/2013.
Una diversa interpretazione finirebbe per dar vita a un inammissibile aggravio del procedimento, privo di qualsiasi utilità pratica, non potendo essere modificati l’oggetto e le ragioni dell’istanza di accesso, né le osservazioni e le controdeduzioni già svolte.


7. PROFILI PROCESSUALI
   CONS. STATO, SEZ. III, 02.03.2022 n. 1482
Il silenzio sull’istanza di accesso civico generalizzato non può essere qualificato come silenzio provvedimentale, in assenza di una espressa previsione di legge che attribuisca tale valore a quel contegno, come fa l’art. 25, comma 4, l. n. 241 del 1990 per l’istanza di accesso documentale.
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 15.06.2021 n. 7144
Non sussiste alcun silenzio-inadempimento del Ministero della Salute sull’istanza di accesso civico generalizzato avente ad oggetto la documentazione relativa ai dati statistici riferita all’andamento della situazione epidemiologica Covid-19 con indicazione diversificata del numero dei decessi e degenti in terapia intensiva su base anagrafica e/o pregresse patologie, ove l’Amministrazione abbia dichiarato che i dati e le informazioni richieste non si troverebbero nella disponibilità della DGPROGS del Ministero stesso ma in possesso dell’Istituto Superiore di Sanità, a cui sarebbe stata inoltrata l’istanza del ricorrente.
   TAR LAZIO-ROMA, SEZ. III, 11.11.2021 n. 11656
Nell'ipotesi di accesso civico generalizzato, l'interessato ha la possibilità di proporre ricorso giurisdizionale, secondo il rito dell'accesso, unicamente avverso la decisione negativa espressa dell'amministrazione competente o, in caso di richiesta di riesame, avverso la decisione del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
   CONS. STATO, SEZ. V, 12.02.2020 n. 1121
Uno solo è il presupposto imprescindibile di ammissibilità dell'istanza di accesso civico generalizzato, ossia la sua strumentalità alla tutela di un interesse generale. La relativa istanza, dunque, andrà in ogni caso disattesa ove tale interesse generale della collettività non emerga in modo evidente, oltre che, a maggior ragione, nel caso in cui la stessa sia stata proposta per finalità di carattere privato ed individuale.
Lo strumento in esame può pertanto essere utilizzato solo per evidenti ed esclusive ragioni di tutela di interessi propri della collettività generale dei cittadini, non anche a favore di interessi riferibili, nel caso concreto, a singoli individui od enti associativi particolari: al riguardo, il giudice amministrativo è tenuto a verificare in concreto l'effettività di ciò, a nulla rilevando -tanto meno in termini presuntivi- la circostanza che tali soggetti eventualmente auto-dichiarino di agire quali enti esponenziali di (più o meno precisati) interessi generali.
Pertanto, sebbene il legislatore non chieda all'interessato di formalmente motivare la richiesta di accesso generalizzato, la stessa vada disattesa, ove non risulti in modo chiaro ed inequivoco l'esclusiva rispondenza di detta richiesta al soddisfacimento di un interesse che presenti una valenza pubblica, essendo del tutto estraneo al perimetro normativo della fattispecie la strumentalità (anche solo concorrente) ad un bisogno conoscitivo privato.
In tal caso, invero, non si tratterebbe di imporre per via ermeneutica un onere non previsto dal legislatore, bensì di verificare se il soggetto agente sia o meno legittimato a proporre la relativa istanza.
Inoltre, il legislatore individua, quale ostacolo all'esercizio dell'accesso generalizzato, una serie di interessi - di rilievo costituzionale - la cui tutela è imprescindibile per la funzionalità dell'apparato dello Stato, in quanto attenenti all'essenza stessa della sua sovranità (interna ed internazionale).
Ne consegue che il diniego eventualmente opposto all'istanza, presupponendo una valutazione eminentemente discrezionale che non di rado può involgere -ratione materiae- profili di insindacabile merito politico, non potrebbe in alcun modo essere superato da una parallela valutazione del giudice amministrativo, il cui sindacato in materia va strettamente circoscritto alle ipotesi di manifesta e macroscopica contraddittorietà o irragionevolezza.
Il g.a. può quindi sindacare le valutazioni dell'amministrazione in ordine al diniego opposto solamente sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell'istruttoria, ma non procedere ad un'autonoma verifica della necessità del diniego opposto o della sua eventuale superabilità, sia pure parziale.
Una siffatta valutazione, infatti, verrebbe ad integrare un'inammissibile invasione della sfera propria della p.a.: tale sindacato rimane dunque limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto.
Pertanto, alla luce dei rilievi che precedono, sono legittimi i dinieghi di accesso civico generalizzato, opposti dal responsabile della trasparenza presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti alla richiesta ad ottenere informazioni sulle operazioni di ricerca e salvataggio in mare (c.d. operazioni SAR: Search and Rescue) - concernenti imbarcazioni di migranti, nei giorni specificati in ciascun ricorso.

   CONS. STATO, SEZ. III, 26.10.2021 n. 7173
Un R.T.I., secondo classificato, impugnava dinnanzi al Consiglio di Stato la sentenza del Tar Lombardia che aveva respinto il ricorso contro una fondazione ai fini dell’annullamento di una deliberazione mediante la quale veniva disposta l’aggiudicazione di un appalto in favore della controinteressata.
Per quel che qui rileva, con riguardo alla questione relativa ai segreti tecnici commerciali non divulgabili, ai sensi dell’art. 53, comma 5 lett. a) del Codice dei contratti pubblici, giusta motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, il Consiglio di Stato ha in primo luogo richiamato l’orientamento della Corte di Giustizia che riconosceva all’organismo competente a conoscere dei ricorsi la libertà nel disporre di tutte le informazioni necessarie in modo tale da essere completamente in grado di decidere con “piena cognizione di causa ivi comprese le informazioni riservate e i segreti tecnici commerciali” (Corte di Giustizia C-450/06).
In ragione di ciò, il Collegio ha ordinato il deposito in giudizio dell’offerta tecnica affinché venisse posta a disposizione del giudice anche nella parte relativa ad informazioni qualificate dall’offerente come “segreti tecnici commerciali” purché in alcuni punti debitamente oscurata.
Dall’analisi della presente ordinanza è emerso che il potere del giudice è orientato a garantire la completezza istruttoria del giudizio di merito con particolare riguardo all’acquisizione di tutto il compendio probatorio necessario.
Invero, il Collegio ha ritenuto che l’amministrazione sia obbligata a depositare gli atti richiesti e il giudice, come riconosciuto da un orientamento della Corte di Giustizia, ha il potere di acquisire d’ufficio tutti gli atti ritenuti indispensabili al fine di decidere.
In altri termini, il sindacato del giudice amministrativo, nel caso di specie, ha riguardato tutti gli elementi utili al suo giudizio intrinseci ed estrinseci alle informazioni riservate.


8. ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO IN MATERIA DI APPALTI
   CONS. STATO, ADUNANZA PLENARIA, 02.04.2020 n. 10
La disciplina dell'accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, all'esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l'eccezione del comma 3 dell'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013 in combinato disposto con l'art. 53 e con le previsioni della legge n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia dall'accesso civico generalizzato, ma resta ferma la verifica della compatibilità dell'accesso con le eccezioni relative di cui all'art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza.
   CONS. STATO, SEZ. III, 03.11.2022 n. 9567
La disciplina dell'accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei o assoluti di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara, ed in particolare all'esecuzione dei contratti pubblici (nel cui contesto si colloca la fase del collaudo, alla quale pertiene la documentazione di cui l'appellante ha chiesto l'ostensione), ma deve essere verificata la compatibilità di tale forma di accesso con le eccezioni enucleate dall'art. 5-bis, commi 1 e 2, dello stesso d.lgs. n. 33 del 2013, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza (cfr. anche Cons. Stato sez. V, 11/04/2022, n. 2670 e Cons. Stato, Sez. V, 03/08/2021, n. 5714)
   CONS. STATO, SEZ. III, 25.01.2022 n. 495
La disciplina dell'accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all'art. 53, d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, all'esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l'eccezione del comma 3 dell'art. 5-bis, d.lgs. n. 33 del 2013, che non esenta in toto la materia dall'accesso civico generalizzato;
resta ferma la verifica della compatibilità dell'accesso con le eccezioni relative di cui all'art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza;
se esiste, in altri termini, l'interesse ad una conoscenza diffusa dei cittadini nell'esecuzione dei contratti pubblici, volta a sollecitare penetranti controlli da parte delle autorità preposte a prevenire e a sanzionare l'inefficienza, la corruzione o fenomeni di cattiva amministrazione e l'adempimento delle prestazioni dell'appaltatore deve rispecchiare l'esito di un corretto confronto in sede di gara, a maggior ragione gli operatori economici, che abbiano partecipato alla gara, sono interessati a conoscere illegittimità o inadempimenti manifestatisi dalla fase di approvazione del contratto sino alla sua completa esecuzione, non solo per far valere vizi originari dell'offerta nel giudizio promosso contro l'aggiudicazione, ma anche con riferimento alla sua esecuzione, per potere, una volta risolto il rapporto con l'aggiudicatario, subentrare nel contratto od ottenere la riedizione della gara con chance di aggiudicarsela;
ma tale interesse alla trasparenza, di tipo conoscitivo, che non esige una motivazione specifica, deve in ogni caso palesarsi non in modo assolutamente generico e destituito di un benché minimo elemento di concretezza, anche sotto forma di indizio, come accade nel caso in esame in cui viene solo ipoteticamente prospettata l'esistenza di una difformità tra il contratto e l'esecuzione del servizio, pena rappresentare un inutile intralcio all'esercizio delle funzioni amministrative e un appesantimento immotivato delle procedure di espletamento dei servizi.

   TAR PIEMONTE, SEZ. II, 13.01.2023 n. 42
In materia di accesso agli atti della Pubblica Amministrazione, con riferimento all'accesso agli atti di una pubblica gara, la Pubblica Amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l'istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell'accesso civico generalizzato, a meno che l'interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell'accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l'istanza solo con specifico riferimento ai profili della L. n. 241 del 1990.
   TAR VENETO, SEZ. III, 09.03.2022 n. 414
È legittimo il diniego di accesso civico generalizzato quando non è possibile rinvenire una finalità riconducibile ad un controllo diffuso dei cittadini delle funzioni istituzionali e dell’utilizzo delle risorse pubbliche, volto a soddisfare esigenze di trasparenza dell'azione amministrativa, considerato che con l'accesso azionato è stata chiesta unicamente l'acquisizione di alcuni documenti relativi ad una procedura di gara aggiudicata da molti anni e interamente eseguita, né si è inteso operare alcuna verifica sulla corretta conduzione della medesima da parte della P.A.
L'accesso civico generalizzato soddisfa, infatti, un'esigenza di cittadinanza attiva, incentrata sui doveri inderogabili di solidarietà democratica, di controllo sul funzionamento dei pubblici poteri e di fedeltà alla Repubblica e non su libertà singolari (ragione per cui non può mai essere egoistico).
Ne consegue che l'accesso civico generalizzato non è utilizzabile come surrogato dell'accesso documentale, ex art. 22 della legge n. 241/1990, quando si perdono o non vi sono i presupposti di quest'ultimo, perché serve ad un fine distinto, talvolta cumulabile, ma sempre inconfondibile.

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE GESTIONALI: E' illegittima l'istituzione di "area pedonale" a mezzo di ordinanza dirigenziale anziché provvedimento della Giunta Comunale.
   - l’art. 7 del d.l.vo n. 285/1992 stabilisce che la delimitazione delle aree pedonali e delle zone a traffico limitato può essere disposta dai comuni, con deliberazione della giunta, tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio. Solo “in caso di urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della deliberazione della giunta”;
   - nel caso di specie, la determinazione dirigenziale impugnata non è supportata da ragioni di urgenza e incide in modo sostanziale sull’area pedonale individuata dalla Giunta Comunale con la delibera n. 104/2004;
   - invero, il provvedimento gravato istituisce l’area pedonale “in tutta la via Rimembranze “lato chiesa” ivi compresa l’area in precedenza adibita alla sosta dei Veicoli”, sicché, da un lato, estende l’area pedonale, dall’altro, configura un uso esclusivamente pedonale di tutta l’area, compresa quella in precedenza adibita alla sosta veicolare;
   - il provvedimento dirigenziale, per il suo oggettivo contenuto, non integra un atto meramente esecutivo della deliberazione della Giunta n. 104/2004, perché modifica sia l’estensione dell’area pedonale, sia le prescrizioni stabilite dalla Giunta, così esprimendo una valutazione discrezionale autonoma;
   - la circostanza che il provvedimento incida sulla configurazione e sulle modalità di utilizzo dell’area pedonale esclude che possa essere ricondotto alle competenze dirigenziali, trattandosi di un atto riservato alla Giunta comunale, con conseguente fondatezza della censura in esame.
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... per l'annullamento, previa sospensione,
   - della Ordinanza Dirigenziale n. 7/2024 del 16.01.2024, a firma del Dirigente/Responsabile P.O. dell'Area Polizia Locale del Comune di Trezzano sul Naviglio, con cui “a far data del 01/02/2024 dalle ore 00:00 è istituita area pedonale in tutta la via Rimembranze “lato chiesa” ivi compresa l'area in precedenza adibita alla sosta dei veicoli” per cui “è completamente interdetta al traffico veicolare l'area in precedenza adibita alla sosta dei veicoli”;
...
E’ fondata e presenta carattere assorbente la censura diretta a contestare il vizio di incompetenza, in quanto il provvedimento impugnato è stato adottato dal dirigente di settore e non dalla Giunta Comunale.
In particolare, il Tribunale osserva che:
   - l’art. 7 del d.l.vo n. 285/1992 stabilisce che la delimitazione delle aree pedonali e delle zone a traffico limitato può essere disposta dai comuni, con deliberazione della giunta, tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio. Solo “in caso di urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della deliberazione della giunta”;
   - nel caso di specie, la determinazione dirigenziale impugnata non è supportata da ragioni di urgenza e incide in modo sostanziale sull’area pedonale individuata dalla Giunta Comunale con la delibera n. 104/2004;
   - invero, il provvedimento gravato istituisce l’area pedonale “in tutta la via Rimembranze “lato chiesa” ivi compresa l’area in precedenza adibita alla sosta dei Veicoli”, sicché, da un lato, estende l’area pedonale, dall’altro, configura un uso esclusivamente pedonale di tutta l’area, compresa quella in precedenza adibita alla sosta veicolare;
   - il provvedimento dirigenziale, per il suo oggettivo contenuto, non integra un atto meramente esecutivo della deliberazione della Giunta n. 104/2004, perché modifica sia l’estensione dell’area pedonale, sia le prescrizioni stabilite dalla Giunta, così esprimendo una valutazione discrezionale autonoma;
   - la circostanza che il provvedimento incida sulla configurazione e sulle modalità di utilizzo dell’area pedonale esclude che possa essere ricondotto alle competenze dirigenziali, trattandosi di un atto riservato alla Giunta comunale, con conseguente fondatezza della censura in esame;
   - restano assorbite le ulteriori doglianze proposte, in quanto nel giudizio amministrativo, se sono dedotti vizi di incompetenza del provvedimento, tali vizi hanno carattere assorbente rispetto alle residue censure, atteso che in tutte le situazioni di incompetenza si versa nella fattispecie in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice, anche ai sensi dell'art. 34, comma 2, cod. proc. amm., non può fare altro che rilevare il relativo vizio (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 27.04.2015, n. 5, TAR Piemonte, sez. III, 22/01/2024, n. 50).
In definitiva il ricorso è fondato nei limiti dianzi esposti e deve essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.03.2024 n. 947 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione, dal momento che l’interessato, che intenda ottemperare all’ingiunzione amministrativa, ha la facoltà di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, per ottenere il dissequestro.
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... per l'annullamento, previa sospensione:
   1) del provvedimento prot. 494/2024 dell'11.01.2024 -successivamente notificato- con il quale il Responsabile dell'Area Tecnica Edilizia Privata del Comune di -OMISSIS-, presupposta una asserita riapertura dei termini per “effettuare la spontanea demolizione” (nota prot. 9306 del 29.07.2020) ha accertato la inottemperanza alla ingiunzione alla demolizione n. 16 dell'11.05.2017 prot. 5519 nei termini previsti dal DPR 380/2001 così come concessi con la nota sopra richiamata e, conseguentemente, ha irrogato ad entrambi i ricorrenti in solido, la sanzione di €. 20.000,00 euro;
...
I ricorrenti impugnano il provvedimento n. 494 dell’11.01.2024, con cui il Comune di -OMISSIS- ha accertato l’inottemperanza all’ingiunzione alla demolizione n. 16 dell’11.05.2017, prot. 551, irrogando la sanzione solidale di €. 20.000,00 euro.
Si sostiene l’illegittimità dell’atto, essendo il bene sottoposto a sequestro penale.
Il ricorso è manifestamente infondato e può essere deciso in forma semplificata.
Occorre premettere che la sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione, dal momento che l’interessato, che intenda ottemperare all’ingiunzione amministrativa, ha la facoltà di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, per ottenere il dissequestro (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2016, n. 335; Cass. pen., Sez. III, 17.10.2013, n. 42637; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 27.04.2023, n. 4456).
A tal riguardo, i ricorrenti lamentano che “le opere oggetto dell’ordinanza n. 16/2017 erano all’epoca e sono a tutt’oggi sottoposte a sequestro penale”, avendo il Tribunale di Salerno, con decreto in data 02.09.2020, respinto l’istanza del dante causa dei medesimi, volta al dissequestro delle opere abusive per la demolizione ed il ripristino dei luoghi.
Tuttavia, è risolutivo rilevare come il diniego di dissequestro sia motivato sul fatto che l’istanza “non contiene un cronoprogramma dei lavori da eseguire, né le modalità di smaltimento dei materiali di risulta”, di modo che sarebbe stato onere di diligenza dell’interessato e, deceduto questi, dei suoi eredi, produrre la documentazione richiesta in sede penale (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.03.2024 n. 753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sugli estremi per la sussumibilità di un manufatto nella categoria della pergotenda.
Secondo la condivisibile giurisprudenza «(i)n materia edilizia, gli estremi per la sussumibilità di un manufatto nella categoria della pergotenda, caratterizzata dal regime di c.d. edilizia libera, si individuano nel fatto che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda».
In particolare la giurisprudenza, consolidatasi sul punto, ha ritenuto che la "pergotenda":
   1) dal punto di vista fattuale, sia una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque, non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione, piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) sotto il profilo giuridico, l’installazione di una pergotenda -tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione caratterizzante- non è un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli «interventi di nuova costruzione», che determinano una «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio»; ne consegue che una struttura leggera destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, secondo la configurazione standard propria delle pergotende, non integra tali caratteristiche;
   3) per poter configurare una struttura come “pergotenda”, occorre che la res principale sia costituita, da una tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura di supporto -per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo- deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario, per l’appunto, al sostegno e all'estensione della tenda; in altri termini, il sostegno della tenda deve consistere in elementi leggeri di sezione esigua, eventualmente imbullonati al suolo (purché facilmente disancorabili);
   4) la tenda poi, per essere considerato elemento di una "pergotenda" (e non considerarsi una "nuova costruzione"), deve essere realizzata in un materiale retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti, la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, «(o)nde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie»;
   5) inoltre, l'elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda di un materiale, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione;
   6) infine, il Consiglio di Stato ha chiarito che «L'elemento differenziale della cosiddetta "pergotenda", rispetto a una mera tenda retrattile, è individuabile non nell'esistenza di una struttura di supporto, laterale o frontale, rigida e leggera (solitamente in alluminio) a sostegno del telo, sé necessaria a mantenere in tensione ogni tenda esposta al vento, bensì nell'esistenza di una serie di profili rigidi (nella prassi c.d. "frangitratta"), distanziati loro di circa 50-100 centimetri, aventi la specifica funzione di dare alla copertura maggior resistenza strutturale alla formazione di sacche d'acqua o al carico nevoso accidentale (altresì consentendone la chiusura "a pacchetto", anziché a rullo), tanto da consentirne l'utilizzo a copertura di superfici notevolmente più ampie».
In pratica «(l)a pergotenda consiste tipicamente in una struttura leggera, diretta precipuamente a soddisfare esigenze che, seppure non precarie, risultano funzionali (solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un'unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini, poiché essenzialmente finalizzate ad attuare una protezione dal sole e dagli agenti atmosferici».
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L'installazione di una tenda retrattile montata su una struttura fissa in alluminio anodizzato (pergotenda) non costituisce intervento di nuova costruzione, né di ristrutturazione edilizia, e, conseguentemente, non richiede il permesso di costruire.
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1. Con la sentenza appellata il TAR ha rigettato il ricorso n. 997/2017 R.G. proposto dalla Ma. S.r.l. per l’annullamento dell'ordinanza di ingiunzione a demolire n. 37/2017 P/47-2017PR dell'08.02.2017, prot. 105765 oltre che di ogni altro atto propedeutico, connesso e conseguenziale.
2. L’appellante ha impugnato la sentenza n. 1614/2021 ritenendola erronea in quanto in essa il Tar non ha tenuto conto della circostanza che l’opera abusiva per la quale è stata ingiunta la demolizione rientri tra gli interventi per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo, non costituendo né nuova costruzione né attività di ristrutturazione urbanistica, trattandosi, piuttosto di una pergotenda che ha il fine di proteggere dal sole e dagli agenti atmosferici, per una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità adibita a attività di ristorazione.
3. L’appello è fondato sui seguenti motivi:
   I) violazione e falsa applicazione dell'art. 6 del d.p.r. n. 380/2001 come recepito dalla l.r. n. 16/2016;
   II) violazione e falsa applicazione della deliberazione n. 173 del 02.09.2016 della giunta comunale di Palermo;
   III) eccesso di potere per erroneità nei presupposti e per travisamento;
   IV) eccesso di potere per difetto di istruttoria;
   V) violazione sotto altro profilo degli artt. 3 e 10 d.p.r. n. 380/2010 come recepito dalla l.r. n. 16/2016 ulteriore eccesso di potere per erroneità nei presupposti, per travisamento e per sviamento.
4. In data 27.10.2021 si è costituito, mediante il deposito di controricorso, il Comune di Palermo chiedendo il rigetto dell’appello ritenendo corrette e legittime le valutazioni svolte dal giudice di prime cure.
5. Con ordinanza n. 641 del 12.11.2021, il Collegio ha respinto l’istanza cautelare ritenendo che «la struttura esterna al locale non sembra avere le caratteristiche della “pergotenda”, essendo in grado di modificare, in assenza di titolo, la destinazione d’uso e, quindi, la destinazione urbanistica degli spazi esterni, da marciapiede ad uso pubblico a sala privata di ristorazione» condannando l’appellante al pagamento delle spese della fase cautelare, liquidate in € 1.000,00 (mille/00).
6. Con decreto n. 55 dell’08.04.2022 il Presidente ha dichiarato l’interruzione del processo poiché il Comune di Palermo, con nota depositata il 07.03.2022 aveva comunicato il pensionamento del suo difensore, Avv. Gi.Na., a far data dall’01.04.2022, ipotesi questa che secondo consolidata giurisprudenza, poiché comporta la cancellazione volontaria dall’albo degli avvocati, è causa di interruzione del processo.
7. L’appello è stato ritualmente riassunto con ricorso depositato il 18.05.2022 e il Comune con memoria, depositata il 17.05.2022, si è costituito con nuovo difensore.
8. Per la decisione del presente procedimento di appello è preliminare inquadrare correttamente il manufatto in questione, definito dall’appellante "pergotenda", da includere, quindi, tra le opere rientranti nella categoria dell'attività di edilizia libera, mentre -secondo la tesi del Comune– rientrerebbe tra le opere che richiedono il previo rilascio del permesso di costruire.
Il manufatto, meglio raffigurato nelle foto agli atti, secondo quanto riportato nell’ordinanza impugnata –che si riconduce alla segnalazione n. 259 del 27.12.2016 trasmessa dal Comando di Polizia municipale di Palermo- consiste nelle seguenti opere: «ampliamento ad un immobile preesistente adibito ad attività di ristorazione denominata “AN.BI.” con realizzazione di un manufatto di mq. 40,00 circa con struttura mista di scatolato metallico con telai metallici, con tenda di copertura retraibile e chiuso da pareti laterali in PVC trasparenti e retraibili a mezzo motori…completo di impianti elettrici e di illuminazione, di impianto di telecamere e di condizionamento in forma fissa; si è accertato che la struttura è ancorata all’edificio, anche se non sono visibili i punti di ancoraggio. Tale ampliamento all'atto del sopralluogo è adibito a sala di ristorazione con arredi, tavoli e sedie. In quanto alla struttura portante del gazebo, essa è rappresentata da pilastri in ferro quindi non conforme a quanto previsto dal regolamento per l'occupazione di spazi di ristoro all'aperto…L'opera descritta in quanto ampliamento del locale preesistente, necessitava di Concessione Edilizia; peraltro non rilasciabile in quanto l'ampliamento è realizzato su suolo privato adiacente all'esercizio, che non ha indice di edificabilità».
Il Comune ritiene che il manufatto non si possa definire “gazebo” in quanto è ancorato al muro di prospetto e utilizzato come ambiente adibito alla ristorazione, aperto al pubblico con carattere permanente venendo così a mancare il requisito di precarietà e costituendo, pertanto, un ampliamento dell'unità immobiliare che richiede il relativo titolo autorizzatorio.
La società appellante, già ricorrente, richiamata copiosa giurisprudenza ritiene, invece, che il manufatto abbia tutte le caratteristiche della pergotenda, essendo costituita da una tenda retrattile montata su una struttura fissa in alluminio anodizzato e che non costituisca intervento di nuova costruzione, né di ristrutturazione edilizia e, conseguentemente, non richiede alcun permesso di costruire.
Il Tar nella sentenza appellata ha ritenuto che «il manufatto realizzato dalla società ricorrente non riveste le caratteristiche della “pergotenda”, trattandosi di una sala di ristorazione di metratura non indifferente, pari a circa mq 40, per giunta allestita su suolo pubblico, in assenza non solo del titolo edilizio ma anche di relativa autorizzazione per l’occupazione.
L’opera consiste in una struttura esterna al locale di ristorazione, ancorata all’edificio principale ed infissa al suolo, in modo da assicurare il suo uso stabile e duraturo.
La stessa, peraltro, è provvista al suo interno di arredo ed è corredata di impianti tecnologici -elettrico, d’illuminazione e di climatizzazione– nonché di pavimentazione, differente da quella preesistente del marciapiede.
Deve quindi registrarsi una evidente e significativa modifica della destinazione d’uso degli spazi esterni, da marciapiede, aperto al transito pubblico, a sala privata ad uso ristorazione
».
Il Tar ha, inoltre, specificato che il carattere precario di un manufatto vada valutato facendo riferimento non al tipo di materiali utilizzati per la sua realizzazione, ma all'uso cui lo stesso è destinato, più specificatamente, per il Tar, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, va esclusa la natura precaria dell'opera, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata. In pratica la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula, infatti, un uso specifico ma temporalmente limitato del bene scaturente dalla sua obiettiva ed intrinseca destinazione.
In pratica il Tar ritiene che l’opera in esame abbia tutti gli elementi per qualificare il manufatto quale opera stabile, sia per la struttura in sé (che include la realizzazione di pilastri e travi in ferro, per ancorarla ad un basamento di calcestruzzo) sia perché idonea ad essere destinata quale spazio fruibile in via permanente dalla clientela.
Deve riscontrarsi un’altra discrasia tra quanto ritenuto dalle parti anche in merito alla natura pubblica o privata dell’area su cui insiste il manufatto; in quanto nell’ordinanza impugnata si legge che l’ampliamento è realizzato su suolo privato adiacente all’esercizio, mentre nella sentenza impugnata si ritiene che sia stata realizzata sul marciapiede prospiciente l’attività della società ricorrente, lamentando addirittura una evidente e significativa modifica della destinazione d’uso degli spazi esterni, da marciapiede, appunto, aperto al transito pubblico, a sala privata ad uso ristorazione.
La difesa del Comune nel proprio controricorso evidenzia che nel caso di specie la struttura modifica in modo significativo la destinazione d’uso degli spazi esterni: da marciapiede aperto al pubblico a sala privata di ricevimento.
8.1. Con i motivi di appello che possono essere trattati congiuntamente l’appellante ritiene l’erroneità della sentenza per non aver dichiarato l’ordinanza impugnata illegittima per violazione dell’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001, si come recepito dalla l.r. n. 16/2016, che all’art. 3 elenca gli interventi che vanno eseguiti senza alcun titolo abilitativo, specificando alla lett. r) «l’installazione di pergolati e pergotende a copertura di superfici esterne a servizio di immobili regolarmente assentiti o regolarizzati sulla base del titolo abilitativo in sanatoria» e come anche condiviso dal Comune con la delibera di giunta municipale n. 173 del 02.09.2016 che ha fatto proprio il contenuto del suddetto articolo 3.
Inoltre la società lamenta anche eccesso di potere per carenza d’istruttoria e travisamento dei fatti.
8.2. Il Collegio ritiene che nessuna occupazione del suolo pubblico con conseguente modifica della destinazione d’uso (da marciapiede a uso esclusivo dell’attività di ristorazione) la società appellante abbia concretizzato mediante la realizzazione del manufatto in oggetto.
Ciò può essere serenamente affermato, non solo, a seguito di un’attenta lettura dell’ordinanza impugnata in primo grado che specifica che l’ampliamento è realizzato su suolo privato adiacente all’esercizio, ma anche, da quanto risulta dalla relazione tecnica, redatta dall’Arch. M.Pa. su incarico della società ricorrente, che ben spiega che i locali in cui la società svolge la propria attività risultano arretrati rispetto al marciapiede comunale per mezzo di uno spazio, di proprietà esclusiva dell’immobile di piano terra, profondo 6,20 metri e largo quanto il fronte del locale, spazio diversamente pavimentato rispetto al marciapiede.
8.3. Secondo la condivisibile giurisprudenza «(i)n materia edilizia, gli estremi per la sussumibilità di un manufatto nella categoria della pergotenda, caratterizzata dal regime di c.d. edilizia libera, si individuano nel fatto che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda» (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.02.2021, n. 1207 e Sez. VI, 05.10.2018, n. 5737).
In particolare la giurisprudenza, consolidatasi sul punto, ha ritenuto che la "pergotenda":
   1) dal punto di vista fattuale, sia una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini), installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie; essa, dunque, non si connota per la temporaneità della sua utilizzazione, piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) sotto il profilo giuridico, l’installazione di una pergotenda -tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione caratterizzante- non è un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli «interventi di nuova costruzione», che determinano una «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio»; ne consegue che una struttura leggera destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, secondo la configurazione standard propria delle pergotende, non integra tali caratteristiche;
   3) per poter configurare una struttura come “pergotenda”, occorre che la res principale sia costituita, da una tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura di supporto -per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo- deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario, per l’appunto, al sostegno e all'estensione della tenda; in altri termini, il sostegno della tenda deve consistere in elementi leggeri di sezione esigua, eventualmente imbullonati al suolo (purché facilmente disancorabili);
   4) la tenda poi, per essere considerato elemento di una "pergotenda" (e non considerarsi una "nuova costruzione"), deve essere realizzata in un materiale retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti, la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, «(o)nde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie»;
   5) inoltre, l'elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda di un materiale, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.07.2019, n. 4472; Consiglio di Stato, sez. II, 28.01.2021, n. 840; Tar per il Lazio, sede di Roma, sez. II-quater, 22.12.2017, n. 12632);
   6) infine, il Consiglio di Stato, Sez. II, 04.05.2022, n. 3488 ha chiarito che «L'elemento differenziale della cosiddetta "pergotenda", rispetto a una mera tenda retrattile, è individuabile non nell'esistenza di una struttura di supporto, laterale o frontale, rigida e leggera (solitamente in alluminio) a sostegno del telo, sé necessaria a mantenere in tensione ogni tenda esposta al vento, bensì nell'esistenza di una serie di profili rigidi (nella prassi c.d. "frangitratta"), distanziati loro di circa 50-100 centimetri, aventi la specifica funzione di dare alla copertura maggior resistenza strutturale alla formazione di sacche d'acqua o al carico nevoso accidentale (altresì consentendone la chiusura "a pacchetto", anziché a rullo), tanto da consentirne l'utilizzo a copertura di superfici notevolmente più ampie».
In pratica «(l)a pergotenda consiste tipicamente in una struttura leggera, diretta precipuamente a soddisfare esigenze che, seppure non precarie, risultano funzionali (solo) a una migliore vivibilità degli spazi esterni di un'unità già esistente, tipo terrazzi e/o giardini, poiché essenzialmente finalizzate ad attuare una protezione dal sole e dagli agenti atmosferici» (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 25.01.2017 n. 306; Tar per il Lazio, sede di Roma, sez. II-bis, 03.02.2020, n. 1439).
Passando, ora, ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame alla luce della sopra richiamata giurisprudenza, deve ritenersi che dalla documentazione prodotta dalle parti, ivi compresa quella fotografica, emerge che la struttura realizzata presenta le riferite caratteristiche individuate in giurisprudenza come parametro per la riconducibilità di un’opera al novero degli interventi di edilizia tout court libera (ossia senza oneri di previa comunicazione dell'installazione all'autorità comunale).
Il manufatto realizzato dalla società appellante, infatti, risulta utilizzato per le finalità proprie della pergotenda, e cioè come elemento di protezione dal sole, dagli agenti atmosferici, funzionale a una migliore fruizione dello spazio esterno di un immobile, gli elementi verticali sono in alluminio anodizzato scatolare che alla base sono tassellati alla pavimentazione, mediante una piastra bullonata alla pavimentazione esistente (e non ancorata ad un basamento di calcestruzzo come erroneamente ritenuto in sentenza) mentre la tenda è tassellata al prospetto.
La struttura siffatta ben può essere considerata puro elemento accessorio e necessario al sostegno della tenda di copertura, gli elementi verticali in alluminio presenti non snaturano la natura della pergotenda, atteso che «L'installazione di una tenda retrattile montata su una struttura fissa in alluminio anodizzato (pergotenda) non costituisce intervento di nuova costruzione, né di ristrutturazione edilizia, e, conseguentemente, non richiede il permesso di costruire» (Cons. Stato Sez. VI, 25/01/2017, n. 306; Cons. Stato Sez. VI, 27/04/2016, n. 1619).
8.4. Tra l’altro la struttura in discorso può essere annoverata tra le opere “precarie” che consentono di chiudere terrazze e verande, disciplinate in Sicilia dall’art. 20 della l.r. n. 4/2003, secondo cui «(i)n deroga ad ogni altra disposizione di legge, non sono soggette a concessioni e/o autorizzazioni né sono considerate aumento di superficie utile o di volume né modifica della sagoma della costruzione la chiusura di terrazze di collegamento oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie, ferma restando l'acquisizione preventiva del nulla osta da parte della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali nel caso di immobili soggetti a vincolo».
La struttura realizzata dall’appellante ha una superficie di 39 metri quadrati circa ed è precaria (nel senso indicato dai pareri n. 771 del 03.09.2015, n. 105 dell’01.04.2020 e n. 256 del 25.05.2022, espressi dalle Sezioni riunite di questo CGA), essendo ancorata al suolo e non fissata con opere cementizie non rimovibili se non mediante azioni demolitorie (e, quindi, è “smontabile”).
9. Infine, la sentenza appellata ha ritenuto che il carattere precario di un manufatto deve essere valutato non con riferimento al tipo di materiali utilizzati per la sua realizzazione, ma con riguardo all'uso cui lo stesso è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria dell'opera, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata.
Sul punto la società appellante ha eccepito altra erroneità della decisione appellata, in quanto la pergotenda proprio perché caratterizzata da una struttura leggera e rimovibile, è diretta a soddisfare esigenze funzionali ad una migliore vivibilità degli spazi esterni di unità preesistenti anche se non precarie; in ogni caso l’assunto della destinazione stabile del manufatto ad attività di ricezione della clientela non risulta provato né in corso di istruttoria amministrativa condotta dal Comune né in corso del giudizio di primo grado.
L’appellante rileva che dall'esame del fascicolo della amministrazione, visionato a seguito di istanza di accesso agli atti, risulta che l’unico elemento su cui si fonda tale assunto del carattere non precario dell’utilizzo del bene sia dato da alcune foto scattate durante il sopralluogo del 28.10.2016 dalle quali non risulta in alcun modo che vi fossero clienti e che la pergotenda fosse, quindi, utilizzata e da altre foto scattate il 10.12.2016 alle ore 3.00 di notte anche in questo caso non risulta la presenza di clienti che cenassero all'interno della pergotenda.
Questo Collegio ritiene che "quand’anche dovesse escludersi la c.d. temporaneità o precarietà, l’opera può essere ritenuta ugualmente legittima, in quanto la struttura in esame, ha sempre e comunque carattere pertinenziale e meramente accessorio rispetto all’immobile cui afferisce, in quanto non muta il preesistente utilizzo esterno dei luoghi limitandosi a valorizzarne la fruizione dello spazio privato adiacente all’immobile, ponendo un riparo temporaneo dal sole, dalla pioggia, dal vento senza avere la pretesa di creare un ambiente assimilabile a quello interno, proprio perché carente di adeguata coibentazione termica e dai connessi fenomeni di condensazione” (Cons. Stato, Sez. II, 28.01.2021, n. 840; Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2021, n. 3393).
10. Si ritiene, pertanto, che l’appello possa essere accolto (CGARS, sentenza 28.03.2024 n. 232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha spiegato che
   - “Non può riconoscersi natura pertinenziale ad una tettoia di rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, e che dunque, indipendentemente dall'eventuale vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa, non può considerarsi, dal punto di vista urbanistico, sua pertinenza”; ed ancora
   - “Gli interventi consistenti nell'installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire solo ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture necessitano del permesso di costruire quando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione dell'edificio e alle parti dello stesso su cui vengono inserite o, comunque, una durevole trasformazione del territorio con correlato aumento del carico urbanistico.
Alle condizioni descritte, infatti, la tettoia costituisce una nuova costruzione assoggettata al regime del permesso di costruire”.
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Va condivisa la giurisprudenza secondo la quale la pergotenda si caratterizza per essere un’opera precaria dal punto di vista sia costruttivo, sia funzionale, avente dimensioni contenute e non comportante l’aumento di unità immobiliari, la modifica del volume, della sagoma, dei prospetti e/o delle superfici, ovvero mutamenti della destinazione d'uso.
Deve essere quindi finalizzata alla protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, alla migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa quale mero elemento accessorio e di arredo.
Strutturalmente deve essere costituita da struttura leggera e amovibile, caratterizzata da elementi in metallo o in legno di esigua sezione, coperta da telo anche retrattile, stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non per demolizione.
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A. Con atto notificato il 06.07.2023 e depositato il 2 agosto seguente, -OMISSIS- in proprio e nella qualità di socia e amministratrice della società che gestisce il ristorante-pizzeria denominato -OMISSIS-, all’interno del cortile del fabbricato sito in via -OMISSIS- ha impugnato al fine dell’annullamento previa sospensione cautelare, l’ordinanza -OMISSIS-, notificata in data 08.05.2023, con la quale il Comune di Niscemi le ha ingiunto la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi con riguardo alle opere realizzate in assenza di permesso di costruire in zona A2 Centro storico, consistenti in una “struttura in metallo bullonata a suolo e alle pareti laterali, la quale risulta ancorata e chiusa dai due lati con pareti dell'edificio circostante mentre gli altri due lati risultano chiusi con tende scorrevoli PVC, l’ingresso a tale struttura è consentito attraverso due porte in metallo e vetro, la copertura è realizzata in metallo e telo PVC, motorizzata per chiusura e apertura; la restante parte del cortile risulta chiuso da una copertura leggera in policarbonato e metallo ancorato al muro esterno prospiciente lungo la -OMISSIS-.
Le dimensioni di detta struttura risultano mt. 7.00 x 15.80 mt, con tetto a falda per un’altezza max di 3.90 mt ed altezza min di circa 2.60 mt. L’area all’interno della struttura risulta attrezzata con tavoli e sedie per un numero di circa 80 coperti, con impianti di climatizzazione e un bancone adibito a bar
.”
...
B. Il ricorso è infondato.
Nel caso di specie, non è in discussione che l’istallazione di una pergotenda sia astrattamente inquadrabile tra l’attività di edilizia libera di cui all’art. 3 della L.R. Sicilia n. 16/2016 che, alla lett. r), indica tra gli interventi non necessitanti di titolo edilizio: “r) l'installazione di pergolati, pergotende ovvero gazebi costituiti da elementi assemblati tra loro di facile rimozione a servizio di immobili regolarmente assentiti o regolarizzati sulla base di titolo abilitativo in sanatoria”, bensì se la struttura de qua sia in concreto qualificabile come pergotenda e dunque assoggettabile al relativo regime edilizio.
La descrizione dell’opera contenuta nel provvedimento impugnato appare conforme alla documentazione fotografica probatoria esibita dal Comune di Niscemi che non lascia adito a dubbi in ordine alla natura degli elementi costruttivi, dei materiali utilizzati e delle dimensioni della struttura in metallo pari a 7 metri per 15,80 metri, con tetto a falda per un’altezza massima di 3,90 metri e altezza minima di circa 2.60 metri che appare stabilmente ancorata al suolo e addossata su due lati alle pareti dell’edificio circostante, mentre l’elemento della tenda in PVC è presente soltanto sui restanti due lati perimetrali, sui quali sono presenti porte realizzate in metallo e vetro ossia materiali non leggeri e non facilmente amovibili.
Tenuto conto della sua consistenza e articolazione strutturale, nonché della sua destinazione funzionale, essa appare non precaria e idonea a creare un nuovo volume; inoltre, appare visibile dalla via pubblica alterando il prospetto e la sagoma del fabbricato; sempre sotto il profilo funzionale, lo spazio chiuso ricavato dalla struttura è l’area in cui è gestita stabilmente l’attività di erogazione dei pasti per n. 80 coperti e non già uno spazio pertinenziale ove, occasionalmente, viene intrattenuta la clientela.
Ne consegue che l’unico elemento riconducibile alla tipologia della pergotenda è la copertura retraibile e motorizzata che, tuttavia, in ragione delle dimensioni, delle caratteristiche e delle finalità della struttura nel suo complesso non può essere considerato sufficiente per condividere la definizione giuridica prospettata da parte ricorrente.
La giurisprudenza ha infatti spiegato che “Non può riconoscersi natura pertinenziale ad una tettoia di rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, e che dunque, indipendentemente dall'eventuale vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa, non può considerarsi, dal punto di vista urbanistico, sua pertinenza” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 03/11/2022, n. 9656); ed ancora: “Gli interventi consistenti nell'installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire solo ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture necessitano del permesso di costruire quando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione dell'edificio e alle parti dello stesso su cui vengono inserite o, comunque, una durevole trasformazione del territorio con correlato aumento del carico urbanistico. Alle condizioni descritte, infatti, la tettoia costituisce una nuova costruzione assoggettata al regime del permesso di costruire” (v. TAR Campania, Salerno, II, 15/03/2021, n. 658; conforme, TAR Campania, Napoli, IV, 14.05.2020, n. 1802).
Va perciò condivisa, riguardo al caso di specie, la giurisprudenza citata secondo la quale la pergotenda si caratterizza per essere un’opera precaria dal punto di vista sia costruttivo, sia funzionale, avente dimensioni contenute e non comportante l’aumento di unità immobiliari, la modifica del volume, della sagoma, dei prospetti e/o delle superfici, ovvero mutamenti della destinazione d'uso; deve essere quindi finalizzata alla protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, alla migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa quale mero elemento accessorio e di arredo; strutturalmente deve essere costituita da struttura leggera e amovibile, caratterizzata da elementi in metallo o in legno di esigua sezione, coperta da telo anche retrattile, stuoie in canna o bambù o materiale in pellicola trasparente, priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non per demolizione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. IV, sentenza 26.03.2024 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACampi da padel come nuove costruzioni.
La realizzazione di un campo di padel, così come la conversione di un campo da tennis in un campo da padel, costituisce una «nuova costruzione», per la cui realizzazione è necessario il permesso di costruire.

Lo ha affermato la III Sez. penale della Corte di Cassazione che con la sentenza 22.03.2024 n. 11999 dichiarando inammissibile un ricorso ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Il caso trae origine da un'ordinanza del tribunale del riesame di Palermo che rigettava la richiesta di riesame avanzata dalla difesa dell'imputato avverso il decreto di sequestro preventivo di due campi da «padel» realizzati in Cefalù in zona vincolata paesaggisticamente e sismicamente e con destinazione d'uso «verde agricolo», in relazione all'imputazione di cui all'articolo 44 dpr 380/2001.
La Suprema corte non ha condiviso i diversi profili di doglianza articolati dal ricorrente coi due motivi di ricorso. Il collegio ha evidenziato come il regime autorizzativo relativo alla realizzazione di campi di padel non è quello invocato dal ricorrente.
Osserva la Corte, infatti, che la realizzazione di un campo di padel costituisce intervento che, per le sue caratteristiche complessive, connotate per l'installazione su apposita superficie, funzionale alla peculiare attività sportiva, di carpenteria e lastre di vetro perimetrali, incide sul territorio in termini di modifica del medesimo, e come tale rientra nel novero degli «interventi di nuova costruzione» di cui all'art. 3, lett. e), dpr 06.06.2001, n. 380.
Si tratta di rilievi secondo i quali il dpr n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e), assoggetta a permesso di costruire non soltanto le attività di edificazione, ma anche altre attività che, pur non integrando interventi edilizi in senso stretto, comportano comunque una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica.
Inoltre, secondo la Corte la circostanza secondo cui, come nel caso di specie, i campi di padel vadano a sostituire dei preesistenti campi da tennis, è ininfluente.
Invero, il collegio ha condiviso quella giurisprudenza amministrativa (Tar Sicilia, sez. 2, sent. n. 265/2021), secondo cui la realizzazione dei campi di padel, essendo una trasformazione edilizia del terreno (stante la realizzazione di un'opera di scavo e di un basamento in calcestruzzo in grado di incidere in modo definitivo sulla permeabilità del suolo), non può essere compatibile con la destinazione a zona agricola del terreno ospitante (articolo ItaliaOggi del 30.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: per realizzare un campo da padel serve il permesso di costruire. Il principio vale anche se si tratta di trasformare un preesistente impianto dedicato al tennis.
Serve il permesso di costruire per realizzare un campo da padel. Dopo la giustizia amministrativa a ribadire il principio arriva anche la Corte di Cassazione
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Con la sentenza 22.03.2024 n. 11999 i giudici della Suprema hanno respinto il ricorso presentato dal proprietario contro il sequestro di due impianti realizzati sulla base di una semplice Scia in una zona a vincolo paesaggistico e destinata a verde agricolo (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.03.2024).
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SENTENZA
3. Limitato, pertanto, lo scrutinio alla sola violazione di legge, il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
3.1. Preliminarmente, occorre evidenziare ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico dell'edilizia, si configurano come interventi di ristrutturazione edilizia quelli volti a trasformare gli organismi edilizi per mezzo di un insieme di opere che possono portare ad un organismo diverso (tutto o in parte) da quello precedente.
Questi interventi comprendono:
   - il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio;
   - l'eliminazione/la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
   - la demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche;
   - il ripristino di edifici (o parti di essi) crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Tutti gli interventi che ricadono nella definizione di ristrutturazione appena esplicitata, ma che non rientrano negli interventi subordinati a permesso di costruire (art. 10, comma 1, lett. c), configurano la c.d. «ristrutturazione edilizia leggera».
L'articolo 10, comma 1, lettera c), del testo unico, a sua volta, prevede che siano sottoposti a permesso di costruire c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e, inoltre, gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142, del medesimo codice di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle medesime aree, in entrambi i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del sedime o delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente oppure siano previsti incrementi di volumetria.
Per gli interventi di ristrutturazione edilizia «leggera» è necessaria la presentazione della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) ai sensi dell'art. 22 D.P.R. 380/2001, la cui assenza è sottoposta a sanzione amministrativa (ex art. 37 d.P.R. 380/2001).
Viceversa, per gli interventi di ristrutturazione edilizia «pesante» (art. 10, c. 1, lettera d), e 10, c. 1, lettera c), e gli interventi di «nuova costruzione» (art. 3, c. 1, lettera e), e 10, c. 1, lettera a), è richiesto il permesso di costruire.
3.2. Ciò premesso, il Collegio evidenzia come il regime autorizzativo relativo alla realizzazione di campi di Padel non sia quello invocato dal ricorrente.
Si è infatti chiarito (Sez. 3, n. 41182 del 20/10/2021, Morello, n.nn., richiamata anche dall'ordinanza impugnata) che
la realizzazione di un campo di padel costituisce intervento che, per le sue caratteristiche complessive, connotate per l'installazione su apposita superficie, funzionale alla peculiare attività sportiva, di carpenteria e lastre di vetro perimetrali, incide sul territorio in termini di modifica del medesimo, e come tale rientra nel novero degli «interventi di nuova costruzione» di cui all'art. 3, lett. e), D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Si tratta di rilievi conformi al consolidato insegnamento di legittimità secondo il quale il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e), assoggetta attualmente a permesso di costruire non soltanto le attività di edificazione, ma anche altre attività che, pur non integrando interventi edilizi in senso stretto, comportano comunque una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica
(cfr. Sez. 3, n. 28457 del 30/04/2009 Rv. 244569 - 01; Sez. 3, n. 14044 del 22/03/2005 Rv. 231522 - 01.).
3.3. Tale impostazione è conforme a quella della giurisprudenza amministrativa, che, sia pure non nella sua massima composizione, ha avuto recentemente modo di confrontarsi con la tematica, divenuta pressante in ragione della crescente popolarità dello sport in questione.
TAR Piemonte, sez. 2, n. 223 del 08/03/2023 (dep. 13/03/2023), ad esempio, ha chiarito che
le opere in questione hanno caratteristiche tali da comportare una «trasformazione significativa e permanente del territorio», risultando quindi soggette al preventivo rilascio di apposito titolo edilizio, nonché all'acquisizione dell'apposita autorizzazione paesaggistica e sismica.
Del pari, TAR Lazio, n. 607 del 24/07/2023, ha affermato che
la realizzazione di un impianto sportivo in zona agricola configura violazione dell'art. 44, lett. b), DPR 06.06.2001, n. 3804, in considerazione del fatto che la realizzazione di strutture sportive è consentita su aree destinate ad attività sportiva, con la presentazione di SUA, ma senza creazione di volumetria e comunque mai nelle zone aventi destinazione agricola.
3.4. Va doverosamente aggiunto che la circostanza secondo cui, come nel caso di specie, i campi di padel vadano a sostituire dei preesistenti campi da tennis, è ininfluente.
Ed infatti, il Collegio condivide e ribadisce quella giurisprudenza amministrativa (TAR Sicilia, sez. 2, sent. n. 265 del 08/10/2021, dep. 22/11/2021), secondo cui
la realizzazione dei campi di padel, essendo una trasformazione edilizia del terreno (stante la realizzazione di un'opera di scavo e di un basamento in calcestruzzo in grado di incidere in modo definitivo sulla permeabilità del suolo), non può essere compatibile con la destinazione a zona agricola del terreno ospitante.
Nella circostanza, i giudici amministrativi hanno evidenziato che
i campi di padel si differenziano dai campi da tennis e da calcio in quanto, mentre in questi ultimi occorre un mero movimento terra, senza mutare le caratteristiche originarie di permeabilità del suolo, per la realizzazione dei campi di padel è necessaria la realizzazione di un massetto di cemento (di circa 10/12 cm) ove allocare il tappeto in fibra sintetica e la posa in opera delle barriere in vetro temperato (alte oltre 3 mt.).
Va pertanto espresso i l principio secondo cui la realizzazione di un campo di padel, così come la conversione di un campo da tennis in un campo da padel, costituisce una «nuova costruzione», per la cui realizzazione è necessario il permesso di costruire.

3.5. La motivazione addotta dal Tribunale del riesame -secondo cui
l'intervento edilizio necessitava di permesso di costruire poiché, «per le sue caratteristiche complessive, connotate per l'installazione su apposita superficie, funzionale alla peculiare attività sportiva, di carpenteria e lastre di vetro perimetrali, incide sul territorio in termini di modifica del medesimo, e come tale rientra nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), D.P.R. 06.06.2001, n. 380»- è pertanto conforme alla giurisprudenza della Corte, e non può quindi dirsi né apparente, né adottata in violazione di legge (Corte di Cassazione, III Sez. penale, sentenza 22.03.2024 n. 11999).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati paesaggistici, l'accertamento in fatto della riconducibilità degli interventi eseguiti in area sottoposta a vincolo paesaggistico nel novero di quelli non soggetti ad autorizzazione, di cui all'allegato A al d.P.R. 13.02.2017, n. 31, o di quelli di lieve entità sottoposti a procedimento autorizzatorio semplificato, di cui all'allegato B del citato d.P.R., deve essere condotto attenendosi ad un'interpretazione logico-sistematica di carattere finalistico delle disposizioni regolamentari, valevole a determinare l'applicazione delle disposizioni derogatorie previste dal decreto in oggetto ai soli interventi di lieve entità, tali essendo quelli che, per tipologia, caratteristiche e contesto in cui si inseriscono, non sono idonei a pregiudicare i valori paesaggistici tutelati dal vincolo.
La regola generale di cui all'art. 146 d.lgs. 42/2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio), che prescrive che ogni intervento che comporti modificazioni o rechi pregiudizio all'aspetto esteriore delle aree vincolate e soggetto al previo dell'autorizzazione paesaggistica, consacrata in una fonte di rango primario, non può certamente essere derogata da una fonte di rango secondario, quale è il suddetto regolamento n. 31 del 2017, che è di attuazione e non di delegificazione, e dunque non può liberalizzare interventi che per la norma di rango primario sono assoggettati ad autorizzazione.
Ne consegue che l'accertamento, in punto di fatto, della riconducibilità degli interventi eseguiti in area sottoposta a vincolo nel novero di quelli non soggetti ad autorizzazione (cioè quelli di cui all'elenco allegato sub A al citato d.P.R. 31/2017) o di quelli di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato (di cui all'elenco allegato sub B del medesimo regolamento), deve essere condotto attenendosi a una interpretazione logico sistematica di carattere finalistico delle disposizioni del regolamento.
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Secondo il costante orientamento di questa Corte, il rilascio postumo dell'autorizzazione paesaggistica al di fuori dei limiti in cui essa è consentita ai sensi dell'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente la sanatoria urbanistica ex art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e non produce alcun effetto estintivo dei reati edilizi né preclude l'emissione dell'ordine di rimessione in pristino dell'immobile abusivo edificato in zona vincolata.
Poiché l'autorizzazione paesaggistica, secondo l'art. 146, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004, costituisce un atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, lo stesso permesso di costruire resta subordinato al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica la quale, però, sempre secondo la norma richiamata, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, tranne nei casi dei c.d. «abusi minori», tassativamente individuati dall'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004.
Parimenti, si è altresì affermato che il rispetto del requisito della conformità delle opere sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione che a quella vigente al momento della presentazione della domanda di regolarizzazione (cd. «doppia conformità»), richiesto ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex artt. 36 e 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è da ritenersi escluso nel caso di edificazioni eseguite in assenza del preventivo ottenimento dell'autorizzazione sismica.
Inoltre, il permesso di costruire, eventualmente rilasciato (nei limiti di cui si è detto) a seguito di accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380), estinguerebbe i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non estingue, invece, i reati disciplinati dalla normativa antisismica e sulle opere in conglomerato cementizio.
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3.6. Del resto, il rilevante impatto dell'intervento edilizio in parola va riferito non solo al profilo urbanistico, ma anche a quello paesaggistico.
3.6.1. Premesso che è incontestata l'esistenza del vincolo paesaggistico (e la Corte ignora a che titolo sarebbe stato ottenuto il "nulla-osta" paesaggistico invocato dal ricorrente), va ribadito il principio per cui, in tema di reati paesaggistici, l'accertamento in fatto della riconducibilità degli interventi eseguiti in area sottoposta a vincolo paesaggistico nel novero di quelli non soggetti ad autorizzazione, di cui all'allegato A al d.P.R. 13.02.2017, n. 31, o di quelli di lieve entità sottoposti a procedimento autorizzatorio semplificato, di cui all'allegato B del citato d.P.R., deve essere condotto attenendosi ad un'interpretazione logico-sistematica di carattere finalistico delle disposizioni regolamentari, valevole a determinare l'applicazione delle disposizioni derogatorie previste dal decreto in oggetto ai soli interventi di lieve entità, tali essendo quelli che, per tipologia, caratteristiche e contesto in cui si inseriscono, non sono idonei a pregiudicare i valori paesaggistici tutelati dal vincolo (Sez. 3, n. 36545 del 14/09/2022, Montinaro, Rv. 284312 - 01).
La regola generale di cui all'art. 146 d.lgs. 42/2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio), che prescrive che ogni intervento che comporti modificazioni o rechi pregiudizio all'aspetto esteriore delle aree vincolate e soggetto al previo dell'autorizzazione paesaggistica, consacrata in una fonte di rango primario, non può certamente essere derogata da una fonte di rango secondario, quale è il suddetto regolamento n. 31 del 2017, che è di attuazione e non di delegificazione, e dunque non può liberalizzare interventi che per la norma di rango primario sono assoggettati ad autorizzazione.
Ne consegue che l'accertamento, in punto di fatto, della riconducibilità degli interventi eseguiti in area sottoposta a vincolo nel novero di quelli non soggetti ad autorizzazione (cioè quelli di cui all'elenco allegato sub A al citato d.P.R. 31/2017) o di quelli di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato (di cui all'elenco allegato sub B del medesimo regolamento), deve essere condotto attenendosi a una interpretazione logico sistematica di carattere finalistico delle disposizioni del regolamento (Sez. 3, n. 7538 del 11/01/2024, Gervasi, n.m.).
Nel caso in esame, non può che sottolinearsi l'assenza, negli elenchi di cui ai d.P.R. 31/2017 (relativo alla c.d. autorizzazione paesaggistica «semplificata»), degli interventi relativi alle attrezzature sportive, per le richieste relative ai campi di padel, e, più in generale, per gli impianti sportivi, evidenzia da cui non può che trarsi la conclusione che ad essi non si possono applicare le semplificazioni introdotte dal citato decreto, anche considerando che, con ogni evidenza, la realizzazione di tali campi non possa essere considerata di impatto paesaggistico lieve (All. B) o lievissimo (All. A) ai sensi del citato decreto, in tal modo confermando la rilevanza dell'intervento edilizio.
Peraltro, per quello che può valere, l'interpretazione sostenuta dal Collegio è anche corroborata dal Ministero della Cultura - Direzione Generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio (parere n. 62/2021, allegato al ricorso).
3.6.2. Va poi ricordato che secondo il costante orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 3258 del 10/01/2023, Nava, n.m.; Sez. 3, n. 544 del 01/12/2022, dep. 2023, Morello, n.m.; Sez. 3, n. 190 del 12/11/2020, dep. 2021, Susana, Rv. 281131 - 01) il rilascio postumo dell'autorizzazione paesaggistica al di fuori dei limiti in cui essa è consentita ai sensi dell'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente la sanatoria urbanistica ex art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e non produce alcun effetto estintivo dei reati edilizi né preclude l'emissione dell'ordine di rimessione in pristino dell'immobile abusivo edificato in zona vincolata.
Poiché l'autorizzazione paesaggistica, secondo l'art. 146, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004, costituisce un atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, lo stesso permesso di costruire resta subordinato al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica la quale, però, sempre secondo la norma richiamata, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, tranne nei casi dei c.d. «abusi minori», tassativamente individuati dall'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004.
Parimenti, si è altresì affermato che il rispetto del requisito della conformità delle opere sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione che a quella vigente al momento della presentazione della domanda di regolarizzazione (cd. «doppia conformità»), richiesto ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex artt. 36 e 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è da ritenersi escluso nel caso di edificazioni eseguite in assenza del preventivo ottenimento dell'autorizzazione sismica (Sez. 3, n. 2357 del 14/12/2022 (dep. 2023), Casà, Rv. 284058. Conf. Sez. 3, n. 41872 del 09/06/2023, Tummolo Rv. 285222, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 18267 del 13/04/2023, Pepe, Rv. 284612, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 29179 del 16/02/2023, Carceo, n.m.).
Inoltre, il permesso di costruire, eventualmente rilasciato (nei limiti di cui si è detto) a seguito di accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380), estinguerebbe i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non estingue, invece, i reati disciplinati dalla normativa antisismica e sulle opere in conglomerato cementizio (Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792; Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212 - 01), applicabile nel caso di specie stante quanto dianzi evidenziato.
3.7. Il motivo è, conclusivamente, manifestamente infondato (Corte di Cassazione, III Sez. penale, sentenza 22.03.2024 n. 11999).

EDILIZIA PRIVATA: Le c.d. «circolari interpretative» hanno natura di atti interni alla pubblica amministrazione, che non esplicano alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo.
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L
'art. 71 d.lgs. 117/2017 (secondo cui «le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica») stabilisce il principio della c.d. «indifferenza urbanistica», ossia della possibilità data agli enti del terzo settore di usufruire di qualsiasi locale a prescindere dalla sua destinazione d'uso, per ivi stabilire la propria sede legale, centro di svolgimento dell'attività istituzionale.
Per valutarne la portata, occorre partire dal richiamo alle finalità perseguite dalla legge delega per la riforma del terzo settore, la n. 106/2016, ed esplicitate all'art. 1 della medesima.
In particolare, il legislatore, con la riforma del terzo settore, ha voluto, in attuazione del principio di "sussidiarietà orizzontale" (art. 118 u.c. Costituzione), promuovere e favorire le associazioni private che realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi.
È alla luce di tale ratio legis che deve essere interpretata la disposizione in parola: essa stabilisce una specifica tutela degli spazi utilizzati dagli enti del terzo settore per lo svolgimento delle attività di interesse generale, contro possibili scelte urbanistiche degli enti locali che potrebbero incidere negativamente su tali attività.
In altri termini, come già affermato dalla giurisprudenza amministrativa, in considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, lo Stato consente che le relative sedi e i locali adibiti all'attività sociale siano localizzabili in tutte le parti del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla destinazione d'uso edilizio ad esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo.
Dalle considerazioni svolte, si evince che l'art. 71, comma 1, d.lgs. 117/2017 non è una disposizione urbanistica «stricto sensu», non avendo a oggetto il governo o la regolazione del territorio in sé; si limita piuttosto a prevedere un trattamento speciale in favore di certe categorie soggetti, non già a disciplinare l'uso del territorio in quanto tale.
Pertanto, il comma in parola si qualifica come una norma di natura derogatoria alla disciplina urbanistica e non come una norma con natura urbanistica vera e propria.
Da ciò consegue che la norma in parola facoltizza l'«utilizzo» di beni, anche se realizzati in modo difforme alla destinazione urbanistica, consentendo un «temporaneo» cambio di destinazione d'uso dei locali in cui si svolgono le attività istituzionali degli enti del Terzo Settore, che cesserebbe con il venire meno di uno dei requisiti, ma certamente non può intendersi nel senso di consentire in via generalizzata «nuove costruzioni» in assenza del rilascio dell'apposito titolo edilizio.
La stessa giurisprudenza amministrativa, del resto, riconosce pur sempre all'amministrazione il potere di vagliare profili inerenti l'aggravio del carico urbanistico, ovvero elementi significativi quali la dotazione del titolo edilizio per gli interventi di trasformazione, o i requisiti igienico-sanitari.
Inoltre, l'attuale tenore della norma sostituisce alla precedente definizione (che genericamente parlava di «attività» senza specificare se vi fosse distinzione tra quelle di promozione sociale e quelle «svolte in maniera ausiliaria e sussidiaria» di cui all'articolo 4, comma 1, lett. f), quella, alquanto più ristretta, di «attività istituzionali purché non di tipo produttivo», escludendone quindi, oltre a queste ultime se a carattere produttivo, anche le attività «non istituzionali», che pertanto non potranno beneficiarne anche qualora siano strumentali alle prime.
Per le c.d. «imprese sociali», poi, giacché esse esercitano in via stabile e principale un'attività di impresa, sia pure di interesse generale, va escluso che si possa definire l'attività svolta dall'impresa sociale come «non produttiva» e, per l'effetto, la possibilità stessa di usufruire dell'effetto derogatorio stabilito dall'articolo 71 d.lgs. 117/2017.
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4. Il profilo di censura relativo alla presunta appartenenza della società destinataria dell'opera al c.d. "terzo settore", è inammissibile.
4.1. In primo luogo, si contesta una motivazione esistente, e quindi il motivo è inammissibile ex art. 325 cod. proc. pen..
4.2. In secondo luogo, il motivo è manifestamente infondato per le ragioni di seguito indicate.
4.2.1. Il Tribunale del riesame correttamente evidenzia che l'articolo 71 d.lgs. 117/2017 «non può essere inteso come una deroga generalizzata alle disposizioni in materia di titoli abilitativi edilizi o come una autorizzazione preventiva a qualsiasi attività costruttiva eseguita per iniziativa degli enti del terzo settore, nel quale peraltro la società che risulta avere l'uso dei campi neppure rientra, avendo solo inoltrato domanda per l'iscrizione nel relativo registro».
Come appare evidente, il Tribunale palermitano fonda la sua motivazione su due ordini di ragioni: l'impossibilità di intendere la disposizione in parola come deroga generalizzata all'obbligo di acquisire il titolo edilizio, e l'assenza (attuale) della qualifica di ETS (ente del terzo settore) in capo alla «Eg.Sp. s.r.l.».
4.2.2. Il secondo profilo, che avrebbe già efficacia assorbente, non può in alcun modo essere censurato di illogicità, essendo conforme al principio di logica comune secondo cui, se una attività è condizionata alla sussistenza di un requisito di tipo oggettivo, non è sufficiente l'avvio di una pratica istruttoria per il relativo conseguimento al fine di beneficiare del regime agevolato, ma è necessario il possesso attuale del requisito (nel caso di specie, la qualifica di ETS).
Tale soluzione ermeneutica è anche confortata (pur evidenziandosi che le c.d. «circolari interpretative» hanno natura di atti interni alla pubblica amministrazione, che non esplicano alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo; v. Sez. 3, n. 6619 del 07/02/2012, Zannpano, Rv. 252541; Sez. 3, n. 19330 del 27/04/2011, Santoriello, non massimata, con riferimento alla circolare ministeriale n. 2699 del 07.12.2005 in materia di condono edilizio; Sez. U, n. 10424 del 18/01/2018, Del Fabro, non massimata sul punto, in tema di contributi previdenziali) da quanto stabilito dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali che, nella nota esplicativa nr. 34/17314 del 17.11.2022, afferma che il regime di favor «è applicabile solo agli enti qualificati nei termini sopra descritti, dal momento in cui la qualifica è acquisita e fintanto che essa sussiste».
4.2.3. Quanto al primo profilo, poi, l'articolo in parola («le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 02.04.1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica») stabilisce il principio della c.d. «indifferenza urbanistica», ossia della possibilità data agli enti del terzo settore di usufruire di qualsiasi locale a prescindere dalla sua destinazione d'uso, per ivi stabilire la propria sede legale, centro di svolgimento dell'attività istituzionale.
Per valutarne la portata, occorre partire dal richiamo alle finalità perseguite dalla legge delega per la riforma del terzo settore, la n. 106/2016, ed esplicitate all'art. 1 della medesima.
In particolare, il legislatore, con la riforma del terzo settore, ha voluto, in attuazione del principio di "sussidiarietà orizzontale" (art. 118 u.c. Costituzione), promuovere e favorire le associazioni private che realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi.
È alla luce di tale ratio legis che deve essere interpretata la disposizione in parola: essa stabilisce una specifica tutela degli spazi utilizzati dagli enti del terzo settore per lo svolgimento delle attività di interesse generale, contro possibili scelte urbanistiche degli enti locali che potrebbero incidere negativamente su tali attività.
In altri termini, come già affermato dalla giurisprudenza amministrativa, in considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, lo Stato consente che le relative sedi e i locali adibiti all'attività sociale siano localizzabili in tutte le parti del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla destinazione d'uso edilizio ad esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo (Cons. Stato, Sez. 6, n. 3803 del 25/06/2020; TAR Lombardia, Sez. Milano, n. 1269 del 01/07/2020; TAR Abruzzo, n. 519 del 25/10/2019).
Dalle considerazioni svolte, si evince che l'art. 71, comma 1, d.lgs. 117/2017 non è una disposizione urbanistica «stricto sensu», non avendo a oggetto il governo o la regolazione del territorio in sé; si limita piuttosto a prevedere un trattamento speciale in favore di certe categorie soggetti, non già a disciplinare l'uso del territorio in quanto tale (così Consiglio di Stato, sez. V, n. 1737 del 10.03.2021).
Pertanto, il comma in parola si qualifica come una norma di natura derogatoria alla disciplina urbanistica e non come una norma con natura urbanistica vera e propria.
Da ciò consegue che la norma in parola facoltizza l'«utilizzo» di beni, anche se realizzati in modo difforme alla destinazione urbanistica, consentendo un «temporaneo» cambio di destinazione d'uso dei locali in cui si svolgono le attività istituzionali degli enti del Terzo Settore, che cesserebbe con il venire meno di uno dei requisiti, ma certamente non può intendersi nel senso di consentire in via generalizzata «nuove costruzioni» in assenza del rilascio dell'apposito titolo edilizio.
La stessa giurisprudenza amministrativa, del resto, riconosce pur sempre all'amministrazione il potere di vagliare profili inerenti l'aggravio del carico urbanistico, ovvero elementi significativi quali la dotazione del titolo edilizio per gli interventi di trasformazione, o i requisiti igienico-sanitari (Consiglio di Stato, sez. 5, n. 1737 del 01/03/2021; Cons. Stato, Sez. 6, n. 7350 del 28/10/2019).
4.2.4. Inoltre, l'attuale tenore della norma sostituisce alla precedente definizione (che genericamente parlava di «attività» senza specificare se vi fosse distinzione tra quelle di promozione sociale e quelle «svolte in maniera ausiliaria e sussidiaria» di cui all'articolo 4, comma 1, lett. f), quella, alquanto più ristretta, di «attività istituzionali purché non di tipo produttivo», escludendone quindi, oltre a queste ultime se a carattere produttivo, anche le attività «non istituzionali», che pertanto non potranno beneficiarne anche qualora siano strumentali alle prime.
Per le c.d. «imprese sociali», poi, giacché esse esercitano in via stabile e principale un'attività di impresa, sia pure di interesse generale, va escluso che si possa definire l'attività svolta dall'impresa sociale come «non produttiva» e, per l'effetto, la possibilità stessa di usufruire dell'effetto derogatorio stabilito dall'articolo 71 d.lgs. 117/2017.
Tale è proprio il caso sussistente nel caso in parola, essendo la «Eg.Sp.» costituita sotto forma di s.r.l..
Anche in questo caso, la soluzione adottata dal Collegio è corroborata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che, con nota esplicativa n. 3959 del 22.03.2021 (se pur non rilevante alla luce della precitata giurisprudenza), giunge alle medesime conclusioni.
Per tutte le ragioni dianzi esposte il motivo è da ritenersi inammissibile (Corte di Cassazione, III Sez. penale, sentenza 22.03.2024 n. 11999).

EDILIZIA PRIVATA: E' ammissibile il sequestro preventivo di opere costruite abusivamente anche nell'ipotesi in cui l'edificazione sia ultimata, fermo restando l'obbligo di motivazione del giudice circa le conseguenze ulteriori sul regolare assetto del territorio rispetto alla consumazione del reato, derivanti dalla libera disponibilità del bene».
Ancora, si è ritenuto che «è legittimo il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato anche nel caso di utilizzo dell'opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto presenti una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un'incidenza negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo dell'aumentata esigenza di infrastrutture e di opere collettive correlate».
Su tale secondo elemento, invero, «in tema di reati edilizi, è legittimo il sequestro preventivo di manufatti abusivi realizzati in area a destinazione agricola pur se destinati ad attività commerciali, determinando gli stessi un aggravio, anche se non rilevante, del carico urbanistico».
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5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
5.1. Questa Corte (Sez. 3, n. 52051 del 20/10/2016, Giudici, Rv. 268812 - 01) ha reiteratamente espresso l'avviso che «è ammissibile il sequestro preventivo di opere costruite abusivamente anche nell'ipotesi in cui l'edificazione sia ultimata, fermo restando l'obbligo di motivazione del giudice circa le conseguenze ulteriori sul regolare assetto del territorio rispetto alla consumazione del reato, derivanti dalla libera disponibilità del bene» (nel caso di specie, la Corte aveva annullato il provvedimento di sequestro di un impianto per la produzione di energia eolica sul rilievo che non era stato valutato in concreto se dall'uso dell'impianto derivasse un aumento del cosiddetto carico urbanistico).
Ancora, si è ritenuto (Sez. 3, n. 42717 del 10/09/2015, Buono, Rv. 265195 - 01) che «è legittimo il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato anche nel caso di utilizzo dell'opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto presenti una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un'incidenza negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo dell'aumentata esigenza di infrastrutture e di opere collettive correlate».
5.2. Su tale secondo elemento si è debitamente soffermato il Tribunale del riesame di Palermo, laddove ha evidenziato che la realizzazione di un impianto sportivo su area a destinazione agricola aumenta proprio il carico urbanistico della zona, motivazione che si pone in linea di stretta continuità con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «in tema di reati edilizi, è legittimo il sequestro preventivo di manufatti abusivi realizzati in area a destinazione agricola pur se destinati ad attività commerciali, determinando gli stessi un aggravio, anche se non rilevante, del carico urbanistico» (Sez. 3, n. 24167 del 05/05/2011, Longo, Rv. 250965 - 01) (Corte di Cassazione, III Sez. penale, sentenza 22.03.2024 n. 11999).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ancora sulla legittimazione ad agire.
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Giustizia amministrativa – Azione di annullamento – Impugnazioni in genere – Interesse ad agire – Legittimazione ad agire – Ricorso di un centro sportivo avverso il provvedimento ampliativo di un comune a favore di un’altra associazione sportiva – Vicinitas – Esclusione – Inammissibilità.
È inammissibile il ricorso promosso da un centro sportivo avverso il provvedimento di un comune che consente ad un’associazione sportiva la realizzazione di ulteriori attrezzature rispetto ad altri impianti sportivi esistenti qualora non si possa ritenere dimostrata la condizione della vicinitas secondo l’accezione chiarita dall’Adunanza plenaria n. 22 del 2021 (1).
Il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per ricordare che esulano dal sindacato amministrativo le scelte politiche del comune quanto all’implementazione delle attività sportive nel territorio.
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   (1) Precedenti conformi: sulla vicinitas, con riferimento specifico alla vicinitas urbanistico-edilizia, ma con valore del tutto generale, fondamentale è: Cons. Stato, Ad. plen., 09.12.2021, n. 22. Sulla vicinitas commerciale, di recente, Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2023, n. 11367. Sulla legittimazione ad agire, C.g.a., 07.11.2022, n. 1150.
         Precedenti difformi: non si segnalano specifici precedenti difformi
(CGARS, sentenza 18.03.2024 n. 218 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma
   - della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia Sezione staccata di Catania (Sezione Quarta) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, pubblicata il 11.01.2022, non notificata, con la quale era accolto il ricorso proposto dal Centro Sportivo odierno appellato, per l’annullamento: - del permesso di costruire in sanatoria concesso dal Comune di Modica con provvedimento n. -OMISSIS- del 03.07.2020;
   - e della delibera del C.C. del Comune di Modica n. 61 del 12.11.2020;
...
II – L’appello è fondato.
III – Assume valenza assolutamente preliminare all’esame dell’appello, l’eccezione formulata già in primo grado dal Comune. Essa –diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice– è fondata.
Su una questione rimessa da questo Consiglio, con ord. 27.07.2021, n. 759, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 09.12.2021, n. 22 ha stabilito i seguenti principi, per quanto d’interesse: “
Nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l'autonomia tra la legittimazione e l'interesse al ricorso quali condizioni dell'azione, è necessario che il giudice accerti, anche d'ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell'interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall'atto impugnato.
L'interesse al ricorso correlato al pregiudizio derivante dall'intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo specifico può comunque ricavarsi dall'insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso; l'interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d'ufficio dal giudicante, nel rispetto dell'art. 73, comma 3, cpa”
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Quanto alla vicinitas questo C.G.A. ha chiarito, poi, che: “Come ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza del giudice amministrativo "
il criterio della vicinitas che abilita l'imprenditore commerciale concorrente all'impugnazione di titoli edilizi e autorizzativi con riferimento alla nozione di unicità o identità del bacino d'utenza postula la rigorosa dimostrazione di ... un reale pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il provvedimento impugnato incida la posizione sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale e ciò anche in considerazione dei principi di liberalizzazione che presidiano il settore (nello stesso senso dell'esigenza della prova di un effettivo, concreto e attuale pregiudizio vedi Sez. IV, 25.01.2013, n. 489, nonché Sez. V, 30.11.2012, n. 6113, e più in generale Sez. IV, 07.05.2015, n. 2324)" (cfr., C.d.S., Sez. IV, 24.04.2018, n. 2458).”
Ed ancora: “
La questione controversa afferisce alla tutela del terzo di fronte ad atti ampliativi della sfera giuridica di altri soggetti, per cui la legittimazione ad agire postula la titolarità di un interesse legittimo oppositivo ad impedire l'attribuzione del bene della vita richiesto da un altro soggetto.
La legittimazione ad agire nel giudizio amministrativo, infatti, spetta al titolare della situazione giuridica sostanziale che si ritiene essere stata ingiustamente lesa dall'azione amministrativa. per cui legittimato ad agire è il titolare di una posizione qualificata e differenzia rispetto alla generalità dei consociati, non ammettendo l'ordinamento processuale amministrativo -caratterizzato da una giurisdizione soggettiva, a tutela di interessi individuali- l'esercizio di azioni popolari, ad eccezione del rito elettorale.
Pertanto, mentre nell'omologo istituto processual-civilistico la legittimazione ad agire si risolve nella mera affermazione dell'attore, nel processo amministrativo, in giurisdizione generale di legittimità, occorre la dimostrazione effettiva della titolarità di una posizione di interesse legittimo.
La differenza risiede nella diversa tipologie di azioni proponibili, atteso che, nell'azione di accertamento, la quale costituisce l'archetipo delle azioni proponibili a tutela del diritto soggettivo, la prospettiva della mera affermazione è imposta dalla piena sovrapposizione e coincidenza tra questione sostanziale di merito e questione processuale, per cui, ove si richiedesse di dimostrare la titolarità della posizione di diritto soggettivo, non vi sarebbe spazio per la reiezione del ricorso, in quanto l'azione potrebbe essere alternativamente fondata o inammissibile; diversamente, nell'azione di annullamento, che costituisce l'archetipo delle azioni a tutela di un interesse legittimo, atteso che non si tratta di accertare la sussistenza di una posizione giuridica soggettiva, ma di accertare la legittimità dell'azione amministrativa con riferimento alle censure proposte, la verifica dell'esistenza di una legitimatio ad causam assume un significato giuridico autonomo rispetto al merito della controversia, non coincidendo l'accertamento della legittimazione ad agire con la fondatezza nel merito dell'azione giurisdizionale esercitata.
Di talché, mentre nel processo civile, ai fini della legittimazione ad agire, è sufficiente affermare che la posizione giuridica soggettiva abbia subito una lesione, nel processo amministrativo è necessario verificare che il ricorrente sia titolare di una posizione giuridica soggettiva che possa aver subito una lesione illegittima, mentre l'accertamento della effettiva sussistenza della illegittimità della lesione attiene al merito della lite
(sul punto, cfr. anche C.d.S., Ad. plen., 09.12.2021, n. 22)
”. (Sentenza 07.11.2022, n. 1150).
Nel caso che occupa, correttamente il primo giudice ha evidenziato che il ricorso era diretto a “opporsi alla creazione –per mezzo di provvedimenti ritenuti illegittimi– di strutture concorrenti, che operano nel medesimo territorio ed a beneficio della medesima tipologia di utenza”.
Emerge, infatti, che l’originario ricorrente era l’unico centro sportivo nel territorio sud ovest di Modica. Questi, in vero, tende attraverso la propria azione a garantire una posizione di sostanziale predominio, peraltro in un ambito in cui non può che prevalere il generale principio di concorrenza.
Il primo giudice ha desunto il presupposto della vicinitas dalla modesta estensione della città di Modica, ritenendo che “la “vicinitas” va intesa non come effettiva prossimità territoriale, ma come vicinanza potenzialmente idonea ad incidere negativamente sull’attrazione della clientela”.
Tale assunto appare smentito dalle stesse dichiarazioni della parte attuale appellata, laddove precisa che la controinteressata è “l’unica altra struttura sportiva esistente nella zona sud ovest di Modica, tra questa e Scicli”. Con ciò ammette che proprio il susseguirsi di più cittadine nel contesto di cui si verte, in realtà, amplia la potenziale clientela al di là della stessa cittadinanza del territorio di Modica.
L’affermazione del primo giudice risulta, dunque, non solo non contestualizzata con la reale consistenza del territorio ma anche non corroborata da un’eventuale istruttoria sulla consistenza del territorio, mentre la distanza di 2 km esclude, evidentemente, la prossimità (CGARS, sentenza 18.03.2024 n. 218 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 prevede che:
   i) “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato per silenzio assenso ai sensi dell’articolo 20, “e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei con-trointeressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge” (comma 1);
   ii) “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previ-ste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (comma 2-bis).
Secondo un maggioritario e preferibile (in quanto più in linea con il dato letterale della disposizione) orientamento interpretativo, l’art. 21-nonies deve essere interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi (applicabile ratione temporis; il termine è stato successivamente ridotto a 12 mesi con le modifiche apportate dalla l. 108/2021) è consentito:
   a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
   b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei suddetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso –non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa di rimozione– si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco.
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5. Con un secondo motivo, l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza impugnata per illogicità della motivazione, violazione di legge, violazione e falsa applicazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e di diritto.
In particolare, viene dedotta la violazione dell’art. 21-nonies, L. n. 241/1990, che precluderebbe, ad avviso dell’appellante, l’annullamento del titolo una volta decorso il termine di 12 mesi dall’adozione dello stesso.
A sostegno dell’assunto si evidenzia che il muro rappresentato sarebbe comunque ininfluente ai fini del rilascio del titolo, atteso che la legittimità dell’edificazione di un muro di recinzione tra proprietà divise e la legittimità dell’edificazione del fabbricato sulla linea di confine scaturirebbero, rispettivamente, dagli art. 874 del c.c. e ss. e 40 del R.E.C. (la prima) e dallo studio particolareggiato della zona (la seconda).
5.1. Il motivo non è fondato.
L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 prevede che:
   i) “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato per silenzio assenso ai sensi dell’articolo 20, “e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei con-trointeressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge” (comma 1);
   ii) “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previ-ste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (comma 2-bis).
Secondo un maggioritario e preferibile (in quanto più in linea con il dato letterale della disposizione) orientamento interpretativo, l’art. 21-nonies deve essere interpretato nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi (applicabile ratione temporis; il termine è stato successivamente ridotto a 12 mesi con le modifiche apportate dalla l. 108/2021) è consentito:
   a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
   b) sia nel caso in cui l’acclarata erroneità dei suddetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso –non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa di rimozione– si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco (ex pluribus, Cons. Stato, Sez. II, 05.02.2024, n. 1188; Consiglio di Stato, Sez. II, 29.03.2023, n. 3224; Sez. VI, 21.11.2023 n. 9962; Sez. IV, 18.03.2021, n. 2329; sez. V, 27.06.2018, n. 3940).
Ne discende pertanto l’infondatezza del motivo che fa leva sul superamento del termine annuale per l’esercizio del potere di autotutela (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.03.2024 n. 2043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, vigente ratione temporis, stabilisce che
   - “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo art. 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo” (comma 1);
   - “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al dPR 28.12.2000, n. 445” (comma 2-bis).
Per costante giurisprudenza, la costruzione sintattica e l'interpretazione logico-sistematica implicano una chiara distinzione tra
   - il caso in cui il provvedimento sia conseguito in funzione di una mera “falsa rappresentazione dei fatti” e
   - l'ipotesi in cui il rilascio del provvedimento sia fondato (anche) su “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci”.
A tale conclusione deve pervenirsi non tanto e non solo per l'uso della disgiuntiva “o”, che separa e differenzia le due fattispecie, bensì e soprattutto perché soltanto alle dichiarazioni e all'atto di notorietà è riferita la proposizione “false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato”, e solo a queste ultime, appunto in quanto effetto di condotte costituenti reato, è ricollegabile il successivo inciso “accertate con sentenza passata in giudicato”.
Pertanto, qualora, in spregio alla peculiare efficacia probatoria che è riconosciuta dall'ordinamento alle dichiarazioni e all’atto di notorietà, esse siano false o mendaci, al fine di superarne tale efficacia è imprescindibile l'accertamento in sede penale; diversamente la mera falsa rappresentazione, che può limitarsi anche al solo silenzio su circostanze rilevanti o al riferimento solo parziale delle medesime, si impone nella sua oggettività e non richiede alcun accertamento processuale penale.
Ne consegue che avendo il Comune contestato la “falsa rappresentazione dei fatti” (“falsa rappresentazione […] mediante tecniche di fotoritocco digitale”, e ciò al fine di indurre il funzionario a considerare l’immobile ad uso residenziale, condizione essenziale per l’accesso al c.d. -OMISSIS-: cfr. pag. 4 del provvedimento impugnato), non si rendeva necessario alcun accertamento penale e, soprattutto, la contestata “falsa rappresentazione dei fatti” comporta l’inapplicabilità del rigido termine di dodici mesi per disporre l’annullamento d’ufficio.
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6. Con il secondo motivo di gravame l’esponente ha dedotto i vizi di Violazione e falsa applicazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990. Violazione dell’art. 1, comma 2 bis. della legge n. 241/1990 – Violazione del principio del legittimo affidamento – eccesso di potere per travisamento dei presupposti.
Per la parte ricorrente, in sintesi, l’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, al fine dell’annullamento in autotutela di un provvedimento, non ritiene sufficiente l’illegittimità del provvedimento stesso occorrendo il necessario concorso di una serie di diversi ed ulteriori requisiti: la sussistenza di concrete ragioni di interesse pubblico alla rimozione dell’atto pretesamene illegittimo; il fatto che l’azione di secondo grado si svolga “entro un termine ragionevole”; la ponderazione dell’interesse pubblico all’annullamento con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, anche alla luce del principio di legittimo affidamento e dell’esistenza di posizioni consolidate in capo ai privati.
Secondo la deducente, innanzitutto, non sussiste nel caso in esame il termine ragionevole fissato dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Per l’esponente, invero, sebbene il comma 2-bis della menzionata disposizione preveda un’unica eccezione all’esercizio del potere di autotutela entro il termine di dodici mesi nel caso di “false rappresentazioni dei fatti” o di “dichiarazioni sostitutive mendaci”, ai fini dell’applicazione della deroga è necessario che le stesse siano state accertare con sentenza passata in giudicato.
Il Comune resistente, lamenta l’esponente, illegittimamente e al fine di aggirare il limite temporale normativamente fissato, è pervenuto alla determinazione dell’annullamento del permesso di costruire ritenendo in modo arbitrario e sulla base di mere dichiarazioni rese dal vicino di casa, che gli originari istanti (sig.ri -OMISSIS-) avrebbero prodotto una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi originario, attraverso il deposito di fotografie artefatte che avrebbero indotto il funzionario dell’epoca a considerare l’immobile ad uso residenziale e quindi a consentire l’accesso al c.d. “-OMISSIS-”; tuttavia, osserva la deducente, ad oggi non sussiste alcuna falsa attestazione in quanto non risulta provato in maniera inoppugnabile che la foto in questione non riguardi l’immobile oggetto dell’intervento di ristrutturazione per il quale è stato rilasciato il permesso di costruire e, in particolare, non essendoci alcun accertamento penale in ordine all’asserita falsificazione, la deroga di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 non è applicabile.
Inoltre, non ricorrerebbe neppure la seconda delle ipotesi enucleate dalla giurisprudenza per rendere operativa la deroga e che richiede che l’acclarata erroneità dei presupposti risulti non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, esclusivamente al dolo dell’istante: in particolare, lo stato di consistenza dell’immobile originario e la sua destinazione come “residenza agricola” era perfettamente nota all’UTC del Comune di -OMISSIS- e lo stesso Comune ha rilasciato ben due varianti con la conseguenza che non si potrebbe in alcun modo escludere un concorso di colpa da parte del Comune.
L’amministrazione comunale quindi ben conosceva le vicende legate all’immobile (i sigg.ri -OMISSIS- avevano già presentato una richiesta di concessione edilizia già nel 1984 e successivamente la società -OMISSIS- S.r.l. aveva presentato un progetto sul medesimo immobile per la realizzazione di una struttura turistico alberghiera) ed era nelle condizioni di effettuare approfonditamente e con largo anticipo le sue valutazioni sull’immobile già prima del rilascio del permesso di costruire.
Inoltre, per la deducente, è assente nel caso in esame in esame il canone della ragionevolezza, tenuto conto in primo luogo del fatto che il provvedimento impugnato non riporta alcuna motivazione in ordine al bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco e che il Comune ha fondato il proprio convincimento sulla valutazione unilaterale della perizia di parte presentata dalla vicina di casa in sede di avvio del procedimento e conosciuta dalla ricorrente solo successivamente alla conclusione del procedimento, e dunque in palese violazione anche del principio del contraddittorio, senza procedere ad una valutazione e accertamento autonomo anche sulla base degli allegati presentati dalla ricorrente e delle perizie giurate attestanti invece l’uso dell’immobile come residenza agricola.
Ne consegue, per la parte ricorrente, l’inapplicabilità del comma 2-bis dell'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 e la conseguente illegittimità del provvedimento impugnato per decorso del termine ragionevole fissato dalla norma per l’esercizio del potere di autotutela.
La parte ricorrente ha altresì dedotto il vizio di Eccesso di potere per difetto ed incompletezza dell’istruttoria e della motivazione in relazione all’interesse pubblico e alla comparazione tra gli interessi in gioco.
Per l’esponente, in sintesi, nel provvedimento impugnato non viene evidenziata alcuna concreta ragione di interesse pubblico che possa giustificare l’adozione del provvedimento di annullamento impugnato, né tanto meno v’è traccia di una comparazione tra gli interessi contrapposti.
Il potere di autotutela infatti è per sua natura “discrezionale” e, quindi, frutto di una scelta di opportunità che deve essere congruamente giustificata in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico su quello antagonista del privato.
Per l’esponente, dunque, alla luce della copiosa giurisprudenza non v’è chi non veda come il provvedimento impugnato si appalesi illegittimo in quanto non riporta a sostegno dell’adozione del medesimo alcuna giustificazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale e alla prevalenza dello stesso sull’interesse contrapposto del privato tenuto conto anche della fase avanzata in cui si trovano i lavori; ed invero, nessun interesse pubblico neppure con riferimento all’ordinato assetto del territorio e alla vivibilità del contesto in correlazione con gli standard di riferimento può ritenersi esistente nella specie (e in ogni caso non esplicitato) considerato che l’immobile oggetto della concessione ricade peraltro in area urbanizzata e dunque in un contesto urbanistico al quale l’immobile si adatta perfettamente.
Pertanto, oltre a difettare del tutto l’esternazione delle ragioni di interesse pubblico e la valutazione motivata della posizione dei soggetti finali, mancano le ragioni sostanziali per potere giustificare l’annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
Ed ancora, la parte ricorrente ha dedotto i vizi di Eccesso di potere per difetto ed incompletezza dell’istruttoria e della motivazione in relazione comparazione tra gli interessi in gioco e al legittimo affidamento.
Per l’esponente, il provvedimento avversato risulta altresì illegittimo per omesso bilanciamento dei contrapposti interessi (per il cit. art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 il provvedimento di secondo grado deve tenere conto “degli interessi dei destinatari e dei controinteressati”).
Nel caso di specie la motivazione del provvedimento impugnato non contiene alcuna ponderazione dei contrapposti interessi in gioco e manca del tutto il requisito rappresentato dalla valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del provvedimento.
Per l’esponente, inoltre, il Comune ha escluso aprioristicamente l’esistenza di un legittimo affidamento della stessa ricorrente, non considerando in alcun modo che essa è terzo acquirente di buona fede e che l’eventuale (inesistente) errata rappresentazione dei presupposti è imputabile al precedente proprietario al quale è stato rilasciato il titolo edilizio.
Sempre per la deducente, è stata la stessa condotta del Comune resistente ad avvalorare in capo alla ricorrente una posizione di legittimo affidamento, avendo l’Ente locale rilasciato alla ricorrente ben due varianti rispetto all’originario permesso di costruire (la prima, datata 22.09.2021 per lo spostamento interno di muri divisori, la seconda, datata 02.02.2022 per modifiche alla collocazione del terrazzo antistante il fabbricato): il sol fatto di aver rilasciato le predette varianti ha ingenerato nell’esponente la convinzione che il permesso di costruire, acquisito dai sig.ri -OMISSIS-, fosse perfettamente valido ed efficace, consolidando di conseguenza il suo interesse legittimo a godere di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica.
Per altro verso, conclude la deducente, non può dirsi esclusa la responsabilità della P.A. per lesione del legittimo affidamento in quanto non sussisteva mala fede da parte della stessa ricorrente né i presunti vizi di legittimità del provvedimento potevano essere riconoscibili con l’ordinaria diligenza, a fortiori da una cittadina americana.
6.1. Il motivo è infondato.
6.1.1. L’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, vigente ratione temporis, stabilisce che
   - “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo” (comma 1);
   - “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445” (comma 2-bis).
Per costante giurisprudenza, condivisa dal Collegio, la costruzione sintattica e l'interpretazione logico-sistematica implicano una chiara distinzione tra il caso in cui il provvedimento sia conseguito in funzione di una mera “falsa rappresentazione dei fatti” e l'ipotesi in cui il rilascio del provvedimento sia fondato (anche) su “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci”; a tale conclusione deve pervenirsi non tanto e non solo per l'uso della disgiuntiva “o”, che separa e differenzia le due fattispecie, bensì e soprattutto perché soltanto alle dichiarazioni e all'atto di notorietà è riferita la proposizione “false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato”, e solo a queste ultime, appunto in quanto effetto di condotte costituenti reato, è ricollegabile il successivo inciso “accertate con sentenza passata in giudicato”.
Pertanto, qualora, in spregio alla peculiare efficacia probatoria che è riconosciuta dall'ordinamento alle dichiarazioni e all’atto di notorietà, esse siano false o mendaci, al fine di superarne tale efficacia è imprescindibile l'accertamento in sede penale; diversamente la mera falsa rappresentazione, che può limitarsi anche al solo silenzio su circostanze rilevanti o al riferimento solo parziale delle medesime, si impone nella sua oggettività e non richiede alcun accertamento processuale penale (cfr., ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.08.2023, n. 4826; TAR Lazio, Roma, sez. III-ter, 23.12.2022, n. 17518; TAR Campania, Salerno, sez. II, 21.07.2021, n. 1802; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 02.11.2021, n. 1583).
Ne consegue che avendo il Comune contestato la “falsa rappresentazione dei fatti” (“falsa rappresentazione […] mediante tecniche di fotoritocco digitale”, e ciò al fine di indurre il funzionario a considerare l’immobile ad uso residenziale, condizione essenziale per l’accesso al c.d. -OMISSIS-: cfr. pag. 4 del provvedimento impugnato), non si rendeva necessario alcun accertamento penale e, soprattutto, la contestata “falsa rappresentazione dei fatti” comporta l’inapplicabilità del rigido termine di dodici mesi per disporre l’annullamento d’ufficio
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ stato osservato che l'interesse pubblico all'eliminazione, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo.
In conclusione, laddove il titolo abilitativo sia stato ottenuto in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà è consentito all'amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Ed ancora, è stato rilevato che in materia di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, nei casi in cui l'operato dell'Amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Inoltre, è stato condivisibilmente chiarito che “l’obbligo dell’amministrazione di comparare l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto viziato con quello privato alla conservazione di esso si affievolisce grandemente per le ipotesi in cui il vizio è stato cagionato dal destinatario del provvedimento di primo grado, posto che tale circostanza elide il rilievo dell’affidamento: in tali casi è, dunque, l’assoluta forza dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione a giustificare il ricorso all’autotutela decisoria.
Per tale peculiare ipotesi, un simile affievolimento concerne anche la posizione di eventuali terzi che abbiano confidato sulla legittimità dell’atto, poiché, in caso contrario, si permetterebbe a chi abbia agito con dolo o mala fede oggettiva di consolidare gli effetti della propria condotta colpevole, infiacchendo l’interesse pubblico in tal modo compromesso, solo per effetto del trasferimento a terzi di diritti sulla cosa oggetto del provvedimento di autorizzazione di primo grado.
La logica dell’autotutela, in altri termini, non può che adattarsi alla peculiarità della falsa rappresentazione da cui è stata indotta la patologia provvedimentale, con la conseguenza che, per tali eccezionali ipotesi, la tutela del terzo potrà esperirsi sul piano civilistico nei confronti del dante causa, ma, in linea di principio, apparirà per definizione recessiva a confronto con l’interesse pubblico”.
Sul punto, va ulteriormente evidenziato che nel caso in cui la domanda di rilascio del permesso di costruire sia stata presentata da parte di precedente proprietario dell'area, l’affidamento legittimo dell'acquirente deve ritenersi escluso tutte le volte in cui il medesimo abbia comunque avuto contezza dell’errore o comunque quando, utilizzando la ordinaria diligenza allo stesso richiesta in quanto soggetto che intendeva ottenere il titolo edilizio, avrebbe potuto accorgersi del suddetto errore.
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6.1.2. Alcuna colpa concorrente è poi riscontrabile nel contegno dell’Amministrazione comunale resistente.
Si deve poi evidenziare che, contrariamente a quanto osservato dalla parte ricorrente, l’Amministrazione resistente non si è affatto uniformata in modo automatico e passivo alla valutazione unilaterale espressa nella perizia di parte (dei controinteressati), avendo svolto una esaustiva ed articolata istruttoria (cfr. supra), e ha garantito il rispetto dei principi del contraddittorio e della partecipazione in seno al procedimento di autotutela (cfr. la comunicazione di avvio del procedimento, nota prot. n. -OMISSIS-, ove risultano riportate a pag. 4 anche le fotografie utilizzate per il raffronto, in ordine alla contestata falsa rappresentazione dei fatti).
6.1.3. E’ stato, altresì, osservato che l'interesse pubblico all'eliminazione, ai sensi dell'art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo (arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.09.2023, n. 4975; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 18.05.2023, n. 315; TAR Liguria, sez. II, 09.12.2022, n. 1059; TAR Veneto, sez. II, 08.04.2022, n. 544).
In conclusione, laddove il titolo abilitativo sia stato ottenuto in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà è consentito all'amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Ed ancora, è stato rilevato che in materia di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, nei casi in cui l'operato dell'Amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (cfr. TAR Veneto, sez. II, 02.11.2022, n. 1692; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 16.01.2020, n. 132).
6.1.4. Inoltre, è stato condivisibilmente chiarito che “l’obbligo dell’amministrazione di comparare l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto viziato con quello privato alla conservazione di esso si affievolisce grandemente per le ipotesi in cui il vizio è stato cagionato dal destinatario del provvedimento di primo grado, posto che tale circostanza elide il rilievo dell’affidamento: in tali casi è, dunque, l’assoluta forza dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione a giustificare il ricorso all’autotutela decisoria.
Per tale peculiare ipotesi, un simile affievolimento concerne anche la posizione di eventuali terzi che abbiano confidato sulla legittimità dell’atto, poiché, in caso contrario, si permetterebbe a chi abbia agito con dolo o mala fede oggettiva di consolidare gli effetti della propria condotta colpevole, infiacchendo l’interesse pubblico in tal modo compromesso, solo per effetto del trasferimento a terzi di diritti sulla cosa oggetto del provvedimento di autorizzazione di primo grado.
La logica dell’autotutela, in altri termini, non può che adattarsi alla peculiarità della falsa rappresentazione da cui è stata indotta la patologia provvedimentale, con la conseguenza che, per tali eccezionali ipotesi, la tutela del terzo potrà esperirsi sul piano civilistico nei confronti del dante causa, ma, in linea di principio, apparirà per definizione recessiva a confronto con l’interesse pubblico
” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 19.07.2022, nn. 10301 e 10294).
6.1.5. Sul punto, va ulteriormente evidenziato che nel caso in cui la domanda di rilascio del permesso di costruire sia stata presentata da parte di precedente proprietario dell'area, l’affidamento legittimo dell'acquirente deve ritenersi escluso tutte le volte in cui il medesimo abbia comunque avuto contezza dell’errore o comunque quando, utilizzando la ordinaria diligenza allo stesso richiesta in quanto soggetto che intendeva ottenere il titolo edilizio, avrebbe potuto accorgersi del suddetto errore (cfr. Cons. Stato, sez. II, 21.10.2019, n. 7094).
Orbene, il Collegio rileva che l’affidamento legittimo dell'odierna ricorrente non può ritenersi sussistente nel caso in esame.
Ed invero, in primo luogo la parte ricorrente ha ottenuto -in data 13.05.2021- la volturazione del titolo edilizio n. -OMISSIS- del 13.11.2020 (al fine di ricomporre la corrispondenza, venuta meno a causa dell'alienazione dell'oggetto sul quale deve esplicarsi l'attività edilizia, tra il titolare del titolo edilizio e quello della situazione giuridica che lo legittima al rilascio del medesimo), ciò che avrebbe dovuto indurre la parte ricorrente ad accertare, in modo approfondito, la piena corrispondenza della documentazione relativa al titolo edilizio rispetto alla reale natura dei luoghi e dei manufatti.
Va inoltre evidenziato che la comunicazione di inizio lavori è stata indirizzata dall’odierna ricorrente al Comune di -OMISSIS- resistente in data 22.07.2021 (si ribadisce, a fronte di un titolo edilizio del novembre 2020); ne consegue che l’immutazione dello stato dei luoghi è stata avviata dalla stessa deducente (e non dai danti causa, che avevano in precedenza conseguito il titolo), la quale pertanto era nelle condizioni -utilizzando la ordinaria diligenza- di poter accertare la reale natura e la destinazione del manufatto in questione (principiando dalla effettiva presenza del forno nel detto locale).
In conclusione, sul punto la parte ricorrente ha acquistato l’immobile e ha ottenuto la volturazione del titolo edilizio rilasciato ai danti causa, ma non avendo questi ultimi “manomesso” l’immobile (avviando i lavori assentiti) la stessa esponente si trovava nelle condizioni di poter accertare il vizio del titolo.
All’uopo le due SCIA in variante presentate dalla parte ricorrente non hanno potuto affatto consolidare il legittimo affidamento della deducente, innestandosi le stesse su una situazione di falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, che nella sua realtà era (quantomeno) conoscibile con l’ordinaria diligenza da parte della deducente.
Va inoltre osservato che non è utilmente invocabile nel caso in esame il principio di diritto enunciato nel parere Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., Ad. Sez. Riun., 07.12.2023, n. 472 –invocato in sede di udienza dalla parte ricorrente (cfr. il verbale)– secondo cui nel bilanciamento tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo e la tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento “la ricerca del giusto equilibrio induce a dare maggiore rilevanza all’interesse del privato alla stabilità del bene della vita con esso acquisito, tutte le volte in cui v’è stato un comportamento gravemente colposo dell’amministrazione”, proprio perché nessun comportamento gravemente colposo del Comune resistente è ravvisabile nel caso che occupa
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Per costante orientamento giurisprudenziale, la notificazione di un atto amministrativo al suo destinatario non incide sull'esistenza o validità dello stesso, con la conseguenza che un atto non è nullo o illegittimo per il solo fatto della mancata comunicazione o notificazione al soggetto interessato, fermo restando che, in caso di atti recettizi o comunque limitativi della sfera giuridica dei destinatari, la mancata comunicazione o notificazione incide sull'efficacia del provvedimento e, quindi, sul decorso dei termini per l'impugnativa giurisdizionale.
Nello specifico caso del provvedimento di demolizione, è stato osservato dalla giurisprudenza che la mancata notificazione dello stesso al proprietario del fondo non influisce sulla legittimità del provvedimento medesimo e sull’obbligo gravante sull’autore dell’abuso di demolire: la notificazione dell'atto al proprietario, invero, attiene non già alla fase di perfezionamento dello stesso ma alla fase di integrazione dell'efficacia, con la conseguenza -in caso di mancata notifica dell'ordinanza di demolizione al proprietario- dell'impossibilità di pretendere l'esecuzione da parte di quest'ultimo e di procedere in suo danno all'acquisizione gratuita.
Inoltre è stato evidenziato, sempre in relazione all’ordinanza di demolizione, che l’eventuale mancanza o il vizio della notificazione dell’atto amministrativo sono rilevanti ai fini del decorso del termine per l’impugnativa dello stesso, ma non si riverberano sul profilo della validità dello stesso.

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10. Con il primo motivo di ricorso l’esponente ha dedotto il vizio di Violazione dell’art. 141 c.p.c. – mancanza di elezione di domicilio regolarmente eletto.
Per l’esponente, in sintesi, il provvedimento di demolizione n. -OMISSIS- è illegittimo per omessa notifica al diretto interessato, essendo stato irritualmente comunicato al legale presso il quale la ricorrente non ha eletto domicilio (nonostante il provvedimento stesso rechi la seguente dicitura: “Dispone di procedere alla notifica della presente Disposizione alla signora -OMISSIS- sopra meglio generalizzata e domiciliata in -OMISSIS-”).
Argomenta la deducente come nessuna generalizzata elezione di domicilio per gli atti derivanti dal procedimento amministrativo riguardante l’immobile di proprietà sito nel Comune di -OMISSIS- è mai stata effettuata presso lo studio difensore (sebbene, invero, una delega per l’accesso agli atti e alla partecipazione in fase stragiudiziale); la stessa deducente rappresenta, infatti, di aver rilasciato procura solo per la proposizione del ricorso.
Il Comune resistente, argomenta l’esponente, ha quindi errato nel dedurre ed individuare nel difensore il soggetto presso il quale la ricorrente ha eletto domicilio per qualsiasi atto amministrativo derivante, inerente o comunque riferibile all’immobile di sua proprietà sito nel Comune di -OMISSIS-.
All’uopo l’esponente ha richiamato le disposizioni dell’art. 141 cod. proc. civ. e dell'art. 47 cod. civ., osservando di non aver mai eletto domicilio permanente presso il professionista con la conseguenza che tutti gli atti successivi alla notifica del provvedimento di annullamento del permesso di costruire dovevano comunque essere notificati alla destinataria personalmente.
In conclusione, per la deducente, la mancanza di una regolare notifica del provvedimento di demolizione, riduzione in pristino e sanzione pecuniaria è da ritenersi illegittimo e/o comunque inefficace
La deducente argomenta ulteriormente che una volta rilasciata la procura per impugnare, come poi ha fatto, il provvedimento di annullamento del permesso di costruire n. -OMISSIS- (ricorso iscritto al n. r.g. 1644/2022), ben avrebbe potuto, se avesse ricevuto la notifica dell’ordine di demolizione affidarsi ad altro legale o, per ipotesi, prestare acquiescenza al provvedimento stesso; la ricorrente rappresenta, invece, di aver preso atto che era stato emesso un provvedimento di demolizione dell’immobile in questione solo con la comunicazione via PEC del provvedimento di sospensione dell’ordine di demolizione a seguito dell’ordinanza 07.12.2022, da parte del legale, e l’errore del Comune intimato si è di fatto riverberato, in sede cautelare, sulle determinazioni dell’adito Tribunale: secondo la deducente, infatti, in caso di conoscenza del provvedimento di demolizione n. -OMISSIS- sarebbe stato proposto ricorso per motivi aggiunti e, possibilmente, le decisioni del Tribunale adito sarebbero state diverse (in presenza dell’ordine di demolizione il Tribunale adito avrebbe certamente sospeso il provvedimento impugnato unitamente all’ordine di demolizione in coerenza con il paventato periculum in mora che ha ravvisato anche solo nell’annullamento del permesso di costruire n. -OMISSIS-).
In conclusione, per la deducente l’omessa notifica del provvedimento di demolizione ha arrecato un danno grave ai diritti di difesa della odierna ricorrente.
10.1. Il motivo è infondato.
10.1.1. Per costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, la notificazione di un atto amministrativo al suo destinatario non incide sull'esistenza o validità dello stesso, con la conseguenza che un atto non è nullo o illegittimo per il solo fatto della mancata comunicazione o notificazione al soggetto interessato, fermo restando che, in caso di atti recettizi o comunque limitativi della sfera giuridica dei destinatari, la mancata comunicazione o notificazione incide sull'efficacia del provvedimento e, quindi, sul decorso dei termini per l'impugnativa giurisdizionale (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. I, 04.06.2019, n. 930).
10.1.2. Nello specifico caso del provvedimento di demolizione, è stato osservato dalla giurisprudenza che la mancata notificazione dello stesso al proprietario del fondo non influisce sulla legittimità del provvedimento medesimo e sull’obbligo gravante sull’autore dell’abuso di demolire: la notificazione dell'atto al proprietario, invero, attiene non già alla fase di perfezionamento dello stesso ma alla fase di integrazione dell'efficacia (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 09.03.2021, n. 1574; TAR Calabria, Reggio Calabria, 14.06.2018, n. 357), con la conseguenza -in caso di mancata notifica dell'ordinanza di demolizione al proprietario- dell'impossibilità di pretendere l'esecuzione da parte di quest'ultimo e di procedere in suo danno all'acquisizione gratuita (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 24.11.2023, n. 3565); inoltre è stato evidenziato, sempre in relazione all’ordinanza di demolizione, che l’eventuale mancanza o il vizio della notificazione dell’atto amministrativo sono rilevanti ai fini del decorso del termine per l’impugnativa dello stesso, ma non si riverberano sul profilo della validità dello stesso (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 04.07.2023, n. 2227).
Nel caso di specie, la deducente è peraltro venuta a conoscenza dell’ordinanza di demolizione, che ha impugnato con il ricorso in epigrafe; il lamentato vizio di notificazione –che, si ribadisce, non è in grado di infirmare la validità del provvedimento avversato- è stato in concreto superato dalla avvenuta conoscenza del provvedimento medesimo.
10.1.3. Il Collegio rileva che l’affermato danno grave ai diritti di difesa della parte ricorrente derivante dall’omessa notifica del provvedimento di demolizione -che, peraltro, non potrebbe avere ricadute in termini patologici quanto al provvedimento di demolizione avversato- non risulta provato.
Ed invero, in primo luogo, nell’ordinanza 12.12.2022, n. 643 non è stato svolto alcun approfondimento relativo al fumus boni iuris (“Ravvisata la necessità di riservare all’approfondimento della più acconcia sede di merito l’esame delle plurime e complesse questioni sottese alla vicenda contenziosa”).
In secondo luogo, ed in via tranchant, gli effetti dell’impugnata ordinanza di demolizione (disposizione n. -OMISSIS- avente per oggetto “demolizione, riduzione in pristino e sanzione pecuniaria – DITTA: -OMISSIS-”) sono stati sospesi dalla stessa Amministrazione comunale (“Determina […] la sospensione dell’efficacia della Disposizione n. 07/22 avente per oggetto la “demolizione, riduzione in pristino e sanzione pecuniaria – DITTA: -OMISSIS-” sino alla definizione del giudizio pendente dinnanzi al TAR Sicilia-Catania”: determinazione n. settoriale 95 datata -OMISSIS- del Comune resistente), senza alcuna necessità per la deducente di rivolgersi (nuovamente in sede cautelare) al Tribunale già adito
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante orientamento giurisprudenziale, le questioni relative all’acquisizione dell’area ed ai relativi presupposti, attenendo ad un successivo momento procedimentale, non possono essere introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione (dovendo essere articolate avverso l’eventuale provvedimento di acquisizione, laddove venga effettivamente emesso).
In particolare, per quanto concerne la mancata indicazione dell’area passibile di acquisizione, deve darsi continuità al consolidato orientamento secondo il quale “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria”.

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12. Infine, con l’ultimo motivo di gravame la parte ricorrente ha dedotto i vizi di Violazione dell’art. 31 T.U. edilizia.
Per l’esponente, in sintesi, il provvedimento impugnato è illegittimo poiché non indica l’area che in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione verrà acquisita al patrimonio del Comune.
Per la ricorrente tale mancanza non è meramente formale e sanabile, proprio perché non mette nelle condizioni la stessa di valutare costi-benefici dell’eventuale ed ipotetica ottemperanza all’ingiunzione; inoltre, l’esatta indicazione appare necessaria, posto che l’effetto ablatorio si verifica immediatamente ed ope legis alla scadenza del termine legale o di quello prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da eventuali pesi e vincoli preesistenti.
L’atto di accertamento dell’inottemperanza e la trascrizione hanno allora -argomenta la deducente- solo natura dichiarativa: il primo, per opporre il trasferimento al proprietario responsabile dell’abuso ed immettersi nel possesso, il secondo, per opporre il trasferimento ai terzi; in questo senso, una ordinanza priva di una completa e precisa individuazione del bene, dell’area di sedime e delle eventuali c.d. pertinenze urbanistiche -vale a dire delle aree necessarie alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive- deve considerarsi atipica ed illegittima sia perché differente dal modello legale previsto sia perché inidonea a determinare il corretto svolgersi del procedimento
Per altra parte della giurisprudenza, argomenta la ricorrente, la mancata individuazione dell’area ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione di demolizione, ma impedisce semmai che l’effetto acquisitivo si propaghi oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso controverso, non risultino elementi adeguati per determinare l’esatta estensione dell’area ulteriore soggetta ad acquisizione in caso d’inottemperanza all’ordine di demolizione; in altri termini, all’omissione dell’indicazione de qua non può sopperirsi con il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza, che quindi, qualora avesse invece ad oggetto, oltre al bene abusivo ed alla sua area di sedime, anche le c.d. pertinenze urbanistiche (l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive), sarebbe da annullare in parte qua.
12.1. Il motivo è infondato.
Per costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, le questioni relative all’acquisizione dell’area ed ai relativi presupposti, attenendo ad un successivo momento procedimentale, non possono essere introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione (dovendo essere articolate avverso l’eventuale provvedimento di acquisizione, laddove venga effettivamente emesso).
In particolare, per quanto concerne la mancata indicazione dell’area passibile di acquisizione, deve darsi continuità al consolidato orientamento secondo il quale “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2023, n. 10133; Cons. Stato, sez. VI, 24.11.2023, n. 10101; Cons. Stato, sez. VI, 30.10.2023, n. 9348; Cons. Stato, sez. VI, 21.07.2023, n. 7191)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.02.2024 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Competenza comunale e regolamento su sostanze fitosanitarie ed erbicidi.
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Agricoltura – Consiglio comunale – Potestà regolamentare – Limitazione utilizzo sostanze fitosanitarie e erbicidi – Mancanza di competenza- Tutela della salute.
Il comune non può ad adottare un regolamento, contenente limitazioni indifferenziate, vincolanti e a tempo indeterminato su sostanze fitosanitarie ed erbicidi, all’interno del proprio territorio comunale.
Mancando un qualsiasi riscontro nel diritto positivo, il ragionamento sulla cedevolezza della legge statale, regionale o provinciale verso i regolamenti locali, nelle materie di loro riservata o delegata competenza, non persuade.
Soltanto in alcuni ristretti aspetti residuali, tassativamente elencati dalla cornice normativa eurounionale, statale e provinciale, si riscontrano margini funzionali di intervento comunale, che esulano, però, dalla possibilità di dettare una disciplina generale di deroghe di utilizzo e distanziometriche.
Non può fondarsi una tale competenza sul principio di precauzione di derivazione europea o statale, in ragione dell’ostacolo del diritto dell'Unione europea che disciplina l'autorizzazione, l'immissione in commercio e l'uso di sostanze attive e prodotti fitosanitari. (1)

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   (1) Non sussistono precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.01.2024 n. 915 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
17. Entrando nel merito della controversia, non può essere condivisa la tesi del Comune sulla sua competenza ad adottare una tale regolamento in materia di fitosanitari ed erbicidi, mancando un qualsiasi riscontro nel diritto positivo il ragionamento sulla cedevolezza della legge statale, regionale o provinciale verso i regolamenti locali nelle materie di loro riservata o delegata competenza.
18. Preliminarmente risulta opportuna una disamina delle fonti che il Comune appellante invoca.
Il legislatore regionale, al quale compete di legiferare in materia di ordinamento comunale anche per l’Alto Adige/Suedtirol, ha disciplinato agli articoli 2 (funzioni) e 5 (potestà regolamentare) del TUOC (ratione temporis vigente, D.P.Reg. 01.02.2005, n. 3/L, BUR 01.03.2005, n. 9, suppl. 1) quanto segue.
18.1.1: Art. 2: “1. In armonia con il principio costituzionale della promozione delle autonomie locali e in attuazione dei principi di sussidiarietà, responsabilità e unità che presiedono all'esercizio dell'azione amministrativa, nonché di omogeneità ed adeguatezza, sono attribuite ai comuni tutte le funzioni amministrative di interesse locale inerenti allo sviluppo culturale, sociale ed economico della popolazione e sono assicurate ai comuni le risorse finanziarie necessarie per lo svolgimento delle funzioni stesse.
   2. La regione e le province autonome individuano le funzioni che sono trasferite, delegate o subdelegate, ai comuni singoli o associati, avuto riguardo ai rispettivi ambiti territoriali e popolazioni interessate, al fine di assicurare efficacia, speditezza ed economicità all'azione amministrativa, nonché la partecipazione dei cittadini al migliore perseguimento del pubblico interesse.
   3. I comuni singoli o associati, nell'esercizio delle rispettive funzioni, attuano tra loro forme di cooperazione e di sussidiarietà, anche con privati, per assicurare l'economia di gestione delle attività e dei servizi o qualora l'interesse riguardi vaste zone intercomunali.
   4. Spettano inoltre ai comuni, ove la legge provinciale lo preveda, le funzioni che le leggi dello stato attribuiscono alle comunità montane
.”
18.1.2 Art. 5: “1. Nel rispetto della legge e dello statuto, il comune adotta regolamenti per l'organizzazione ed il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e l'esercizio delle funzioni, nonché regolamenti per l'organizzazione ed il funzionamento delle aziende e degli enti da esso dipendenti.
   2. Lo statuto deve prevedere adeguate forme di pubblicità per i regolamenti.
   3. I regolamenti entrano in vigore a decorrere dalla data di esecutività della delibera di approvazione.
   4. La violazione dei regolamenti e delle ordinanze comunali comporta, nei casi non disciplinati dalla legge, l'applicazione delle sanzioni amministrative determinate dal comune con proprie disposizioni regolamentari entro i limiti previsti dall'articolo 10 della legge 24.11.1981 n. 689 e successive modificazioni
.”
18.2 La norma statale invece (T.U.E.L., d.lgs. 18.08.2000, n. 267) agli articoli 7 (regolamenti), 13 (funzioni) e 42 (attribuzioni dei consigli) recita:
18.2.1: Art. 7: “1. Nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l'organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l'esercizio delle funzioni.
18.2.2: Art. 13: “1. Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
   2. Il comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri comuni e con la provincia
.”
18.2.3: “1. Il consiglio è l'organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
   2. Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:
      a) statuti dell'ente e delle aziende speciali, regolamenti salva l'ipotesi di cui all'articolo 48, comma 3, criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi;
      b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie;
      c) convenzioni tra i comuni e quelle tra i comuni e provincia, costituzione e modificazione di forme associative;
      d) istituzione, compiti e norme sul funzionamento degli organismi di decentramento e di partecipazione;
      e) organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione;
      f) istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi;
      g) indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza;
      h) contrazione di mutui e aperture di credito non previste espressamente in atti fondamentali del consiglio ed emissioni di prestiti obbligazionari;
      i) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo;
      l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari;
      m) definizione degli indirizzi per la nomina e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni, nonché nomina dei rappresentanti del consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso espressamente riservata dalla legge
.”
19. Dall’analisi e dal confronto di tali norme statali e regionali risulta chiarissimo al Collegio il quadro delle fonti gerarchicamente superiori rispetto a regolamenti locali, che l’appellante inserisce –in maniera non corretta– in un contesto che non rispecchia la realtà normativa.
Nell’appello sono invece richiamati –genericamente e non con espresso ancoraggio a disposizioni normative sulla competenza– principi che vengono meramente evocati, senza la precisa indicazione di una disciplina dalla quale dedurre che la materia dei limiti all’uso dei prodotti fitosanitari sia materia di riservata o delegata competenza comunale.
Il Collegio ritiene corretta la ricostruzione del primo giudice sulla competenza normativa dell’Unione Europea, dell’ordinamento statale e della Provincia Autonoma di Bolzano. Solamente in alcuni ristretti aspetti residuali –tassativamente elencati dalla cornice normativa eurounionale, statale e provinciale– sono da riscontrare margini funzionali per interventi comunali, ma essi esulano dalla possibilità di dettare una disciplina generale di deroghe di utilizzo e distanziometriche come ha fatto il Comune di Malles.
20. Non convince la tesi che il TRGA abbia interpretato erroneamente il quadro legislativo per quanto riguarda la competenza regolamentare nel caso de quo e che invece secondo l’appellante sarebbe da cercare nel Testo Unico delle Leggi sugli Enti Locali di emanazione statale che avrebbe limiti “più elastici ed ampi” invece del TUOC.
In disparte il fatto che su questo punto specifico il legislatore regionale ha esercitato la sua competenza legislativa, e quindi l’applicazione di questa parte della legge statale, giusto l’art. 105 del D.P.R. 670/1972 è esclusa (vedasi, sul punto, Corte Cost. n. 346/2010), non si condivide la tesi che il TUEL si applichi in quanto Regione o Provincia Autonoma non hanno la competenza legislative in materia di tutela dell’ambiente: qui si discute in primis della competenza regolamentare disciplinata dall’ordinamento comunale sull’uso dei prodotti fitosanitari e la competenza sulla tutela dell’ambiente finisce per portare lontano dal preciso thema decidendum non essendo la predicata mancata attribuzione alla Regione o alla Provincia della materia ambientale un argomento sufficiente per configurare una competenza regolamentare generale del comune in materia di ambiente, sganciata da una base giuridica primaria.
In ogni modo e ad abundatiam, ad avviso del Collegio il confronto delle due norme sulla potestà regolamentare non porta ad un risultato diverso, trovando in entrambi gli ordinamenti come barriera invalicabile l’espresso trasferimento di un eventuale funzione dalla rispettiva norma di legge, inesistente nel caso de quo.
21. Sono chiaramente insufficienti i richiami di alcune massime espresse dalla legge n. 3/2003 e n. 131/2003, oltre che dal Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari (PAN) in attuazione della direttiva 2009/128/CE che invece istituisce un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile, e del d.lgs. del 14.08.2012, n. 150 (Attuazione della Direttiva 2009/128/CE).
22. Entrando nel particolare, il Collegio non vede nel punto A.5.6 del PAN una fonte di competenza per una tale restrizione di utilizzo di prodotti fitosanitari, in quanto da tale disciplina: la competenza del Comune di emanare norme secondarie che possano vietare generalmente sul proprio territorio comunale prodotti fitosanitari chimico-sintetici non è ricompresa in tale norma, né è possibile leggerla nell’art. 191 TFUE che invece riserva –per mancanza di un qualsiasi tenore letterale– l’intervento normativo nell’ambito delle politiche dell’Unione stessa e pertanto gli Stati membri (e, qualora l’ordinamento prevedesse ulteriori competenze discendenti) sono obbligati a rispettare questi in sede di attuazione del diritto eurounionale.
23. Inconferente risulta al Collegio il richiamo alla possibilità degli Stati membri di adottare misure di tutela più incisiva, rilevato che lo stesso TFUE non descrive organi interni a ciò deputati.
24. Anche l’iter con il quale l’appellante giunge alla “soppressione” del principio della gerarchia delle fonti per effetto dell’art. 114, comma 2, della Costituzione (che a sua volta richiama gli statuti comunali) o dell’art. 117, comma 6 (sull’evidenza che la potestà regolamentare dei comuni è circoscritta alla disciplina dello svolgimento delle funzioni loro attribuite) non è corretto.
Risulta invece incontestato che l’art. 4, comma 4, della legge n. 131/2003 e gli artt. 2 e 5 del TUOC della Regione Trentino-Alto Adige (D.P.Reg n. 3/L del 2005, ratione temporis vigente) possono solo essere letti come principio della riserva di legge, e la potestà regolamentare dei comuni presuppone sempre una norma di legge attributiva di tale competenza.
Per quanto riguarda invece le specifiche norme settoriali, il TRGA ha puntualmente e correttamente accertato –con piena condivisione di questo Collegio– perché le norme richiamate dal Comune resistente in primo grado non possono essere interpretati per radicare una specifica competenza in materia.
25. Risulta più che evidente che il d.lgs. n. 150/2012 (attuazione della direttiva 2009/128/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio) ha radicato l’attuazione delle misure previste dal decreto e di quelle previste dal Piano d’azione (articolo 6) all’Amministrazione statale, alle Regioni e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano, ovviamente ciascuno nell'ambito delle proprie competenze.
Manca qualsiasi riferimento invece ad una competenza attribuita ai comuni:
   i) secondo l’art. 15, co. 1, il Piano d’azione definisce le misure appropriate per la tutela delle aree vulnerabili;
   ii) secondo l’art. 15, co. 6, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano attuano tali misure e possono individuare ulteriori aree specifiche rispetto a quelle indicate nel comma 2, in cui applicare divieti o riduzioni d'uso dei prodotti fitosanitari.
Nulla è da trovare in merito ad una competenza comunale.
26. Il citato Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari non conosce una specifica funzione regolatoria comunale. Non si condivide la tesi del Comune appellante che il punto A.5.6. possa essere letto come fonte di un potere comunale, semplicemente in quanto gli enti locali non risultano quali autorità competenti nell’art. 15 del d.lgs. 150/2012.
Al contrario, con tale disciplina veniva disposto che nelle aree agricole adiacenti a determinate aree sensibili ivi specificate è vietato l’utilizzo, a distanze inferiori di 30 metri dalle predette aree, di prodotti fitosanitari classificati tossici, molto tossici e/o recanti in etichetta le frasi di rischio R40, R42, R43, R60, R61, R62, R63 e R68, ai sensi del decreto legislativo n. 65/2003 s.m.i., o le indicazioni di pericolo corrispondenti, di cui al regolamento (CE) n. 1272/2008.
Quando vengono adottate misure di contenimento, tenuto conto delle prescrizioni indicate in etichetta e fatte salve determinazioni più restrittive delle Autorità locali competenti, tale distanza può essere ridotta fino ad una distanza minima di 10 metri. Dalla piana lettura di questa disciplina si evince che essa preclude alle autorità locali competenti di stabilire distanze maggiori o di individuare aree protette diverse da quelle specificamente indicati.
27. Infine, scrutinando il terzo motivo dell’appello, il Collegio non può nemmeno intravedere una violazione di principi costituzionali o dell’Unione Europea per quanto riguarda il principio di precauzione.
28. Ai fini dell’esercizio della potestà regolamentare rivendicata dal Comune non sono sufficienti i richiami di principi relativi a esigenze di tutela (solo genericamente enunciati come necessari al livello periferico), anche se si tratta di valori costituzionali (salute ed ambiente) di indubbia importanza, va considerato che tale potestà incide proprio su valori fondamentali e diritti di libertà dei cittadini costituzionalmente garantiti e pertanto non può non trovare un preciso fondamento in una norma legislativa, in questo caso non esistente.
Non è sufficiente che il Comune richiami testi ed opinioni scientifiche sugli asseriti effetti della contaminazione dell’aria e del terreno dai pesticidi per poter accertare una competenza comunale in base al principio di precauzione, e non migliora tali tesi se si ci si riferisce alle funzioni amministrative previste dal TUOC (sia di emanazione statale che regionale) tali funzioni infatti non prevedono alcuna generale attribuzione di competenza al Comune.
29. Non è neanche una questione di proporzionalità o efficace applicazione di principi generali di difesa integrata, essendo tali canoni rilevanti solamente in presenza di una precisa competenza.
Risulta invece pertinente il richiamo degli odierni appellati alla giurisprudenza costituzionale che (Corte Cost. n. 160/2022) in una fattispecie parzialmente analoga ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al regolamento (UE) n. 2012/528, la legge regionale della Sicilia n. 21/2021 sul divieto di utilizzo di biocidi diversi da quelli consentiti in agricoltura biologica in una serie di ambiti territoriali individuati dalla stessa disposizione, nonché lungo i bordi di tutte le strade pubbliche e lungo i percorsi ferroviari e in qualsiasi altro luogo pubblico non destinato ad attività agricola.
La Corte Costituzionale ha accertato che “La costante giurisprudenza di questa Corte ritiene costituzionalmente illegittime, per violazione dell’art. 34 TFUE, leggi che impongano limiti alla libera circolazione delle merci al di fuori di quanto consentito dal diritto dell’Unione europea (sentenze n. 23 del 2021, n. 66 del 2013 e n. 191 del 2012). L’importazione di merci destinate al consumo umano o animale da Paesi terzi, destinate poi a circolare liberamente all’interno del mercato unico, è disciplinata in modo uniforme dal regolamento (UE) n. 2017/625, e in particolare dal suo Capo V, ove si prevedono controlli documentali e fisici a campione sulle merci importate, ma non una certificazione obbligatoria su ogni singolo prodotto come quella prevista dalla disposizione impugnata.
Tale certificazione –che peraltro si sovrappone indebitamente ai controlli che l’art. 1 del d.lgs. n. 24 del 2021, attuativo del menzionato regolamento (UE) n. 2017/625 a livello nazionale, affida a posti di controllo frontaliero del Ministero della salute– si configura quale condizione ulteriore rispetto a quanto previsto dal diritto dell’Unione per la commercializzazione, lavorazione, trasformazione o vendita delle merci importate, e si risolve, pertanto, in una «misura di effetto equivalente» a una restrizione quantitativa all’importazione, vietata dall’art. 34 TFUE
.” (punto 3.4 della sentenza).
Ed è anche da escludere che il principio di precauzione come definito dall’art. 191 del TFUE sia una norma direttamente applicabile, essendo una norma che contempla obiettivi, principi e diversi criteri, e sicuramente necessita di una adozione di concretizzazione a livello secondario (cfr. CGUE, C-284/95, ECLI:EU:C:1998:352): non può creare diritti di singoli, che il singolo potrà far valere avanti ad autorità.
Inoltre osserva il Collegio che anche l’asserita “ulteriore” tutela che prevede il regolamento comunale non è legittima, in quanto il regolamento (CE) 1107/2009 non lascia spazi vuoti a disposizione di ulteriori enti, essendo il principio di precauzione attuato in modo esaustivo ed in dettaglio nella procedura europea (art. 1 co. 3) e delineato anche dalla Comunicazione della Commissione Europea del 02.02.2000 COM (2000) 1 def.
30. Per quanto riguarda le norme del PAN è sufficiente rilevare che il punto 5.6 ammette che le autorità locali (senza però includere expressis verbis i Comuni) possono opporsi alla riduzione della distanza a 10 m da determinate aree nell’uso di fitofarmaci, ma non consente che un Comune possa proclamare divieti generalizzati come quello nel caso oggetto del giudizio.
31. Ma l’appellante non può neanche essere seguita laddove invoca l’incostituzionalità e la contrarietà al diritto dell’Unione Europea in quanto verrebbe impedito al Comune di adottare misure più appropriate, anche se più restrittive, rispetto a ciò che viene previsto per altri territori: non solo tale critica è troppo generica e non indica specificamente quale parametro costituzionale è realmente violato, ma l’impossibilità di un divieto regolamentare del Comune non viola l’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Secondo tale disposizione eurounionale “Ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell'attuazione di tutte le politiche ed attività dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana.”
L’appellante infatti non indica nel suo ricorso quale lacuna della disciplina adottata dall’Unione Europea (ricordata al punto 3 d) non possa garantire tale livello di protezione della salute. Né al Collegio sembra pertinente il richiamo della giurisprudenza della CGUE del 2019 (causa C-197/18) non essendo tale decisione sovrapponibile al caso oggetto di questo giudizio.
Con tale questione pregiudiziale il giudice a quo chiedeva se nelle acque sotterranee il contenuto massimo di nitrati di 50 mg/l debba essere rispettato in ogni singolo punto di prelievo e si trattava di articoli della direttiva che –contrariamente al principio di precauzione oggetto di questa causa– sono chiari, precisi ed incondizionati, ragion per cui possono essere invocati dai singoli nei confronti dello Stato.
La disciplina eurounionale non stabilisce il livello di governo al quale affidare la competenza in materia ambientale ed il principio di precauzione non implica la sua necessaria allocazione in capo al Comune per assicurare un elevato livello della salute umana che può essere garantito da un sistema di allocazione delle competenze che –come nel Trentino Alto Adige– preveda un ruolo centrale della Provincia.
32. Inconferenti sono anche i richiami alla giurisprudenza di questo Consiglio.
La pronuncia della Quinta Sezione, n. 2495/2015 riguardava una diversa questione relativa ad una valutazione di impatto ambientale di un progetto specifico, nel quale la Sezione accertava che “Ebbene, posto che le conclusioni cui sono pervenuti i professionisti incaricati dalla Forest in merito al rilievo dei fattori di pericolo e alla possibilità di farvi fronte in modo efficace sono espresse in chiave puramente probabilistica, deve concludersi che non risulta acquisita una prova, dotata di un grado adeguato di attendibilità, della sicurezza della diga e dell’insussistenza del rischio della produzione di conseguenze diverse da quelle stimate dalla proponente. Se si considera poi l’irreversibilità dei fenomeni indotti dalla subsidenza in un’area caratterizzata da conclamati da profili di fragilità, deve considerarsi ragionevole il ricorso del Comitato VIA al principio di precauzione nei termini sopra richiamati.
In definitiva, a fronte del rischio di cedimento della diga e in considerazione delle più ampie esigenze di tutela ambientale e di incolumità pubblica, del tutto legittima appare, nell’esercizio di un potere latamente discrezionale non sindacabile nel merito in assenza di profili di sviamento e travisamento, la conclusione di matrice cautelativa cui è pervenuto il Comitato VIA. Osserva poi il Collegio che l’onere motivazionale che incombe sull’Amministrazione è stato adeguatamente assolto dal Comitato procedente già in occasione del primo giudizio VIA negativo n. 1929 del 2012, nel quale si dà conto dei timori connessi al fenomeno della subsidenza legata all’estrazione del gas, specie in considerazione dell’ubicazione del giacimento al di sotto del lago e della diga interna e delle conseguenze disastrose che potrebbero derivare da un eventuale crollo della diga. Timori, questi, che hanno reso doverosa la predisposizione di una tutela anticipata e legittima l’applicazione del principio di precauzione
.”
Da ciò emerge chiaramente che l’interpretazione del principio di precauzione su un singolo progetto non può essere la stessa in un astratto regolamento comunale. E non giova neanche richiamare la sentenza della Quarta Sezione, n. 1392/2017, sempre su un singolo progetto infrastrutturale in Puglia (Trans Adriatic Pipeline).
In entrambi i casi il principio di precauzione è stato correttamente interpretato da questo Consiglio di Stato nell’ambito delle specifiche funzioni (provvedimentali) dell’ente pubblico nel rispettivo procedimento amministrativo, ma tali casi non sono idonei a radicare una (nuova) funzione regolatoria del Comune.
33. Ad avviso del Collegio in base al diritto dell'Unione Europea il principio di precauzione è soddisfatto se le sostanze attive e i prodotti fitosanitari siano sottoposti a una procedura di autorizzazione alla quale il legislatore dell'Unione e l'ordinamento giuridico nazionale impongono requisiti rigorosi per la tutela della salute umana e dell'ambiente.
La corretta applicazione del principio di precauzione richiede la determinazione degli effetti potenzialmente negativi di una sostanza sulla salute ed una valutazione esaustiva del rischio per la salute sulla base dei dati scientifici più affidabili disponibili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale.
Se non è possibile stabilire con certezza l'esistenza o l'entità del rischio presunto perché i risultati degli studi effettuati sono inadeguati, inconcludenti o imprecisi, è necessario valutare la probabilità di un danno effettivo alla salute umana. La probabilità di un danno effettivo alla salute pubblica persiste se il rischio si concretizza, il principio di precauzione giustifica l'adozione di misure restrittive se sono oggettive e non discriminatorie.
In tali circostanze, il legislatore dell'Unione deve poter adottare misure di protezione in conformità al principio di precauzione senza dover attendere che l'esistenza e l'entità di tali rischi siano chiaramente stabilite (cfr. CGUE, C-333/08, ECLI:EU:C:2010:44, n. 92 ss.).
34. Da ultimo, anche nel caso che si potesse concludere che il Comune abbia una competenza regolamentare in questa materia –cosa che il Collegio esclude– è da rilevare che il regolamento qui in esame incontrerebbe comunque l’ostacolo del diritto dell'Unione Europea che disciplina l'autorizzazione, l'immissione in commercio e l'uso di sostanze attive e prodotti fitosanitari che in questo modo risulta standardizzato in tutto il territorio dell'Unione e con l'effetto diretto in tutti gli Stati membri.
Va ricordato che i prodotti fitosanitari possono essere immessi in commercio ed utilizzati solo se sono stati autorizzati dal Ministero della Salute, conformemente alle disposizioni previste dal Regolamento (CE) N. 1107 del 21.10.2009, dal D.P.R. 28.02.2012, n. 55 e dal D.P.R. 23.04.2001. n. 290.
Questo significa che il divieto sistematico (esplicito e implicito) di alcuni prodotti fitosanitari creerebbe una norma nazionale in contraddizione con il diritto eurounionale che già sconta entro di sé la necessità del rispetto di un elevato livello di tutela della salute umana per il principio che vuole che la tutela ambientale e sanitaria sia integrata alla fonte e non considerata ex post.
Pertanto, entrano in gioco le norme sul conflitto delle norme, che la Corte di giustizia europea ha sviluppato nella giurisprudenza e che si basano sul principio del primato del diritto dell'Unione (si ricordi la celebre giurisprudenza CGUE, C-26/62, Van Gend e Loos, ECLI:EU:C:1963:1 e C-6/64, Flaminio Costa c. ENEL, ECLI:EU:C:1964:66).
Il primato riguarda tutte le fonti del diritto dell'Unione, compreso il diritto derivato dell'Unione ed ha effetto su tutte le fonti del diritto nazionale. In conformità al principio del primato del diritto dell'Unione le disposizioni del Trattato e gli atti direttamente applicabili delle istituzioni comunitarie, nel loro rapporto con il diritto interno degli Stati membri non solo hanno come conseguenza che qualsiasi disposizione contrastante del diritto nazionale in vigore diventi inapplicabile senza ulteriori interventi, ma anche che l'effettiva adozione di nuovi atti legislativi nazionali nella misura in cui essi siano incompatibili con le norme comunitarie (C-106/77, Simmenthal II, ECLI:EU:C:1978:49, par. 17/18).
L'articolo 288, paragrafo 2, del TFUE sarebbe irrilevante se gli Stati membri potessero privarlo unilateralmente della sua efficacia mediante atti legislativi. Da ciò discende che gli Stati membri non possono quindi modificare unilateralmente o mettere altrimenti in discussione l'entrata in vigore, il contenuto o l'applicabilità di un regolamento europeo (C-34/73, Fratelli Variola c. Amministrazione delle Finanze, ECLI:EU:C:1973:101, par. 15).
Agli organismi di normazione degli Stati membri è pertanto vietato adottare o mantenere in vigore disposizioni legislative o amministrative o persino una prassi amministrativa in conflitto con il diritto dell'Unione prevalente. Da ciò consegue che tutte le autorità chiamate ad applicare il diritto, in particolare l'amministrazione e i tribunali (CGUE, C-312/93, Peterbroek, ECLI:EU:C:1995:437, par. 20) sono quindi obbligati a non tenere conto del diritto nazionale o di qualsiasi prassi amministrativa contrastante.
Il diritto dei produttori di utilizzare le sostanze attive autorizzate per la fabbricazione di prodotti fitosanitari e di immetterli sul mercato è conferito da disposizioni incondizionate, chiare e precise del diritto dell'Unione, che non lasciano agli Stati membri alcun margine di manovra, cosicché il diritto di utilizzare le sostanze attive ha un'applicazione diretta e un effetto diretto in tutti gli Stati membri (comprese tutte le aree interne come il territorio comunale di Malles) senza l'intervento di misure nazionali di recepimento o attuazione.
Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia ricordata supra ad un Comune non è quindi ammesso privare unilateralmente dell'efficacia dell'autorizzazione delle sostanze attive ai sensi dei regolamenti UE pertinenti mediante atti regolamentari (o anche solo una prassi amministrativa) contrari al diritto dell'Unione prevalente.
35. Ne consegue il rigetto dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.01.2024 n. 915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza di questa stessa Sezione, se è vero che il soggetto che richiede il rilascio del titolo edilizio può obbligarsi, a scomputo totale o parziale della quota dovuta a titolo di contributo di costruzione, a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, è altrettanto pacifico che tale iniziativa è subordinata ad una valutazione dell’amministrazione.
Ne discende che l’ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione e che non sorge alcun diritto in capo al privato proponente se, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell’impegno a realizzarle, non vi sia stato un espresso atto di accettazione consensuale da parte dell’amministrazione.
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1. La sig.ra Ol.Ca. ha chiesto la riforma della sentenza n. 631, depositata l’01.10.2018, con la quale il giudice di primo grado ha respinto la domanda volta all’annullamento della clausola della concessione edilizia n. 67/96 del 16.09.1996 che ha imposto il pagamento di 34.550.290 di vecchie lire, a titolo di oneri di urbanizzazione, e di 13.600.000 milioni di vecchie lire, a titolo di contributo di concessione, e alla conseguente declaratoria del diritto alla restituzione delle somme versate, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
1.2. L’appellante ha esposto che:
   a) ha ottenuto dal Comune di Ancona la concessione edilizia n. 67/96 per la demolizione e ricostruzione di un edificio unifamiliare per civile abitazione e cambio d'uso con opere di annesso agricolo, ubicato in via ... n. 32, concessione seguita da due varianti;
   b) con nota del 17.11.1998 ha fatto riserva avverso la clausola di onerosità, essendo la concessione stata sottoposta al pagamento di 34.550.290 di vecchie lire, a titolo di oneri di urbanizzazione, e di 13.600.000 milioni di vecchie lire, a titolo di contributo di concessione;
   c) con lettera del 15.07.1999 prot. n. 49817 il Comune di Ancona ha richiesto il versamento di 13.600.000 di vecchie lire, corrispondente al costo di costruzione;
   d) con nota del 28.07.1999 la sig.ra Ca. ha dedotto che il termine di pagamento di tale importo non era ancora scaduto, attesa la proroga correlata alle varianti intervenute e con successiva nota dell’11.08.1999 ha osservato che la concessione è stata illegittimamente sottoposta ad onerosità, dovendo esserne esente, ai sensi dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, rientrando la demolizione e ricostruzione nella nozione di ristrutturazione, e ai sensi dell'art. 11 della medesima legge, atteso che l'istante ha dovuto eseguire a proprie spese le opere di urbanizzazione;
   e) con nota dell’11.10.1999 il Comune ha reiterato quanto affermato il 15.07.1999 e il 30.12.1999 la sig.ra Ca. ha versato la somma richiesta, riservandosi di agire per la restituzione di tutto quanto pagato.
1.3. L’appellante deduce l’erroneità della sentenza di primo grado laddove, pur dando atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui l'esenzione dal costo di costruzione, di cui alla lettera d) dell'art. 9 della legge n. 10/1977, fosse applicabile anche agli interventi di demolizione e ricostruzione, afferma “la deroga all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9 della legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito dall’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar Campania Salerno, 22.06.2015, n. 1416; Tar Lombardia Milano, 10.10.1996, n. 1480; Tar Toscana, 26.04.2017, n. 616; Tar Marche, 09.01.2018, n. 9).”.
In particolare l’appellante lamenta che l'interpretazione restrittiva seguita dal giudice di primo grado, frutto di un più recente orientamento della giurisprudenza, si porrebbe in contrasto con l'art. 111 Cost. essendo mancata un'attenta ponderazione degli effetti del mutamento dell'interpretazione normativa a significativa distanza dall'introduzione del giudizio e dal rilascio del titolo edilizio, nonché deduce l’erroneità della sentenza laddove afferma che parte istante non avrebbe assolto all’onere probatorio relativo al carattere unifamiliare del fabbricato non avendo il Comune contestato che si trattasse di una ex tipica casa colonica delle campagne marchigiane, che l’intervento fosse qualificabile come ristrutturazione e che l'ampliamento fosse contenuto nel 20%.
La sentenza sarebbe erronea anche per la parte in cui ha negato l’applicabilità dell’art. 11 della legge n. 10/1977 in quanto, secondo la giurisprudenza anche in assenza di un atto d'obbligo l'amministrazione potrebbe tenere conto della domanda di scomputo delle opere già realizzate senza il previo dettato comunale ove sussista la relativa previsione, anche se solo in forma generica, nella concessione edilizia ovvero la discrezionale determinazione di accettazione ex post delle opere da parte del Comune che secondo parte istanze dovrebbe desumersi nel caso di specie dal parere favorevole della C.E. del 22.07.1997.
2. Il Comune di Ancona si è costituito in giudizio ed ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità della produzione in giudizio da parte dell’appellante chiedendo lo stralcio e la cancellazione dei seguenti documenti nuovi depositati: "2. relazione arch. Ro.Pa. 05.07.1999; 3. concessione in variante; 4. relazione arch. Ro.Pa. 17.11.1998.", nonché l’inammissibilità dell’appello per genericità ed assenza di specificità delle censure che integrano una mera richiesta di riesame dei motivi di impugnazione formulati in primo grado.
2.1. Nel merito il Comune ha concluso per il rigetto dell’appello e per la conferma della sentenza di primo grado che correttamente avrebbe escluso l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’esenzione dall’onerosità, ai sensi dell’art. 9, lett. d), della legge n. 10/1977, così come l’applicabilità dell’art. 11 della medesima legge n. 10/1977.
...
8. E’, infine, infondata anche la censura relativa all’erroneità della decisione per la parte in cui ha negato l’applicabilità dell’art. 11 della legge n. 10/1977 per il riconoscimento delle opere di urbanizzazione realizzate dai concessionari.
8.1. Secondo la giurisprudenza di questa stessa Sezione se è vero che il soggetto che richiede il rilascio del titolo edilizio può obbligarsi, a scomputo totale o parziale della quota dovuta a titolo di contributo di costruzione, a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune, è altrettanto pacifico che tale iniziativa è subordinata ad una valutazione dell’amministrazione.
Ne discende che l’ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione e che, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, non sorge alcun diritto in capo al privato proponente se, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell’impegno a realizzarle, non vi sia stato un espresso atto di accettazione consensuale da parte dell’amministrazione (Consiglio di stato, sez. VII, 18.12.2023, n. 10947).
8.2. Nel caso di specie è pacifico e non contestato che non vi fosse stato un previo atto d'obbligo da parte dell’amministrazione, né, a differenza di quanto affermato da parte appellante, l’accettazione dell’amministrazione sarebbe desumibile dagli atti citati nell’appello e segnatamente dal parere favorevole della C.E. del 22.07.1997 che ha finalità del tutto distinte.
9. Per tali ragioni l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 09.01.2024 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: I Comuni devono esercitare i poteri di controllo dell’inquinamento acustico anche se i danni riguardano un solo condomino.
Il Comune chiamato in causa dal condomino che subisce danno dall’esercizio commerciale rumoroso è tenuto ad attivarsi anche se lo stesso si trovi in una strada molto trafficata e con elevata rumorosità di fondo e anche la richiesta arriva da un solo danneggiato.

Lo chiarisce la sentenza 08.01.2024 n. 193 del TAR Campania-Napoli, Sez. V (articolo NT+Condominio del 15.01.2024).
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SENTENZA
... per l'accertamento della illegittimità del silenzio-inadempimento serbato in ordine all'istanza presentata in data 10.07.2023 per l'esercizio dei poteri di vigilanza, controllo e repressione per superamento limite acustico in relazione all'immobile sito in Torre del Greco, corso ... n. 36-36/A, catastalmente individuato al Foglio 10, p.lla 1664, sub 6, laddove ha sede l'esercizio commerciale denominato “Il Sa. de. Do.”.
...
Viene in decisione il ricorso con cui la nominata in epigrafe, proprietaria di un immobile sito in Torre del Greco ubicato al primo piano di un fabbricato in cui ha sede, al piano terra, l’esercizio commerciale controinteressato attivo nella ristorazione con somministrazione di cibi e bevande e con diffusione di musica e concerti, lamenta l’inerzia delle amministrazioni intimate (Comune di Torre del Greco ed Arpac, per quanto di competenza), ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., nell’attivazione dei poteri di controllo delle immissioni acustiche ai sensi dell’art. 14 della L. n. 447/1995 (Legge quadro sull'inquinamento acustico), a suo dire intollerabili, generate dal predetto operatore commerciale, come documentate nella perizia di parte versata agli atti di causa.
Si duole, in particolare, del mancato riscontro alla diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 2 della L. n. 241/1990 del 10.07.2023 e conclude con le richieste di accoglimento del ricorso, di conseguente accertamento dell’obbligo del Comune –se, del caso, avvalendosi dell’Arpac– di concludere il procedimento con adozione di un provvedimento espresso e con nomina, in caso di perdurante inerzia, di un commissario ad acta che provveda in via sostitutiva.
Si sono costituite le controparti opponendosi all’accoglimento del gravame.
L’ente locale rappresenta di non aver riscontrato la diffida in quanto impegnato, nel medesimo periodo, nella organizzazione delle attività di soccorso alla popolazione in seguito al crollo di un edificio verificatosi il 16.07.2023, espone che l’accertamento invocato dalla ricorrente è reso arduo dalla particolare conformazione della strada ove è ubicato l’appartamento della ricorrente, in quanto molto trafficata e con elevata rumorosità di fondo e, in ogni caso, ritiene che le doglianze formulate vadano derubricate a controversia tra privati tutelabile innanzi al giudice civile con esercizio dell’azione inibitoria ex art. 844 c.c. ovvero ai sensi dell’art. 700 c.p.c., prospettando, infine, il difetto di giurisdizione in quanto la controversia avrebbe ad oggetto la tutela di diritti soggettivi devoluti alla cognizione del giudice ordinario.
La società controinteressata si associa alla eccezione in rito evidenziando, inoltre, che alcuna querela è stata sporta per il reato di cui all’art. 659 c.p. a fronte di una attività commerciale svolta sin dal 2019. Eccepisce inoltre l’inammissibilità del gravame per omessa impugnazione della autorizzazione rilasciata per installazione del “dehors” in cui è svolta l’attività commerciale e chiede il rigetto del gravame.
...
Non ha pregio, preliminarmente, l’eccezione in rito riferita al difetto di giurisdizione dell’adito Plesso.
Giova evidenziare che parte ricorrente, con la diffida sopra emarginata, ha compulsato il Comune, rimasto inerte, in ordine all'esercizio delle funzioni di controllo e di vigilanza previste dalla L. n. 447/1995.
La suddetta normativa disciplina il potere dei Comuni (art. 14), anche avvalendosi delle Agenzie Regionali dell’Ambiente, in ordine al controllo sull’osservanza delle prescrizioni attinenti al contenimento dell'inquinamento acustico e prevede, essenzialmente a tutela dell'ordine pubblico, la facoltà di accedere agli impianti ed alle sedi di attività che costituiscono fonte di rumore, di richiedere i dati, le informazioni e i documenti necessari per l'espletamento delle proprie funzioni (art. 14, comma 3) e di adottare, in presenza di eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente, con provvedimento motivato, il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività (art. 9).
La natura del potere pubblico compulsato non esclude che detto intervento possa essere sollecitato nell'interesse di un solo soggetto, leso dai rumori, e, pertanto, non impedisce l'emersione di una posizione di interesse legittimo differenziato in capo a chi l'esercizio di tale potere solleciti, con conseguente obbligo della P.A. di riscontrare l'istanza, in ossequio al canone di cui all'art. 2 della L. n. 241/1990, con conseguente radicamento della generale giurisdizione amministrativa nei riguardi dell'atto adottato ovvero del mancato esercizio dello stesso (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 7316/2020).
Non coglie nel segno, di seguito, neppure l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla controinteressata.
Ed invero, l’azione proposta, come sopra spiegato, non è affatto diretta all’annullamento di un atto autorizzativo alla installazione della struttura “dehors” realizzata dalla società controinteressata, sicché l’omessa impugnazione di tale provvedimento non preclude all’istante il potere di sollecitare la verifica dell’ente in ordine al rispetto dei limiti di emissione acustica e alla eventuale adozione dei poteri provvedimentali previsti dalla L. n. 447/1995.
Nel merito, il ricorso va accolto non avendo il Comune fornito riscontro alla diffida in epigrafe entro il termine previsto dall’art. 2 della L. n. 241/1990 per la definizione del procedimento con un atto espresso e motivato.
Per l’effetto, previo accertamento del persistente inadempimento dell’amministrazione intimata, il Comune va condannato a provvedere definitivamente sull'istanza de qua –avvalendosi delle Agenzie Regionali dell’Ambiente ai sensi dell’art. 14 della L. n. 447/1995- entro il termine perentorio di giorni 30 (trenta) decorrenti dalla comunicazione della presente sentenza o, se anteriore, dalla sua notifica.
Il Tribunale si riserva di provvedere alla nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione comunale oltre il citato termine, previa apposita istanza di parte ricorrente da notificare alle controparti intimate.

URBANISTICA: Come noto, le scelte di pianificazione operate dall'ente territoriale sono connotate da amplissima discrezionalità e non richiedono una puntuale motivazione eccedente le indicazioni di carattere generale offerte dall'Amministrazione, fatti salvi i casi in cui sussiste una posizione di affidamento particolarmente qualificato in capo al privato. Invero:
   - “le scelte di pianificazione urbanistica sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito; esse non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente piano regolatore generale";
   - "Le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento nel merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, con la conseguenza che non devono essere congruamente motivate".
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Giusta il consolidato orientamento, “in assenza di omogeneità delle zone poste in comparazione e data la natura necessariamente parcellizzata delle previsioni edificatorie, non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto meno in relazione all'assetto urbanistico del territorio, sul quale l'Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando affatto l'ampiezza dei lotti interessati dalle differenti previsioni.
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal G.A. entro limiti alquanto ristretti; a tale riguardo, le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal G.A., salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basato sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti".
Altresì, non può obliterarsi che “la pianificazione territoriale "prescinde", infatti, "dalla titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di sviluppo che l'amministrazione intende perseguire. Può dunque legittimamente accadere che un'area appartenente a un unico proprietario o costituente un unico mappale catastale sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte un altro"”.
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1. Con atto notificato il 28.02.2020 e depositato il successivo 11 maggio, la sig.ra Di Ma.Ro., nella dedotta qualità di proprietaria di un lotto di terreno sito in Lusciano, ha impugnato, chiedendone l’annullamento, la D.C.C. del Comune di Lusciano n. 54 del 26.11.2019 con la quale è stato approvato il Piano Urbanistico Comunale e la Valutazione Ambientale Strategica, per la parte in cui viene prevista per il fondo di sua proprietà la destinazione in parte in area “B1” e in parte in area “D1”.
2. A sostegno del gravame la ricorrente ha articolato, con unico motivo, censure di violazione di legge e di eccesso di potere (art. 32 l. R.C. 22.12.2004, n. 16; regolamento regionale 04.08.2011, n. 5; art. 3 l. 07.08.1990 n. 241; contraddittorietà; irrazionalità; illogicità manifesta; violazione del giusto procedimento; difetto assoluto di motivazione; difetto di istruttoria; mancanza assoluta dei presupposti; errore di valutazione).
3. Con ordinanza n. 5176 del 22.09.2023 sono stati disposti incombenti istruttori al fine di acquisire dall’intimato Comune “copia delle deliberazioni comunali gravate (n. 54 del 26.11.2019; n. 73 del 03.07.2018; n. 31 del 19.02.2018) nonché della nota prot. n. 10605 del 02.07.2018, pure menzionata in ricorso” unitamente ad una dettagliata relazione amministrativa sui fatti di causa.
4. In data 29.11.2023 il Comune di Lusciano si è costituito in giudizio, eccependo l’inammissibilità del ricorso per genericità e deducendone in ogni caso l’infondatezza. L’Ente locale ha altresì provveduto a depositare la documentazione richiesta con l’ordinanza n. 5176/23.
5. All’udienza di smaltimento del 30.11.2023 la causa è stata introitata in decisione.
6. La ricorrente contesta che la nuova pianificazione urbanistica comunale, approvata con le delibere qui gravate, avrebbe omesso di classificare l'area della quale l'interessata è titolare come "zona B3”, attribuendo al fondo di sua proprietà la destinazione in parte in area “B1”, in parte in area “D1”.
Deduce che tale scelta sarebbe irrazionale e incoerente con la situazione di fatto (avuto riguardo sia all’unitaria conformazione del lotto, sia alla sua naturale ed evidente vocazione in rapporto alla sua collocazione, in quanto totalmente inglobato in una più vasta area interamente urbanizzata e consolidata, tutta rispondente alla classificazione B) e sarebbe stata adottata senza un’adeguata ponderazione delle osservazioni presentate dall'interessata.
6.1. Il motivo, nelle sue diverse articolazioni, è infondato.
6.2. Giova rimarcare in premessa che, come noto, le scelte di pianificazione operate dall'ente territoriale sono connotate da amplissima discrezionalità e non richiedono una puntuale motivazione eccedente le indicazioni di carattere generale offerte dall'Amministrazione, fatti salvi i casi (tra i quali non rientra quello in esame) in cui sussiste una posizione di affidamento particolarmente qualificato in capo al privato: “le scelte di pianificazione urbanistica sono espressione di un'amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito; esse non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente piano regolatore generale" (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 02/02/2023, n. 1171); "Le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento nel merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, con la conseguenza che non devono essere congruamente motivate" (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.12.2022, n. 7928).
6.3. Nel caso di specie, esaminata la documentazione in atti e alla luce delle doglianze svolte, non è dato apprezzare alcun profilo di abnormità/palese irragionevolezza delle scelte operate, tenuto peraltro conto del fatto che l'Amministrazione procedente ha puntualmente esaminato le osservazioni fatte pervenire dalla ricorrente (volte ad ottenere l’inclusione dell’intero lotto in zona B3, o in subordine, ferma la classificazione per una parte in Area “B1”, qualificare in “B3” solo la parte già individuata come “D2”), rilevando che le stesse non apparivano meritevoli di accoglimento in quanto la proprietà “è caratterizzata da una palazzina residenziale (B1) e una restante parte con immobili già destinati ad attività artigianale (D1)”.
6.4. Tali circostanze di fatto non sono state smentite dalla ricorrente, che si è limitata a genericamente invocare il diverso trattamento riservato alle aree contigue, senza, tuttavia, dimostrare che ricorrano situazioni di fatto concretamente e integralmente sovrapponibili; sul punto, deve pertanto trovare applicazione il consolidato orientamento secondo il quale “in assenza di omogeneità delle zone poste in comparazione e data la natura necessariamente parcellizzata delle previsioni edificatorie, non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto meno in relazione all'assetto urbanistico del territorio, sul quale l'Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando affatto l'ampiezza dei lotti interessati dalle differenti previsioni. Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal G.A. entro limiti alquanto ristretti; a tale riguardo, le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal G.A., salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basato sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti" (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.12.2021, n. 2763).
6.5. Inoltre la ricorrente non può fondatamente dolersi della circostanza che la frazione di lotto controversa sia stata estrapolata dalla restante consistenza immobiliare in sua titolarità, ricadente in zona B1, per essere classificata quale zona D1; non può infatti obliterarsi che “la pianificazione territoriale "prescinde", infatti, "dalla titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di sviluppo che l'amministrazione intende perseguire. Può dunque legittimamente accadere che un'area appartenente a un unico proprietario o costituente un unico mappale catastale sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte un altro" (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.10.2021, n. 2354; cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 10.03.2021, n. 235)” (TAR Campania, Salerno, sez. II, 28.06.2023, n. 1580).
7. Conclusivamente, il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.01.2024 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 27.03.2024

Sulla fiscalizzazione dell'abuso edilizio ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.

EDILIZIA PRIVATA: Sulle modalità di determinazione dell’entità della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione per un intervento abusivo di ristrutturazione edilizia.
Sul piano letterale, l’unico criterio menzionato dall’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 per la determinazione dell’importo della sanzione è quello del costo di produzione: la disposizione non menziona criteri diversi, come il costo storico o il valore di mercato, né contempla differenti metodologie di calcolo del valore dell’immobile ante e post abuso.
Il criterio di commisurazione della sanzione amministrativa pecuniaria, in quanto elemento costitutivo del quantum della medesima, non sfugge al principio di legalità degli illeciti amministrativi sancito dall’art. 1 l. 689/1981, circostanza già di per sé sola ostativa all’introduzione, in via interpretativa, di criteri diversi e ulteriori rispetto a quello previsto dalla legge.
Il legislatore contempla un solo criterio, quello del costo di produzione, sia per gli interventi di ristrutturazione eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire (art. 33) sia per quelli eseguiti in parziale difformità da esso (art. 34) e differenzia le due fattispecie unicamente in relazione alla base di calcolo, costituita nel primo caso dall’aumento del valore dell’immobile e nel secondo caso dalla parte realizzata in difformità. Il costo di produzione assurge, nell’ambito della disciplina eccezionale e derogatoria della c.d. fiscalizzazione dell’abuso, a criterio esclusivo di commisurazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione.
Per tali ragioni, merita condivisione quanto osservato dal giudice di primo grado secondo cui, in assenza di diverse indicazioni normative, la differenza non può che calcolarsi sulla base di grandezze omogenee dovendo i riferiti dati sul valore dell’immobile essere posti a confronto tra loro ai fini di calcolare (per differenza tra gli importi) la somma relativa alla sanzione pecuniaria da irrogare.
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Il rinvio alla legge n. 392/1978, contenuto nell’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001, è limitato ai criteri di determinazione del costo di produzione ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria e non può estendersi anche ai criteri di calcolo del costo base ai fini della determinazione dell’equo canone contemplati dall’art. 22 della legge citata e richiamati nel terzo, quarto e quinto motivo del ricorso introduttivo.
La tesi del rinvio integrale all’abrogata legge del 1978 è smentita sia dal tenore letterale dell’art. 33, comma 2, che limita il rinvio ai soli criteri di determinazione del costo base di produzione sia dalla ratio di equità sociale sottesa alle norme invocate, incompatibile con la natura afflittiva-ripristinatoria della sanzione.
Al riguardo è sufficiente osservare che:
   i) il comma 6 dell’art. 33 sancisce che il contributo di costruzione è comunque dovuto, circostanza che, già di per sé, esclude che esso debba essere inglobato nella sanzione. Ciò in disparte l’illogicità della tesi proposta che, trasformando il contributo di costruzione in una voce di costo di produzione e quindi della sanzione, ne esclude (o riduce) il pagamento per le opere abusive soggette a fiscalizzazione, laddove esso è, invece, integralmente dovuto per le opere legittimamente realizzate;
   ii) la previsione della riduzione del costo base in ragione dell’imposizione fiscale, sancita dal comma 3 dell’art. 22 l. 392/1978, è accomunata all’equo canone dalla medesima finalità di equità sociale e di giustizia redistributiva che ispira l’istituto ed è incompatibile con l’afflittività della sanzione alla quale non è applicabile poiché si tradurrebbe in un vantaggio ingiusto per l’autore dell’abuso, traslando sulla collettività gli oneri fiscali afferenti all’immobile abusivamente realizzato (identiche conclusioni si devono ripetere per la pretesa socializzazione della spesa per le assicurazioni obbligatorie);
   iii) la mancata applicazione dei coefficienti relativi alla categoria catastale previsti dall’art. 16 riguarda, per espressa previsione di legge, solo la determinazione del canone di locazione (comma 4, art. 22), mentre nel caso della sanzione pecuniaria trova applicazione anche l’art. 16 a cui l’art. 33 fa rinvio.

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... per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Bologna, sezione seconda n. 224 del 17.04.2023, resa tra le parti;
...
1. Gli appellanti chiedono la riforma della sentenza in epigrafe indicata che ha respinto il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti proposti per l’annullamento dell’ordinanza del comune di Imola n. 684 del 22.05.2020 e delle cartelle esattoriali con cui è stato ad essi ingiunto il pagamento della sanzione pecuniaria di euro 499.925,12 relativa ad un intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in mancanza di idoneo titolo edilizio.
1.1 Con il ricorso di primo grado gli interessati lamentavano l’illegittimità della sanzione per i seguenti motivi:
   i) il comune ha calcolato la sanzione pecuniaria ritenendo che il rinvio contenuto nell’art. 33 ai criteri della l. 392 del 1978 dovesse intendersi riferito non solo all’edificio ristrutturato, ma anche a quello preesistente; la norma, tuttavia, non prevede tale rinvio poiché il richiamo al “costo di produzione” ex l. 392 del 1978 riguarda solo l’opera costruita e non il valore iniziale dell’immobile;
   ii) il comune ha erroneamente attualizzato il costo di produzione dell’edificio al mese di febbraio 2004 (data di deposito della SCIA in sanatoria da parte dei ricorrenti), sebbene la “data di ultimazione dei lavori” a cui fa riferimento l’art. 33, comma 2, ai fini dell’attualizzazione del costo di produzione fosse di gran lunga antecedente alla presentazione della SCIA;
   iii) il comune ha violato l’art. 22 l. 392/1978 per avere compreso due volte l’importo del contributo di costruzione nel calcolo della sanzione pecuniaria, avendo computato il coefficiente di cui all’art. 16 della citata legge (categoria catastale) senza tenere in alcun conto le “variabili” del costo di produzione costituite da “imposta di registro”, “ogni imposizione fiscale” e “assicurazioni obbligatorie”, come, invece, previsto dalla citata disposizione.
1.2 Il Tar adito respingeva il ricorso ritenendo che l’art. 33 d.p.r. 380/2001 prevedesse, quale unico criterio per la determinazione della sanzione, quello del costo di produzione e che il rinvio alla l. 392/1978 non comprendesse le richiamate previsioni dell’art. 22 l. 392/1978.
2. Con l’appello in trattazione i ricorrenti chiedono la riforma della sentenza per i seguenti motivi:
   I. Violazione dell’art. 33 co. 2° T.U. Edilizia e dei principi fondamentali in materia di sanzioni edilizie fondate sull’“aumento di valore” ritratto dall’abuso.
   II. Violazione dell’art. 33 co. 2° T.U Edilizia in relazione al principio di intangibilità della c.d. “parte legittima” desumibile dal T.U. Edilizia.
   III. Violazione dell’art. 33, 2° c. T.U.Ed. ed errata percezione e valutazione degli atti di causa.
   IV. Violazione dell’art. 33, 2° c. T.U.Ed. in relazione all’art. 22 l. 392/1978.
   V. Sul ruolo e sulle cartelle esattoriali.
3. Si è costituito in giudizio il Comune di Imola che ha insistito per la reiezione del gravame.
4. Con ordinanza n. 5008 del 13.12.2023 questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare, rilevando che “trattandosi di questione esclusivamente pecuniaria nella comparazione degli interessi in gioco non si ravvisano, né sono stati prospettati dalla difesa civica, elementi di periculum nel mero differimento dell’introito delle somme ingiunte da parte del Comune di Imola”.
...
7. L’appello è infondato.
8. Con i primi due motivi di appello, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto tra loro connessi, i ricorrenti lamentano l’erroneità del capo della sentenza che ha respinto le censure relative all’illegittima applicazione del criterio del costo di produzione per il calcolo del valore dell’immobile antecedente alla realizzazione dell’abuso. La sentenza sarebbe censurabile in entrambi i suoi corni argomentativi poiché:
   i) quanto alla lettera della norma, essa appare chiara nel senso di riferire l’applicazione del criterio convenzionale del “costo di produzione” unicamente all’immobile come è “emerso” dall’abuso;
   ii) non è corretto predicare un’omogeneità dei criteri estimativi, senza distinguere tra preesistenze legittime e innovazioni abusive poiché il “valore” ritratto dall’abuso corrisponde unicamente all’“oggetto edilizio” realizzato in modo illecito, mentre la porzione legittima –non rileva se ancora esistente o “perita” a causa dell’abuso– è un “a priori” il cui valore non può mai essere incluso nell’operazione estimativa, pena la realizzazione di un esproprio “di valore” di un cespite legittimo.
La “preesistenza legittima” rappresenterebbe, in altre parole, un limite oggettivo e invalicabile del potere sanzionatorio urbanistico-edilizio.
9. I motivi sono infondati.
10. Sul piano letterale, l’unico criterio menzionato dall’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 per la determinazione dell’importo della sanzione è quello del costo di produzione: la disposizione non menziona criteri diversi, come il costo storico o il valore di mercato, né contempla differenti metodologie di calcolo del valore dell’immobile ante e post abuso.
10.1 Il criterio di commisurazione della sanzione amministrativa pecuniaria, in quanto elemento costitutivo del quantum della medesima, non sfugge al principio di legalità degli illeciti amministrativi sancito dall’art. 1 l. 689/1981, circostanza già di per sé sola ostativa all’introduzione, in via interpretativa, di criteri diversi e ulteriori rispetto a quello previsto dalla legge.
10.2 Il legislatore contempla un solo criterio, quello del costo di produzione, sia per gli interventi di ristrutturazione eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire (art. 33) sia per quelli eseguiti in parziale difformità da esso (art. 34) e differenzia le due fattispecie unicamente in relazione alla base di calcolo, costituita nel primo caso dall’aumento del valore dell’immobile e nel secondo caso dalla parte realizzata in difformità. Il costo di produzione assurge, nell’ambito della disciplina eccezionale e derogatoria della c.d. fiscalizzazione dell’abuso, a criterio esclusivo di commisurazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione.
10.3 Per tali ragioni, merita condivisione quanto osservato dal giudice di primo grado secondo cui, in assenza di diverse indicazioni normative, la differenza non può che calcolarsi sulla base di grandezze omogenee dovendo i riferiti dati sul valore dell’immobile essere posti a confronto tra loro ai fini di calcolare (per differenza tra gli importi) la somma relativa alla sanzione pecuniaria da irrogare.
10.4 Sul piano logico, non è ravvisabile alcuna sottostima della preesistenza legittima o ablazione del relativo valore poiché il metodo del valore differenziale ante e post abuso, contemplato dalla disposizione in esame, è volto proprio ad evitare tale paventato effetto distorsivo, sicché, anche da tale punto di vista, non vi è spazio per criteri extralegali di dubbia legittimità e incerta applicazione.
10.5 Non giova alla tesi dei ricorrenti il richiamo al precedente di questa sezione n. 8862 del 27.12.2019 che riguarda il caso in cui l’abuso (ritenuto dagli appellanti di minima incidenza sul valore complessivo dell’immobile) aveva interessato alcuni vani coinvolti nella ristrutturazione, in relazione ai quali era stato calcolato il valore pre e post intervento sempre sulla base dell’unico criterio costituito dal costo di produzione.
In quella sede, la sezione ha ritenuto legittimo l’operato del Comune che “ha esplicitato tutti i calcoli effettuati partendo dal valore dei vani coinvolti nella ristrutturazione dovuta allo spostamento della scala, quindi dei metri quadri dei vani interessati dalla scala e dando atto di tali modalità di calcolo, infine raddoppiando la somma come espressamente previsto dall’art. 33” e ha evidenziato che “rispetto alla ristrutturazione non assentita e al conseguente abuso edilizio, non rileva l’aumento di superficie complessiva dell’immobile, ma lo spostamento in sé della scala e le modifiche dei muri (peraltro neppure consentiti dalla disciplina urbanistica comunale), rispetto a cui il Comune ha, dunque, valutato la superficie interessata dall’abuso”.
10.6 Nel caso di specie, invece, l’abuso riguarda l’intero fabbricato, oggetto di demolizione e successiva ricostruzione, come ricordato nelle premesse dell’ordinanza n. 684/2020 di irrogazione della sanzione pecuniaria, con la conseguenza che non è individuabile nemmeno fisicamente una porzione legittima che, secondo gli appellanti, non potrebbe essere ricompresa nella fiscalizzazione.
10.7 Sul piano teleologico, poi, non è predicabile alcuna espropriazione larvata poiché l’unico bene oggetto del diritto dominicale è il fabbricato abusivo che viene eccezionalmente sottratto alla regola della demolizione e assoggettato alla sanzione pecuniaria alternativa (sulla natura eccezionale della sanzione in questione e sull’inconfigurabilità della violazione dell’art. 1 prot. add. CEDU in caso di immobili abusivi, cfr. Ad.Plen. 16/2023).
10.8 Sempre sul piano teleologico, i criteri del costo storico e del valore di mercato, in ragione dell’estrema variabilità dei valori concreti di riferimento, non solo non consentono la certa predeterminazione della sanzione, in violazione del già richiamato principio di legalità, ma rischiano di privarla del tutto della sua afflittività nei casi in cui non sia ravvisabile un costo storico di acquisto (perché l’immobile è pervenuto all’attuale proprietario per donazione o successione) o nel caso di disallineamento tra il valore di mercato e quello reale.
10.9 L’applicazione dei criteri in esame, in ultima analisi, può determinare in concreto differenziali negativi o irrisori, privando la sanzione della sua ragion d’essere e assicurando un ulteriore vantaggio ingiusto a chi ha commesso l’abuso edilizio, con frustrazione dell’esigenza di effettività della pretesa punitiva e della garanzia del giusto risarcimento alla comunità danneggiata dall’abuso.
10.10 Come osservato dalla recente sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 08.03.2024, richiamata anche dal difensore degli appellanti in sede di discussione orale, “la sanzione pecuniaria costituisce, nei tassativi casi consentiti, una misura alternativa alla materiale demolizione del manufatto e deve costituire una ‘risposta sanzionatoria’ omogenea ed effettiva, ciò che non vi sarebbe se si dovesse tenere conto del suo valore inferiore, commisurato al tempo della realizzazione dell’abuso” o, come nel caso di specie, se venisse decurtata una parte della sanzione in ragione dell’asserita afferenza ad una (inesistente) parte legittima.
10.11 Alla luce delle sopra esposte considerazioni, i primi due motivi di appello devono essere respinti.
...
12. Con il quarto e ultimo motivo di appello i ricorrenti ripropongono il terzo, il quarto e il quinto motivo del ricorso introduttivo con cui era stato contestato che il meccanismo di calcolo della sanzione operato dal Comune non rispetta i criteri di determinazione del “costo di produzione” stabiliti dalla l. 392/1978 e, in particolare, quelli dell’art. 22.
Contrariamente a quanto sostenuto dal TAR, il rinvio ai criteri della l. 392/1978 operato dall’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 è integrale e, quindi, interessa anche l’art. 22.
12.1 La censura deve essere disattesa.
12.2 Il rinvio alla legge n. 392/1978, contenuto nell’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001, è limitato ai criteri di determinazione del costo di produzione ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria e non può estendersi anche ai criteri di calcolo del costo base ai fini della determinazione dell’equo canone contemplati dall’art. 22 della legge citata e richiamati nel terzo, quarto e quinto motivo del ricorso introduttivo.
12.3 La tesi del rinvio integrale all’abrogata legge del 1978 è smentita sia dal tenore letterale dell’art. 33, comma 2, che limita il rinvio ai soli criteri di determinazione del costo base di produzione sia dalla ratio di equità sociale sottesa alle norme invocate, incompatibile con la natura afflittiva-ripristinatoria della sanzione.
12.4 Al riguardo è sufficiente osservare che:
   i) il comma 6 dell’art. 33 sancisce che il contributo di costruzione è comunque dovuto, circostanza che, già di per sé, esclude che esso debba essere inglobato nella sanzione. Ciò in disparte l’illogicità della tesi proposta che, trasformando il contributo di costruzione in una voce di costo di produzione e quindi della sanzione, ne esclude (o riduce) il pagamento per le opere abusive soggette a fiscalizzazione, laddove esso è, invece, integralmente dovuto per le opere legittimamente realizzate;
   ii) la previsione della riduzione del costo base in ragione dell’imposizione fiscale, sancita dal comma 3 dell’art. 22 l. 392/1978, è accomunata all’equo canone dalla medesima finalità di equità sociale e di giustizia redistributiva che ispira l’istituto ed è incompatibile con l’afflittività della sanzione alla quale non è applicabile poiché si tradurrebbe in un vantaggio ingiusto per l’autore dell’abuso, traslando sulla collettività gli oneri fiscali afferenti all’immobile abusivamente realizzato (identiche conclusioni si devono ripetere per la pretesa socializzazione della spesa per le assicurazioni obbligatorie);
   iii) la mancata applicazione dei coefficienti relativi alla categoria catastale previsti dall’art. 16 riguarda, per espressa previsione di legge, solo la determinazione del canone di locazione (comma 4, art. 22), mentre nel caso della sanzione pecuniaria trova applicazione anche l’art. 16 a cui l’art. 33 fa rinvio.
12.5 Anche il quarto motivo di appello deve, quindi, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 15.03.2024 n. 2507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fiscalizzazione dell’abuso, da Palazzo Spada arriva «l’interpretazione autentica». La lettura dell’articolo 33 del Dpr 380 da parte della Plenaria: la «data dell’abuso» è quella della sua realizzazione. Ecco come si calcola la sanzione.
Ai fini della determinazione della sanzione per la fiscalizzazione dell'abuso edilizio per le ristrutturazioni edilizie (articolo 33 del Testo Unico edilizia) la «data di esecuzione dell'abuso, deve intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive». Per quanto poi riguarda il calcolo della sanzione, le istruzioni del comma 2 vanno applicate procedendo «alla individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell'art. 13 della l. n. 392 del 1978 ed alla determinazione del costo unitario di produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va attualizzato secondo l'indice ISTAT del costo di costruzione».

Così la plenaria del Consiglio di Stato nelle sentenze gemelle 08.03.2024 n. 1, 08.03.2024 n. 2 e 08.03.2024 n. 3 dopo la rimessione della II Sezione, relativamente ai casi sollevati dai residenti in un comune lombardo.
L'autore dell'abuso ha contestato il metodo di calcolo adottato dal comune per determinare la sanzione per l'abuso di cui è stata concessa la fiscalizzazione, impugnando al Tar Lombardia il conto di 73.500 euro (sentenza n. 3/2004). Il Tar ha respinto il ricorso.
La seconda Sezione di Palazzo Spada, interpellata in appello, ha ritenuto che il dettato del domma 2 dell'articolo 33 del Dpr 380 presenti alcune ambiguità che portano a differenti metodi di calcolo e, dunque, di sanzioni di entità diverse.
Tanto per cominciare si chiede «se, con l'espressione data di esecuzione dell'abuso debba intendersi il momento di completamento dell'abuso ovvero quello in cui l'abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato denunciato dall'interessato a mezzo della richiesta di un condono o ancora quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l'espressione come momento di cessazione dell'abuso».
La plenaria, concorda che «al riguardo, sono possibili quattro diverse interpretazioni, di cui una sola, però -la prima- risulta maggiormente aderente al suo dato testuale: a) il momento in cui sono ultimati i lavori edilizi abusivi; b) il momento in cui l'abuso è accertato da parte dell'amministrazione; c) il momento in cui l'abuso è autodichiarato da parte dell'interessato; d) il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria».
Con un secondo quesito si chiede «se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della l. n. 392 del 1978, ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all'attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se ancora l'attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta dell'abuso o della sua denunzia (o della proposizione della istanza di condono)».
La Plenaria premette che, in la determinazione della sanzione prevede due fasi: l'individuazione del costo di produzione «determinato con il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso» e poi all'attualizzazione della sanzione in base all'indice Istat. «Ne consegue -spiegano i giudici- che va indicizzato non l'importo indicato nel decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso». 
«L'aumento di valore dell'immobile -aggiungono i giudici- va individuato sulla base dei criteri contenuti nella legge n. 392/1978, calcolando la superficie convenzionale e considerando il costo unitario di produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso: la moltiplicazione tra i due termini indica il costo di produzione complessivo, ossia l'aestimatio, che va
aggiornato (taxatio) sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione
». 
Quanto alla ratio della norma analizzata i giudici della Plenaria hanno anche sottolineato che «nel contemperare gli interessi in conflitto, il legislatore ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga conto dell'effettivo valore delle opere abusive, l'unico significativo per la definizione del caso concreto, e non di quello inferiore e risalente al passato, non più ancorato all'effettivo valore del bene» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: L’isomorfismo funzionale delle diverse fattispecie di fiscalizzazione degli abusi edilizi: le considerazioni dell’Adunanza plenaria.
Con tre sentenze gemelle l’Adunanza plenaria chiarisce i criteri di calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per la ristrutturazione edilizia e ripercorre la funzione storica di tale istituto.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione – Ristrutturazione edilizia – Quantificazione – Criteri.
Ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, l’Adunanza plenaria ha affermato i seguenti
principi:
   a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;
   b) ai fini della quantificazione della sanzione pecuniaria da determinare ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, deve procedersi alla individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della l. n. 392 del 1978 ed alla determinazione del costo unitario di produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice ISTAT del costo di costruzione. (1)

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   (1) I. – Con la pronuncia in esame, che segue le coeve sentenze 08.03.2024 n. 2 e 08.03.2024 n. 1, l’Adunanza plenaria risponde alle questioni deferite rispettivamente, con le coeve ordinanze Cons. Stato, sez. II, 13.07.2023 n. 6863, n. 6865 (in Riv. giur. edilizia, 2023, 1050, in Foro amm., 2023, 1000, nonché oggetto della News UM n. 111 del 19.09.2023 e a cui si rinvia per l’indicazione dei quesiti e per l’approfondimento della vicenda processuale e delle questioni diritto) e n. 6864 vertenti sui criteri di quantificazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista per la “fiscalizzazione dell’illecito edilizio” ai sensi dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 nella parte in cui esso prevede, nei casi ivi previsti, l’irrogazione di “una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione”.
L’Adunanza plenaria ricostruisce la ratio della disciplina (invero non particolarmente chiara) ripercorrendo l’evoluzione storica della disposizione di legge così contribuendo a delineare –a fronte del dato normativo frammentario– uno statuto unico e omogeneo della c.d. “fiscalizzazione dell’abuso”.
   II – Dopo aver ricostruito i fatti di causa, l’Adunanza plenaria:
      a) ha evidenziato come, dal tenore dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, la determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria sia ancorata ad un duplice riferimento temporale:
         a1) alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri della legge 27.07.1978, n. 392;
         a2) all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
      b) ha circoscritto il dubbio interpretativo deferito dalla Seconda Sezione al termine di cui alla predetta lett. a2) sia con riferimento:
         b1) alle modalità di individuazione “dell’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di produzione”, stante l’abrogazione dell’art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392, disposta dall’art. 14 della legge 09.12.1998, n. 431, con la conseguente interruzione dell’emanazione dei decreti ministeriali (l’ultimo emanato il 18.12.1998) che ogni anno determinavano il costo base di produzione per la realizzazione degli immobili adibiti ad uso di abitazione;
         b2) al significato da attribuire all’espressione “alla data di esecuzione dell’abuso”, potenzialmente declinabile:
            - alla luce del dato letterale, alla data di ultimazione dei lavori abusivi;
            - alla luce della natura permanente dell’abuso:
                  i) al momento della scoperta dell’abuso o dell’accertamento dell’illecito;
                  ii) al momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte dell’interessato;
                  iii) al momento dell’irrogazione della sanzione;
      c) rispondendo al primo quesito, ha così argomentato:
         c1) l’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 dispone che vadano effettuate due distinte operazioni:
               i) individuare il costo di produzione, determinato con il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso;
               ii) attualizzare l’importo della sanzione, individuato sulla base del costo di costruzione, applicando l'indice ISTAT;
         c2) deve pertanto indicizzarsi non l’importo indicato nel decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, giacché tale soluzione appare funzionale:
               i) a specificare quale debba essere il decreto ministeriale da utilizzare:
               ii) a spiegare la presenza della virgola dopo il termine “abuso”;
      d) nel risolvere il secondo quesito sull’interpretazione della locuzione “data di esecuzione dell’abuso”, ha valorizzato il dato testuale evidenziando:
         d1) come l’aumento di valore dell’immobile va individuato sulla base dei criteri contenuti nella legge n. 392 del 1978, calcolando la superficie convenzionale e considerando il costo unitario di produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso: la moltiplicazione tra i due termini indica il costo di produzione complessivo, ossia l’aestimatio, che va aggiornato (taxatio) sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
         d2) come il legislatore ha ribadito che va esercitato il potere sanzionatorio anche quando vi siano obiettive difficoltà tecniche per eseguire la demolizione, derogando alla regola generale per cui gli abusi edilizi vanno materialmente rimossi;
         d3) che il relativo potere può essere esercitato su richiesta del responsabile dell’abuso, qualora risulti l’oggettiva impossibilità di procedere alla riduzione in pristino delle parti difformi senza incidere sulla stabilità dell'intero edificio;
         d4) che, nel contemperare gli interessi in conflitto, il legislatore ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga conto dell’effettivo valore delle opere abusive, l’unico significativo per la definizione del caso concreto, e non di quello inferiore e risalente al passato, non più ancorato all’effettivo valore del bene;
         d5) come l’abrogato art. 9, comma 2, della l. 28.02.1985, n. 47 –secondo il quale: “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'Ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti della legge 27.07.1978, n. 392”)– prevedesse non meccanismo di adeguamento periodico con effetti automatici per la commisurazione della sanzione ancorato all’emanazione annuale dei decreti ministeriali, in ragione ma del mero rinvio operato alla legge n. 392 del 1978, il cui art. 22, comma 1 (ora abrogato nei sensi di cui all’art. 14, della legge n. 431 del 1998 ossia limitatamente alle locazioni abitative) ove si stabiliva che: “Per gli immobili adibiti ad uso di abitazione che sono stati ultimati dopo il 31.12.1975, il costo base di produzione a metro quadrato è fissato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con quello di grazia e giustizia, sentito il Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 31 marzo di ogni anno e da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”;
         d6) come per le ipotesi meno gravi di cui all’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 –secondo cui: “Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parteeseguita in conformità, il dirigente o ilresponsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della Agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”– è stato previsto un meccanismo di adeguamento analogo a quello previsto dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che –sia per gli immobili ad uso abitativo sia ad uso diverso– che tiene però espressamente conto del valore del bene al tempo della determinazione sanzione, sicché l’interpretazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo la quale rileverebbe il valore del bene al momento di realizzazione delle opere:
               i) integrerebbe un’irragionevole disparità poiché ingiustificatamente meno afflittiva rispetto alle ipotesi di cui all’art. 34 comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001;
               ii) incrinerebbe l’omogeneità e l’effettività della risposta sanzionatoria prevista dal t.u. edilizia in alternativa alla materiale demolizione.
   III – Per completezza, si segnala quanto segue:
      e) con riferimento alle ipotesi in cui la fiscalizzazione dell’abuso ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 non è ammessa o è sottoposta a particolari condizioni v., da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 25.01.2024, n. 806 che ricorda la distinzione tra:
         e1) le opere di ristrutturazione abusiva eseguite su immobili vincolati ai sensi del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, per le quali, l’art. 33, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 –nel prevedere che “l’amministrazione competente a vigilare sull’osservanza del vincolo, salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, ordina la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando criteri e modalità diretti a ricostituire l’originario organismo edilizio, ed irroga una sanzione pecuniaria da 516 euro a 5164 euro.”– esclude la fiscalizzazione dell’abuso;
          e2) le opere di ristrutturazione abusiva eseguite su immobili non vincolati, ma ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, per le quali l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede un’ulteriore "variabile" procedimentale, ovvero la necessità del previo "parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria" a cura dell'“amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali”;
      f) con riferimento alle ipotesi in cui la fiscalizzazione dell’abuso ex art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 concerna immobili sopposti a vincolo paesaggistico, in giurisprudenza se ne sottolinea l’inapplicabilità poiché tutti gli interventi realizzati in tale zona eseguiti in difformità dal titolo abilitativo si considerano in variazione essenziale e, quindi, in difformità totale rispetto all’intervento autorizzato non potendo essere, pertanto, mai ritenuti «in parziale difformità», giusta previsione dell’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Tar per la Liguria, sez. II, 05.09.2023 n. 785, Tar per la Campania, sez. st. Salerno, sez. II, 12.01.2022 n. 43, Tar per il Lazio, sez. st. Latina, sez. I, 12.07.2021 n. 457);
      g) con riferimento al rapporto tra le diverse fattispecie di fiscalizzazione presente nel t.u. edilizia: v. Cons. Stato, sez. II, 25.10.2023, n. 9243 che sottolinea quanto segue:
         g1) l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 possa essere applicato:
               i) nel solo caso di impossibilità di rimozione dei vizi formali o procedurali inerenti al rilascio del permesso di costruire,
               ii) ma anche nel caso di impossibilità di riduzione in pristino del bene, laddove il titolo edilizio sia stato annullato non per vizi formali o procedurali, bensì sostanziali;
         g2) si tratta, infatti, di due condizioni eterogenee poiché:
               i) la prima attiene alla sfera dell'amministrazione e presuppone l’oggettiva impossibilità giuridica di attivare la convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241: unica ed esclusiva fattispecie di cui si occupata la sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 07.09.2020 n. 17 (in Foro it., 2021, III, 33, con nota di E. TRAVI, in Giur. it., 2021, 4, con nota di A. GIUSTI, La fiscalizzazione dell'abuso edilizio fra esigenze punitive e di ripristino dell'equilibrio urbanistico; in Urbanistica e appalti, 2021, 72, con nota di A. LICCI MARINI, L’Adunanza plenaria fissa i limiti operativi dell’art. 38 T.U.E. nonché oggetto della News US n. 107 del 28.09.2020);
               ii) la seconda attiene alla sfera del privato e inerisce alla concreta possibilità di procedere alla restituzione in pristino dello stato dei luoghi (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 08.03.2024 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla fiscalizzazione dell’abuso edilizio.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione – Sanzione – Determinazione.
Ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, l’Adunanza plenaria ha affermato i seguenti principi:
   a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;
   b) ai fini della quantificazione della sanzione pecuniaria da determinare ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, deve procedersi alla individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della l. n. 392 del 1978 ed alla determinazione del costo unitario di produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice ISTAT del costo di costruzione (1).

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   (1) Principi analoghi sono stati fissati dall’Adunanza plenaria nelle sentenze nn. 1 e 2 del 2024
(Consiglio di Stato, A.P., sentenza 08.03.2024 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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1. L’odierno giudizio trae origine dal ricorso dinanzi al TAR per la Lombardia (Sede di Milano), con il quale l’appellante ha chiesto l’annullamento del provvedimento emesso dal Responsabile dello Sportello unico per l'edilizia in data 17.03.2021, n. 3628, nella parte in cui ha determinato la sanzione pecuniaria di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, in accoglimento della sua richiesta di ‘fiscalizzazione dell’illecito edilizio’ posto in essere sul fabbricato sito nel territorio del Comune di Bormio.
2. L’amministrazione comunale ha quantificato la sanzione secondo il seguente procedimento:
   I) individuazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della legge n. 392/1978 in misura pari a 39,08 metri quadri;
   II) determinazione del costo unitario di produzione in 550,97 euro al metro quadrato;
   III) moltiplicazione della superficie convenzionale per il costo unitario di produzione, con il risultato di 21.531,91 euro;
   IV) rivalutazione della somma così quantificata, in base ai parametri ISTAT dal 1993 al 2020, con il risultato di 36.746,35 euro a titolo di aumento di valore dell’immobile;
   V) raddoppio di tale importo, con la quantificazione della sanzione pecuniaria in misura pari a 73.492,70 euro.
3. Col ricorso di primo grado, l’interessata ha contestato unicamente il meccanismo utilizzato dall’amministrazione per attualizzare il costo di produzione, lamentando la violazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, per il quale “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della medesima legge”.
Ella ha dedotto che tale comma fisserebbe il valore del costo di produzione al momento dell’abuso, nella fattispecie al 1993.
Con la sentenza impugnata, il TAR ha respinto il ricorso, sulla base di ragioni letterali, sistematiche e storiche.
Quanto al dato letterale, il TAR ha rilevato che la locuzione “data di esecuzione” non può coincidere con quella di “ultimazione dei lavori”, poiché altrimenti non avrebbe alcun senso il riferimento all’indice ISTAT.
Pertanto, per non incorrere in un’interpretatio abrogans di questa parte della disposizione, la locuzione “data di esecuzione dell’abuso” va intesa come momento in cui l’abuso viene ‘fiscalizzato’, poiché l’abuso edilizio ha natura di illecito permanente e sussiste sino a quando è determinata la sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione.
Quanto al dato sistematico, tale interpretazione testuale del comma 2 dell’art. 33 risulta coerente con quanto disposto:
   a) dall’art. 34 del medesimo testo unico sull’edilizia, secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza amministrativa, in relazione alla ‘fiscalizzazione’ delle opere eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, che riguarda illeciti meno gravi;
   b) dal secondo periodo dell’art. 33, comma 2, che concerne l’abuso commesso su immobili ad uso diverso da quello abitativo;
   c) dall’art. 4, comma 6, della legge regionale della Lombardia n. 31/2004, che, in attuazione delle disposizioni sul condono edilizio di cui al d.l. 269/2003, dispone un’attualizzazione del computo degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione al tempo del rilascio del titolo in sanatoria.
Quanto, infine, al terzo dato di carattere storico, l’art. 33, comma 2, ricalca la disposizione dell’abrogato art. 9 della legge n. 47/1985, che non conteneva alcun riferimento all’aggiornamento all’indice ISTAT, atteso che vigeva all’epoca l’art. 22 della legge n. 392/1978, che prevedeva l’adozione annuale di decreti ministeriali recanti il costo base di produzione al metro quadrato.
4. Avverso la sentenza di primo grado, ha proposto appello l’originaria ricorrente, che ha contestato la conclusione raggiunta dal giudice di prime cure, insistendo:
   a) sul dato testuale dell’art. 33, comma 2;
   b) sulla tesi per la quale la natura permanente dell’abuso edilizio rileverebbe solo in relazione all’imprescrittibilità del suo accertamento e della correlata sanzione, ma non in relazione alla determinazione della sanzione.
Inoltre, l’appellante ha dedotto che il medesimo comma 2 prevedrebbe regole diverse rispetto a quelle contenute negli artt. 33 e 34 d.P.R. n. 380/2001.
5. Costituitosi in giudizio, il Comune di Bormio ha argomentato in ordine all’infondatezza dell’avverso gravame.
6. La Seconda Sezione del Consiglio di Stato ha rilevato la mancanza di specifici precedenti giurisprudenziali al riguardo ed ha ritenuto di dover rimettere l’affare alla Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del c.p.a., trattandosi di una questione interpretativa che può dar luogo a contrasti giurisprudenziali ed è di particolare rilevanza, considerato l’alto numero dei casi pendenti in tema di condono edilizio.
L’ordinanza di rimessione ha individuato la ratio delle disposizioni sulla cd. fiscalizzazione dell’abuso edilizio nella volontà del legislatore di evitare, nei casi previsti dal comma 2, la sanzione primaria della rimozione e della demolizione dell’abuso, quando vi siano obiettive difficoltà tecniche di esecuzione.
Pertanto, ad avviso della Seconda Sezione, la ‘fiscalizzazione’ rappresenta un istituto attraverso il quale il legislatore ha inteso contemperare la situazione di difficoltà esistente al momento di esecuzione del ripristino con la necessità di esercitare comunque il potere sanzionatorio.
In definitiva, in caso di impossibilità di eseguire la sanzione reale in forma specifica, si accede ad una misura reale in forma pecuniaria con la stessa identica funzione risarcitoria della collettività, offesa dall’abuso edilizio.
6.1. Tanto premesso, la Sezione remittente ha ricostruito l’ambito di applicazione del comma 2 dell’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001, individuando due riferimenti temporali:
   I) la data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri della legge 27.07.1978, n. 392;
   II) l’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione.
6.2. La Sezione rinviene dei dubbi soprattutto con riferimento al secondo termine temporale, sia quanto alle modalità di individuazione “dell’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di produzione”, sia con riferimento al significato da attribuire all’espressione “alla data di esecuzione dell’abuso”.
6.2.1. Quanto al primo profilo, la Seconda Sezione rileva che, con l’abrogazione dell’art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392, disposta dall’art. 14 della legge 09.12.1998, n. 431, non sono più stati emanati i decreti ministeriali che ogni anno determinavano il costo base di produzione per la realizzazione degli immobili adibiti ad uso di abitazione.
Infatti, l’ultimo decreto è stato emanato il 18.12.1998. Conseguentemente, rileverebbe nel caso di specie l’anno di ultimazione dell’abuso (1993) per stabilire il valore dell’immobile o tutt’al più la data di emanazione del decreto del 18.12.1998.
Ciò però determinerebbe un vulnus alla ratio e alle finalità perseguite ed un vantaggio economico per colui che benefici dell’abuso edilizio.
6.2.2. Quanto al secondo profilo, l’espressione “esecuzione dell’abuso” non sarebbe così inequivoca come sostenuto dall’appellante, dovendosi avere riguardo, per la natura permanente dell’abuso, al momento della scoperta dell’abuso o dell’accertamento dell’illecito, ovvero al momento dell’irrogazione della sanzione.
6.3. Tanto premesso, la Seconda Sezione ha sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
   - se, con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui all’art. 33, comma 2, debba intendersi il momento di completamento dell’abuso ovvero quello in cui l’abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di un condono o ancora quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione dell’abuso;
   - se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della l. n. 392 del 1978, ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all’attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia (o della proposizione della istanza di condono).
7. Nelle memorie prodotte in vista dell’udienza di discussione, le parti hanno insistito nelle loro conclusioni.
8. I quesiti sottoposti all’attenzione dell’Adunanza Plenaria hanno ad oggetto l’interpretazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui esso prevede –nei casi ivi previsti– l’irrogazione di “una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione”.
In particolare, occorre chiarire come vada determinato il ‘costo di produzione’.
9. Come ha prospettato l’ordinanza di rimessione, il sopra riportato comma 2 potrebbe essere interpretato in due modi.
Premesso che la sanzione deve essere pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile a seguito della realizzazione delle opere abusive e che rilevano i criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, l’ultimo costo di produzione:
   - per una prima interpretazione, va determinato secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale e poi il relativo importo va aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione;
   - per una alternativa interpretazione, va determinato con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, e l’importo così ottenuto va incrementato sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione.
Questa seconda lettura –che valorizza la virgola che segue la parola “abuso”– rileva che il termine ‘aggiornato’ fa riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con il decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, ossia al decreto ministeriale emesso in prossimità all’esecuzione dell’abuso.
9.1. La scelta tra le due interpretazioni letterali sopra illustrate lascia aperto un ulteriore interrogativo, ossia cosa si intenda per “data di esecuzione dell’abuso”.
Al riguardo, sono possibili quattro diverse interpretazioni, di cui una sola, però, la prima, risulta maggiormente aderente al suo dato testuale:
   a) il momento in cui sono ultimati i lavori edilizi abusivi;
   b) il momento in cui l’abuso è accertato da parte dell’amministrazione;
   c) il momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte dell’interessato;
   d) il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria.
9.2. L’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 dispone che vadano effettuate due distinte operazioni:
   a) individuare il costo di produzione, determinato con il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso;
   b) attualizzare l’importo della sanzione, individuato sulla base del costo di costruzione, applicando l'indice ISTAT.
Ne consegue che va indicizzato non l’importo indicato nel decreto ministeriale, ma quello aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Questa soluzione, da un lato, consente di specificare quale deve essere il decreto ministeriale da utilizzare dall’altro, spiega perché nella frase vi sia una virgola dopo il termine “abuso”.
9.3. Quanto poi alla locuzione “data di esecuzione dell’abuso”, rileva il suo dato testuale.
L’aumento di valore dell’immobile va individuato sulla base dei criteri contenuti nella legge n. 392/1978, calcolando la superficie convenzionale e considerando il costo unitario di produzione secondo il decreto ministeriale aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso: la moltiplicazione tra i due termini indica il costo di produzione complessivo, ossia l’aestimatio, che va aggiornato (taxatio) sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione.
10. Il legislatore ha ribadito che va esercitato il potere sanzionatorio anche quando vi siano obiettive difficoltà tecniche per eseguire la demolizione, derogando alla regola generale per cui gli abusi edilizi vanno materialmente rimossi.
Il relativo potere può essere esercitato su richiesta del responsabile dell’abuso, qualora risulti l’oggettiva impossibilità di procedere alla riduzione in pristino delle parti difformi senza incidere sulla stabilità dell'intero edificio.
Nel contemperare gli interessi in conflitto, il legislatore ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga conto dell’effettivo valore delle opere abusive, l’unico significativo per la definizione del caso concreto, e non di quello inferiore e risalente al passato, non più ancorato all’effettivo valore del bene.
11. E’ significativo che l’art. 33, comma 2, ricalca l’abrogato comma 2 dell’art. 9 della legge n. 47/1985, secondo il quale: “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'Ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti della legge 27.07.1978, n. 392”.
Quest’ultima disposizione non conteneva alcun meccanismo di adeguamento, ma il mero rinvio alla legge n. 392/1978, il cui art. 22, comma 1, ora abrogato nei sensi di cui all’art. 14, della legge n. 431/1998 ossia limitatamente alle locazioni abitative, stabiliva che: “Per gli immobili adibiti ad uso di abitazione che sono stati ultimati dopo il 31.12.1975, il costo base di produzione a metro quadrato è fissato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, di concerto con quello di grazia e giustizia, sentito il Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 31 marzo di ogni anno e da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.
L’emanazione annuale dei decreti ministeriali, pertanto, già comportava un adeguamento periodico con effetti automatici per la commisurazione della sanzione.
Inoltre, un meccanismo di adeguamento, analogo a quello previsto dall’art. 33, comma 2, è contenuto nell’art. 34, comma, secondo il quale: “Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.
Quest’ultima disposizione riguarda condotte meno gravi di quelle disciplinate dall’art. 33, comma 2, e va intesa –con riferimento ai casi in cui si tratti di immobili sia ad uso abitativo che ad uso diverso da quello abitativo- nel senso che la ‘fiscalizzazione’ debba tenere conto del valore del bene al tempo della sua determinazione.
12. Sarebbe invece irragionevole l’interpretazione dell’art. 33, comma 2, secondo la quale rileverebbe il valore del bene al momento di realizzazione delle opere.
La sanzione pecuniaria costituisce, nei tassativi casi consentiti, una misura alternativa alla materiale demolizione del manufatto e deve costituire una ‘risposta sanzionatoria’ omogenea ed effettiva, ciò che non vi sarebbe se si dovesse tenere conto del suo valore inferiore, commisurato al tempo della realizzazione dell’abuso.
13. Può pertanto, darsi risposta ai quesiti sottoposti all’esame del Collegio nel senso che:
   a) con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, deve intendersi il momento di realizzazione delle opere abusive;
   b) ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria da determinare ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, deve procedersi alla determinazione della superficie convenzionale ai sensi dell’art. 13 della legge n. 392/1978 ed alla determinazione del costo unitario di produzione, sulla base del decreto aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso. Il costo complessivo di produzione, dato dalla moltiplicazione della superficie convenzionale con il costo unitario di produzione, va attualizzato secondo l’indice ISTAT del costo di costruzione
(Consiglio di Stato, A.P., sentenza 08.03.2024 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La fiscalizzazione dell’abuso: i criteri di liquidazione all’esame della Plenaria.
La II Sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., il dubbio interpretativo sulla quantificazione della sanzione pecuniaria applicata ai sensi dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione – Quantificazione – Criteri – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Vanno sottoposti all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato i seguenti quesiti:
   - se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 debba intendersi il momento di completamento dell’abuso ovvero in cui l’abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di un condono o ancora quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione dell’abuso;
   - se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392, ai fini della determinazione della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all’attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia (istanza di condono). (1)

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la seconda Sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., un duplice quesito sull’interpretazione del sistema di quantificazione della sanzione amministrativa pecuniaria conseguente alla riconosciuta sussistenza dei presupposti della fiscalizzazione dell’abuso edilizio relativo a fabbricati destinati ad uso abitativo di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, e, segnatamente:
      a) con riferimento all’aestimatio della sanzione amministrativa pecuniaria –pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile conseguente alla realizzazione delle opere abusive, determinato con riferimento alla data di ultimazione dei lavori– e all’eventuale taxatio, parametrata all’ultimo costo di produzione fissato con decreto ministeriale, aggiornato, sulla base del relativo indice ISTAT, alla “data di esecuzione dell'abuso”, espressione suscettibile di quattro possibili alternative ermeneutiche potendosi riferire al momento:
            i) di completamento e ultimazione dei lavori abusivi;
            ii) dell’accertamento dell’abuso da parte della P.A.;
            iii) della (auto)denuncia da parte dell’interessato;
            iv) dell’irrogazione della sanzione pecuniaria e demolitoria;
      b) della possibilità di operare l’anzidetta taxatio rivalutando gli ultimi decreti ministeriali adottati (30.01.1997 e 18.12.1998) fino al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria ovvero quantomeno fino al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia (istanza di condono).
   II. – La controversia sulla quale si innestano i suesposti dubbi interpretativi –per quanto necessario all’ordinata esposizione delle argomentazioni spese dall’ordinanza– può così riassumersi:
      c) nel giudizio di primo grado avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di fiscalizzazione dell’abuso adottato a seguito dell’accertata impossibilità materiale del ripristino dello status quo ante senza pregiudizio della parte regolarmente assentita di un fabbricato destinato ad abitazione:
         c1) il comune –in applicazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui, in tali casi, la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata è “pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392 e con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione”– ha proceduto:
               i) a determinare il costo unitario di produzione;
               ii) a moltiplicarlo per la superficie convenzionale del fabbricato computata ai sensi dell’art. 12 della l. n. 392 del 1978;
               iii) ad attualizzarlo dal 1993 (anno di realizzazione dell’abuso) al 2020 (anno di determinazione della sanzione) mediante applicazione del relativo indice ISTAT;
               iv) a raddoppiare tale somma;
         c2) la parte ricorrente non ha contestato né la fissazione della superficie convenzionale né il valore del costo unitario di produzione determinata dal Comune, ma ha lamentato l’illegittimità dell’attualizzazione del costo di produzione da determinarsi –a suo dire– con esclusivo riferimento al momento di realizzazione dell’abuso;
         c3) il Tar adito ha respinto il ricorso evidenziando come la disposizione di legge di cui all’art. 33, comma, 2 del d.P.R. n. 380 del 2001: 
               - sia chiara nella scelta di rapportare l’entità della sanzione al doppio dell’aumento di valore dell’immobile determinato alla data di ultimazione dei lavori in base ai criteri della l. n. 392 del 1978;
               - sia invece nebulosa nella parte in cui fa riferimento “all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale” sia soprattutto alla necessità dell’aggiornamento “alla data di esecuzione dell’abuso”, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
         c4) con riferimento a quest’ultima questione, il Tar ha osservato come:
               - non sia possibile sostenere la tesi della parte ricorrente secondo cui la “data di esecuzione” deve coincidere puramente e semplicemente con quella di “ultimazione dei lavori”, giacché, in tal modo, non avrebbe alcun senso il riferimento all’aggiornamento secondo l’indice ISTAT;
               - per evitare di incorrere in una interpretazione sostanzialmente abrogante di parte del comma 2 dell’art. 33, è necessario ritenere che la “data di esecuzione dell’abuso”, cui è riferito l’aggiornamento, non sia quella della mera ultimazione dei lavori, bensì quella in cui l’abuso viene per così dire fiscalizzato, essendo l’abuso edilizio un illecito permanente, che resta in “esecuzione” finché, come nel caso di specie, non viene determinata la sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria nei confronti del responsabile;
               - una simile interpretazione, oltre a consentire l’applicazione dell’aggiornamento ISTAT preteso dalla norma di legge, appare corretta anche da un punto di vista sistematico, ponendosi in armonia con la complessiva legislazione che consente la c.d. fiscalizzazione dell’abuso, in caso di impossibilità della riduzione in pristino, giacché:
                     i) nell’ulteriore ipotesi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, qualora la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, l’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione stabilito secondo la l. n. 392 del 1978 e la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che la fiscalizzazione degli abusi edilizi deve tenere conto dei valori vigenti al momento di presentazione della relativa domanda, per evitare che l’autore dell’abuso possa lucrare sul tempo intercorrente fra la conclusione dei lavori –cui fa seguito il godimento dell’immobile abusivo– e la determinazione della sanzione, considerato sempre che l’illecito edilizio ha carattere permanente, per cui continua nel tempo fino al ripristino della situazione originaria oppure sino al verificarsi degli altri casi di cessazione espressamente previsti dall’ordinamento (cfr. Tar per il Piemonte, sez. II, 2019, n. 44; Tar per la Lombardia, Milano, sez. II, 27.02.2018 n. 568);
                     ii) le condotte sanzionate dal succitato art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 –difformità parziale dal titolo edilizio– appaiono oggettivamente meno gravi di quelle dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 –difformità totale o assenza di titolo– per cui sarebbe paradossale che la sanzione pecuniaria per quest’ultimo caso fosse più lieve di quella invece prevista per il primo;
                     iii) l’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 per i casi di abusi su immobili ad uso diverso da quello abitativo prevede una sanzione pari al doppio dell’aumento del valore venale, determinato dall’Agenzia del territorio e non si tratta certo del valore venale al momento di completamento dei lavori bensì di quello al momento della domanda di fiscalizzazione, onde evitare che il responsabile tragga un vantaggio ingiustificato dal decorso del tempo, durante il quale ha comunque goduto del bene ancorché abusivo;
               - l’art. 33, comma 2, del vigente t.u. edilizia ricalca la disposizione dell’abrogato art. 9 della legge 28.02.1985, n. 47, la quale però non conteneva alcun riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale ed aggiornato sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione, sicché l’inserimento nel testo dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 di tale meccanismo di adeguamento si spiegherebbe con l’abrogazione –ad opera della l. n. 431 del 1998– dell’art. 22 della legge n. 392 del 1978 l. n. 392 che prevedeva quoad effectum l’adozione annuale di decreti ministeriali recanti il costo base di produzione al metro quadrato così garantendo l’adeguamento periodico, con conseguenti effetti automatici nella fissazione della sanzione secondo il citato art. 9 della l. n. 47 del 1985;
      d) l’ordinanza in rassegna nel rimettere le questioni all’Adunanza plenaria, richiama le motivazioni spese dal giudice di primo grado, articolando le seguenti e ulteriori argomentazioni:
         d1) la misura reale della rimozione o della demolizione costituisce la conseguenza tipica e primaria dell’abuso edilizio rispetto alle altre che costituiscono, invece, deroghe alla prescrizioni generali, il che vale anche per la c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio che rappresenta una sanzione derogatoria rispetto a quella primaria (della rimozione o della demolizione dell’abuso), ammessa eccezionalmente (nella fase esecutiva della sanzione ripristinatoria) quando emergano obiettive difficoltà tecniche di esecuzione (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 08.01.2023 n. 2423; 28.03.2022 n. 2273; 10.01.2020 n. 254; sez. II, 27.11.2019 n. 8100);
         d2) il legislatore ha pertanto inteso salvaguardare lo status esistente al momento dell’esecuzione della rimozione o della demolizione quando il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile (per il pregiudizio che detto ripristino potrebbe comportare a quanto legittimamente edificato), senza che ciò costituisca un’abdicazione del potere sanzionatorio, trasformando piuttosto la misura reale in misura pecuniaria ed assegnando a quest’ultima la stessa identica sanzione risarcitoria della collettività, offesa dall’abuso edilizio;
         d3) la disposizione del citato art. 33, comma 2, del d.P.R. 380 del 2001 individua –a tal fine– un duplice riferimento temporale:
               - il primo costituito dalla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri della legge 27.07.1978, n. 392 (riguardante il momento dell’intervento edilizio di ristrutturazione in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso);
               - il secondo rappresentato dall’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso dell’indice ISTAT del costo di costruzione;
         d4) l’utilizzo della combinazione dei predetti criteri e parametri, non è di immediata soluzione poiché:
               - con riferimento al primo profilo deve rilevarsi l’intervenuta l’abrogazione dell’art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392 ad opera dell’art. 14 della legge 09.12.1998, n. 431, sicché l’ultimo decreto adottato su tale base normativa è quello del 18.12.1998;
               - con riferimento al secondo profilo, l’equivocità dell’espressione “momento dell’esecuzione dell’abuso” la cui applicazione letterale la farebbe coincidere -mancando gli ulteriori decreti ministeriali de qua– con la data dell’ultimazione dei lavori abusivi o tutt’al più alla data dell’ultimo aggiornamento (d.m. del 18.12.1998);
               - appare intuitivo che l’accoglimento di una simile tesi determinerebbe un vulnus significativo alla ratio e alla finalità perseguite dalla disposizione del citato art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001: la sanzione pecuniaria così determinata assicurerebbe un ulteriore ingiustificabile vantaggio al titolare del fabbricato abusivo, non garantendo né l’effettività della pretesa punitiva, né il giusto risarcimento alla comunità danneggiata dall’abuso;
         d5) l’assenza di consolidati e pertinenti orientamenti in materia che impongono di rimettere le predette questioni all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., registrandosi:
               - con riferimento all’applicazione dell’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, un contrasto interpretativo sulla necessità di attualizzare il valore al momento dell’esecuzione dell’abuso, giacché:
                     i) per parte della giurisprudenza il richiamo ivi contenuto alla normativa contenuta nella l. n. 392 del 1978 ha natura di rinvio materiale essendo riferita ad una specifica metodologia di calcolo di produzione degli immobili, al di là ed indipendentemente dalla sua attuale vigenza, così escludendo la necessità dell’attualizzazione di quel valore al momento dell’esecuzione dell’abuso, a differenza di quanto stabilito espressamente dalla previsione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. Stato, sez. VI, 10.06.2021 n. 4463);
                     ii) per altro indirizzo, invece, occorre porre in rilievo che il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi, in ragione della loro natura di illecito permanente, è quello vigente al momento dell’applicazione della sanzione e non quello vigente all’epoca della consumazione dell’abuso, in quanto la sanzione pecuniaria irrogata trae fondamento solo dall’attuale constatazione dell’inattuabilità materiale dell’ordine demolitorio, così da svolgere una funzione sostitutiva che impedisce possa assumere rilievo il tempo di commissione dell’abuso altrimenti irrilevante, ove si fosse dato corso al potere repressivo-demolitorio (Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2023 n. 3671);
               - con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, per un fabbricato destinato ad uso diverso da quello abitativo, un precedente giurisprudenziale che –pur attribuendo alla sanzione pecuniaria sostitutiva di quella reale ha la finalità di far restituire al trasgressore «…per equivalente in danaro alla collettività rappresentata dal Comune, l’intera indebita utilità realizzata» così presupponendo che si debba, per tale motivo, tenere conto del valore dell’opera al momento in cui la sanzione è applicata (Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2019 n. 5567)– valorizza proprio il dato letterale della disposizione affermando che ciò varrebbe solo per gli immobili con destinazione diversa dalla quella abitativa, giacché «…la norma della prima parte del comma 1 citato, che per gli immobili abilitativi cristallizza il valore al momento in cui i lavori solo ultimati, va interpretata come deroga, non suscettibile di estensione»;
   III. – Per completezza, si segnala quanto segue:
      e) con riferimento al sistema repressivo previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001:
         e1) sulla generale natura ripristinatoria e riparatoria di tutte le misure amministrative irrogate nella materia urbanistico-edilizia –sia implicanti la demolizione del manufatto abusivo sia l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria– poiché volte ad eliminare la situazione di oggettivo squilibrio nell’assetto del territorio ingenerata dall’attività edilizia non assentita v. IAIONE, STELLA RICHTER, art. 33, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 581 ss.;
         e2) sulla natura afflittiva e punitiva delle sanzioni amministrative pecuniarie e l’assenza di una strutturale alternatività con le misure ripristinatorie implicanti la demolizione e il ripristino dello status quo (L. MAZZAROLLI, Sul regime delle sanzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia: dalla l. n. 1150/1942 alla l. n. 47/1985, in Riv. giur. urbanistica, 1985, 429);
         e3) per un’ampia riflessione sulla natura e sulla funzione delle sanzioni amministrative previste nel t.u. edilizia: v. F. BENVENUTI, Le sanzioni amministrative come mezzo dell’azione amministrativa, in AA.VV., Le sanzioni amministrative, Atti del XXVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 1982, 43; A. DE ROBERTO, Le sanzioni urbanistiche, Milano, 1987, 79; E. BUOSO, I poteri di vigilanza e sanzionatori (artt. 27 ss. TUED), in Riv. giur. urbanistica, 2014, 791 ss.; P. TANDA, Le conseguenze della natura giuridica di sanzione amministrativa dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31, comma 9, t.u.e., in Riv. giur. edilizia, 2016, n. 307; LUNARDELLI, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, in Riv. giur. edilizia, 2021, 173 che opera un’ampia ricostruzione del sistema sanzionatoria nella teoria generale del diritto e che qualifica le sanzioni amministrative come espressione dell’esercizio di poteri di amministrazione attiva;
         e4) sulle problematiche connesse alla fiscalizzazione dell’abuso: v. FABRI, TARASCHI, La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio: alcune questioni aperte, in Dir. processo amm., 2022, 3; AMANTE, L’iper-statalizzazione della materia edilizia: la Corte costituzionale enuclea ulteriori principi, in Urb. app., 2023, 41;
         e5) sulla natura afflittiva –con la previsione di un limite edittale– e non ripristinatoria della sanzione prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 con conseguente applicazione del regime previsto per le sanzioni pecuniarie dalla l. 24.11.1981, n. 689: Cons. Stato, sez. VI, 09.08.2022 n. 7023, richiamata da Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 19.04.2023 n. 3974 (oggetto della News UM n. 72 del 30.05.2023);
         e6) sull’utilizzo improprio e a-tecnico del termine oblazione previsto dall’art. 36, comma 2, t.u. edilizia: v. Corte cost., 09.01.2019, n. 2, in Foro it., 2019, 755, in Giur. cost., 2019, 2, con nota di ZAMPETTI, «Governo del territorio» e riserva di competenza statale in materia penale in una pronuncia di incostituzionalità per irragionevolezza, nonché oggetto della News US n. 13 del 18.01.2019) secondo cui tale misura deve essere qualificabile come un adempimento del procedimento amministrativo, «che assolve ad una funzione in parte ripristinatoria (laddove consente all’amministrazione di ottenere ora per allora l’importo corrispondente agli oneri concessori) ed in parte sanzionatoria (laddove si compone anche di una somma ulteriore rispetto a quanto
originariamente dovuto)
» dovendosi altresì osservare che l’esistenza di costi differenziati tra le due forme di sanatoria dell’abuso agli artt. 36 e 38 t.u. edilizia si giustificano in ragione dell’evidente minor disvalore della condotta di chi abbia realizzato un intervento conforme alla normativa urbanistico-edilizia;
         e7) sulla natura speciale della fiscalizzazione prevista dall’art. 38 del t.u. edilizia per le ipotesi di opere realizzate sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato (c.d. “abusività sopravvenuta” quale istituto di deroga eccezionale all’ordinario rimedio demolitorio previsto in via generale dal sistema:
               i) in giurisprudenza v. Cons. Stato, Ad. plen., 07.09.2020 n. 17 (in Foro it., 2021, III, 33, con nota di E. TRAVI, in Giur. it., 2021, 4, con nota di A. GIUSTI, La fiscalizzazione dell'abuso edilizio fra esigenze punitive e di ripristino dell'equilibrio urbanistico; in Urb. app., 2021, 72, con nota di A. LICCI MARINI, L’Adunanza plenaria fissa i limiti operativi dell’art. 38 T.U.E. nonché oggetto della News US n. 107 del 28.09.2020);
               ii) in dottrina: G. POLI, La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio nell’art. 38 t.u.e., in Riv. giur. edilizia, 2020, C. SILVANO, La “fiscalizzazione dell’abuso” alla luce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato: un istituto destinato a scomparire?, in Riv. giur. edilizia, 2021, 1251B; M.A. SANDULLI, Edilizia, in Riv. giur. edilizia, 2022, 171;
         e8) sull’impossibilità oggettiva di procedere alla demolizione –limitata al profilo statico e non funzionale– quale presupposto per applicare le sanzioni amministrative pecuniarie alternative di cui agli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 380 del 2001: v. Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2018 n. 6658, secondo cui è irrilevante l’eccessiva onerosità dell’intervento che «rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di condono mascherato» (Cons. Stato, sez. VI, 22.10.2015 n. 4843);
         e9) sui criteri da applicare per procedere alla fiscalizzazione ex art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001: v. Cons. Stato, sez. VI, 23.09.2022, n. 8170;
         e10) con riferimento al riparto dell’onere della prova in ordine alla sussistenza dei presupposti di fiscalizzazione ex artt. 33 e 34, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Tar per la Sicilia, sez. II, 26.02.2020 n. 439);
         e11) con riferimento all’inapplicabilità della procedura di fiscalizzazione ex artt. 33 e 24 del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo ad abusi edilizi in zone sottoposte a vincolo (Cass. pen., sez. III, 15.11.2020 n. 1443);
         e12) sull’impossibilità di configurare la fiscalizzazione dell’abuso come una forma di sanatoria –non potendosi autorizzare per tale via il completamento delle opere– contemperando semplicemente l’esigenza di ristabilire lo status quo ante con quella di salvaguardare la sicurezza pubblica e privata (Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2023, n. 3671; Cass. pen., sez. III, 11.05.2018 n. 28747);
         e13) sulla natura di sub-procedimento afferente alla fase esecutiva della fiscalizzazione dell’abuso e sulla sua irrilevanza nel giudizio di legittimità dell’ordinanza di demolizione (Cons. Stato, sez. VI, 22.05.2023 n. 5038);
      f) sull’evoluzione normativa della fiscalizzazione degli abusi:
         f1) l’art. 13 della l. 06.08.1967, n. 765 che –sostituendo l’art. 41 della l. 17.08.1942, n. 1150– disciplinava unitariamente le previsioni oggi contemplate agli artt. 33, 34, 36 e 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevedendo che “Qualora non sia possibile procedere alla restituzione in pristino ovvero alla demolizione delle opere eseguite senza la licenza di costruzione o in contrasto con questa, si applica in via amministrativa una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Ufficio tecnico erariale. La disposizione di cui al precedente comma trova applicazione anche nel caso di annullamento della licenza. I proventi delle sanzioni pecuniarie previste dal presente articolo sono riscossi dal Comune e destinati al finanziamento delle opere di urbanizzazione, ovvero dallo Stato, rispettivamente nelle ipotesi di cui al secondo e terzo comma”;
         f2) l’art. 15 della l. 28.01.1977, n. 10 che:
               i) con riferimento alla fattispecie oggi riconducibile all’art. 38 del t.u. edilizia prevedeva che “In caso di annullamento della concessione, qualora non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la riduzione in pristino, il sindaco applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'ufficio tecnico erariale. La valutazione dell'ufficio tecnico è notificata alla parte dal comune e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.”;
               ii) con riferimento ad una fattispecie assimilabile all’ipotesi oggi prevista dall’art. 34 del t.u. edilizia prevedeva che “Le opere realizzate in parziale difformità dalla concessione debbono essere demolite a spese del concessionario. Nel caso in cui le opere difformi non possono essere rimosse senza pregiudizio della parte conforme, il sindaco applica una sanzione pari al doppio del valore della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione.”;
         f3) l’art. 9 della l. n. 47 del 1985 –sostanzialmente trasfuso nell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001– stabiliva che “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, con la esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione é pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale.”;
         f4) l’art. 33, comma 2, del d.lgs. 06.06.2001, n. 378 ha introdotto l’attuale formulazione dell’art. 33, comma 2 del d.P.R. n. 380 del 2001;
      g) sul limite del potere regionale in materia urbanistico-edilizia e in ordine alla fiscalizzazione:
         g1) con riferimento all’an: v. Corte cost., 21.07.2021 n. 77 (in Foro it. Rep. 2021, voce Edilizia e urbanistica, n. 123; in Riv. giur. edilizia, 2021, I, 736, in Foro amm., 2021, 1684; in Giur. costit., 2021, 969, conf. Corte cost., 15.04.2019 n. 86; 19.11.2015 n. 233) che ribadisce l’impossibilità per le regioni a statuto ordinario di introdurre nuovi casi e modi di fiscalizzazione dell’abuso;
         g2) con riferimento al quantum: v. Corte cost., 01.07.2022 n. 165 (in Foro it., 2023, I, 74) Corte cost., 09.01.2019 n. 2, cit., secondo cui, nell’ipotesi di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 costituisce principio fondamentale, la previsione del pagamento di una somma, ma non necessariamente la relativa misura, che può essere autonomamente determinata dal legislatore regionale;
      h) sulla quantificazione –con criteri differenti da quelli statali– della sanzione amministrativa per le ipotesi di fiscalizzazione dell’abuso nella normativa delle regioni a statuto speciale con riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, si segnala quanto segue:
         h1) regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 79 della l.reg. 06.08.1998, n. 11, il quantum è pari “al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato dall'ufficio tecnico del Comune”;
         h2) provincia autonoma di Trento, ai sensi dell’art. 134 della l.prov. n. 1 del 2008, si applicano le sanzioni previste dall’art. 129 della stessa legge indicate al punto j3);
         h3) regione Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 46 della l.reg. 11.11.2009, n. 19, il quantum della sanzione è pari al “al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dal regolamento di cui all'articolo 2”;
      i) sulla quantificazione –con criteri differenti da quelli statali– della sanzione amministrativa per le ipotesi di fiscalizzazione dell’abuso nella normativa delle regioni a statuto speciale con riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, si segnala quanto segue:
         i1) regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 80, comma 3, della l.reg. n. 11 del 1998, il quantum è pari “al doppio del valore venale dell'opera abusiva o, se questo non è determinabile, dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione dell'opera stessa, determinato dall'ufficio tecnico del Comune.”;
         i2) provincia autonoma di Bolzano, ai sensi dell’art. 89 della l.prov. n. 9 del 2018, il quantum della sanzione è pari a “pari al doppio del costo di costruzione, stabilito in base all'articolo 80, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato dall'Ufficio provinciale Estimo ed espropri, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”;
         i3) provincia autonoma di Trento, ai sensi dell’art. 129 della l.prov. n. 1 del 2018, il quantum della sanzione è fissato
5. Per le opere eseguite con variazioni essenziali il comune ordina la demolizione a spese dei responsabili dell'abuso oppure, se esse non contrastano con rilevanti interessi urbanistici e comunque quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il pagamento di una sanzione pecuniaria determinata in misura pari al 150 per cento del valore delle opere abusive. Se l'abuso consiste nella mancata esecuzione di opere o modalità costruttive prescritte o nell'utilizzo di materiali diversi da quelli richiesti la sanzione è pari al 150 per cento del valore delle opere non realizzate. Se l'abuso consiste nel mutamento della destinazione d'uso delle unità immobiliari, la sanzione è pari al valore venale delle unità immobiliari interessate. In caso di violazione delle norme riguardanti l'abbattimento delle barriere architettoniche il comune ordina l'esecuzione delle opere in conformità al progetto che ha ottenuto la concessione, a spese dei responsabili.
6. Per le opere eseguite in difformità parziale il comune ordina la demolizione a spese dei responsabili dell'abuso oppure, se esse non contrastano con rilevanti interessi urbanistici e comunque quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il pagamento di una sanzione determinata in misura pari al valore delle parti eseguite in difformità. Se l'abuso consiste nella mancata esecuzione di opere o modalità costruttive prescritte o nell'utilizzo di materiali diversi da quelli richiesti la sanzione è pari al valore delle opere non realizzate.
7. In ogni caso le sanzioni pecuniarie previste dai commi 5 e 6 non possono essere inferiori a 1.500 euro.
8. Assieme alle sanzioni pecuniarie previste dai commi 5 e 6 il comune ordina il pagamento del contributo di concessione, se dovuto
.”;
         i4) regione Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 47 della l.reg. n. 19 del 2009, il quantum della sanzione è pari al “doppio del costo di costruzione della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire”;
         i5) regione Sardegna, ai sensi dell’art. 9 della l.reg. 23.10.1985, n. 23 “pari al doppio del valore delle parti abusive, qualora queste ultime non possano essere demolite senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”;
      j) sulla quantificazione della sanzione amministrativa –con criteri differenti da quelli statali– per le ipotesi di fiscalizzazione dell’abuso nella normativa delle regioni a statuto speciale con riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 38 del d.PR. n. 380 del 2001, si segnala quanto segue:
         j1) regione Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 83 della l.reg. n. 11 del 1998, il quantum è “pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, determinato dall'ufficio tecnico del Comune”;
         j2) provincia autonoma di Bolzano, ai sensi dell’art. 94 della l.prov. n. 9 del 2018, il quantum tiene conto “del danno urbanistico arrecato dalla trasformazione del territorio. L’ammontare della sanzione pecuniaria varia in ragione della gravità degli abusi da 0,8 a 2,5 volte l’importo del costo di costruzione, determinato ai sensi dell’articolo 80. Ove non sia possibile determinare il costo di costruzione, la sanzione è calcolata in relazione all’importo delle opere eseguite, determinato in base all’elenco prezzi informativi opere civili della Provincia.”;
         j3) regione Friuli-Venezia Giulia, ai sensi dell’art. 52, comma 1, della l.reg. n. 19 del 2009, il quantum è “pari al valore delle opere o loro parti abusivamente eseguite, determinata secondo i criteri stabiliti dal regolamento di attuazione di cui all’articolo 2”, con le riduzioni ancorate all’epoca di realizzazione dell’opera indicate al successivo comma 3-ter;
         j4) regione Sardegna, ai sensi dell’art. 8 della l.reg. n. 23 del 1985, il quantum è pari “al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, accertato secondo le disposizioni di cui ai commi terzo e seguenti dell'articolo 7 della presente legge." (Consiglio di Stato, Sez. II, ordinanza 13.07.2023 n. 6865 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza Plenaria alcune importanti questioni interpretative inerenti la disciplina della fiscalizzazione dell’abuso edilizio.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione dell’abuso – Data di esecuzione dell’abuso - Interpretazione.
Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Fiscalizzazione dell’abuso – Sanzione pecuniaria – Determinazione.
Vengono rimessi all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
   - se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n., 380 del 2001, debba intendersi il momento
       
 ● di completamento dell’abuso ovvero
        
in cui l’abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero
        
sia stato denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di un condono o ancora
      
  ● quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o demolitoria,
intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione dell’abuso;
   - se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della l. n. 392 del 1978), ai fini della determinazione della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
        
possa procedersi all’attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se ancora
      
  ● l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia (istanza di condono) (1).

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   (1) Con le ordinanze n. 6864 e n. 6863 del 13.07.2023 la sezione II del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria identiche questioni
(Consiglio di Stato, Sez. II, ordinanza 13.07.2023 n. 6865 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
   1. I fatti di causa
1.1. Con provvedimento n. 3629/2021 del 17.03.2021 il Responsabile dello Sportello unico per l’edilizia del Comune di Bormio, ricordato e dato atto –in sintesi– tra l’altro che:
   - la soc. Cà del B. s.r.l. aveva presentato in data 01.03.1995 istanza di condono edilizio ai sensi dell’art. 39 della l. 724/1994 per opere edilizie eseguite abusivamente ai piani secondo, oltre al soprastante attico, e terzo, oltre il soprastante attico, nel fabbricato sito in via Roma, in catasto al foglio n. 14, mapp. n. 659, del Comune di Bormio;
   - tra gli immobili oggetto della richiesta di concessione edilizia in sanatoria vi era anche quello catastalmente individuato al foglio n. 14, mapp. n. 989, sub. n. 18;
   - l’istanza di condono era stata rigettata con determinazione n. 149/1995 del 03.03.1999, la cui legittimità era stata riscontrata dalle sentenze n. 252/2007 del Tar per la Lombardia (sez. II) e n. 2826 dell’08.06.2017 del Consiglio di Stato (sez. IV), che avevano rispettivamente respinto il ricorso e l’appello proposti dalla predetta soc. Cà del B. s.r.l.;
   - con nota prot. 1055 del 23.01.2019 era stato avviato il procedimento sanzionatorio di demolizione e rimessa in pristino delle unità immobiliari abusive oggetto del negato condono edilizio, tra cui quella catastalmente individuata al foglio n. 14, mapp. n. 989, sub. n. 18, nelle more divenuta di proprietà della sig. Ma.Lu.Me.;
   - a seguito dell’ordinanza di demolizione e messa in pristino n. 48 del 16.09.2020 la predetta signora Ma.Lu.Me., a mezzo di un proprio tecnico, aveva dichiarato che la demolizione delle opere edilizie abusive della sua unità immobiliare avrebbero arrecato pregiudizio alle adiacenti unità immobiliari legittimamente realizzate;
tutto ciò esposto e premesso, ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001, disponeva la c.d. fiscalizzazione dell’illecito, determinando in € 62.566,58 la sanzione di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001; in € 2.000,00 la sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001; in € 743 i contributi per oneri di urbanizzazione e in € 1.276,93 i costi di costruzione, per un totale complessivo di € 66.521,95 (detratti € 64,56, pari alla quota di anticipazione degli oneri già versata in data 15.11.1995), da corrispondere nei successivi novanta giorni.
   2. La vicenda processuale
2.1. La signora Ma.Lu.Me. chiedeva al TAR per la Lombardia l’annullamento di tale provvedimento, lamentandone l’illegittimità per “Violazione di legge dell’art. 33 del D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per erronea applicazione della norma, travisamento dei fatti”.
In effetti, senza contestare né la determinazione della superficie convenzionale (mq. 33,27), né quella del costo di produzione al momento dell’abuso (anno 1993, € 550,97), la ricorrente si doleva esclusivamente dell’attualizzazione di quel costo unitario all’anno 2020 (mediante l’applicazione del coefficiente 1,7066), in palese violazione dell’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001, il cui tenore letterale –a suo avviso– inequivocabilmente fissava il valore del costo di produzione al momento dell’abuso (nel caso di specie al 1993).
2.2. L’adito Tribunale (sez. II), con la sentenza 18.03.2022 n. 632, nella resistenza dell’intimata amministrazione comunale, ha respinto il ricorso.
Ha osservato infatti che l’art. 33 del d.P.R. n. 380/2021 era meno chiaro di quanto apparisse, in quanto “se è chiara la scelta del legislatore di rapportare l’entità della sanzione al doppio dell’aumento di valore dell’immobile determinato alla data di ultimazione dei lavori in base ai criteri della legge n. 392/1978, meno chiaro è il riferimento sia all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale sia soprattutto alla necessità dell’aggiornamento alla data dell’esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione”.
Ha al riguardo evidenziato che “Se, infatti, la “data di esecuzione” coincidesse puramente e semplicemente con quella di “ultimazione dei lavori” –come sembra sostenere la parte ricorrente– allora non avrebbe alcun senso il riferimento all’aggiornamento secondo l’indice ISTAT. In altri termini, una volta fissato il valore secondo la legge n. 392/1978 al momento dell’ultimazione dei lavori, non si comprenderebbe la necessità di un aggiornamento secondo gli indici ISTAT, per cui la seconda parte della norma suindicata non troverebbe mai attuazione. Al contrario, per evitare di incorrere in una interpretazione sostanzialmente abrogante di parte del comma 2 dell’art. 33, è giocoforza ritenere che la “data di esecuzione dell’abuso”, cui è riferito l’aggiornamento, non è quella della mera ultimazione dei lavori, bensì quella in cui l’abuso viene per così dire fiscalizzato, essendo l’abuso edilizio un illecito permanente, che resta in “esecuzione” finché, come nel caso di specie, non viene determinata la sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria nei confronti del responsabile”.
Secondo il TAR “Una simile interpretazione, oltre a consentire l’applicazione dell’aggiornamento ISTAT preteso dalla norma di legge, appare corretta anche da un punto di vista sistematico, ponendosi in armonia con la complessiva legislazione che consente la c.d. fiscalizzazione dell’abuso, in caso di impossibilità della riduzione in pristino.
Infatti, nell’ulteriore ipotesi dell’art. 34 del Testo Unico, relativo agli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, qualora la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, l’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione stabilito secondo la legge n. 392/1978 e la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che la fiscalizzazione degli abusi edilizi deve tenere conto dei valori vigenti al momento di presentazione della relativa domanda, per evitare che l’autore dell’abuso possa lucrare sul tempo intercorrente fra la conclusione dei lavori –cui fa seguito il godimento dell’immobile abusivo– e la determinazione della sanzione, considerato sempre che l’illecito edilizio ha carattere permanente, per cui continua nel tempo fino al ripristino della situazione originaria oppure sino al verificarsi degli altri casi di cessazione espressamente previsti dall’ordinamento (cfr. sul punto TAR Piemonte, Sezione II, sentenza n. 44/2019 e la sentenza di questa Sezione n. 568/2018).
Sempre con riguardo all’art. 34 succitato, lo stesso attiene a condotte (difformità parziale dal titolo edilizio) oggettivamente meno gravi di quelle dell’art. 33 (difformità totale o assenza di titolo) per cui sarebbe paradossale che la sanzione pecuniaria per il caso dell’art. 33 fosse più lieve di quella invece prevista per la fattispecie dell’art. 34.
Sempre con riguardo all’art. 33, comma 2, per i casi di abusi su immobili ad uso diverso da quello abitativo (si veda l’ultimo periodo del comma 2) è prevista una sanzione pari al doppio dell’aumento del valore venale, determinato dall’Agenzia del territorio e non si tratta certo del valore venale al momento di completamento dei lavori bensì di quello al momento della domanda di fiscalizzazione, sempre per evitare che il responsabile tragga un vantaggio ingiustificato dal decorso del tempo, durante il quale ha comunque goduto del bene ancorché
”.
Ha ancora aggiunto il Tribunale, a completamento del proprio convincimento, da un lato, che
   - “Del resto, anche per la differente ipotesi del condono edilizio ed in particolare per quello di cui al DL n. 269/2003 convertito con legge n. 326/2003 (c.d. terzo condono), la legislazione lombarda in materia ha previsto che gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione da corrispondersi in caso di accoglimento dell’istanza di condono siano determinati non con riferimento al momento di deposito dell’istanza stessa ma a quello del rilascio del titolo in sanatoria, ancorché ciò avvenga diversi anni dopo (così l’art. 4, comma 6, della legge regionale della Lombardia n. 31/2004) e questo per attualizzare gli importi del contributo concessorio all’atto del perfezionamento del procedimento di sanatoria (cfr. sul punto la sentenza di questa Sezione n. 7221/2010)” e dall’altra che
   - “L’art. 33, comma 2, del vigente Testo Unico ricalca la disposizione dell’abrogato art. 9 della legge n. 47/1985, la quale però non conteneva alcun riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale ed aggiornato sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione. L’inserimento nel testo dell’art. 33, comma 2, di tale novità si spiega con la circostanza che la legge n. 392/1978 è stata in parte abrogata dalla legge n. 431/1998, che ha espunto dall’ordinamento le norme (in particolare gli articoli 12-26) sulla fissazione ex lege del canone per le locazioni abitative (c.d. equo canone), fra cui quella dell’art. 22 della legge del 1978, che prevedeva l’adozione annuale di decreti ministeriali recanti il costo base di produzione al metro quadrato. L’emanazione di tali decreti consentiva l’adeguamento periodico del costo di produzione, con conseguenti effetti automatici nella fissazione della sanzione secondo il citato art. 9. Per effetto dell’abrogazione dell’art. 22, però, tale adeguamento automatico è venuto meno, per cui l’aggiornamento del testo dell’art. 33 rispetto a quello dell’art. 9 vale a garantire che la misura della sanzione pecuniaria non sia ancorata al momento di conclusione dei lavori abusivi bensì sia attualizzata mediante l’applicazione dell’indice ISTAT. In caso contrario, giova ancora ricordarlo, il responsabile dell’abuso o il suo avente causa finirebbero per lucrare ingiustificatamente sul decorso del tempo intercorrente dalla realizzazione dell’abuso”.
2.3. L’interessata ha chiesto la riforma di tale sentenza, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “Erroneità della sentenza appellata per violazione del canone di stretta interpretazione della norma e per travisamento e falsa applicazione della prescrizione normativa di cui all’art. 33 del d.P.R. 380/2001”, con cui ha riproposto in sostanza il motivo di censura sollevato in primo grado, a suo avviso malamente apprezzato, superficialmente esaminato e respinto con motivazione tutt’altro che condivisibile.
L’appellante ha contestato decisamente l’interpretazione della norma in questione offerta dal Tribunale, insistendo sul suo inequivoco e chiaro tenore letterale, incomprensibilmente disatteso, che non ammetterebbe –secondo la giurisprudenza della Cassazione e qualificate opinioni dottrinali- alcuna attualizzazione del valore immobiliare al momento della richiesta di fiscalizzazione, fissando il valore dell’immobile esclusivamente al momento dell’esecuzione dell’abuso.
Ha negato poi che una diversa (da quella da lei sostenuta) lettura della norma comporterebbe un’interpretazione sostanzialmente abrogante di parte del comma 2 dell’articolo 33 in ragione della natura permanente dell’abuso edilizio, giacché detta natura di illecito permanente rileverebbe solo ed esclusivamente in tema di imprescrittibilità del suo accertamento e della relativa sanzione, ma non certamente sotto il diverso profilo della quantificazione della sanzione, del tutto svincolata dall’accertamento dell’abuso.
Il preteso aggiornamento ISTAT “alla data di esecuzione dell’abuso” introdurrebbe del resto, sempre secondo la tesi dell’appellante, la necessità di aggiornare il costo di produzione sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione per tutti gli abusi successivi alla data di abrogazione delle disposizioni contenute nella legge sull’equo canone che prevedevano proprio l’emanazione con cadenza annuale di appositi, laddove l’aggiornamento del costo di produzione sulla base dell’indice I.S.T.A.T. del costo di costruzione, introdotto dall’art. 33, comma 2, d.P.R. 380/2001, avrebbe sopperito al venire meno dei predetti decreti ministeriali (l’ultimo è del 1998); in definitiva, secondo l’appellante, se il legislatore avesse voluto ancorare l’attualizzazione dell’ammontare della sanzione al momento della richiesta di fiscalizzazione avrebbe dovuto prevederlo espressamente, così come espressamente ha fissato il momento della determinazione del valore “alla data di esecuzione dell’abuso” e soprattutto non avrebbe diversificato la disciplina delle fattispecie di cui agli artt. 33 e 34 d.P.R. 380/2001.
2.4. Si è costituito nel giudizio di appello il Comune di Bormio che dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello, di cui ha chiesto il rigetto.
   3. La questione controversa
3.1. Come emerge dalla ricapitolazione dei fatti sub par. 1 e 2, nella fattispecie in esame non è contestato che l’amministrazione comunale, con il provvedimento indicato al par. 1, abbia effettivamente e correttamente esercitato il potere attribuitole dal comma 2 dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 di sostituire la sanzione della demolizione e della rimessione in pristina dell’abuso edilizio con quella pecuniaria, avendo accertato che il ripristino dello stato dei luoghi non sarebbe stata obiettivamente possibile.
Neppure è contestata da parte dell’appellante della determinazione della superficie convenzionale dell’abuso (pari a 33,27 mq) e del costo di unitario di produzione al momento dell’abuso (anno 1993) fissato ai sensi del D.M. 30.01.1997 in € 550,97.
Ciò che è contestato è invece l’attualizzazione operata dall’amministrazione comunale di quel costo al momento della irrogazione della sanzione pecuniaria (in luogo di quella ripristinatoria), inammissibile secondo l’appellante in mancanza di espresso fondamento normativo, giustificato da esigenze di giustizia sostanziale e da ragioni sistematiche, secondo l’amministrazione comunale e le conclusioni del giudice di primo grado.
3.2. Al riguardo si osserva quanto segue.
3.2.1. L’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (rubricato “Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità”) dispone che “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell'ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392, e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'agenzia del territorio”.
3.2.2. E’ stato più volte sottolineato che la misura reale della rimozione o della demolizione costituisce la conseguenza tipica e primaria dell’abuso edilizio rispetto alle altre che costituiscono, invece, deroghe alla prescrizioni generali, il che vale anche per la c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio che rappresenta una sanzione derogatoria rispetto a quella primaria (della rimozione o della demolizione dell’abuso), ammessa eccezionalmente (nella fase esecutiva della sanzione ripristinatoria) quando emergano obiettive difficoltà tecniche di esecuzione (ex multis, Cons. Stato, se. II, 27.11.2019, n. 8100; sez. VI, 08.01.2023, n. 2423; 28.03.2022, n, 2273; 10.01.2020, n. 254; 21.11.2016, n. 4856).
Con la c.d. fiscalizzazione il legislatore ha pertanto inteso salvaguardare lo status esistente al momento dell’esecuzione della rimozione o della demolizione quando il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile (per il pregiudizio che detto ripristino potrebbe comportare a quanto legittimamente edificato), senza che ciò costituisca un’abdicazione del potere sanzionatorio, trasformando piuttosto la misura reale in misura pecuniaria ed assegnando a quest’ultima la stessa identica sanzione risarcitoria della collettività, offesa dall’abuso edilizio.
3.2.3. Nella prospettiva così delineata dalla giurisprudenza la disposizione del ricordato comma 2 dell’art. 33 del d.P.R. 380 del 2001 ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria, pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, fissa due riferimenti da prendere in considerazione, il primo costituito dalla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri della legge 27.07.1978, n. 392 (riguardante il momento di realizzazione dell’edificio in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso); il secondo rappresentato dall’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso dell’indice ISTAT del costo di costruzione.
Si tratta di due riferimenti temporali dalla cui combinazione –secondo la scelta discrezionale e non manifestamente irragionevole del legislatore– si ricava la giusta quantificazione della sanzione pecuniaria sostitutiva di quella ripristinatoria, idonea a contemperare l’interesse punitivo dell’amministrazione, per il vulnus inferto con l’abuso edilizio, e quello del privato a non vedersi imporre un ripristino dello status quo materialmente impossibile senza compromissione di ulteriori beni, anch’essi ugualmente da tutelare.
3.3. Se sono chiare la struttura, la ratio e la finalità della norma, dubbi, come si ricava proprio dalla vicenda controversa de qua, emergono tuttavia dalla sua applicazione in concreto, soprattutto con riferimento al secondo termine temporale, sia quanto alle modalità di individuazione “dell’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato dalla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di produzione”, sia con riferimento al giusto significato da attribuire all’espressione “alla data di esecuzione dell’abuso”.
3.3.1. Con riferimento al primo profilo deve rilevarsi che è intervenuta l’abrogazione ad opera dell’art. 14 della legge 09.12.1998, n. 431, dell’art. 22 della legge 27.07.1978, n. 392, con conseguente venir meno dei decreti ministeriali annuali di determinazione del costo base di produzione per la realizzazione degli immobili adibiti ad uso di abitazione: l’ultimo decreto emanato è quello del 18.12.1998.
L’applicazione letterale dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo quanto sostenuto dall’appellante, mancando gli ulteriori decreti ministeriali de qua, fisserebbe nel caso di specie definitivamente alla data dell’ultimazione dell’abuso (1993) il momento cui stabilire il valore dell’immobile o tutt’al più alla data dell’ultimo aggiornamento (D.M. del 18.12.1998).
E’ intuitivo che l’accoglimento di una simile tesi determinerebbe un vulnus significativo alla ratio e alla finalità perseguite dalla disposizione del citato art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001: la sanzione pecuniaria così determinata assicurerebbe un ulteriore evidente vantaggio ingiusto ed intollerabile a chi ha commesso l’abuso edilizio, non garantendo né l’effettività della pretesa punitiva, né il giusto risarcimento alla comunità danneggiata dall’abuso.
D’altra parte la necessità dell’elemento di riferimento, cui ancora la determinazione del valore dell’abuso, ben si apprezza se si tiene conto che l’attuale la disposizione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 è derivata dall’art. 9, comma 2, L. 47 del 1985, a tenore del quale “Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il sindaco irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392,….. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale”, che non prevedeva affatto proprio il secondo riferimento temporale dell’aggiornamento del costo di produzione alla data dell’esecuzione dell’abuso.
3.3.2. Quanto al secondo profilo, poi, deve osservarsi che anche l’espressione “
momento dell’esecuzione dell’abuso” è meno inequivoca di quanto possa apparire.
Se è chiara, come si cercato di delineare in precedenza, la ratio della norma, il significato di “momento dell’esecuzione dell’abuso” sconta almeno due problematiche: quella della natura permanente dell’illecito edilizio (cui si collega il potere dell’amministrazione di perseguirlo senza alcun termine di prescrizione) e di conseguenza quella della individuazione del momento in cui si verifica l’esecuzione dell’abuso, cui è ragionevole rapportare l’aumento di valore dell’immobile, così da rendere effettiva la sanzione pecuniaria sostitutiva della sanzione reale,
Sotto tale profilo ad avviso della Sezione non ha particolare rilievo la questione se il momento di realizzazione dell’immobile (primo riferimento temporale per la determinazione della sanzione pecuniaria) possa o meno coincidere con quello dell’esecuzione dell’abuso (prospettata come ipotesi peculiare dall’appellante al fine di giustificare la propria tesi, ma negata in via generale dalla difesa del Comune, secondo cui una simile prospettazione renderebbe la norma stessa priva di significato), dovendo piuttosto aversi riguardo, proprio in ragione della natura permanente dell’illecito edilizio, quanto meno al momento della scoperta o dell’accertamento dell’illecito, da parte dei competenti uffici pubblico o dalla parte dello stesso responsabile dell’abuso nel caso di richiesta di condono ovvero ancora, secondo la tesi sostanzialmente sostenuta nel caso di specie dall’amministrazione, al momento di irrogazione della sanzione.
3.4. Sono tutti questi profili in relazione al quale non è stato rinvenuto alcun puntuale e significativo precedente giurisprudenziale.
E’ vero che secondo Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2019, n. 5567, avendo la sanzione pecuniaria sostitutiva di quella reale la finalità di far restituire al trasgressore “…per equivalente in danaro alla collettività rappresentata dal Comune, l’intera indebita utilità realizzata”, ciò “…avviene solo se si tiene conto del valore dell’opera al momento in cui la sanzione è applicata…. C.d.S., sez. V, 33 novembre 1998, n. 1676”; tuttavia nel concludere tale argomentazione, si valorizza proprio il dato letterale della norma e si afferma che ciò varrebbe solo per gli immobili con destinazione diversa dalla quella abitativa, giacché “…la norma della prima parte del comma 1 citato, che per gli immobili abilitativi cristallizza il valore al momento in cui i lavori solo ultimati, va interpretata come deroga, non suscettibile di estensione”.
Per il resto la giurisprudenza risulta invero aver affermato in tema di art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, che il rinvio ivi contenuto alla normativa contenuta nella l. n. 392 del 1978, riferita ad una specifica metodologia di calcolo di produzione degli immobili, ha natura di rinvio materiale, al di là ed indipendentemente dalla sua attuale vigenza (Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1230; 4463/200), così escludendo la necessità dell’attualizzazione di quel valore al momento dell’esecuzione dell’abuso, a differenza di quanto stabilito espressamente dalla previsione dell’art. 33, comma 2.
Sempre in relazione alla previsione dell’art. 34, comma 2, e in ragione del rinvio operato dalla norma alla legge sull’equo canone, è stato invece ritenuto applicabile l’attualizzazione del costo calcolo sulla base del D.M. 18.12.1998 alla data di irrogazione della sanzione (Cons. Stato, sez. VI, 12.04.2023, n. 3671).
   4. Rimessione alla Adunanza Plenaria e formulazione dei quesiti
4.1. Ciò posto osserva la Sezione che:
   - per un verso le conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado non risultano prima facie irragionevoli, sono convincentemente improntate ad un significativo intento di giustizia sostanziale per evitare che, attraverso la c.d. fiscalizzazione dell’illecito edilizio, il cittadino, già resosi colpevole dell’illecito non sanabile e per il quale era stata disposta la demolizione, possa ulteriormente avvantaggiarsi per l’impossibilità della demolizione a danno della collettività intera, attraverso l’imposizione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva di quella reale, del tutto inadeguata, priva dei requisiti dell’effettività e quantomeno depotenziata sotto il profilo dell’effetto risarcitorio nei confronti della collettività offesa dall’abuso edilizio. A tanto si giunge, anche in mancanza del decreto ministeriale annuale di adeguamento ISTAT, attraverso l’attualizzazione del valore dell’immobile calcolato con riferimento all’anno di costruzione ovvero alla data dell’ultimo decreto ministeriale all’anno di irrogazione della sanzione o quanto meno al momento della scoperta da parte degli uffici pubblici dell’abuso o al momento di cui dell’abuso è stato chiesto dall’interessato il condono;
   - per altro verso non può sottacersi che, come sostenuto dall’appellante, il dato testuale della norma (art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001) appare escludere in radice la possibilità dell’attualizzazione dell’aggiornamento ISTAT dei costi di produzione risultante dall’ultimo decreto ministeriale, mancando innanzitutto in tal senso un’apposita previsione. Peraltro non può escludersi che, come nella specifica fattispecie in esame che attiene ad una richiesta di condono edilizio, l’anno di realizzazione delle opere (1993) possa anche coincidere con quello della materiale esecuzione dell’abuso (inteso come perfezionamento dell’abuso) e cioè della presentazione della domanda di condono, ferma tuttavia la necessità di precisare definitivamente il significato dell’espressione “momento di esecuzione dell’abuso"). Inoltre neppure può sottacersi che, non potendosi imputare al cittadino l’abrogazione di una norma (art. 22 della l. n. 392 del 1978) che renderebbe iniqua la stessa determinazione della sanzione pecuniaria, vertendosi in tema di irrogazione di una sanzione, sia pur solo pecuniaria (in sostituzione di quella ripristinatoria), potrebbe dubitarsi della legittimità della sua determinazione quanto alla sua attualizzazione in mancanza di una apposita espressa previsione normativa.
4.2. In mancanza di specifici precedenti giurisprudenziali al riguardo la Sezione ritiene di dover rimettere l’affare alla Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a. trattandosi di questione che può dar luogo a contrasti giurisprudenziale e che d’altra parte è di particolare rilevanza in ragione anche delle numerose questioni pendenti in tema di condono edilizio-
4.3. Ciò posto,
si formulano all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
   - se con l’espressione “data di esecuzione dell’abuso”, di cui all’art. 33, comma 2, debba intendersi il momento di completamento dell’abuso ovvero in cui l’abuso è stato accertato dai competenti uffici pubblici ovvero sia stato denunciato dall’interessato a mezzo della richiesta di un condono o ancora quello di irrogazione della sanzione pecuniaria o demolitoria, intendendosi cioè l’espressione come momento di cessazione dell’abuso;
   - se, in mancanza dei decreti ministeriali di determinazione del costo di produzione per la realizzazione degli immobili ex art. 22 della l. n. 392 del 1978), ai fini della determinazione della giusta sanzione pecuniaria ex art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 possa procedersi all’attualizzazione, secondo gli indici ISTAT, al momento di irrogazione della sanzione pecuniaria dei valori risultanti dagli ultimi decreti ministeriali (30.01.1997 e 18.12.1998) ovvero se ancora l’attualizzazione possa essere quanto meno limitata al momento della scoperta dell’abuso o della sua denunzia (istanza di condono).

Si rimette all’Adunanza Plenaria, comunque, la decisione su tutte le questioni controverse, salve le successive determinazioni di questa sul prosieguo del giudizio anche ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. II, ordinanza 13.07.2023 n. 6865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Laura, RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA - Governo del territorio. Parte 2^. Strumenti urbanistici (01.03.2024 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Premessa.
   §1. Strumenti urbanistici generali: finalità ed elementi costitutivi.
   §2. Scelte di piano: principi generali. § 2.1. Limiti del sindacato del giudice amministrativo: irragionevolezza e illogicità, tutela dell’affidamento, disparità di trattamento. § 2.2. Procedimento di approvazione: garanzie procedimentali, osservazioni dei privati, insussistenza di un obbligo dell’amministrazione di rispondere alle osservazioni, motivazione, approvazione delle modifiche da parte della regione, condizioni per la ripubblicazione.
   §3. Varianti agli strumenti urbanistici. § 3.1. Discrezionalità. § 3.2. Regole procedimentali.
   §4. Strumenti attuativi. § 4.1. Deroghe alla necessità dello strumento attuativo. Il lotto intercluso. § 4.2. Principio di ragionevolezza. § 4.3. Efficacia. § 4.4. Rapporti fra pianificazione secondaria e variante sopravvenuta.
   §5. Piani e convenzioni di lottizzazione. § 5.1. Efficacia. § 5.2. Rapporto fra piano e convenzione di lottizzazione. § 5.3. Competenza. § 5.4. Obbligo di provvedere.
   §6. Piani per gli insediamenti produttivi. § 6.1. Natura. § 6.2. Contenuto. § 6.3. Efficacia. § 6.4. Proroga dei piani e affidamento proprietario. § 6.5. Disciplina speciale riguardante i comuni danneggiati da eventi sismici. § 6.6. Variante semplificata. § 6.7. Consorzi e aree di sviluppo industriale. § 6.8. Assegnazione dei lotti e stipula delle convenzioni. § 6.9. Principio di “neutralità finanziaria”. § 6.10. Riparto di eventuali maggiori oneri: a) derivanti da attività contenziosa. Segue: b) derivanti dalla mancata adozione dell’atto conclusivo del procedimento o dal suo annullamento in sede giurisdizionale. § 6.11. Decadenza dall’assegnazione. § 6.12. Retrocessione delle aree assegnate.
   §7. Piani per l’edilizia economica e popolare. § 7.1. Efficacia. § 7.2. Procedimento. § 7.3. Potere sostitutivo della Regione.
   §8. Housing sociale.
   §9. Piani di riqualificazione. § 9.1. Piani di ricostruzione. § 9.2. Programmi integrati di intervento. § 9.3. Programmi di recupero urbano. § 9.4. Programmi integrati di riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale.
   §10. Piani per gli insediamenti commerciali e parchi commerciali. § 10.1. Mancata approvazione del piano urbanistico commerciale. La tutela dei centri storici. § 10.2. Competenza.
   §11. Piani per le attività estrattive.
   §12. Piani regolatori portuali.
   §13. Questioni processuali. § 13.1. Ricevibilità. § 13.2. Legittimazione e interesse ad agire. § 13.3. Inscindibilità degli effetti del giudicato di annullamento. § 13.4. Presupposizione fra atti e improcedibilità. § 13.5. Impugnazione dei titoli edilizi.
   §14. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: M. Perrelli, RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA - Governo del territorio. Parte 1^. Aspetti generali (01.03.2024 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Premessa.
   §1. Governo del territorio. §1.1. La normativa urbanistica per tratti salienti. §1.2. La pianificazione a tutela dei beni culturali, del paesaggio e dell’ambiente. §1.3. La dimensione europea dell’uso consapevole del territorio: la rigenerazione urbana.
   §2. Governo del territorio: nozione. §2.1. Nella normativa. §2.2. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale. §2.3. Nella giurisprudenza amministrativa.
   §3. La governance multilivello. § 3.1. Il riparto delle competenze. §3.2. I livelli di pianificazione e i principi fondamentali della materia del governo del territorio. §3.3. Il principio di sussidiarietà: criterio per dirimere i conflitti tra i livelli di pianificazione.
   §4. Strumenti urbanistici e strumenti di pianificazione del territorio in funzione di tutela del paesaggio e dell’ambiente: gerarchia. §4.1. L’interpretazione adeguatrice della legislazione regionale. §4.2. Il piano paesaggistico codeciso. §4.3. Il rapporto con gli ulteriori strumenti di pianificazione territoriale: prevalenza. §4.4. I piani territoriali con valenza paesaggistica nella giurisprudenza amministrativa.
   §5. Contenuti ed effetti degli strumenti urbanistici. §5.1. L’art. 2-bis del t.u. edilizia: vincolatività delle previsioni del d.m. n. 1444 del 1968. §5.2. Gli standard edilizi del d.m. n. 1444 del 1968 nella giurisprudenza della Corte costituzionale. §5.3. Gli standard edilizi del d.m. n. 1444 del 1968 nella giurisprudenza amministrativa. §5.3.1. L’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968 e il concetto di edificio esistente. §5.3.2. L’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 e la disciplina delle distanze. §5.4. Sulla natura delle norme dei regolamenti edilizi in materia di distanze nella giurisprudenza civile.
   §6. Aspetti comuni agli strumenti urbanistici: i principi fondamentali della materia del governo del territorio. §6.1. La motivazione delle scelte pianificatorie. §6.2. La tutela dell’affidamento. §6.3. La pubblicazione e la ripubblicazione degli strumenti urbanistici.
   §7. Vincoli conformativi e vincoli espropriativi: definizione e differenza nella giurisprudenza costituzionale. §7.1. Nella giurisprudenza della Corte E.D.U. §7.2. Nella giurisprudenza amministrativa. §7.3. Nella giurisprudenza della Cassazione. §7.4. La reiterazione del vincolo: obbligo di motivazione.
   §8. La zonizzazione: differenza tra destinazioni di zona e destinazioni di uso. §8.1. Verde pubblico (parco urbano, verde urbano, attrezzature ricreative, attrezzature sportive). §8.2. Viabilità. §8.3. Zona F per servizi di interesse generale. §8.4. Vincolo cimiteriale. §8.5. Edilizia di culto. §8.6. Vincolo alberghiero.
   §9. Assenza di pianificazione: principio di indefettibilità della pianificazione e disciplina.
   §10. L’urbanistica consensuale. §10.1. La cessione di cubatura. §10.2. La perequazione urbanistica.
  
§11. Regolamenti edilizi e regolamenti edilizi tipo.
   §12. Gli strumenti di pianificazione della rigenerazione urbana. §12.1. Il rapporto tra piano regolatore e pianificazione della rigenerazione urbana.
   §13. Il piano casa.
   §14. Il sindacato giurisdizionale. §14.1. La disapplicazione. §14.2. Il rito del silenzio.
   §15. Conclusioni.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Diniego di convocazione del "consiglio comunale grande" - Richiesta d'intervento ex art. 39 d.lgs. n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Esaminate le norme statali e quelle locali di cui l'ente si è dotato, il "consiglio grande", sebbene nel regolamento dell'ente sia inserito nella parte dedicata al consiglio, non ha le caratteristiche del consiglio ordinario.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha rappresentato che otto consiglieri del consiglio comunale di ..., pari alla metà dei consiglieri assegnati, hanno chiesto, con nota del ..., l'intervento sostitutivo del Prefetto, ai sensi dell'art. 39, comma 5, del TUOEL, a seguito del diniego opposto dal presidente del medesimo consiglio alla richiesta di convocazione di un "consiglio comunale grande".
In particolare, i consiglieri hanno presentato istanza al presidente del consiglio, in data ..., ai sensi degli artt. 17 e 55 del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale, al fine di vedere convocato un consiglio, avente carattere straordinario, denominato "consiglio grande", per approfondire e discutere argomenti di particolare rilevanza per la vita cittadina concernente l'utilizzo del territorio comunale per la produzione di energia mediante impianti di fotovoltaico e agrovoltaico.
Il presidente del consiglio ha respinto la richiesta dei consiglieri ritenendo che nell'ambito del "consiglio grande" non sono adottabili delibere e che lo stesso consiste in una forma di consultazione diretta della popolazione che trova disciplina nel titolo III dello statuto dell'ente "Partecipazione dei cittadini", agli artt. 46 e 47, e non nella parte dello statuto titolo II, dedicata al consiglio comunale. Inoltre, tale forma di adunanza non richiede un quorum strutturale e non prevede l'erogazione di un gettone.
A ciò si aggiunge che il presidente, nella nota di rigetto, ha evidenziato che l'articolo 55 del citato regolamento prevede che tale forma di consiglio può essere convocata quando particolari motivi di ordine sociale e politico lo facciano ritenere opportuno o quando il consiglio comunale intende svolgere forme di consultazione diretta su temi di particolare rilevanza per la vita cittadina. I consiglieri, con la nota del ..., richiamata in premessa, a seguito del rigetto da parte del presidente del consiglio, hanno chiesto l'intervento del Prefetto ai sensi dell'articolo 39, comma 5, del TUOEL.
In via generale, si rileva che "il diritto ex art. 39, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 di richiedere la convocazione del consiglio comunale da parte di un quinto dei consiglieri comunali, è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni" (TAR Puglia-sez. I, 25.07.2001, n. 4278).
In relazione ai motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, al presidente del consiglio spetta la sola verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di consiglieri (o dal sindaco) non potendo comunque sindacarne l'oggetto. In tal senso, la giurisprudenza in materia si è espressa con orientamento costante nel senso che spetta solo al consiglio la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea, in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno.
Ciò premesso, le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sono la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del consiglio.
È opportuno evidenziare che una determinata questione rientra nella competenza del consiglio comunale quando fa riferimento agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell'articolo 42 del TUOEL, o quando rientri nelle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento finale.
Si osserva che, nel caso in esame, la convocazione del consiglio grande è stata chiesta ai sensi degli artt. 17 e 55 del regolamento per discutere temi delicati di interesse della cittadinanza. Al riguardo, si evidenzia che l'art. 17 riproduce il contenuto dell'art. 39, comma 2, del TUOEL che disciplina la convocazione del consiglio ordinario, ma nulla prevede per la convocazione del consiglio in adunanza aperta, né riproduce il contenuto del comma 5 dell'articolo 39 concernente l'intervento sostitutivo del Prefetto.
Si rileva che gli articoli 39 del TUOEL e 17 del regolamento disciplinano un consiglio con la presenza dei soli consiglieri e la possibilità di adottare delibere, invece l'articolo 55 del regolamento non prevede la partecipazione dei soli consiglieri, non prevede un quorum e non prevede un'attività deliberativa se non nel caso di votazioni di ordini del giorno e mozioni; solo in tal caso la delibera è votata dai soli consiglieri ed è richiesto un quorum. Si evidenzia, altresì, che il sopra citato articolo 55 prevede che il presidente del consiglio, in caso di richiesta di convocazione da parte di 1/3 dei consiglieri, "può" convocare il consiglio, mentre l'art. 39, comma 2, del TUOEL utilizza la locuzione "è tenuto a riunire il consiglio".
Si soggiunge che lo statuto dell'ente, invece, all'art. 47, comma 8, ultimo periodo dispone che "Il Consiglio Grande si riunisce su iniziativa del Presidente del Consiglio, sentito il Sindaco e la conferenza dei capigruppo o quando lo richieda il Sindaco o almeno 1/3 dei consiglieri assegnati". Tale norma sembrerebbe non lasciare al presidente alcuna valutazione che, invece, sembra evincersi dalla disposizione normativa di cui all'articolo 55 del regolamento.
È importante evidenziare, inoltre, che il consiglio grande, mentre nello statuto trova collocazione nel titolo III "Partecipazione dei cittadini" (art. 47) e non nel titolo II–capo II dedicato al consiglio comunale, nel regolamento per il funzionamento del consiglio l'art. 55 "Adunanze aperte" trova collocazione nel titolo IV "Le adunanze del consiglio comunale", nel capo V rubricato "Pubblicità delle adunanze", quindi nella parte dedicata al consiglio.
Per le discordanze sopra esposte il consiglio comunale di … potrebbe valutare la possibilità di riformulare le disposizioni regolamentari e statutarie di cui si è dotato che non risultano di chiara interpretazione.
Ciò premesso, si ritiene, esaminate le norme statali ed in particolare quelle locali di cui l'ente si è dotato, che il consiglio grande, sebbene nel regolamento dell'ente sia inserito nella parte dedicata al consiglio, non ha, per le ragioni sopra esposte, le caratteristiche del consiglio ordinario. Infatti, la convocazione è stata richiesta ai sensi degli artt. 17 e 55 del regolamento e non ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del TUOEL, di conseguenza non si ritiene applicabile nel caso in esame il potere sostitutivo del Prefetto previsto dal comma 5 del predetto articolo 39.
Si è, comunque, dell'avviso che la questione debba essere portata all'attenzione del consiglio, in quanto spetta solo a tale organo, nella sua totalità, valutare l'ammissibilità degli argomenti da trattare, nell'ambito delle prerogative ad esso riconosciute dalla legge. Nell'ipotesi di inosservanza degli obblighi di convocazione del consiglio ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del TUOEL, il Prefetto potrà attivare gli interventi di cui all'art. 39, comma 5, del TUEL.
Quanto alla situazione di pareggio di otto voti contro otto, che risulterebbe dal verbale della conferenza dei capigruppo con all'oggetto la convocazione del "consiglio grande", si osserva che per regola interpretativa generale in caso di parità di voti nella deliberazione è considerata respinta l'istanza all'esame poiché le delibere devono essere sempre approvate con una maggioranza favorevole di voti (parere 26.03.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Petrulli, Permesso di costruire in sanatoria: calcolo degli oneri.
Domanda
Si chiede di chiarire se le tabelle da applicare per il calcolo degli oneri dovuti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria siano quelle vigenti alla data di realizzazione dell’opera o quelle vigenti alla data di presentazione della domanda o, ancora, quelle in essere alla data di rilascio del titolo.
Risposta
Come chiarito dalla giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, sent. 11.02.2020, n. 1886), la disciplina normativa applicabile per la determinazione degli importi dovuti non è quella vigente all’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio o alla data di presentazione della domanda di sanatoria, bensì quella vigente alla data di rilascio della concessione in sanatoria: tale conclusione si impone sia in applicazione del generale canone tempus regit actum (dato che solo con l’adozione del provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi, concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il presupposto sostanziale del pagamento del contributo) sia in base a considerazioni d’ordine teleologico, dato che tale interpretazione consente di meglio tutelare l’interesse pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi reali da sostenere (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 02.07.2019, n. 4514) (22.03.2024 - tratto da e link a www.ediliziaurbanistica.it).

CONSIGLIERI COMUNALIQuesto comune di popolazione inferiore a 15.000 abitanti ha proceduto, mediante modifica statutaria, all’istituzione della figura del Presidente del Consiglio Comunale.
E’ possibile procedere all’elezione in corso di consiliatura o è necessario attendere il rinnovo degli organi?

L’art. 39 del TUEL con riferimento al Presidente del Consiglio testualmente recita che "I consigli provinciali e i consigli comunali dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti sono presieduti da un presidente eletto tra i consiglieri nella prima seduta del consiglio. Al presidente del consiglio sono attribuiti, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio. Quando lo statuto non dispone diversamente, le funzioni vicarie di presidente del consiglio sono esercitate dal consigliere anziano individuato secondo le modalità di cui all'articolo 40. Nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la figura del presidente del consiglio…. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti il consiglio è presieduto dal sindaco che provvede anche alla convocazione del consiglio salvo differente previsione statutaria".
Pertanto, nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti la figura del presidente del Consiglio è facoltativa e non obbligatoria e qualora istituita deve risultare da apposita previsione statutaria.
Il caso particolare posto alla nostra attenzione è di un comune che chiede se dopo l’entrata in vigore dello statuto modificato, sia possibile procedere all’elezione del presidente nel corso dell’attuale consiliatura e l’argomento è quanto mai di attualità con riferimento alle prossime elezioni amministrative che si terranno nel mese di giugno.
Per rispondere alla domanda, sul tema riscontriamo un parere del Ministero dell’Interno (n. 6458 del 19.02.2024) secondo il quale va evidenziato che la citata disposizione si colloca sistematicamente nell’ambito di un comma il cui primo periodo, sia pure con riferimento espresso ai comuni "con popolazione superiore a 15.000 abitanti", prevede testualmente che il presidente è "eletto … nella prima seduta del consiglio".
Qualora i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti recepiscano l’istituto in parola, dovranno pertanto farlo in aderenza a quanto previsto dal vigente ordinamento, tenuto conto che è fondamento di un ordinamento democratico il principio secondo cui gli organismi rappresentativi vengono a cessare quando spira il termine di durata del loro mandato, previsto dalla legge.
Tanto ciò premesso, conclude il Ministero ed in conformità ad un principio di coerenza giuridica per cui l’imputazione ad un nuovo soggetto (presidente del consiglio) di funzioni di competenza del sindaco in carica può avere luogo soltanto una volta esaurito il mandato elettorale, "si ritiene che in codesto ente l’elezione del presidente del consiglio, in esecuzione delle modifiche statutarie che saranno apportate, non possa che avvenire successivamente al rinnovo degli organi attualmente in carica".
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Riferimenti normativi e contrattuali
Art. 39 TUEL
Documenti allegati
Parere 19.02.2024, n. 6458 del Ministero dell’Interno
(20.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Cambiamento nome del gruppo consiliare.
Sintesi/Massima
Il mutamento di denominazione del gruppo consiliare è possibile, in quanto il regolamento del consiglio prevede espressamente la modifica della denominazione del gruppo indipendentemente dal numero dei consiglieri.
Testo
Con nota del ..., il segretario generale della città di … ha formulato una richiesta di parere in materia di denominazione dei gruppi consiliari. In particolare, ha evidenziato che un consigliere comunale, componente del gruppo monopersonale "Unione di Centro", risultato unico eletto nella corrispondente lista "Unione di Centro", ha comunicato di voler modificare la predetta denominazione ed utilizzare il nome di "Democrazia Cristiana".
Il consigliere ha motivato il cambio di denominazione del gruppo di appartenenza in quanto ha accettato l'incarico di commissario provinciale della Democrazia Cristiana e, nella nota indirizzata al presidente del consiglio datata ..., ha precisato che il gruppo con la nuova denominazione si colloca sempre nell'ambito della maggioranza di centro-destra che ha sostenuto l'attuale sindaco nelle elezioni.
Tale modifica è stata contestata dal Partito "Unione di Centro", che, pur non negando la possibilità del consigliere di recedere dal gruppo originario di appartenenza, ha ritenuto che tale gruppo consiliare non possa cambiare la denominazione in quanto se si consentisse ciò si verrebbe a costituire un nuovo gruppo consiliare formato da un solo componente laddove l'art. 70, comma 3, del regolamento del consiglio prevede il numero minimo di due consiglieri per poter formare un nuovo gruppo consiliare.
Il segretario generale ha fatto presente, inoltre, che la presidenza del consiglio comunale ha sempre accolto in passato la variazione di nome dei gruppi consiliari, in ragione del dettato recato dall'art. 70, comma 1, del regolamento del consiglio che consente espressamente il mutamento di denominazione del gruppo in corso di mandato.
Al riguardo, occorre premettere che l'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38 comma 3, art. 39 comma 4 e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dall'art. 38 del citato decreto legislativo n. 267/2000.
In merito giova richiamare la pronuncia del TAR Trentino Alto Adige - sez. di Trento, n. 75 del 2009, con la quale è stato precisato che "il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'art. 67 della Costituzione … pacificamente applicabile ad ogni assemblea elettiva, assicura ad ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori -pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica- con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza".
In linea con il principio generale secondo il quale, all'elemento "statico" dell'elezione in una lista si sovrappone quello "dinamico", fondato sull'autonomia politica dei consiglieri, si ritengono in genere ammissibili anche i mutamenti all'interno delle forze politiche che comportano altrettanti cambiamenti nei gruppi consiliari.
Anche il TAR Puglia, sez. di Bari, con sentenza n. 506/2005 ha evidenziato che il rapporto tra il candidato eletto ed il partito di appartenenza "... non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e l'assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati."
Nel caso specifico, l'art. 40 dello statuto comunale prevede che "i Consiglieri comunali si costituiscono in Gruppi secondo le norme del Regolamento per il funzionamento del Consiglio comunale". Ai sensi dell'art. 70, comma 1, del regolamento del consiglio comunale, è previsto che "i consiglieri eletti in una medesima lista, qualunque sia il loro numero, costituiscono di norma un gruppo consiliare, anche se la denominazione originaria dovesse modificarsi nel corso della tornata amministrativa".
Il successivo comma 3 del medesimo art. 70 dispone che "Se uno o più consiglieri decidono di recedere dal proprio gruppo senza confluire in alcuno dei gruppi esistenti, andranno a costituire un gruppo che si definirà misto di maggioranza oppure misto di minoranza a seconda della collocazione del consigliere o dei consiglieri in questione rispetto ai due schieramenti, a meno che, in numero non inferiore a due, non dichiarino di costituirsi in gruppo con una distinta qualificazione politica …".
Atteso il surriferito quadro normativo e giurisprudenziale, ad avviso della scrivente, il mutamento di denominazione del gruppo appare coerente con la disciplina prevista dal regolamento del consiglio comunale. Ed invero, tale possibilità è stata consentita dal consiglio dell'ente locale in parola che, nell'esercizio della propria autonomia normativa, ha espressamente previsto il cambio di denominazione del gruppo in corso di consiliatura a prescindere dal numero dei componenti del singolo gruppo (parere 19.03.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Parere in merito all’agibilità di un’unità immobiliare condonata come abitazione, con altezza interna utile inferiore a quella stabilita dal DM 05.07.1975 (Regione Emilia Romagna, nota 18.03.2024 n. 285338 di prot.).
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   1. Si risponde ad un quesito in merito alla possibilità di presentare una Segnalazione Certificata di Conformità Edilizia e di Agibilità (SCEA) per un’unità immobiliare abitativa oggetto di condono edilizio, in cui è stata legittimata un’altezza interna di 2,67 ml, inferiore, quindi, all’altezza interna minima di cui al decreto del Ministro per la sanità 05.07.1975 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 190 del 18.07.1975 - di seguito denominato “DM 05.07.1975”).
Nel caso di specie, l’amministrazione comunale ritiene di poter rilasciare la certificazione di agibilità in considerazione di quattro possibili motivazioni (sulle quali chiede il parere di questa Struttura): (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Questa Amministrazione Provinciale intende procedere a seguito della stipula del CCDI normativo ed economico relativo all'anno 2023 all'avvio delle procedure di progressioni economiche orizzontali.
Le graduatorie da redigersi possono essere differenziate per profilo professionale all'interno della stessa area?
L'art. 14, comma 2, del CCNL comparto funzioni locali 2019/2021 del 16.11.2022 recita "L'attribuzione dei “differenziali stipendiali” (ex progressioni economiche orizzontali … avviene mediante procedura selettiva di area, attivabile annualmente in relazione alle risorse disponibili nel Fondo risorse decentrate …".
Stante la formulazione letterale e come ribadito anche dall'Aran con proprio Orientamento CFL244, riteniamo che le procedure selettive devono avvenire per area senza possibilità di distinguere all'interno dell'area (Area degli Operatori - Area degli Operatori esperti - Area degli Istruttori - Area dei Funzionari e dell'Elevata Qualificazione) ulteriori graduatorie differenziate per profilo professionale.
Per esemplificazione, riteniamo non sia possibile formulare all'interno dell'Area degli Istruttori (ex cat. C) una graduatoria per il profilo di istruttore amministrativo/contabile ed una graduatoria per il profilo di istruttore di vigilanza (agente di polizia locale). Unica distinzione, sempre secondo il citato Parere ARAN, potrebbe essere optata all'interno dell'Area dei Funzionari e dell'Elevata Qualificazione in quanto "si potrebbe creare una situazione di palese conflitto di interesse tra valutato e valutatore si ritiene che si possano legittimamente fare due distinte graduatorie".
Pertanto, al fine di rispondere al quesito proposto, al di fuori di questa particolare fattispecie, invece, non è possibile approvare, nell'ambito della stessa area, graduatorie distinte per profilo professionale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
CCNL comparto funzioni locali 2019/2021, art. 14
Documenti allegati

ARAN CFL244
(13.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Modifica dello statuto comunale. Istituzione del presidente del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
L'elezione del presidente del consiglio dei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, in esecuzione delle modifiche statutarie apportate ex art. 39, c. 1, ultimo capoverso del TUEL n. 267/2000, può avvenire solo successivamente al rinnovo degli organi.
Testo
Il sindaco di un comune, avente una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, ha comunicato che è in corso la modifica dello statuto comunale, approvato nel febbraio 2000 e mai aggiornato alle norme del decreto legislativo n. 267/2000.
In particolare, la revisione riguarderebbe l'istituzione del presidente del consiglio comunale ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000. È stato chiesto se, dopo l'entrata in vigore dello statuto modificato, sia possibile procedere all'elezione del presidente nel corso dell'attuale consiliatura, insediatasi da poco più di due anni.
Si ricorda che l'articolo 6, comma 5, del citato d.lgs. n. 267/2000 prevede che lo statuto entra in vigore decorsi trenta giorni dalla sua affissione all'albo pretorio dell'ente. Come è noto, ai sensi dell'art. 39, comma 1, ultimo capoverso del T.U.E.L. n. 267/2000, "nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la figura del presidente del consiglio".
La norma in esame prevede che, se per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti è obbligatoriamente previsto il presidente del consiglio, i comuni con popolazione sino a 15.000 hanno soltanto la facoltà di prevedere nello statuto la figura del presidente del consiglio. Va evidenziato che tale disposizione si colloca sistematicamente nell'ambito di un comma il cui primo periodo, sia pure con riferimento espresso ai comuni "con popolazione superiore a 15.000 abitanti", prevede testualmente che il presidente è "eletto ... nella prima seduta del consiglio".
Qualora i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti recepiscano l'istituto in parola, dovranno farlo in aderenza a quanto previsto dal vigente ordinamento, tenuto conto che è fondamento di un ordinamento democratico il principio secondo cui gli organismi rappresentativi vengono a cessare quando spira il termine di durata del loro mandato, previsto dalla legge.
In conformità ad un principio di coerenza giuridica per cui l'imputazione ad un nuovo soggetto (presidente del consiglio) di funzioni di competenza del sindaco in carica può avere luogo soltanto una volta esaurito il mandato elettorale, si ritiene che in codesto ente l'elezione del presidente del consiglio, in esecuzione delle modifiche statutarie che saranno apportate, non possa che avvenire successivamente al rinnovo degli organi attualmente in carica (parere 11.03.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

TRIBUTIQuesto Comune sta provvedendo all'elaborazione di avvisi di accertamento per IMU 2020.
A seguito delle modifiche introdotte allo Statuto del Contribuente, è necessario procedere preliminarmente al contraddittorio preventivo con il contribuente?
Il D.Lgs. 12.02.2024, n. 13, in tema di accertamento tributario e di concordato preventivo biennale, che, novellando il D.Lgs. 19.06.1997, n. 218, in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale, ha introdotto all'art. 1 il comma 2-bis la nuova disposizione in merito di "contraddittorio preventivo" con il contribuente secondo la quale "Lo schema di atto, comunicato al contribuente ai fini del contraddittorio preventivo previsto dall'articolo 6-bis , comma 3, della legge 27.07.2000, n. 212, reca oltre all'invito alla formulazione di osservazioni, anche quello alla presentazione di istanza per la definizione dell'accertamento con adesione, in luogo delle osservazioni. L'invito alla presentazione di istanza per la definizione dell'accertamento con adesione è in ogni caso contenuto nell'avviso di accertamento o di rettifica ovvero nell'atto di recupero non soggetto all'obbligo del contraddittorio preventivo".
L'art. 41, comma 2, del medesimo decreto delegato, disciplina altresì che la nuova disciplina si applichi con riferimento agli atti emessi a decorrere dal 30.04.2024.
All'uopo, al fine di disciplinare tale periodo transitorio, il Vice Ministro dell'Economia e delle Finanze ha emanato apposito Atto di indirizzo 29.02.2024 in attesa dell'emanazione di apposito decreto ministeriale che contenga la precisa elencazione degli atti esclusi dall'applicazione della nuova normativa.
Infatti, il comma 2 del nuovo art. 6-bis dello Statuto del Contribuente (L. 27.07.2000, n. 212) dispone che "Non sussiste il diritto al contraddittorio ai sensi del presente articolo per gli atti automatizzati, sostanzialmente automatizzati, di pronta liquidazione e di controllo formale delle dichiarazioni individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, nonché per i casi motivati di fondato pericolo per la riscossione".
Il ricordato precetto è sostanzialmente autoapplicativo solo nei casi in cui l'Amministrazione finanziaria possa offrire una adeguata motivazione in ordine ad un ritenuto fondato motivo per la riscossione.
Di contro, per gli atti automatizzati, sostanzialmente automatizzati, di pronta liquidazione e di controllo formale delle dichiarazioni, relativamente ai quali il diritto al contraddittorio è radicalmente escluso, occorrerà quindi attenderne l'elencazione che dovrà adottarsi con decreto MEF.
Tanto ciò detto, conclude l'atto di indirizzo che "Alla luce di ciò, dunque, una lettura interpretativa d'ordine sistematico delle recenti novità normative che si sono susseguite porta a far ritenere che fino al momento dell'emanazione del decreto ministeriale di elencazione delle fattispecie nelle quali il diritto al contraddittorio è assolutamente escluso e, in ogni caso, fino alla predetta data del 30.04.2024 nulla sia mutato in ordine alle modalità procedurali di contraddittorio, occorrenti per far legittimamente valere la pretesa tributaria, tradizionalmente disciplinate nella legislazione ancora vigente".
Sulla scorta di quanto innanzi, ed al di là delle considerazioni esposte in merito agli atti che saranno oggetto a decorrere dal 01.05.2024 all'istituto del "contraddittorio preventivo", l'Ente può procedere all'elaborazione degli avvisi di accertamento entro il prossimo 30 aprile senza prevedere tale fase prodromica con il contribuente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 19.06.1997, n. 218, art. 1 - L. 27.07.2000, n. 212, art. 6-bis - D.Lgs. 12.02.2024, n. 13, art. 41
Documenti allegati

Atto di indirizzo 29.02.2024 del MEF
 (06.03.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI: Credenziali di accesso al protocollo informatico ed ai sistemi di contabilità.
Sintesi/Massima
I dati di sintesi del protocollo informatico, ostensibili ai sensi dell'art. 43, c. 2, del d.lgs. n. 267/2000, possono essere acquisiti dai consiglieri con modalità da remoto solo ove venga garantito un elevato livello di sicurezza della loro trasmissione.
Testo
Con nota del ..., il sindaco del Comune ... ha posto un quesito in ordine all'ammissibilità della richiesta di alcuni consiglieri di ottenere le credenziali di accesso al protocollo informatico e ai sistemi di contabilità. In particolare, è stato chiesto se si possa concedere un accesso libero ed illimitato o se debbano osservarsi norme di salvaguardia del diritto di tutela dei dati personali e della sicurezza informatica dei dati.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato - sez. V, con sentenza 11.03.2021, n. 2089, ha precisato che il diritto di accesso del consigliere comunale, seppur ampio, "non implica che esso possa sempre e comunque esercitarsi con pregiudizio di altri interessi riconosciuti dall'ordinamento meritevoli di tutela, e dunque possa sottrarsi al necessario bilanciamento con quest'ultimi".
Ciò non solo perché ad esso si contrappongono diritti egualmente tutelati dall'ordinamento, ma anche per il limite funzionale intrinseco cui il diritto d'accesso, espresso dall'art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 è sottoposto, con il richiamo alle notizie ed alle informazioni che possono essere richieste all'ente locale se si rivelino utili all'espletamento del proprio mandato. Tale orientamento giurisprudenziale è stato ribadito dal TAR Veneto - sez. I, con sentenza 05.05.2021, n. 604.
L'ente, che comunque deve regolamentare questo tipo di accesso, può certamente consentire l'utilizzo di postazioni informatiche presso i propri locali per l'accesso ai dati di sintesi contenuti nel protocollo informatico (cfr. C.d.S. n. 769 del 03.02.2022 e n. 2945 del 19.04.2022) ma deve comunque valutare l'opportunità di consentire ai consiglieri l'accesso da remoto. Infatti, l'Alto Consesso, con la pronuncia n. 769/2022, ha precisato che il particolare diritto di accesso del consigliere non è illimitato, vista la sua potenziale pervasività e capacità di interferenza con altri interessi primariamente tutelati (in termini, Cons. Stato, V, 02.01.2019, n. 12).
Tale particolare accesso, per essere funzionalmente correlato al migliore svolgimento del mandato consiliare non deve incidere sulle prerogative proprie degli altri organi comunali, a necessaria garanzia delle funzioni che a questi (il sindaco e la giunta) e non al consiglio l'ordinamento attribuisce, nel quadro dell'assetto dell'ente, non deve essere in contrasto con il principio costituzionale di razionalità e buon funzionamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.) e deve avvenire con modalità corrispondenti al livello di digitalizzazione dell'amministrazione (cfr. art. 2, comma primo, d.lgs. n. 82/2005).
L'ente, quindi, può prevedere una postazione pc alla quale il consigliere potrà accedere tramite utilizzo di apposite credenziali per la consultazione telematica delle notizie necessarie in ragione dell'esercizio delle sue funzioni. Anche alla luce della sentenza del TAR Basilicata n. 599/2019, il consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive connesse all'espletamento del suo mandato attraverso la modalità informatica, con accesso da remoto (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 04.04.2019, n. 545; TAR Sardegna, 04.04.2019, n. 317).
Con la sopra citata sentenza il TAR Basilicata ha, tuttavia, precisato "che l'accesso da remoto" (in maniera specifica al sistema contabile dell'ente) "vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso - tra le quali la necessità di richiesta specifica".
In merito ai dati di sintesi del protocollo informatico il TAR Lombardia - sez. I, con sentenza n. 2317 del 24.10.2022, ha evidenziato che tali dati, pacificamente ricompresi tra quelli ostensibili, ai sensi dell'art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000, possono essere infatti acquisiti con modalità da remoto, solo ove venga garantito un elevato livello di sicurezza della loro trasmissione.
Si soggiunge che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3564 del 06.04.2023, ha precisato che l'accesso sistematico al protocollo informatico dell'ente trova un limite nella funzione espletata dal consigliere (che non è quella di affiancarsi alla struttura amministrativa istituendo, in concreto, una nuova figura organizzativa e dunque nuovi assetti funzionali ed ulteriori modelli procedimentali) e soprattutto nel principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, in quanto tale accesso comporterebbe una "innovazione organizzativa radicale" (parere 28.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un partecipante ad un concorso pubblico organizzato da questo Ente non ha dichiarato, nella domanda di partecipazione, l'attestato di lodevole servizio quale titolo di preferenza già posseduto al momento della scadenza dei termini.
E' possibile concedere al concorrente la facoltà di integrazione della documentazione?

Al fine di rispondere al quesito proposto è necessario in primis analizzare le specifiche norme contenute nel D.P.R. 09.05.1994, n. 487 "Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi" come in ultimo modificato dal D.P.R. 16.06.2023, n. 82.
In materia di concorsi per l'accesso a pubblici impieghi infatti, l'art. 5, comma 4, D.P.R. 09.05.1994, n. 487 così come modificato e integrato dal D.P.R. 16.06.2023, n. 82, elenca i titoli preferenziali da utilizzare in caso di parità di punteggio di merito dei candidati nella relativa graduatoria evidenziando che l'applicazione dei suddetti titoli preferenziali deve avvenire nel rispetto dell'ordine previsto dallo stesso art. 5, che ha carattere tassativo.
Tali titoli di preferenza sono da ritenersi valutabili sebbene non dichiarati ma comunque posseduti all'atto della domanda di partecipazione ed esibiti nei termini previsti dal bando, in caso di superamento delle prove selettive poiché la loro valutazione interviene solo successivamente nella redazione della graduatoria ed esclusivamente nell'ipotesi in cui più candidati conseguano il medesimo punteggio di merito, con loro applicazione automatica nel rispetto dell'ordine previsto dal citato art. 5, D.P.R. 09.05.1994, n. 487.
A tale conclusione è pervenuta anche recente giurisprudenza amministrativa TAR Marche Ancona Sez. II, Sent., 15.01.2024, n. 51, ove il Tribunale Amministrativo delle Marche, decidendo su una simile questione con riferimento alla scelta di un'amministrazione di “accettare” la dichiarazione di preferenza di un titolo già posseduto da un candidato ma effettuata successivamente alla domanda di partecipazione a nulla rilevando che tali titoli, effettivamente posseduti dal candidato nominato primo vincitore, non siano stati tempestivamente dichiarati nella domanda di partecipazione in quanto il bando di concorso mancante di una disposizione specifica sul tema.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 4 - D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 5
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Marche Ancona Sez. II, Sent., 15.01.2024, n. 51
(28.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PATRIMOnIO: Trasferimento di beni immobili dallo Stato all’ente locale destinatario ai sensi del D.lgs. 237 del 24.04.2001.
La giurisprudenza riconosce la sdemanializzazione c.d. tacita di beni immobili, che opera a fronte di atti univoci ed inequivocabili della Pubblica Amministrazione, tali da dedurre l'incompatibilità con la volontà di conservare il bene alla sua destinazione originaria.
Un tanto trova conferma nel fatto che l'atto formale di sdemanializzazione c.d. espressa, richiesto dall'art. 829 del Codice civile, sia privo di effetti costitutivi, poiché il passaggio del bene pubblico al patrimonio disponibile dell'ente locale consegue direttamente al realizzarsi della perdita della demanialità, potendo l’autorità amministrativa attestare semplicemente con un provvedimento di carattere dichiarativo il venir meno degli elementi costitutivi della demanialità.

Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di riconoscere alcuni beni immobili oggetto di attuazione del D.lgs. 24.04.2001, n. 237
[1] tra quelli appartenenti al patrimonio disponibile oppure se sia necessario procedere ad una formale sdemanializzazione degli stessi.
Premesso che, ai sensi dell’art. 1, c. 2, del D.lgs. 237/2001
[2], i beni immobili trasferiti dallo Stato all’ente locale destinatario entrano a far parte del demanio dello stesso, il Comune riferisce in particolare che –a seguito di verbale di consegna e presa in carico dei beni in oggetto ex art. 2, c. 3, del decreto legislativo in esame– aveva fin da subito appurato la perdita della funzione servente rispetto al fine pubblico e conseguentemente il riconoscimento degli stessi tra i beni appartenenti al patrimonio disponibile dell’ente locale.
Tenuto conto della dichiarazione del Comune circa l’insussistenza della funzione servente rispetto al fine pubblico sin dalla data di presa in carico dei beni
[3], si esprimono le seguenti considerazioni.
L’art. 829, c. 2, del Codice civile prevede che il provvedimento che dichiara il passaggio di beni demaniali del Comune al patrimonio disponibile deve essere pubblicato nei modi stabiliti per i regolamenti comunali. Sul punto, la Dottrina è concorde nel riconoscere la portata puramente dichiarativa dell’atto formale richiesto, ammettendo altresì nella prassi l’operatività della sdemanializzazione c.d. tacita
[4]. Quest’ultima opera a fronte di atti univoci e concludenti della Pubblica Amministrazione, tali da dedurre l’incompatibilità con la volontà di conservare il bene alla sua destinazione originaria.
Un tanto trova conferma nel fatto che l’atto formale di sdemanializzazione cd. espressa, richiesto dall’art. 829 del Codice, è d’altro canto privo di effetti costitutivi, poiché il passaggio del bene pubblico al patrimonio disponibile dell’ente locale consegue direttamente al realizzarsi della perdita della destinazione pubblica, potendo l’autorità amministrativa attestare semplicemente con un provvedimento di carattere dichiarativo il venir meno degli elementi costitutivi la demanialità
[5].
Occorre tuttavia considerare anche l’obiettivo originario dell’articolo 829 C.c., che era quello di garantire la certezza dei rapporti giuridici, ovviando quindi a questioni o comportamenti di dubbia natura ed intenzione
[6]. Con questa premessa, non sono quindi sufficienti, quali elementi indiziari, il disuso prolungato del bene da parte dell’ente pubblico proprietario o, in generale, situazioni negative di inerzia o tolleranza [7]. La volontà della Pubblica Amministrazione, secondo consolidata Giurisprudenza, deve risultare inequivocabile, così come l’irreversibilità rispetto all’inidoneità del bene a servire ancora all’uso della collettività [8].
Ciò detto, nel caso specifico si è dell’avviso che l’inventario, il quale fa rientrare i beni immobili in esame nel patrimonio disponibile del Comune a decorrere dalla consegna dei beni fino ad oggi, possa essere considerato atto univoco ed inequivocabile attestante di fatto la perdita della funzione pubblica dei medesimi, atteso che lo stesso è stato annualmente oggetto di approvazione da parte del consiglio comunale, in quanto allegato ai rendiconti della gestione patrimoniale dell’ente.
Ad ogni modo, nella deliberazione del consiglio comunale relativa all’eventuale alienazione dei beni immobili in argomento, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. l), del D.lgs. 267/2000, si suggerisce di dare contestualmente atto dell’avvenuta sdemanializzazione tacita degli stessi.
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[1] “Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia, recanti il trasferimento alla regione di beni immobili dello Stato”.
[2] Tale comma è stato successivamente abrogato dall’art. 1 del D.lgs. 17.09.2003, n. 278.
[3] La quale risulta antecedente all’entrata in vigore del D.lgs. 278/2003 e dunque all’abrogazione del c. 2, art. 1, del D.lgs. 237/2001.
[4] Cfr. sul punto Tresca F. La Circolazione dei beni dello Stato, Rivista del Notariato, Fasc. 1, 01.02.2018, pag. 193.
[5] Cfr. C. Cudia, Le modificazioni del regime proprietario dei beni pubblici tra atti e fatti della Pubblica Amministrazione: orientamenti giurisprudenziali e sistema, Foro amm., TAR, fasc. 12, 2003, pag. 3666.
[6] Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice civile del 1942.
[7] Cfr. sul punto M. Calabrò, G. Mari, Rilevanza degli usi civici nella circolazione degli immobili, Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc. 4, 01.08.2021, pag. 143.
[8] Ex multis Cass. Civ. Sez. III, 23.05.2023, n. 14269; Cass., Sez. II, 18.06.2020 n. 11801; Cass. Civ., S.U., 07.04.2020 n. 7739; Corte cost., 24.04.2020 n. 71; Cass. 19.02.2007, n. 3742
(18.01.2024 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso documentale ed attività di interesse pubblico di enti privati.
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Atto amministrativo – Accesso ai documenti – Attività di interesse pubblico di enti privati – Interesse concreto ed attuale – Ordini professionali.
L’art. 22, comma 1, lett. e), della legge n. 241 del 1990, ammette l’accesso agli atti “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
L’interesse all’ostensione degli atti inerenti attività di pubblico interesse può discendere da notizie di stampa, le quali devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e attuale all’accesso degli atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di legge che impongono di remunerare le prestazioni professionali con un equo compenso.
(Nella fattispecie in esame, la sezione ha ritenuto che, pur muovendo dalla natura privatistica di ASMEL, l’attività dalla stessa posta in essere, nel sottoscrivere l’accordo quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, sia di pubblico interesse. Ha statuito che sono ostensibili l’accordo quadro e tutti gli altri atti, nella disponibilità della stessa, richiesti dall’ordine degli avvocati di Roma, quale ente esponenziale della categoria degli avvocati) (1)

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   (1) Su fattispecie analoga, Cons. Stato, sez. V, 20.03.2024, n. 2693.
         Precedenti conformi: Cons. Stato, Ad. plen., 28.06.2016, n. 13
(ConsIglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.03.2024 n. 2694 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
La ASMEL -Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali- è un’associazione senza scopo di lucro costituita da comuni e altri enti pubblici, tra i cui scopi rientra, tra l’altro, quello “di implementare soluzioni per il conseguimento di obiettivi di semplificazione amministrativa e di contenimento della spesa nell'ambito dei procedimenti di acquisizione di beni e servizi”.
A tal fine lo statuto prevede che “…l'Associazione potrà attivare in favore dei soci funzioni di approvvigionamento (convenzionamenti, accordi, centralizzazione di committenze, e-procurement, etc.) connesse al reperimento delle migliori condizioni di mercato allo scopo di rendere più efficiente ed economica la gestione delle procedure di acquisizione; e di realizzare economie di scala”.
In attuazione degli obiettivi statutari, la ASMEL ha sottoscritto, con la Le. s.r.l. -società benefit costituita ai sensi dell’art. 1, commi da 376 a 384, della L. 28/12/2015, n. 208- un accordo quadro di collaborazione con il fine di mettere a disposizione degli enti associati un servizio privato al miglior prezzo di mercato, consistente nella cessione da parte degli enti dei diritti di causa attraverso appositi contratti.
In base al detto accordo, la detta società acquisisce, dai propri clienti, i diritti che questi ultimi intendono far valere in giudizio (c.d. res litigiosa) e assume di conseguenza i costi per la successiva gestione del contenzioso, sulla base di uno schema negoziale, di derivazione anglosassone, noto come “third party litigation funding”, il quale configura un contratto atipico aleatorio, finalizzato a favorire l’accesso alla tutela giurisdizionale.
Al fine di verificare il rispetto della normativa sull’equo compenso per l’esercizio delle prestazioni professionali, di cui alla L. 21/04/2023, n. 49, l’Ordine degli Avvocati di Roma, quale ente esponenziale della categoria degli avvocati, ha presentato alla ASMEL un’istanza di accesso avente ad oggetto copia dell’accordo quadro tra la stessa ASMEL e Le., con tutti gli atti presupposti o conseguenti alla stipula dell’anzidetto accordo e concernenti la cessione dei diritti litigiosi dei comuni associati ad ASMEL.
In assenza di riscontro, l’Ordine degli Avvocati di Roma ha proposto ricorso al TAR Lombardia–Milano, col quale ha chiesto l’ostensione degli atti di cui sopra.
Il Tribunale adito, con sentenza 28/11/2023, n. 2825, ha accolto il ricorso.
Avverso la sentenza ha proposto appello la ASMEL.
...
Passando al merito delle questioni poste, va, preliminarmente, osservato che non è contestata la natura privatistica di ASMEL.
Orbene, con riguardo ai soggetti privati, l’art. 22, comma 1, lett. e), della L. n. 241/1990, ammette l’accesso agli atti “…limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario” (Cons. Stato, A.P., 28/06/2016, n. 13).
Ai fini del decidere occorre, quindi, stabilire se l’attività posta in essere da ASMEL, nel sottoscrivere, con Le., l’accordo quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, rientri o meno fra quelle di pubblico interesse.
La risposta non può che essere positiva.
E invero, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, <<
l’eventuale cessione di diritti e di crediti dei Comuni a favore di una società benefit, secondo il già ricordato modello contrattuale del “litigation funding”, non è una mera attività di diritto privato, risolvendosi al contrario nella scelta di un contraente della Pubblica Amministrazione (il c.d. funder), che provvederà alla gestione del contenzioso quale cessionario dei diritti già in capo agli Enti Locali cedenti>>, scelta che, peraltro, lo si osserva incidentalmente, avviene attraverso un meccanismo di dubbia legittimità, in quanto opera in deroga a tutta la disciplina sull’evidenza pubblica.
A nulla rileva che l’opzione di avvalersi dei servizi della Le. sia, come sostiene l’appellante, facoltativa per gli enti associati.
Ciò che importa, con riguardo alla presente controversia, è che, laddove questi ultimi decidano di affidare a detta società il loro contenzioso, sulla base del menzionato accordo quadro, questo costituirà la fonte della disciplina del rapporto.
E’ evidente, quindi, come nella fattispecie sussistano tutti i presupposti per ritenere che l’attività posta in essere da ASMEL con la sottoscrizione dell’accordo in parola, risulti connotata da profili di pubblico interesse.
Quanto all’interesse a ottenere gli atti oggetto della richiesta di accesso, è basta rilevare che l’appellato ha fatto discendere il proprio interesse all’ostensione, da notizie di stampa in base alle quali, l’accordo quadro stipulato con la Le., avrebbe consentito agli associati ASMEL, di tutelare i propri diritti per le vie giurisdizionali senza spese e senza rischi.
Ebbene, tali notizie di stampa, l’esistenza delle quali non è stata smentita dall’odierna appellante, devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e attuale, dell’ordine forense appellato all’ostensione degli atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di legge che impongono di remunerare le prestazioni professionali con un equo compenso.
Dalle esposte considerazioni discende l’ostensibilità dell’accordo quadro e di tutti gli altri atti reclamati dall’istante, che siano nella disponibilità di ASMEL, senza che a ciò osti il paventato pericolo, peraltro solo genericamente evocato, di disvelare le strategie commerciali della Le., dato che, ove anche così fosse, l’unica conseguenza sarebbe quella di dover attivare, ai fini del rilascio della documentazione richiesta, il preventivo contraddittorio con la detta società, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. 12/04/2006, n. 184 (Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi).
L’appello va, in definitiva, respinto (ConsIglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.03.2024 n. 2694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittima l’ordinanza che impone il crocifisso negli uffici pubblici. Il sindaco può fare un atto straordinario solo in caso di rischi per la comunità.
Il sindaco che impone, con un’ordinanza, la presenza del crocifisso negli uffici pubblici, va oltre il suo potere. Nel nostro ordinamento, infatti, a garanzia della sfera giuridico-patrimoniale dei consociati, valgono i principi di legalità e di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Per questo, i casi nei quali la legge ammette che un primo cittadino possa emanare un atto amministrativo atipico sono eccezionali.

Con queste motivazioni il Consiglio di Stato (Sez. II - sentenza 18.03.2024 n. 2567) ha chiuso, dopo 14 anni, il caso aperto dall'Unione Atei e agnostici razionalistici (Uaar), contro l'ordinanza del sindaco del Comune di Mandas, a sud della Sardegna, che imponeva, pena una multa da 500 euro, di esporre il Crocifisso negli uffici pubblici.
Un provvedimento, giustificato con l'urgenza di «preservare le attuali tradizioni ovvero mantenere negli edifici pubblici di questo comune la presenza del Crocifisso quale simbolo fondamentale dei valori civili e culturali del nostro paese».
Il Consiglio di Stato precisa però che le urgenze sulle quali il sindaco ha margine di manovra per adottare atti straordinari sono altre. E vanno dalle emergenze sanitarie, alla necessità di intervenire per superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, fino all'eliminazione di seri pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Ed è chiaro che la motivazione fornita dal primo cittadino per l'adozione dell'atto non rientra -spiegano i giudici amministrativi- neppure indirettamente, nei presupposti che avrebbero legittimato l'esercizio del potere speciale.
Il Cds ribalta dunque la decisione del Tar che aveva respinto il ricorso dell'Uaar, muovendosi sul solco della sentenza della Cedu del 2011.
Allora la Grande Chambre di Strasburgo aveva escluso la condanna dell'Italia per la presenza del Crocifisso nelle scuole chiarendo che ogni Stato ha un margine di apprezzamento sul luogo dell' esposizione. Ed ha escluso che il Crocifisso rappresenti un elemento di indottrinamento, incompatibile con la libera espressione del pensiero.
Il Consiglio di Stato, fa invece riferimento alla sentenza delle Sezioni unite della Cassazione del 2021, secondo la quale la comunità scolastica può decidere di esporre il Crocifisso in aula, con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi.
Il Consiglio di Stato considera tuttavia che l'ordinanza impugnata è stata revocata dopo soli pochi mesi dalla sua emanazione, «dunque ha avuto un modesto impatto nella comunità locale». Il che giustifica la compensazione integrale delle spese di giudizio (articolo NT+Diritto del 21.03.2024).
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SENTENZA
4. Il primo motivo d’appello contesta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, interesse che viceversa la parte ritiene tuttora attuale, evidenziando che:
   1. la revoca, a differenza dell’annullamento, non opera retroattivamente, a maggior ragione nel caso di specie in cui non sono state riconosciute le ragioni dell’appellante, ma dove l’autorità ha giustificato l’autotutela sol perché la precedente ordinanza impositiva dell’obbligo aveva “esplicato i suoi effetti”;
   2. comunque permane l’interesse ad avere una decisione giurisdizionale che accerti l’illegittimità del provvedimento, anche a fini risarcitori, ai sensi dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., in relazione ai quali la parte si riserva di procedere con autonomo giudizio.
4.1. Il motivo è fondato non tanto e non solo per quanto osservato in merito alla diversità di effetti tra annullamento e revoca. Sotto questo profilo, infatti, essendo venuta meno l’originaria ordinanza, la violazione dell’obbligo è rimasta priva di sanzione, il che dimostra che l’originaria previsione ha perso la sua natura prescrittiva con conseguente dequotazione dell’interesse a gravarla autonomamente.
Piuttosto la fondatezza delle ragioni della parte si coglie con riferimento alla prospettata possibilità di chiedere il risarcimento dei danni, la cui precondizione è l’accertamento dell’originaria illegittimità del provvedimento.
Infatti (vedasi Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2022) “per procedersi all'accertamento dell'illegittimità dell'atto ai sensi dell'art. 34, comma 3, c.p.a., è sufficiente dichiarare di avervi interesse a fini risarcitori posto che ai sensi dell’art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo la domanda risarcitoria è proponibile anche in seguito, nel termine previsto da quest’ultima disposizione. Di conseguenza, “una volta manifestato l'interesse risarcitorio, il giudice deve limitarsi ad accertare se l'atto impugnato sia o meno legittimo, come avrebbe fatto in caso di permanente procedibilità dell'azione di annullamento, mentre gli è precluso pronunciarsi su una questione in ipotesi assorbente della fattispecie risarcitoria, oggetto di eventuale successiva domanda”.
Or bene, alla luce della sopra richiamata dichiarazione dell’associazione ricorrente va senz’altro ritenuta l’attualità di un interesse della stessa ad una pronuncia di merito sulla legittimità del provvedimento impugnato, con conseguente riforma in parte qua della sentenza appellata.
5. Con il successivo motivo la parte appellante ha riproposto i mezzi di impugnazione già dedotti in primo grado. In particolare, ha nuovamente sollevato, col secondo mezzo di gravame, il vizio di incompetenza del provvedimento impugnato, per avere il Sindaco straripato dai poteri attribuitigli dagli articoli 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000.
5.1. Il motivo è fondato.
Nel nostro ordinamento, a garanzia della sfera giuridico-patrimoniale dei consociati, vigono il principio di legalità ed il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi.
Per tale ragione, le fattispecie nelle quali la legge ammette che un atto amministrativo possa avere contenuto atipico sono da ritenersi eccezionali e, per tali motivi, di stretta interpretazione.
Nel caso dei poteri contingibili e urgenti attribuiti al Sindaco –che, presentando un contenuto atipico, rientrano in quest’ultima categoria– onde ulteriormente restringerne l’operatività, il T.U.E.L. prevede specifici requisiti per il relativo esercizio.
Il provvedimento impugnato si basa sugli articoli 50 e 54 comma 2 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Il comma 5 dell’articolo 50 ora richiamato attribuisce al Sindaco, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, il potere di emettere ordinanze contingibili e urgenti quando vi sia un’“urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche…..
L’art. 54, dopo aver previsto al comma 2 che il sindaco agisce quale Ufficiale del Governo nell’esercizio di detti poteri, prevede al comma 4 che egli “adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Il comma 4 bis del medesimo articolo 54 prevede infine che “i provvedimenti adottati ai sensi del comma 4 concernenti l’incolumità pubblica sono diretti a tutelare l’integrità fisica della popolazione, quelli concernenti la sicurezza urbana sono diretti a prevenire e contrastare [le situazioni che favoriscono ] l'insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale l'illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all'abuso di alcool o all'uso di sostanze stupefacenti.”
Il provvedimento impugnato ha giustificato la prescrizione con cui imponeva l’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici con l’urgenza di “preservare le attuali tradizioni ovvero mantenere negli edifici pubblici di questo comune la presenza del crocifisso quale simbolo fondamentale dei valori civili e culturali del nostro paese”. All’evidenza la motivazione ora richiamata non rientra, neppure indirettamente, in alcuno dei presupposti di fatto che avrebbero legittimato l’esercizio del relativo potere.
E poiché oltre a quanto osservato, in tema di provvedimenti contingibili e urgenti, “soltanto a fronte di una puntuale rappresentazione della situazione di grave pericolo attuale, suffragata da istruttoria e motivazione adeguate, si può giustificare l'eccezionale deroga al principio di tipicità degli atti amministrativi ed alla disciplina vigente, attuata mediante l'utilizzazione di provvedimenti "extra ordinem" (così Consiglio di Stato sez. V, 27.10.2022, n. 9178), ne deriva che il provvedimento impugnato è stato emesso in difetto di attribuzioni e che pertanto, in accoglimento del gravame, deve ritenersi per tali ragioni illegittimo.
5.2. Declaratoria di illegittimità che a maggior ragione va affermata nel caso di specie –e dunque sono accoglibili anche gli altri motivi di appello che detta illegittimità deducono– dove non risulta che il sindaco, prima di emettere la misura, abbia effettuato alcun ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco coinvolti nella decisione amministrativa.
Per contro, come hanno affermato, sebbene con specifico riferimento al crocifisso affisso nelle aule scolastiche, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione tale valutazione andava esperita perché “il R.D. n. 965 del 1924, art. 118, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve essere interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione, nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un "ragionevole accomodamento" tra eventuali posizioni difformi”. (In questo senso la Suprema Corte, con la sentenza n. 24414 del 09.09.2021 che ha dichiarato illegittima una circolare del dirigente scolastico che, nel richiamare tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, espressa a maggioranza in una assemblea, di vedere esposto il crocifisso nella loro aula, non ricerchi un ragionevole accomodamento con la posizione manifestata dal docente dissenziente).
6. Questi motivi inducono all’accoglimento dell’appello e, per l’effetto, a dichiarare l’illegittimità dell’ordinanza impugnata.
Va tuttavia considerato che quest’ultima è stata revocata dopo soli pochi mesi dalla sua emanazione, dunque ha avuto un modesto impatto nella comunità locale, il che giustifica la compensazione integrale delle spese di giudizio.

ATTI AMMINISTRATIVI: Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza – Esclusione dell’operatività dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
Il mancato rispetto dell’obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, imposto dall’art. 10-bis della legge n. 241/1990, determina l’annullamento del provvedimento discrezionale senza che sia consentito all’amministrazione dimostrare in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso da quello in concreto adottato.
Infatti, in seguito alla novella introdotta con l’art. 12, comma 1, lett. i), del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito con legge 11.09.2020, n. 120, è stata esclusa l’operatività dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 laddove il provvedimento sia stato adottato in violazione del menzionato articolo 10-bis
(TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 12.03.2024 n. 5033 - link a www.ambientediritto.it).
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1. La ricorrente, cittadina iraniana, rappresentava di aver presentato all’Ambasciata d’Italia a Teheran una richiesta di visto per motivi di affari.
1.1. L’Ambasciata, in data 11.05.2023, rigettava la richiesta di visto della ricorrente sulla base delle seguenti motivazioni “le informazioni fornite per giustificare la finalità e le condizioni del soggiorno previsto non sono attendibili” e “vi sono ragionevoli dubbi sull’affidabilità e l’autenticità dei documenti giustificativi forniti o sulla veridicità del loro contenuto”.
2. La ricorrente, con la proposizione del presente ricorso, insorgeva avverso detto provvedimento di rigetto, lamentandone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto distinti profili, e ne chiedeva l’annullamento.
3. In particolare, il Collegio ritiene che il primo motivo di gravame, con il quale è stata contestata la legittimità del gravato provvedimento per violazione dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, sia meritevole di accoglimento in quanto non consta, agli atti del presente giudizio, che l’amministrazione abbia comunicato alla ricorrente, prima dell’adozione del gravato diniego, le ragioni ostative all’accoglimento della sua istanza.
3.1. Tale motivo di ricorso merita accoglimento in quanto viene in rilievo un procedimento a istanza di parte e, pertanto, la comunicazione del preavviso di rigetto deve necessariamente precedere l’adozione, da parte dell’amministrazione, del provvedimento di rigetto, pena la lesione delle garanzie partecipative che la legge riconosce al privato in sede procedimentale.
3.2. In proposito, giova evidenziare che la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “l’introduzione nell’ordinamento, con legge 11.02.2005 n. 15 del 2005, del preavviso di rigetto ha segnato l’ingresso di una modalità di partecipazione al procedimento, con la quale si è voluta ‘anticipare’ l’esplicitazione delle ragioni del provvedimento sfavorevole alla fase endoprocedimentale, allo scopo di consentire una difesa ancora migliore all’interessato, mirata a rendere possibile il confronto con l’amministrazione sulle ragioni da essa ritenute ostative all’accoglimento della sua istanza, ancor prima della decisione finale.
L’istituto del cd. ‘preavviso di rigetto’ ha così lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell’istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell’interessato, che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 05/12/2019, n. 834 e 26/06/2019, n. 4413; sez. VI, 06/08/2013, 4111; sez. III 27/06/2013, n. 3525)
” (cfr. Cons. Stato, sez. III, sent. n. 6743 dell’08.10.2021).
3.3. Tali principi trovano piena applicazione nel caso di specie, posto che l’amministrazione ministeriale resistente, nel rendere il gravato provvedimento, ha fatto esercizio di un potere di carattere discrezionale correlato alla valutazione inerente alla sussistenza del rischio migratorio, sul quale sostanzialmente appunta la motivazione del diniego reso sull’istanza formulata dal ricorrente in vista del rilascio del visto di ingresso per cui è causa.
3.4. Il mancato rispetto dell’obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, imposto dall’art. 10-bis della legge n. 241/1990, determina l’annullamento del provvedimento discrezionale senza che sia consentito all’amministrazione dimostrare in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso da quello in concreto adottato.
Infatti, in seguito alla novella introdotta con l’art. 12, comma 1, lett. i), del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito con legge 11.09.2020, n. 120, è stata esclusa l’operatività dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 laddove il provvedimento sia stato adottato in violazione del menzionato articolo 10-bis (cfr. art. 21-octies, comma 2, in fine, della legge n. 241/1990).
3.5. Che la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, nel caso in cui venga in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale, determini sempre l’illegittimità del provvedimento adottato in spregio delle garanzie partecipative del privato istante, ha trovato definitiva conferma nella giurisprudenza amministrativa di secondo grado.
In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto superato l’orientamento giurisprudenziale formatosi durante la vigenza della precedente formulazione dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, affermando che “Si deve però considerare che tale orientamento si è formato prima della modifica della seconda parte dell’art. 21-octies intervenuta con l’art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120, con l’aggiunta della previsione, per cui ‘La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis’.
Con tale aggiunta è stata realizzata una distinzione tra il regime della comunicazione di avvio del procedimento e quello del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte, la cui omissione non è superabile nel caso di provvedimento discrezionali, tramite l’intervento dell’effetto ‘processuale’ della seconda parte del secondo comma dell’art. 21-octies, con la conseguenza che per i provvedimenti discrezionali, come quello oggetto del presente giudizio, rimane rilevante anche la sola omissione formale della mancata comunicazione del preavviso di rigetto.
L’attuale formulazione della norma sottrae, infatti, il modello procedimentale correlato all’esercizio di un potere discrezionale, ai meccanismi di possibile ‘sanatoria processuale’ previsti in via generale per la violazione di norme sul procedimento, in caso di omissione del preavviso di rigetto (Cons. Stato Sez. III, 22.10.2020, n. 6378)
” (cfr. Cons. Stato, sez. II, sent. n. 1790 del 14.03.2022).

EDILIZIA PRIVATA: Aree vincolate, tutti i criteri per sanare i piccoli abusi. In una sentenza del Tar Lazio tutte le condizioni da rispettare per ottenere una sanatoria nelle zone tutelate.
Nelle aree vincolate possono essere sanati solamenTe piccoli abusi ma a determinate condizioni. Ossia opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo; seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, che siano conformi alle prescrizioni urbanistiche. Inoltre devono essere minori senza aumento di volume o superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria) e inoltre ci sia il parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.

A esplicitarlo rimarcando che devono trovarsi congiuntamente le diverse situazioni è il TAR Lazio-Latina con la sentenza 11.03.2024 n. 196 pronunciata dopo il ricorso di una persona che aveva presentato istanza al Tribunale amministrativo per l'annullamento del del diniego relativo alla domanda di condono edilizio.
Tutto era nato quando il ricorrente aveva presentato al Comune una richiesta di permesso di costruire in sanatoria riguardante «la costruzione di un fabbricato con solo piano terra, adibito a civile abitazione, composto da tre ambienti, completamente ultimato compreso impianto idraulico ed elettrico».
Il ricorrente aveva anche pagato di tutti gli oneri accessori e al deposito della documentazione necessaria a supporto della richiesta. Inizialmente il tecnico incaricato dal Comune «aveva espresso parere favorevole al rilascio del permesso». Poi «nelle more del procedimento era sopraggiunto il parere negativo della Soprintendenza, in quanto le opere da sanare non rientravano tra le tipologie 4, 5 e 6 della Legge 326/2003 per le quali era consentita la sanatoria in zone vincolate e comunque erano manufatti in contrasto con il contesto architettonico, ambientale e paesaggistico dell'area vincolata per la particolare valenza architettonica della stessa; - per questi stessi motivi il Comune di Maenza aveva negato al ricorrente il permesso in sanatoria richiesto».
Quindi il ricorso al Tar. 
Per i giudici il ricorso va respinto. Premettendo che l'istanza è stata presentata il base al cosiddetto terzo condono che ha fissato limiti più stringenti rispetto ai precedenti primo e secondo condono i giudici ricordano che «la realizzazione di nuovi volumi e superfici in aree vincolate, indipendentemente dalla data di imposizione del vincolo e dalla natura di vincolo assoluto o relativo alla inedificabilità, è estranea all'ambito di applicazione della disciplina dettata sul terzo condono».
Partendo dalle diverse sentenze già pronunciate in merito, i giudici rimarcano che «le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: che si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo; seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, le opere siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; si tratti di opere minori senza aumento di volume o superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); vi sia il previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo».
Quanto al caso specifico, «trattandosi di un fabbricato con solo piano terra, adibito a civile abitazione, composto da tre ambienti, completamente ultimato compreso impianto idraulico ed elettrico esso va qualificato come abuso maggiore essendo una nuova
costruzione
».
Inoltre, risulta per tabulas che l'abuso in questione è stato realizzato su una zona vincolata. «Ne discende che tale abuso -proprio perché maggiore ed incidente su area vincolata- non può essere condonato in ossequio al costante insegnamento giurisprudenziale sopra richiamato, con conseguente piena legittimità del provvedimento di diniego impugnato» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 20.03.2024).
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SENTENZA
4- Il ricorso va respinto per i motivi di seguito esposti.
4.1 – Va rilevato, in primo luogo, che l’istanza di condono in relazione alla quale è stata adottata la determinazione negativa impugnata è stata presentata in base al regime del c.d. “terzo condono” disciplinato dall’art. 32 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269 (convertito in legge dalla L. 326/2003) che ha fissato limiti più stringenti rispetto ai precedenti “primo e secondo condono”, di cui alle leggi 28.02.1985, n. 47 e 23.12.1994, n. 724.
In particolare, alla luce delle coordinate applicative del c.d. “terzo condono”, come attuato, in sede regionale, con la L.R. 08.11.2004, n. 12, solo determinate tipologie di interventi –c.d. abusi formali o minori– risultano condonabili se realizzati in aree sottoposte a vincolo.
Ed infatti, la realizzazione di nuovi volumi e superfici in aree vincolate, indipendentemente dalla data di imposizione del vincolo e dalla natura di vincolo assoluto o relativo alla inedificabilità, è estranea all’ambito di applicazione della disciplina dettata sul terzo condono, come risultante dalla combinato disposto delle disposizioni della l. 326/2003 e della L.R. 12/2004 e come costantemente applicata dalla giurisprudenza amministrativa, nonché secondo le coordinate interpretative individuate dalla Corte Costituzionale, investita della verifica di tenuta costituzionale delle relative disposizioni.
Ciò premesso, alla luce dell’art. 32, commi 26 e 27, del d.l. 269/2003 e degli artt. 2 e 3, comma 1, lettera b), della L.R. n. 12/2004, possono ritenersi suscettibili di sanatoria, nelle aree soggette a vincoli, solo le opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’Allegato 1 del d.l. 269/2003, corrispondenti a opere di restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria (ex plurimis, in termini: Tar Lazio, Roma, Sez. II-bis, 17.02.2015, n. 2705; 04.04.2017 n. 4225; 13.10.2017, n. 10336; 11.07.2018, n. 7752; 24.01.2019, n. 931; 09.07.2019, n. 9131; 13.03.2019, n. 4572; 02.12.2019 n. 13758; 07.01.2020, n. 90; 02.03.2020, n. 2743; 26.03.2020 n. 2660; 07.05.2020, n. 7487; 18.08.2020, n. 9252; Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.01.2020 n. 425), mentre per le altre tipologie di abusi interviene una preclusione legale alla sanabilità.
Più nel dettaglio, la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che “il condono previsto dall’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 (terzo condono edilizio) è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo. Non sono invece suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (cfr. ex multis Cons. St., Sez. VI, 17.01.2020, n. 425).
In sintesi, quindi, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
   a) si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo;
   b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, le opere siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
   c) si tratti di opere minori senza aumento di volume o superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
   d) vi sia il previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Orbene, nel caso di specie viene in rilievo un abuso edilizio che – come dichiarato dallo stesso ricorrente nell’istanza di sanatoria dell’-OMISSIS- – rientra nella tipologia abusiva n. 1; trattandosi di “un fabbricato con solo piano terra, adibito a civile abitazione, composto da tre ambienti, completamente ultimato compreso impianto idraulico ed elettrico” esso va qualificato come “abuso maggiore” essendo una nuova costruzione.
Inoltre, risulta per tabulas che l’abuso in questione è stato realizzato su una zona vincolata.
Ne discende che tale abuso -proprio perché “maggiore” ed incidente su area vincolata- non può essere condonato in ossequio al costante insegnamento giurisprudenziale sopra richiamato, con conseguente piena legittimità del provvedimento di diniego impugnato.
4.2 - Né può essere accolta la censura in merito ad un presunto difetto di motivazione del diniego di sanatoria impugnato, atteso che il provvedimento in questione ha carattere vincolato, essendo ancorato a due specifici presupposti, ovverosia l’esistenza del vincolo paesaggistico e l’incremento di superficie o volumetria. Orbene, il provvedimento impugnato dà puntualmente conto di tali presupposti, con ciò assolvendo in pieno all’obbligo motivazionale sancito dall’art. 3 della L. 241/1990.
Per tutto quanto sopra esposto il ricorso va respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Opere stagionali – Attività edilizia libera – Condizione della tempestiva rimozione al cessare dell’esigenza contingente – Opere non rimosse – Natura di nuova costruzione – Permesso di costruire.
La natura temporanea e contingente delle esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al regime concessorio se la stessa non sia comunque di facile amovibilità.
Le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono soggette ad attività edilizia libera a condizione che siano tempestivamente rimosse al cessare dell’esigenza, mentre l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova costruzione” e necessita, in quanto tale, di permesso di costruire.
Lo stabile e permanente collegamento al terreno esclude sempre la natura precaria dell’opera
(Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 08.03.2024 n. 2276 - link a www.ambientediritto.it).
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4.1. Il motivo è complessivamente infondato.
Il procedimento terminato con l’ordine di demolizione impugnato ha avuto inizio con la comunicazione del 04.03.2019, con cui il Comune rappresentava alla parte di aver accertato la presenza di centotrenta case mobili abusive sull’area, prive altresì del necessario nulla-osta paesaggistico, installate sull’area da epoca risalente.
In base al principio “tempus regit actus” la fattispecie va regolata dalla disciplina vigente al momento in cui il procedimento era iniziato e quindi la sopravvenienza rappresentata dal comma 1, lett. e5), dell’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, diversamente da quanto opinato, non è applicabile al caso di specie.
Né la circostanza che questa disposizione fosse in vigore al momento dell’emanazione del provvedimento definitivo può rilevare in senso contrario. A voler diversamente opinare, tenendo conto che quelle unità erano state realizzate anni addietro, si darebbe infatti a codesta modifica/aggiunta normativa un’impropria portata condonistica che non traspare affatto dall’intentio legis e che comunque non potrebbe invocarsi, dovendo una legge di sanatoria, in quanto norma eccezionale, essere sempre espressamente prevista dal legislatore e non potendosi desumere in via indiretta.
4.2. Sarebbe in ogni caso discutibile l’inquadramento degli edifici di cui si discute nella tipologia di “case mobili” contemplata dal ricordato comma 1, lett. e5), dell’art. 3 del Testo Unico Edilizia: gli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza hanno infatti dimostrato che si trattava di organismi stabilmente ancorati al suolo, non tutti dotati di un meccanismo funzionante di rotazione, completi di verande e privi di un sistema di rapida attivazione per l’allaccio e/o il distacco dalle condotte fognarie ivi installate.
Soprattutto quei manufatti risultano presenti sull’area da lungo tempo, dunque non possono definirsi precari e, a maggior ragione, non possono dirsi diretti “… a soddisfare esigenze meramente temporanee” come richiesto dalla disposizione invocata.
In questo senso, anche Cassazione penale sez. III, 13.04.2023, n. 33408, secondo cui la natura “precaria” dell’opera non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per realizzarla, né dalla sua facile rimovibilità, bensì dalla natura delle esigenze che l’opera stessa intende soddisfare. Ciò è chiaramente evincibile dal tenore testuale degli artt. 3, comma 1, lett. e.5, e 6, comma 1, lett. e-bis, t.u.ed., nei quali si fa esplicito riferimento alle “esigenze meramente temporanee” (art. 3) e alle “esigenze contingenti e temporanee” (art. 6).
Ma anche “La natura temporanea e contingente delle esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al regime “concessorio” se la stessa non sia comunque di facile amovibilità. Lo stabile e permanente collegamento al terreno esclude sempre la natura precaria dell’opera; lo si evince chiaramente dal fatto che anche le “unità abitative mobili”, per non essere considerate “nuove costruzioni”, devono comunque essere dotate di meccanismi di rotazione funzionanti e non devono essere collegate al terreno in maniera permanente (art. 3, lett. e.5, seconda parte).
Il che si spiega con il fatto che le opere destinate a soddisfare esigenze non temporanee e quelle comunque stabilmente collegate al suolo condividono con gli “interventi di nuova costruzione” la loro attitudine alla trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in via permanente.
Prova ne sia il fatto che le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono soggette ad attività edilizia libera a condizione che siano tempestivamente rimosse al cessare dell’esigenza: l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova costruzione” e necessita, in quanto tale, di permesso di costruire
.” Consiglio di Stato sez. IV, 24.07.2012, n. 4214.
4.3. Né può fondatamente sostenersi che l’avere il campeggio, nel suo complesso, ottenuto sia l’autorizzazione edilizia che quella paesaggistica, escludesse la necessità di munirsi dei singoli titoli edilizi per ciascuna unità, innanzitutto perché confonde due oggetti: altro è ottenere il nulla-osta relativo ad un intero campeggio, inteso come complesso, altra è la necessità che i singoli interventi siano individualmente autorizzati, allorquando, come in questo caso, creano nuovi volumi edilizi.
A maggior ragione laddove si tenga conto che quando dette autorizzazioni generali furono ottenute, quegli edifici non esistevano né erano contemplati dal progetto sulla cui base fu ottenuta la concessione edilizia.
Aggiungasi che, in considerazione della notevole estensione che la struttura ricettiva aveva avuto, con la erezione di più di centocinquanta unità abitative (questo è il numero risultante dall’ultimo accesso), essa aveva anche verosimilmente perso la qualifica di “campeggio”, ai sensi del comma 1 e del comma 6 dell’art. 15 della L. R. n. 16 del 2017, per assumere quella diversa di “villaggio turistico”.
Questa modifica, a sua volta, prospettando una nuova configurazione tipologica della struttura ricettiva, necessitava verosimilmente di ulteriori provvedimenti autorizzatori.
Infine, e comunque, una volta esclusa, per le ragioni sopra viste, la possibilità di applicare a dette unità la previsione di cui al citato comma 1, lett. e5), dell’art. 3 D.P.R. 380 del 2001, conseguiva la necessità della richiesta di permesso di costruire, e, con essa, la qualifica come abusive delle opere che ne erano sprovviste.

URBANISTICA: Sul sindacato che il giudice amministrativo può esercitare sugli atti che formano espressione della funzione di pianificazione paesaggistica.
«Le valutazioni in materia di tutela del paesaggio sono "espressione dell'ampia discrezionalità tecnico-amministrativa attribuita all'Amministrazione in materia pianificatoria, che involge, primariamente, un apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che gli atti di esercizio del potere pianificatorio siano inficiati da errori di fatto, abnormi illogicità o profili di eccesso di potere per palese travisamento dei fatti o manifesta irrazionalità".
Va, inoltre, precisato che la valenza paesaggistica di un'area può dipendere dalla sua mera conformazione e ubicazione naturalistica, dal suo significato storico o dalla presenza di beni di interesse archeologico (e quindi paesaggistico) nel sottosuolo, indipendentemente da eventuali compromissioni che l'area stessa abbia subito nel tempo a causa di interventi industriali o di fenomeni di degrado ambientale di altro genere, in quanto il Piano Paesaggistico, ai sensi dell'art. 143, primo comma, lett. g), deve individuare anche gli "interventi di... riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela".
Ne consegue che la mera presenza di siti produttivi/industriali non preclude l'adozione di scelte di tutela ambientale tenuto anche conto che "la finalità del Piano Paesaggistico non è quella di operare una semplice mediazione di fatto fra interessi paesaggistici e preesistenti interessi industriali, ma quella di individuare la disciplina più idonea, nei consueti limiti della ragionevolezza, per la tutela e la valorizzazione del Paesaggio, anche a discapito di più immediate esigenze di natura economica o industriale"».
Il sindacato che il giudice amministrativo può esercitare sugli atti che formano espressione della funzione di pianificazione paesaggistica, pertanto, è di tipo “esterno”, ossia limitato alla rilevazione di macroscopici vizi o travisamenti della realtà di fatto.
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Come anche evidenziato dal Consiglio di Stato: «l’avvenuta edificazione di un'area o il suo degrado non costituiscono ragione sufficiente per escludere l'imposizione di un vincolo, e a maggiore ragione il giudizio di incompatibilità di un intervento con il vincolo esistente, che in sintesi va a limitare i danni ulteriori e a proteggere quanto rimasto dell'originario valore paesaggistico.
Del resto, più volte questo Consiglio ha ritenuto che gli organi preposti alla tutela dei vincoli paesaggistici o archeologici debbano valutare come 'salvare il salvabile'”.
Né “l'eventuale compromissione del territorio impedisce l'apposizione del vincolo finalizzato ad impedire l'ulteriore degrado e a rilanciare la riqualificazione dell'area. E neppure è d'ostacolo una precedente previsione urbanistica più favorevole al privato, che comunque non può vincolare l'Amministrazione.
D'altra parte, i piani paesaggistici sono in cima alla piramide degli strumenti di pianificazione del territorio e ad essi devono conformarsi in caso di contrasto gli altri strumenti urbanistici».

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6.8- Infondate, altresì, sono le argomentazioni prospettate con il settimo motivo di ricorso.
Alla trattazione del motivo è bene anteporre una premessa di carattere metodologico in ordine alla tipologia di sindacato esercitabile dal giudice amministrativo in relazione a provvedimenti che esprimono scelte di carattere tecnico-discrezionale.
In particolare, come recentemente ribadito da questa Sezione con la sentenza n. 21/02/2023, n. 522, in fattispecie analoga e in relazione al medesimo atto di pianificazione, «le valutazioni in materia di tutela del paesaggio sono "espressione dell'ampia discrezionalità tecnico-amministrativa attribuita all'Amministrazione in materia pianificatoria, che involge, primariamente, un apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che gli atti di esercizio del potere pianificatorio siano inficiati da errori di fatto, abnormi illogicità o profili di eccesso di potere per palese travisamento dei fatti o manifesta irrazionalità" (cfr. tra le tante C.G.A. parere n. 380/2021 reso sul medesimo piano; Cons. Stato, sez. VI, 03.07.2014, n. 3367; TAR Sicilia-Catania, sez. I, 17.08.2018, n. 1713).
Va, inoltre, precisato che la valenza paesaggistica di un'area può dipendere dalla sua mera conformazione e ubicazione naturalistica, dal suo significato storico o dalla presenza di beni di interesse archeologico (e quindi paesaggistico) nel sottosuolo, indipendentemente da eventuali compromissioni che l'area stessa abbia subito nel tempo a causa di interventi industriali o di fenomeni di degrado ambientale di altro genere, in quanto il Piano Paesaggistico, ai sensi dell'art. 143, primo comma, lett. g), deve individuare anche gli "interventi di... riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela".
Ne consegue che la mera presenza di siti produttivi/industriali non preclude l'adozione di scelte di tutela ambientale tenuto anche conto che "la finalità del Piano Paesaggistico non è quella di operare una semplice mediazione di fatto fra interessi paesaggistici e preesistenti interessi industriali, ma quella di individuare la disciplina più idonea, nei consueti limiti della ragionevolezza, per la tutela e la valorizzazione del Paesaggio, anche a discapito di più immediate esigenze di natura economica o industriale" (cfr. TAR Catania n. 1515/2014 cit.)
».
Il sindacato che il giudice amministrativo può esercitare sugli atti che formano espressione della funzione di pianificazione paesaggistica, pertanto, è di tipo “esterno”, ossia limitato alla rilevazione di macroscopici vizi o travisamenti della realtà di fatto che, nel caso di specie, il Collegio reputa non ricorrenti.
Quanto al “terreno B-costiero", non appare dirimente, al fine di dimostrare l’illogica imposizione del livello di tutela 3, la circostanza che il lotto dei ricorrenti confini sia a nord che a sud con un’area urbanizzata, trattandosi di un livello di tutela imposto, in modo omogeneo, su tutti i territori costieri della provincia siracusana (salvo, per le aree più intensamente urbanizzate e tendente al degrado, ricondotte in regime di recupero), peraltro, già soggetti a vincolo paesaggistico ope legis (sia per effetto dell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004, comma 1, lett. A), che dell’art. 15, l.r. 78/1976).
L’imposizione del rigoroso livello di tutela, da tale prospettiva, risulta pertanto esente dai dedotti macroscopici vizi, posto che, come già evidenziato al punto precedente, appare del tutto coerente il criterio impiegato dall’amministrazione per preservare la costa e il relativo «alto valore paesaggistico caratterizzato da una grande varietà di elementi morfologici di particolare bellezza ed anche da taluni aspetti storico-culturali. Essa va pertanto tutelata con norme volte alla sua conservazione e integrità di tutti gli elementi che ne fanno parte».
Del resto, come anche evidenziato dal Consiglio di Stato: «l’avvenuta edificazione di un'area o il suo degrado non costituiscono ragione sufficiente per escludere l'imposizione di un vincolo, e a maggiore ragione il giudizio di incompatibilità di un intervento con il vincolo esistente, che in sintesi va a limitare i danni ulteriori e a proteggere quanto rimasto dell'originario valore paesaggistico (C.d.S., VI, 11.06.2012, n. 3401, e 15.06.2011, n. 3644).
Del resto, più volte questo Consiglio ha ritenuto che gli organi preposti alla tutela dei vincoli paesaggistici o archeologici debbano valutare come 'salvare il salvabile' (CdS, IV, 22.11.2018, n. 6600; VI, 19.06.2018, n. 3773; VI, 26.06.2017, n. 3118), [...]” (Consiglio di Stato, sez. VI , 06/04/2022 , n. 2547.
Né “l'eventuale compromissione del territorio impedisce l'apposizione del vincolo finalizzato ad impedire l'ulteriore degrado e a rilanciare la riqualificazione dell'area (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 3770 del 2009). E neppure è d'ostacolo una precedente previsione urbanistica più favorevole al privato, che comunque non può vincolare l'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 5547 del 2016). 14. D'altra parte, i piani paesaggistici sono in cima alla piramide degli strumenti di pianificazione del territorio e ad essi devono conformarsi in caso di contrasto gli altri strumenti urbanistici (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 5658 del 2015 e Sez. IV, n. 4244 del 2010)
» (Consiglio di Stato sez. IV, 24/02/2020, n. 1355)
 (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 05.03.2024 n. 879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36 tu edilizia prevede chiaramente una ipotesi di formazione del silenzio-rifiuto, decorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità, senza che sia stato emanato alcun provvedimento espresso.
Pertanto, in mancanza della impugnazione del provvedimento tacito di diniego, l'ordinanza di demolizione, già precedentemente emanata e sospesa negli effetti, si consolida riprendendo piena efficacia.
Non può pertanto condividersi la tesi della ricorrente dell’efficacia caducante sull’ordinanza di demolizione prodotto dalla presentazione dell’istanza di sanatoria.
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Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente deduce:
   Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 - violazione dei principi generali regolanti l’attività edilizia - eccesso di potere - ingiustizia manifesta - sviamento - carenza assoluta di istruttoria - violazione del giusto procedimento - violazione del principio di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost. - inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto
,
sostenendo che il Comune avrebbe dovuto dapprima esaminare la domanda di permesso di Costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 presentata dalla ricorrente e tutt’ora pendente, e solo successivamente al rigetto della stessa avrebbe potuto adottare il provvedimento di acquisizione delle opere abusive.
Infatti, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità (così come la presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull’ordinanza ripristinatoria, rendendola inefficace.
Il motivo non può essere accolto.
L’art. 36 tu edilizia, infatti, prevede chiaramente una ipotesi di formazione del silenzio-rifiuto, decorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità, senza che sia stato emanato alcun provvedimento espresso. Pertanto, in mancanza della impugnazione del provvedimento tacito di diniego, l'ordinanza di demolizione, già precedentemente emanata e sospesa negli effetti, si consolida riprendendo piena efficacia (TAR Napoli (Campania) sez. III, 04/10/2019, n. 4757).
Non può pertanto condividersi la tesi della ricorrente dell’efficacia caducante sull’ordinanza di demolizione prodotto dalla presentazione dell’istanza di sanatoria, pur sostenuta da alcune pronunce giurisprudenziali, cui questo Tribunale non ha ritenuto di aderire (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.02.2024 n. 1363  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione.
L’acquisizione pertanto è un atto avente mera natura dichiarativa e di conseguenza nessuna rilevanza può assumere l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche

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Con il secondo motivo, parte ricorrente ha dedotto il
   vizio di eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria e di motivazione – violazione dei principi generali in tema di acquisizione al patrimonio,
in quanto il provvedimento impugnato non fornisce alcuna spiegazione delle ragioni di interesse pubblico che hanno indotto l’amministrazione comunale ad acquisire il bene che si assume abusivo a distanza di ben 12 anni dall’accertamento dell’inottemperanza alla ordinanza di demolizione.
Il motivo è infondato.
Come recentemente chiarito anche dall’adunanza plenaria n. 16 in data 11.10.2023, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione.
L’acquisizione pertanto è un atto avente mera natura dichiarativa e di conseguenza nessuna rilevanza può assumere l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche (cfr. ex multis TAR Napoli (Campania) sez. IV, 11/10/2023, n. 5554) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.02.2024 n. 1363  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante orientamento giurisprudenziale, in caso di provvedimento plurimotivato è sufficiente a sorreggerne la legittimità anche una sola delle ragioni espresse, “con la conseguenza che il rigetto delle doglianze svolte contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento, sicché il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze”.
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... per l'annullamento:
   - della nota -OMISSIS- dell'Ufficio Sportello Unico Edilizia del Comune di Palermo che esprime parere negativo alla SCIA presentata dai Sig.ri -OMISSIS- per la realizzazione di una piscina interrata e locali tecnici interrati nel terreno sito in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al foglio -OMISSIS-;
...
Con il ricorso in trattazione, le parti ricorrenti hanno impugnato la nota-OMISSIS- con cui l’Ufficio Sportello Unico Edilizia del Comune di Palermo ha espresso parere negativo alla SCIA presentata dai ricorrenti per la realizzazione di una piscina e locali tecnici interrati nel terreno sito a Palermo in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al foglio -OMISSIS-.
I ricorrenti hanno chiesto, altresì, l’accertamento e la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente ai sensi dell'art. 30 c.p.a. e 2058 c.c., e, comunque in via subordinata, al risarcimento del danno per perdita di chance, con interessi e rivalutazione, come per legge.
I ricorrenti premettono di aver presentato in data -OMISSIS- una SCIA (prot. -OMISSIS-) per la realizzazione di una piscina ad uso privato a servizio delle unità residenziali, delle dimensioni di metri 10 per 5 ed una volumetria complessiva inferiore ai 220 mc, nonché di un corpo tecnico interrato destinato ad ospitarne i motori.
Ad avviso dei ricorrenti la piscina avrebbe dimensioni compatibili con i limiti di pertinenzialità fissati dal Regolamento edilizio comunale.
Ciononostante, e benché fosse già decorso il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio dei poteri inibitori, il Comune di Palermo ha adottato l’impugnato provvedimento inibitorio degli effetti della S.C.I.A, ritenendo che l’intervento sarebbe “in contrasto con l’art 17 delle N.T.A. del P.R.G. nella considerazione che è ammessa esclusivamente l’edificazione di manufatti residenziali e strutture connesse all’attività produttiva, limitatamente al fabbisogno agricolo” e che la realizzazione di una piscina non sarebbe “attuabile tramite S.C.I.A., ai sensi dell’art 22 del D.P.R. 380/2001”.
I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento per i seguenti motivi:
...
1. Il ricorso non è fondato.
2. In via preliminare occorre osservare che il provvedimento inibitorio impugnato presenta una duplice motivazione: il contrasto dell’opera con la destinazione urbanistica dell’area e la insufficienza della S.C.I.A. quale titolo abilitativo.
Per costante orientamento giurisprudenziale, in caso di provvedimento plurimotivato è sufficiente a sorreggerne la legittimità anche una sola delle ragioni espresse, “con la conseguenza che il rigetto delle doglianze svolte contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento, sicché il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze” (ex multis, Consiglio di Stato sez. III, 16/06/2023, n. 5964) (TAR Sicilia-Palerrmo, Sez. III, sentenza 29.02.2024 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il più recente indirizzo, la realizzazione di una piscina interrata integra intervento di nuova costruzione e necessita del previo rilascio del permesso di costruire.
Infatti “La realizzazione della stessa non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire”.
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... per l'annullamento:
   - della nota -OMISSIS- dell'Ufficio Sportello Unico Edilizia del Comune di Palermo che esprime parere negativo alla SCIA presentata dai Sig.ri -OMISSIS- per la realizzazione di una piscina interrata e locali tecnici interrati nel terreno sito in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al foglio -OMISSIS-;
...
Con il ricorso in trattazione, le parti ricorrenti hanno impugnato la nota -OMISSIS- con cui l’Ufficio Sportello Unico Edilizia del Comune di Palermo ha espresso parere negativo alla SCIA presentata dai ricorrenti per la realizzazione di una piscina e locali tecnici interrati nel terreno sito a Palermo in via -OMISSIS-, identificato in Catasto al foglio -OMISSIS-.
I ricorrenti hanno chiesto, altresì, l’accertamento e la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente ai sensi dell'art. 30 c.p.a. e 2058 c.c., e, comunque in via subordinata, al risarcimento del danno per perdita di chance, con interessi e rivalutazione, come per legge.
I ricorrenti premettono di aver presentato in data -OMISSIS- una SCIA (prot. -OMISSIS-) per la realizzazione di una piscina ad uso privato a servizio delle unità residenziali, delle dimensioni di metri 10 per 5 ed una volumetria complessiva inferiore ai 220 mc, nonché di un corpo tecnico interrato destinato ad ospitarne i motori.
Ad avviso dei ricorrenti la piscina avrebbe dimensioni compatibili con i limiti di pertinenzialità fissati dal Regolamento edilizio comunale.
Ciononostante, e benché fosse già decorso il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio dei poteri inibitori, il Comune di Palermo ha adottato l’impugnato provvedimento inibitorio degli effetti della S.C.I.A, ritenendo che l’intervento sarebbe “in contrasto con l’art. 17 delle N.T.A. del P.R.G. nella considerazione che è ammessa esclusivamente l’edificazione di manufatti residenziali e strutture connesse all’attività produttiva, limitatamente al fabbisogno agricolo” e che la realizzazione di una piscina non sarebbe “attuabile tramite S.C.I.A., ai sensi dell’art. 22 del D.P.R. 380/2001”.
I ricorrenti hanno impugnato il provvedimento per i seguenti motivi:
...
1. Il ricorso non è fondato.
...
1. Il secondo dei due rilievi ostativi all’efficacia della S.C.I.A. (la necessità di un permesso di costruire) è da ritenersi immune alle censure articolate da parte ricorrente.
Secondo il più recente indirizzo di questo TAR, la realizzazione di una piscina interrata integra intervento di nuova costruzione e necessita del previo rilascio del permesso di costruire (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 02.05.2023, n. 1486, TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 02.05.2022, n. 1471).
Infatti “La realizzazione della stessa non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, sez. II, 10/11/2020, n. 1631)” (TAR Napoli, sez. VI, 07/01/2022, n. 105; TAR Piemonte, sez. II, 02.08.2022, n. 703; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 03.06.2022, n. 1508).
Tanto basta a superare i rilievi formulati con il primo motivo, atteso che gli effetti connessi al decorso del termine di cui all’art. 19, comma 3, L. 241/1990 presuppongono che l’intervento edilizio sia assoggettato al regime della S.C.I.A., non potendo invece prodursi in presenza di interventi non sussumibili all’interno del suddetto paradigma legale.
Trattandosi di opera non assoggettabile al regime della S.C.I.A., non rileva indagare sulla tempestività del provvedimento inibitorio impugnato rispetto al termine di cui all’art. 19, comma 3, L. 241/1990, dovendo ad esso riconoscersi natura di atto dichiarativo dell’inefficacia della S.C.I.A. in quanto titolo non idoneo a legittimare l’opera.
2. L’insufficienza del titolo edilizio presentato dai ricorrenti basta a sostenere la legittimità del provvedimento, trattandosi di circostanza assorbente, rispetto alla quale neppure rileva la mancata comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto espressione di attività amministrativa interamente vincolata.
3. L’insussistenza dei vizi dedotti con la domanda di annullamento determina la necessaria reiezione della domanda risarcitoria, per l’assorbente ragione dell’inconfigurabilità, a fronte di un provvedimento esente dai vizi dedotti, del presupposto dell’”antigiuridicità” del danno lamentato.
4. In conclusione, il ricorso è infondato (TAR Sicilia-Palerrmo, Sez. III, sentenza 29.02.2024 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sulla decorrenza del termine per l’annullamento d’ufficio.
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Atto amministrativo – Autotutela – Annullamento d’ufficio – Termine a provvedere – Motivazione.
Ai sensi dell’art. 21-novies, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990, il differimento del termine iniziale per l’esercizio dell’autotutela deve essere determinato dall’impossibilità per la p.a., a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado (1).
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   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.02.2024 n. 1926 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. Il Comune di Aversa ha rilasciato alla signora Te.Go. il permesso di costruire n. 112 del 26.04.2012 per la realizzazione di un sottotetto in legno/ferro ventilato con copertura a falde e sovrastanti manto di tegole e pannelli fotovoltaici sul fabbricato in Aversa, alla Via ... n. 92.
Con il successivo provvedimento del 30.03.2018, la detta Amministrazione comunale ha disposto l’annullamento del permesso di costruire n. 112 del 2012.
Infine, il Comune di Aversa, con provvedimento del 27.12.2019, ha conseguentemente ordinato alla signora Go. di demolire a propria cura e spese le opere abusive originariamente assentite e, precisamente, il sottotetto con copertura a falde realizzato sul fabbricato in Aversa, alla Via ... n. 92, nonché di ripristinare lo stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica dell’ordinanza.
L’interessata ha impugnato dinanzi al Tar per la Campania, con il ricorso introduttivo del giudizio, l’annullamento del permesso di costruire del 30.03.2018 e, con motivi aggiunti, l’ordinanza di demolizione del 27.12.2019.
Il Tar per la Campania, Sezione Ottava, con la sentenza n. 6136 del 15.12.2020, ha respinto il ricorso proposto anche mediante motivi aggiunti.
Di talché, la signora Go. ha interposto il presente appello, articolando i motivi così sintetizzati:
   Error in judicando. Violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge n. 124 del 2015. Violazione e falsa applicazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere. Difetto di istruttoria. Carente ed erronea motivazione.
La disciplina introdotta con le modifiche apportate all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 dall’art. 6 della legge n. 124 del 2015, in ordine all’esercizio del potere di autotutela, ha completamente eliminato l’indeterminato ed elastico limite temporale del “termine ragionevole”, fissando un termine espresso e rigido, sicché l’annullamento d’ufficio dovrebbe sempre intervenire entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti”.
La norma di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 prevede che, al fine di procedere all’annullamento d’ufficio di un atto amministrativo, l’Amministrazione necessita di un triplice ordine di presupposti: che l’atto sia illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico che ne giustifichino l’annullamento; che il tutto avvenga nei termini di legge.
Non potrebbe in alcun modo condividersi la tesi esposta in sentenza, secondo cui vi sarebbe stata “una parziale se non erronea rappresentazione dei presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio”, circostanza che condurrebbe al superamento del limite temporale per l’esercizio dell’autotutela.
Oltre al mancato rispetto del limite temporale imposto dalla legge per l’esercizio dell’autotutela, in ogni caso il Comune non avrebbe posto in essere alcuna comparazione dell’interesse pubblico con quello del privato.
...
2. L’appello è fondato e va di conseguenza accolto.
3. Il Comune di Aversa, con il provvedimento del 30.03.2018, ha annullato il permesso di costruire n. 112 del 2012, rilasciato alla signora Te.Go., per i seguenti motivi:
   - con la realizzazione del sottotetto l’altezza complessiva del fabbricato supera il valore massimo di m. 13,50 assentibile fissato dalle Norme Tecniche di Attuazione del PRG per la zona B1 nella quale ricade lo stesso edificio;
   - l’altezza massima netta del sottotetto risulta di fatto superiore al valore di m 2,20 assentibile stabilito dall’art. 3 delle stesse Norme Tecniche di Attuazione del PRG e, precisamente, pari a m 2,98, comportando la realizzazione di un volume non consentito in zona B1 satura e rendendolo così, peraltro, abitabile;
   - la pendenza delle falde è inferiore al valore minimo del 15% prescritto per le coperture inclinate dal sopra indicato art. 3 delle Norme Tecniche di Attuazione, elemento anche questo che determina l’abitabilità del sottotetto.
L’Amministrazione ha evidenziato nel corpo motivazionale del provvedimento di autotutela che:
   - a seguito di una più attenta verifica degli atti, è stata riscontrata la circostanza che dai grafici allegati al permesso in oggetto l’altezza massima netta del sottotetto risulta di fatto superiore al citato valore di m 2,20 stabilito dalle NTA;
   - tale ultimo valore di m 2,20, infatti, risulta misurato non a partire dal piano di calpestio interno ma a partire da un livello indicato con tratteggio sopraelevato di m 0,18 rispetto allo stesso piano di calpestio. Peraltro, la stessa misura di m 2,20 è indicata rispetto all’intradosso della trave di colmo, che emerge dalla copertura per un’ulteriore altezza di m 0,60. Di fatto l’altezza complessiva risulta pari a m 2,98, comportando la realizzazione di un volume non consentito in zona B1 satura e rendendo così abitabile il sottotetto;
   - nei citati elaborati allegati al permesso di costruire è indicata la pendenza delle falde del 5% inferiore al valore minimo del 15% prescritto per la copertura inclinata dal sopra indicato art. 3 delle NTA, elemento anche questo che determina l’abitabilità del sottotetto;
   - negli stessi elaborati progettuali del permesso di costruire in oggetto non è riportata l’altezza dell’intero edificio, prima e dopo l’intervento, elemento indispensabile ai fini della verifica del non superamento dell’altezza massima di m 13,50 prescritta dal suddetto art. 38 delle richiamate NTA per la zona B1 nella quale ricade il fabbricato in argomento;
   - dall’elaborato tecnico non emerge l’altezza complessiva del fabbricato prima dell’intervento, che, se rappresentata, avrebbe consentito di verificare ed evidenziare l’impossibilità di superare l’altezza massima assentibile di m 13,50, contro i circa m 18,00 risultanti oggi.
4. L’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nel testo in vigore dal 28.08.2015 al 31.05.2021 e, quindi, ratione temporis vigente, ha previsto che:
   “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
   2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
   2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445
.”.
Di talché, i presupposti affinché possa disporsi l’annullamento d’ufficio di un provvedimento illegittimo sono i seguenti:
   a) sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
   b) termine non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dell’atto;
   c) bilanciamento con l’interesse dei destinatari e dei controinteressati.
5. Nella fattispecie in esame, fermo restando che l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera edilizia abusiva potrebbe ritenersi in re ipsa, l’esercizio del potere di autotutela si rivela illegittimo per la carenza dei presupposti sub b) e sub c).
5.1. L’atto, con cui il Comune di Aversa ha annullato il permesso di costruire rilasciato alla signora Te.Go. in data 26.04.2012, è stato adottato in data 30.03.2018 (nonostante nello stesso si dia atto che il 25.08.2015 il Settore comunale competente ha disposto la sospensione dei lavori), vale a dire in uno iato temporale estremamente ampio e, quindi, poco ragionevole e, comunque, ben oltre il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore, in data 28.08.2015, dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 come novellato dalla c.d. legge Madia (legge n. 124 del 2015).
Il regime temporale di diciotto mesi introdotto dalla legge n. 124 del 2015, così come non può decorrere dall’adozione dell’atto di prime cure, se antecedente al 28.08.2015, decorre senz’altro, per tali atti, dall’indicato giorno di entrata in vigore della novella legislativa; per cui, nella fattispecie, il provvedimento di ritiro è stato adottato oltre il termine perentorio di legge, essendo decorsi oltre trentuno mesi dal dies a quo.
Il termine di diciotto mesi, peraltro, può essere legittimamente superato nelle ipotesi di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies, vale a dire di provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato.
La giurisprudenza ha chiarito in proposito come non possa sostenersi che le “false attestazioni”, ai fini dell’operatività del comma 2-bis dell’art. 21-nonies e, quindi, per poter consentire di superare il termine dei 18 mesi nell’esercizio dell’autotutela, debbano essere state accertate con sentenza penale passata in giudicato.
A tali fini, infatti, è stata operata una netta distinzione tra le due ipotesi contemplate dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies, costituite, l’una, dalle "false rappresentazioni dei fatti", l’altra, dalle "dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci".
In particolare (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 18.03.2021 n. 2329), la giurisprudenza ha evidenziato che il superamento del rigido limite temporale di 18 mesi per l'esercizio del potere di autotutela di cui all'art. 21-nonies, legge n. 241/1990, deve ritenersi ammissibile, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte in cui il soggetto richiedente abbia rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, atteso che, in questi casi, viene in rilievo una fattispecie non corrispondente alla realtà.
Tale contrasto, tra la fattispecie rappresentata e quella reale, può essere determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all'uopo rese dichiarazioni sostitutive), dovrà scontare l'accertamento definitivo in sede penale, ovvero da una falsa rappresentazione dei fatti, che può essere rilevante al fine di superamento del termine di diciotto mesi anche in assenza di un accertamento giudiziario della falsità, purché questa sia accertata inequivocabilmente dall'Amministrazione con i propri mezzi.
L'articolo 21-nonies, in definitiva, contempla due categorie di provvedimenti -differenziabili in ragione dell'uso della disgiuntiva "o"- che consentono all'Amministrazione di esercitare il potere di annullamento d'ufficio oltre il termine di diciotto mesi dalla loro adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive false.
La ratio dell’illustrato comma 2-bis, infatti, risiede nell’esigenza che il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela debba essere individuato nel “momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro” (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 17.10.2017, riferita peraltro al concetto di termine “ragionevole”, in quanto involgente una fattispecie concreta venuta in essere prima della c.d. riforma Madia).
La “scoperta” sopravvenuta all’adozione del provvedimento di primo grado deve tradursi in una impossibilità di conoscere fatti e circostanze rilevanti imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo edilizio, non potendo la negligenza dell’Amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa, che potrebbe continuamente differire il termine di decorrenza dell’esercizio del potere.
In sostanza, il differimento del termine iniziale per l’esercizio dell’autotutela deve essere determinato dall’impossibilità per l’Amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado.
Nel caso di specie, l’Amministrazione comunale non solo non ha rappresentato l’esistenza di dichiarazioni false accertate con sentenza penale passata in giudicato, ma nemmeno ha dimostrato l’esistenza di una falsa rappresentazione dei fatti, tanto che le ragioni poste a base dell’annullamento sono state rilevate a seguito di una più attenta verifica degli atti, vale a dire che il Comune avrebbe potuto e dovuto accertare “lo stato progettuale non conforme allo strumento urbanistico”, per il quale il permesso di costruire non poteva essere attribuito, nel corso della fase istruttoria del procedimento avviato su istanza della parte in data 14.03.2012, senza dover attendere le segnalazioni da parte di cittadini per avviare le attività di verifica a considerevole distanza di tempo dal rilascio del permesso di costruire.
L’Amministrazione, cioè, aveva la possibilità di conoscere tutti i fatti e le circostanze necessarie all’assunzione di una corretta decisione sull’istanza di parte volta a conseguimento del titolo abilitativo edilizio.
La stessa considerazione che negli elaborati progettuali non era stata riportata l’altezza dell’intero edificio, prima e dopo l’intervento, non costituiva una preclusione alla doverosa attività istruttoria che l’Amministrazione avrebbe dovuto compiere per rilasciare o negare a suo tempo il permesso di costruire.
Diversamente, una volta rilasciato, sia pure illegittimamente, il permesso di costruire, il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ratione temporis vigente.
D’altra parte, i diversi presupposti in presenza dei quali possono essere esercitati il potere di negare il permesso di costruire (così come di ordinare la demolizione di un immobile abusivo), provvedimento di primo grado, ed il potere di annullamento d’ufficio di un permesso di costruire già rilasciato, provvedimento di secondo grado, sono diretta conseguenza della natura vincolata del primo potere e della natura discrezionale del secondo potere.
5.2 Il presupposto sub c) è parimenti carente, in quanto, ribadito che l’interesse pubblico alla rimozione di un’opera edilizia abusiva potrebbe ritenersi in re ipsa, il Comune non ha svolto alcuna considerazione in ordine al bilanciamento degli interessi del destinatario dell’atto, pur prevista dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ratione temporis vigente.
6. La fondatezza dei motivi dedotti circa l’illegittimità dell’atto di autotutela ed il conseguente annullamento dello stesso determinano il travolgimento dell’ordinanza di demolizione del 27.12.2019, che trova il suo unico presupposto nell’annullamento del permesso di costruire del 30.03.2018, tanto che il contenuto di quest’ultimo costituisce la sola motivazione dell’atto.
7. In definitiva, l’appello è fondato e va di conseguenza accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso di primo grado, con conseguente annullamento degli atti impugnati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.02.2024 n. 1926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla giurisdizione in caso di domanda di condanna della p.a. al consolidamento di un costone.
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Giustizia amministrativa – Giurisdizione - Azione di condanna ad un facere – Giurisdizione civile.
Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di condanna del comune al consolidamento di un costone, trattandosi di azione di condanna ad un facere specifico, pena la responsabilità della p.a. ai sensi art. 2043 c.c. (1).
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   (1) Conformi: Cass. civ., sez. un., 13.09.2017, n. 21192;
         Difformi: Trib. Vallo della Lucania, n. 29 del 2022
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.02.2024 n. 495 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con il ricorso in epigrafe i sig.ri Ca., in espressa applicazione dell’istituto della translatio iudicii, hanno riproposto ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a., il giudizio originariamente incardinato innanzi al Tribunale Ordinario di Vallo della Lucania, dichiaratosi carente di giurisdizione, con il quale gli stessi, lamentando di aver subìto l’occupazione sine titulo di un terreno agricolo di loro proprietà, sito nel Comune di Agropoli, appreso e utilizzato dalla Provincia di Salerno per la realizzazione dei lavori di ricostruzione parziale e consolidamento strutturale del Viadotto “Chiusa” sulla strada a scorrimento veloce “SP430 Variante alla SS 18” nel Comune di Agropoli, chiedevano al G.O. di dichiarare l’illegittimità del comportamento della Provincia per aver occupato la proprietà senza aver mai adottato nei loro confronti alcun provvedimento ablativo e conseguentemente di condannarla sia al risarcimento dei danni subìti per effetto della condotta illecita dell’Ente, sia all’esecuzione di opere di consolidamento del terreno dissestato a causa della realizzazione degli anzidetti lavori, ovvero, in subordine, al pagamento di una somma pari all’esecuzione delle anzidette opere.
Si è costituita la Provincia rappresentando in fatto che, durante i lavori eseguiti nel corso degli anni 2016 e 2017 per la ricostruzione parziale e il consolidamento strutturale del Viadotto “Chiusa”, a seguito di problemi legati a un movimento franoso in concausa con il decadimento dovuto all’usura e al cedimento del sostrato inferiore sul quale poggiavano i piloni anche per copiose infiltrazioni di acque nel sottosuolo, si riscontrava la necessità di una più estesa e corretta regimentazione idrica del versante collinare in frana a monte della SP 430, prevedendo la realizzazione di terrazzamenti e la canalizzazione delle acque superficiali.
Ha dedotto che sono stati pertanto eseguiti alcuni interventi sulle fasce di pertinenza stradale, senza occupazione di aree di proprietà privata e senza arrecare danno al bene immobile dei ricorrenti né danneggiare le colture, essendo l’area in questione incolta e occupata da sola vegetazione spontanea sin dal 2006.
Ha eccepito inoltre la genericità e indeterminatezza delle avverse domande e rappresentato la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di ANAS, che è subentrata nella proprietà e gestione, anche amministrativa, dell’arteria.
Nel merito, ha contestato espressamente la sussistenza dei danni al fondo lamentati dai ricorrenti, ritenendo anzi, anche quale compensatio lucri cum damno, che gli interventi eseguiti abbiano migliorato l’effettiva fruibilità del fondo.
Ha assunto, infine, che i ricorrenti erano in realtà obbligati alla realizzazione delle opere di convogliamento delle acque e di consolidamento delle ripe, che la Provincia di Salerno ha realizzato a proprie spese.
Pur ritualmente intimata, non si è invece costituita in giudizio la controinteressata.
I ricorrenti hanno depositato una memoria in cui contestano l’addebitata responsabilità omissiva in ordine alla manutenzione del fondo affermando, al contrario, che il fenomeno di dissesto del viadotto ha trovato origine in errori progettuali e/o esecutivi e richiamando la relazione del Dirigente del Settore Viabilità e Trasporti della Provincia dimessa in atti, in cui si dà atto dell’avvenuta occupazione dell’area di loro proprietà.
Hanno chiesto il riconoscimento anche dell’ulteriore indennità di servitù prevista e disciplinata dall’art. 44 D.P.R. n. 327/2001 e richiamato la relazione tecnica depositata, la quale dimostrerebbe che il fondo è stato spianato e occupato da alcune file di canalette metalliche longitudinali, e non invece terrazzato.
Hanno contestato il richiamo alla compensatio lucri cum damno e all’art. 31 D.Lgs. n. 285/1992, deducendo che non vi è alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’ANAS s.p.a., la quale è subentrata nella proprietà e nella gestione della strada solo nel 2018, in epoca successiva alla realizzazione dei lavori per cui è causa, che rappresentano il fatto causativo del danno dedotto nel presente giudizio.
Con memoria di replica la Provincia ha evidenziato che l’avversa domanda è qualificata espressamente come richiesta ex art. 2043 di condanna dell’ente locale al risarcimento dei danni conseguenti ad un’occupazione protrattasi per il periodo dei lavori (quindi definita nello spazio temporale dei lavori e non perdurante all’attualità) e al pagamento della somma necessaria per il consolidamento del terreno dissestato.
Ha affermato che l’intervento di sistemazione e rimodellazione del versante in frana è stato solamente ampliato, senza differire in alcun modo dalla tipologia di opere previste nel progetto definitivo, e che non è stata da controparte offerta adeguata prova: dell’estensione dell’occupazione (essendoci un generico riferimento a una particella catastale); dell’effettiva presenza di alberi e colture in sito; dell’effettivo spazio temporale della lamentata occupazione; della necessità di opere di sistemazione del terreno dissestato a seguito degli interventi eseguiti dalla Provincia e del dissesto del terreno conseguente ai lavori pubblici eseguiti; dell’imposizione di una servitù sul fondo.
...
Il ricorso è parzialmente fondato.
Preliminarmente, va disattesa la domanda di integrazione del contraddittorio nei confronti di ANAS s.p.a., attuale proprietaria della strada confinante, posto che la questione controversa attiene all’occupazione sine titulo del fondo da parte della Provincia e ai relativi danni alla proprietà, asseritamente realizzati dalla Provincia medesima nel corso della realizzazione dei lavori descritti in fatto.
Ciò posto, la domanda di accertamento dell’occupazione abusiva del fondo e di condanna al risarcimento dei relativi danni è fondata, nei termini che seguono.
L’avvenuta apprensione dell’area con conseguente spossessamento dei proprietari ai fini dello svolgimento dei lavori di consolidamento risulta provata alla luce dei documenti dimessi in atti.
In particolare, nella Relazione Settore Viabilità (all. 9 del fascicolo di parte resistente) si legge testualmente che: “Durante il corso dei lavori, sia la Direzione dei Lavori che l’impresa esecutrice hanno più volte, senza esito, cercato di contattare i legittimi proprietari del versante in frana, al fine di pervenire ad un accordo bonario per l’occupazione temporanea dei terreni, necessaria per consentire le lavorazioni di messa in sicurezza dei terreni in frana gravanti sulle strutture del Viadotto “Chiusa”, mediante la realizzazione di terrazzamenti e la regimentazione idrica delle acque superficiali ruscellamento”.
Risulta pertanto confermata la circostanza dell’avvenuta occupazione ai fini della realizzazione dei lavori in questione, mentre non risulta adottato alcun provvedimento ablativo legittimo, non essendo stato ancora emanato un provvedimento formale di definizione della procedura espropriativa, né formalizzata una transazione traslativa della proprietà.
In tale evenienza, secondo la giurisprudenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato: “in linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c., con decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene. Tale illecito viene a cessare solo in conseguenza:
   a) della restituzione del fondo;
   b) di un accordo transattivo;
   c) della rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo;
   d) di una compiuta usucapione, ma solo a condizione che:
         - sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;
         - si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;
         - si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001 (30.06.2003), per evitare che sotto mentite spoglie (alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
   e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001
” (Cons. Stato, Ad. plen., 09.02.2016, n. 2).
Applicando i principi sopra riportati al caso in esame, deve dichiararsi l’obbligo della Provincia di Salerno di procedere, entro novanta giorni dalla comunicazione in via amministrativa e/o dalla notificazione della presente sentenza, a cura di parte ricorrente, alla valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione dei beni occupati ai sensi dell’art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001 e non coperti da precedenti atti espropriativi, nonché di adottare, all’esito di essa, un provvedimento con il quale i beni stessi, in tutto o in parte, siano alternativamente:
   a) acquisiti non retroattivamente al patrimonio indisponibile della Provincia (fatta salva, come detto, la ulteriore possibilità di acquisto iure privatorum);
   b) restituiti entro novanta giorni ai legittimi proprietari, previa riduzione nello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
   - dovrà specificare se ad interessare è l’intero terreno o parte di esso, disponendo la restituzione della restante porzione entro novanta giorni, previo ripristino dello status quo ante;
   - dovrà prevedere che, entro trenta giorni, sia corrisposto ai proprietari il valore venale del bene, nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale, forfettariamente liquidato in misura pari al dieci per cento del medesimo valore venale del bene;
   - dovrà recare le indicazioni delle circostanze eccezionali che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà motivare in modo specifico sulle attuali ed eccezionali ragioni di pubblico interesse che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
   - dovrà essere notificato ai proprietari e comporterà il passaggio del diritto di proprietà, sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. n. 327 del 2001;
   - sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2, D.P.R. n. 327 del 2001, nonché comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei Conti, mediante trasmissione di copia integrale (art. 42-bis, comma 7).
Per le ragioni sopra evidenziate, il ricorso, in parte qua, merita accoglimento, ai sensi, nei limiti e per gli effetti indicati in motivazione.
Quanto invece alla domanda di condanna al consolidamento del costone, il Collegio ritiene che la fattispecie non rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, ma in quella del giudice ordinario e solleva pertanto d’ufficio un conflitto negativo di giurisdizione con rinvio della questione alle Sezioni Unite della Cassazione ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a.
Come chiarito dalla giurisprudenza tale norma (secondo cui “quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice amministrativo, quest’ultimo, alla prima udienza, può sollevare anche d’ufficio il conflitto di giurisdizione”) subordina la possibilità di sollevare il conflitto negativo a tre presupposti:
   a) che un primo giudice declini la giurisdizione e indichi un secondo giudice che ritiene fornito di giurisdizione;
   b) che tale giudizio venga tempestivamente riassunto dinnanzi a questo secondo giudice;
   c) che il secondo giudice, non condividendo l’indicazione data dal primo, sollevi conflitto alla prima udienza (cfr. Cassazione civile, Sez. Un., 11.04.2018, n. 8981).
Tali presupposti ricorrono nel caso in esame perché:
   a) con la sentenza n. 29 del 13.01.2022 il Tribunale ordinario di Vallo della Lucania ha declinato la propria giurisdizione;
   b) il giudizio è stato tempestivamente riproposto avanti a questo Tribunale con atto notificato il 16.03.2022 (la giurisprudenza ha chiarito che, per la disciplina di cui all’art. 11 c.p.a., la riassunzione può avvenire sia prima sia dopo il passaggio in giudicato della sentenza che declina la giurisdizione, purché non oltre tre mesi dal passaggio in giudicato della stessa: cfr. Consiglio di Stato, v. Adunanza Plenaria, 16.12.2011, n. 24);
   c) il conflitto viene sollevato alla prima udienza fissata alla data del 14.02.2024.
Ebbene, la presente controversia esula, in parte qua, dalla giurisdizione del giudice amministrativo, in virtù di quanto affermato da Cass. civ., Sez. Unite, Sent., 13.09.2017, n. 21192, secondo la quale: “Sussiste la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria relativamente alla domanda rivolta dal privato contro un Comune per conseguirne la condanna ad un facere specifico, consistente nella realizzazione delle opere necessarie ad adeguare l’impianto fognario e di smaltimento delle acque meteoriche al fine di scongiurare allagamenti ed infiltrazioni idriche nella proprietà privata, e la condanna al risarcimento dei danni prodotti a questa proprietà a causa della pregressa cattiva manutenzione o gestione degli impianti comunali, prospettandosi la responsabilità aquiliana della Pubblica Amministrazione ai sensi dell’art. 2043 c.c.”.
Pertanto, sulla scorta dei richiamati principi giurisprudenziali e ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a, deve disporsi la trasmissione degli atti alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione affinché si pronuncino sul conflitto negativo di giurisdizione sollevato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.02.2024 n. 495 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Sulla natura intellettuale di un servizio.
La natura intellettuale o meno del servizio dipende dalle sue (oggettive) caratteristiche intrinseche, di talché “Per servizi di natura intellettuale si devono intendere quelli che richiedono lo svolgimento di prestazioni professionali, svolte in via eminentemente personale, costituenti ideazione di soluzioni o elaborazione di pareri, prevalenti nel contesto della prestazione erogata rispetto alle attività materiali e all’organizzazione di mezzi e risorse.
Al contrario va esclusa la natura intellettuale del servizio avente ad oggetto l’esecuzione di attività ripetitive che non richiedono l’elaborazione di soluzioni personalizzate, diverse, caso per caso, per ciascun utente del servizio, ma l’esecuzione di meri compiti standardizzati”.
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4. Col terzo motivo di gravame l’appellante si duole dell’erroneo rigetto del corrispondente motivo di ricorso in primo grado, col quale aveva posto in dubbio che la direzione lavori potesse rientrare fra i servizi intellettuali, e -per quanto qui di rilievo- aveva dedotto che, comunque, la necessità o meno di indicare i costi della manodopera doveva essere verificata in concreto, in ragione cioè delle modalità di (prevista) erogazione del servizio, profilo questo che il Tar avrebbe nella specie trascurato.
Segnatamente, avendo la controinteressata SDE previsto l’impiego di due dipendenti per lo svolgimento dell’attività, la stessa non poteva non indicare i relativi costi della manodopera, al fine di consentire anche la verifica del rispetto dei minimi salariali ex art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016.
Su tale profilo il Tar avrebbe omesso di pronunciarsi, essendosi concentrato sulla sola natura del servizio di direzione lavori, e non anche sulle relative concrete modalità di espletamento fatte valere dalla ricorrente.
4.1. Il motivo non è condivisibile.
4.1.1. Come emerge dalla narrativa, la censura alla sentenza si appunta nella specie sull’omessa considerazione delle concrete modalità di espletamento del servizio, col coinvolgimento cioè di alcuni dipendenti di SDE.
Il che non è tuttavia conducente, e non consente di pervenire alle conclusioni invocate dall’appellante.
La natura intellettuale o meno del servizio dipende infatti dalle sue (oggettive) caratteristiche intrinseche, di talché “Per servizi di natura intellettuale si devono intendere quelli che richiedono lo svolgimento di prestazioni professionali, svolte in via eminentemente personale, costituenti ideazione di soluzioni o elaborazione di pareri, prevalenti nel contesto della prestazione erogata rispetto alle attività materiali e all’organizzazione di mezzi e risorse; al contrario va esclusa la natura intellettuale del servizio avente ad oggetto l’esecuzione di attività ripetitive che non richiedono l’elaborazione di soluzioni personalizzate, diverse, caso per caso, per ciascun utente del servizio, ma l’esecuzione di meri compiti standardizzati” (Cons. Stato, III, 28.10.2022, n. 9312; IV, 22.10.2021, n. 7094).
In tale contesto, il fatto che servizi di siffatta natura siano prestati avvalendosi (nella erogazione d’un servizio di natura pur sempre intellettuale) della collaborazione di alcuni addetti non vale sic et simpliciter ad escluderne la natura intellettuale e dunque a rendere necessaria la indicazione di costi di manodopera (esclusa, appunto, per i servizi intellettuali) ex art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016.
Il tutto in un contesto in cui peraltro neppure la lex specialis indicava nella specie il costo della manodopera, e d’altra parte la controinteressata aveva indicava un costo, seppur in misura pari a 0 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.02.2024 n. 1745 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimo il regolamento edilizio del Comune anteriore al 1967. Il Consiglio di Stato ha escluso violazioni al principio di uguaglianza per l’ente locale che discrezionalmente abbia regolato lo «jus aedificandi» prima della legge nazionale.
«L’obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 è da considerare legittimo, valido e cogente».
Lo afferma il Consiglio di Stato pronunciandosi sul caso di un residente in un comune lombardo che aveva impugnato l'ordinanza di demolizione per un manufatto realizzato fuori dal centro abitato e risultato difforme dalla licenza edilizia rilasciata nel 1965, in conformità a un regolamento edilizio adottato dal comune, il quale aveva deciso di anticipare la legge nazionale del 1967. Legge che, estendendo l'obbligo di ottenere una licenza edilizia all'intero territorio nazionale, ha incluso anche gli ambiti extraurbani, fino a qual momento esclusi dalla legge urbanistica del 1942.
Il Tar Lombardia ha respinto il ricorso dell'interessato; e ora, anche il Consiglio di Stato, con la
sentenza 08.02.2024 n. 1297, ha respinto l'appello.
Il principale motivo del ricorso consiste nella presunta illegittimità di una decisione del comune «che avrebbe prodotto una disparità di trattamento violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale, che si manifesterebbe nella diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all'esercizio del jus aedificandi i cittadini del Comune di Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia anche per attività edificatoria da realizzarsi fuori del centro abitato, rispetto ai quelli residenti in altri comuni che non avevano adottato un regolamento edilizio recante un simile obbligo».
I giudici della II Sezione di Palazzo Spada, replicano che «secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale l'obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli appellanti».
D'altra parte, accogliendo la tesi del ricorrente si arriverebbe alla «irragionevole e illogica rimozione di una legittima attribuzione municipale, quale è proprio quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti quei comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per tutelare adeguatamente il particolare pregio dei propri territori, avessero avvertito l'esigenza di subordinare il legittimo esercizio del diritto di edificazione al rilascio della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la imponesse in via generalizzata».
Non si realizza alcuna violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale, neanche «nella diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all'esercizio del jus aedificandi i cittadini del Comune di Merate rispetto ai quelli residenti in altri comuni che non avevano adottato un regolamento edilizio recante un simile obbligo, giacché intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa ingiustificata diversità di trattamento» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Sul potere regolatorio in tema di jus aedificandi.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Abusi commessi ante 1967 in comune dotato di regolamento edilizio anche per costruzione in aree fuori del centro abitato – Violazione del principio di uguaglianza – Non sussiste.
Il regolamento edilizio discrezionalmente adottato da un ente locale che prima del 1967 abbia subordinato l’esercizio del jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato non integra la violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale sotto il profilo anche della diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi, a seconda che l’edificazione fosse o meno avvenuta in un comune che aveva adottato quel regolamento, intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, con la conseguenza che neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa diversità di trattamento (1).
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Rilascio del certificato di abitabilità – Efficacia sanante - Esclusione.
Il rilascio del certificato di abitabilità non ha alcun effetto sanante rispetto alle opere abusive in quanto la illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio:
   - il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa
   - il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata (2).

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   (1) Precedenti conformi: non si segnalano precedenti negli esatti termini.
         Precedenti difformi: non si segnalano precedenti difformi.
   (2) Precedenti conformi: ex multis, Cons. Stato, sez. VII, 08.09.2023, n. 8239; Cons. Stato, sez. II, n. 17.05.2021, n. 3836.
         Precedenti difformi: non si segnalano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. L’appello è infondato.
7.1. Giova ricordare in punto di fatto che nella specie le difformità che interessano la proprietà degli appellanti riguardano alcune modifiche alle aperture e la realizzazione della soletta di copertura a quote sensibilmente superiori rispetto alla licenza edilizia (in particolare: - gronda autorizzata a 1,05 mt, ma realizzata 1,75 mt; - gronda autorizzata a 0,45 mt, ma realizzata 1,24 mt; - colmo autorizzato a 2,40 mt, ma realizzato a 3,27 mt); al proposito eloquenti e incontestate sono le risultanze del verbale di sopralluogo dell’Ufficio tecnico comunale (in atti), nonché le indicazioni contenute nel provvedimento impugnato con il quale è stata ordinata “la demolizione della porzione residenziale e opere abusive sopra descritte ed il ripristino della situazione autorizzata con Licenza Edilizia n. 1228 del 18.02.1965 …”, trattandosi di interventi realizzati in parziale difformità rispetto al titolo abilitativo (art. 34, comma 1, del DPR 380/2001).
8. Ciò posto, passando alla disamina del primo motivo di appello, occorre in principalità considerare che:
   - l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale;
   - per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati;
   - è pacifico in causa che, all’epoca in cui erano stati realizzati gli abusi de qua (1965), il Comune di Merate era dotato di un Regolamento Edilizio e di Programma di Fabbricazione (approvato con Decreto Interministeriale del 18.07.1956 n. 1108), il quale inseriva l'area di specie in zona semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di immobili nel territorio comunale;
   - l’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza edilizia (Prat. n. 1228) rilasciata in data 18 febbraio 1965 e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto, previo sopralluogo, in data 01.09.1965, il permesso di abitabilità.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli appellanti.
Del resto l’accoglimento di una siffatta prospettazione condurrebbe ad una irragionevole ed illogica rimozione di una legittima attribuzione municipale, qual’e è proprio quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti quei comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per tutelare adeguatamente il particolare pregio dei propri territori, avessero avvertito l’esigenza di subordinare il legittimo esercizio del diritto di edificazione al rilascio della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la imponesse in via generalizzata; né può ragionevolmente invocarsi una pretesa violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale, che si manifesterebbe -secondo la prospettazione degli appellanti- nella diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi i cittadini del Comune di Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia anche per attività edificatoria da realizzarsi fuori del centro abitato, rispetto ai quelli residenti in altri comuni che non avevano adottato un regolamento edilizio recante un simile obbligo, giacché intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa ingiustificata diversità di trattamento.
In definitiva, non può ragionevolmente dubitarsi del fatto che, in presenza di opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia del 18.02.1965, le stesse debbono qualificarsi come abusive.
8.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di gravame.
Invero, a fronte di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale l’ente locale non è titolare di alcun margine di discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che la repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente costituita dalla descrizione delle opere abusive e della loro contrarietà al titolo, come è nella specie
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo affidamento in capo ai proprietari (cfr., sul punto, sentenza n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato).
8.3. Non merita favorevole apprezzamento neppure il terzo motivo di gravame, in quanto, come ribadito più volte dalla giurisprudenza, il rilascio del certificato di abitabilità non può avere efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti (ex multis Consiglio di Stato sez. VII, n. 8239/2023; Consiglio di Stato sez. II, n. 3836/2021) la illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere un’interferenza reciproca, come sostenuto dal motivo in esame.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio.
9. In definitiva l’appello deve essere rigettato (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto di accesso dei sindacati anche non rappresentativi.
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Atto amministrativo - Accesso ai documenti – Diritto – Sindacato non rappresentativo – Sussiste - Limiti – Richiesta generalizzata ed esplorativa – Inammissibile.
Sussiste il diritto dell’organizzazione sindacale anche non rappresentativa ad esercitare il diritto di accesso per la cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera, purché l’accesso non configuri una forma di preventivo e generalizzato controllo dell’intera attività dell’amministrazione datrice di lavoro (1).
Secondo il Consiglio di Stato, la circostanza che il sindacato richiedente l’accesso non sia rappresentativo non incide affatto sulla sua legittimazione (nonché sulla sua astratta titolarità dell’interesse) ad agire, giacché proprio attraverso l’esercizio del diritto di accesso può acquisire quegli atti e documenti che gli sarebbe precluso conoscere –anche per intero– per effetto dei diritti di informazione derivanti dagli accordi sindacali in materia; infatti, la richiesta di accesso ha carattere accessorio e complementare rispetto ai diritti di informazione, differenziandosene solo per il contenuto (e la forma). Inoltre, la distinzione tra sindacati rappresentativi e non rappresentativi è rilevante ai fini della partecipazione alle trattative e alla conclusione degli accordi sindacali, ma non può incidere sulla diversa e autonoma disciplina del diritto di accesso di cui alla l. n. 241 del 1990.

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   (1) Precedenti conformi: sulla legittimazione ad agire dei sindacati, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 23.02.2012, n. 1034. Sul diritto di accesso dei sindacati, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 20.11.2013, n. 5511. Sull’inammissibilità di richieste di accesso del sindacato generalizzate ed esplorative, ex multis, Cons. Stato, sez. III, 04.05.2012, n. 2559.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1295 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
8. L’appello è fondato nei sensi appresso indicati.
8.1. Il primo motivo di gravame, che concerne la legittimazione ad agire del sindacato SNAP, sostanzialmente negata dall’amministrazione appellante, è infondato.
8.1.1. L’amministrazione ha sottolineato in particolare la differenza dei diritti di informazione che sussiste tra i sindacati c.d. rappresentativi e quelli che tali non sono, come quello ricorrente in primo grado, e a tal fine ha evidenziato che detta differenza è contenuta nell’accordo quadro del 2009 che, mentre riconosce ai primi un’informazione molto estesa ad una serie di provvedimenti che riguardano la gestione del personale e l’attuazione dei contratti collettivi, riserva ai secondi solamente un’informazione sulle circolari e altri atti normativi: di qui –a suo avviso– la carenza di legittimazione del sindacato ricorrente, non essendo neppure chiaro se il sindacato aveva agito a tutela delle proprie prerogative ovvero a tutela dei diritti dei singoli lavoratori (tanto più che nel caso di specie il sindacato era costituito da un solo iscritto).
La tesi è tutt’altro che convincente.
8.1.2. Infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione di discostarsi, sussiste il diritto dell’organizzazione sindacale ad esercitare il diritto di accesso per la cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera l’associazione (Cons. Stato sez. VI, 23.01.2012, n. 1034; 20.11.2013, n. 5511), purché l’accesso non configuri una forma di preventivo e generalizzato controllo dell’intera attività dell’amministrazione datrice di lavoro (Cons. Stato, sez. III, 04.05.2012, n. 2559).
E’ stato anche evidenziato che “l’esercizio del diritto di accesso costituisce, rispetto ai diritti di informazione riconosciuti per legge al sindacato, uno strumento del tutto autonomo, ma è per converso legittimato dallo stesso tipo di interesse e dalla stessa ratio che sostiene le norme del diritto di informazione. L’esistenza di queste dimostra in modo tangibile che i dati in materia non corrispondono ad interessi di singoli, ma ad un interesse tipicamente collettivo, in quanto riguardano la verifica della osservanza di criteri oggettivi attraverso il confronto di una pluralità di casi e l’esame di singole situazioni anomale alle luce dei criteri fissati. Si tratta quindi di un interesse specifico e proprio del sindacato, del tutto distinto da quello che i singoli associati potrebbero far valere. Non solo, ma questo interesse va oltre quello dei propri associati: un sindacato non solo tutela i propri iscritti, ma anche quelli dei non iscritti e tende ad accrescere la sua forza agendo per acquisire nuovi iscritti e maggiore rappresentatività” (Cons. Stato, sez. III, 2559/2012, cit.).
8.1.3. Ciò posto la circostanza che nel caso di specie il sindacato richiedente l’accesso non sia rappresentativo non incide affatto sulla sua legittimazione (nonché sulla sua astratta titolarità dell’interesse) ad agire, giacché proprio attraverso l’esercizio del diritto di accesso può acquisire quegli atti e documenti che gli sarebbe precluso conoscere –anche per intero– per effetto dei diritti di informazione derivanti dagli accordi sindacali in materia; infatti la richiesta di accesso ha carattere accessorio e complementare rispetto ai diritti di informazione, differenziandosene solo per il contenuto (e la forma).
Inoltre la distinzione tra sindacati rappresentativi e non rappresentativi è rilevante ai fini della partecipazione alle trattative e alla conclusione degli accordi sindacali, ma non può incidere sulla diversa e autonoma disciplina del diritto di accesso di cui alla legge n. 241 del 1990.
8.1.4. In definitiva non vi è ragione di dubitare sulla legittimazione ad agire del sindacato ricorrente in primo e sulla esistenza in capo ad esso della astratta titolarità di un interesse ad agire.
8.2. Sono invece fondati il secondo ed il terzo motivo di gravame, che per la loro intima connessione possono essere esaminati congiuntamente, con cui l’amministrazione appellante ha sostenuto che nel caso di specie la richiesta di accesso sarebbe massiva ed esplorativa, finalizzata ad un inammissibile controllo generalizzato sulla propria attività istituzionale.
8.2.1. Secondo la giurisprudenza richiamata in precedenza il carattere propriamente collettivo e sindacale della richiesta di accesso non è sufficiente da solo a radicare un interesse valido e giuridicamente rilevante in capo al sindacato richiedente se la richiesta configura una forma di controllo generalizzato sulla pubblica amministrazione, quest’ultima costituendo un limite all’accesso espressamente stabilito dall’art. 24 della legge n. 241 del 1990; l’accesso a determinati documenti richiede infatti che sussista un interesse diretto a tutelare specifici interessi che debbono essere indicati preventivamente secondo quanto richiesto dall’art. 22 l. 241/1990.
Se è vero che la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel relativo giudizio di accesso non possono svolgere ex ante alcuna valutazione sull'ammissibilità, sull'influenza o sulla decisività dei documenti richiesto su un eventuale giudizio instaurato o instaurando, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all'autorità giudiziaria investita della questione, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive (Cons. Stato, sez. V, 29.09.2023, n. 8589; 17.07.2023, n. 6978), è altrettanto vero che le finalità dell'accesso devono essere dedotte e rappresentate dalla parte istante in modo puntuale e specifico nell'istanza di ostensione e suffragate con idonea documentazione e ciò anche allo scopo di consentire all'Amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta di astratta pertinenza con la situazione finale controversa, dovendosi escludersi la sufficienza di un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente o ancora instaurando poiché l'ostensione del documento passa attraverso uno scrupoloso vaglio circa il nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa (Cons. Stato, sez. VI, 19.05.2023, n. 5015).
Inoltre è stato affermato che ai fini dell'accesso agli atti difensivo è necessario che sussista una strumentalità fra accessibilità dei documenti amministrativi ed esigenze di tutela, che si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, in quanto spetta alla parte interessata l'onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario per la cura o la difesa dei propri interessi (Cons. Stato, sez. II, 28.03.2023, n. 3160).
8.2.2. Nel caso di specie la richiesta di accesso avanzata dal sindacato non solo ha riguardato un’ampia documentazione (relativa all’espletamento di tutti i servizi del Commissariato di Ostuni), riferita peraltro ad un lungo arco temporale (cinque mesi), per quanto non è stato fornito e indicato alcuna idonea giustificazione in ordine alla necessità di acquisire tali elementi e cioè quale fosse lo specifico interesse da tutelare; tanto meno sono stati evidenziati o indicati elementi fattuali (anche solo indiziari) che potessero giustificare quell’accesso: e ciò malgrado l’Amministrazione avesse espressamente invitato in tal senso il sindacato richiedente non solo a precisare i documenti cui accedere, ma anche a indicare l’interesse specifico a quell’accesso.
E’ da ritenere pertanto che quella richiesta, massiva e generale, avesse uno scopo meramente esplorativo, volta cioè non già ad ottenere documenti a mezzo dei quali verificare la correttezza o meno di una situazione di fatto già conosciuta o denunciata al sindacato (per esempio con un esposto o una lamentela), situazione ritenuta dal sindacato in astratto di dubbia correttezza, quanto piuttosto a verificare proprio attraverso l’esame di quegli atti se vi fossero stati da parte dell’amministrazione di comportamenti o fossero stati adottati atti eventualmente lesivi.
Si è pertanto in presenza di una modalità di esercizio del diritto di accesso che ne travisa il senso e la ratio, integrando pertanto gli estremi dell’inammissibile controllo generalizzato sull’attività dell’amministrazione, vietato dalla legge.
8.2.3. Non possono essere condivise le conclusioni cui è pervenuto il Tar circa una sorta di diritto generalizzato da parte del sindacato a conoscere ogni documento relativo alla gestione del personale quale strumento di difesa dei diritti dei propri assistiti; la richiesta di accesso deve essere infatti connessa con un interesse specifico, la cui tutela richiede la conoscenza di determinati documenti, mentre non è ammesso utilizzare il diritto di acceso per compiere una verifica e indiscriminata degli atti di gestione del personale relativamente ad un determinato periodo in mancanza di un qualsivoglia elemento fattuale e concreto, anche solo indiziario, che possa far supporre l’esistenza di irregolarità dell’Amministrazione nella gestione del personale.
8.4. La fondatezza degli esaminati motivi di gravame determina l’assorbimento del quarto motivo di gravame.
9. In conclusione l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1295 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità della Pa, niente risarcimento se c’è caos normativo. Nel caso esaminato non prospettabile l’elemento della colpevolezza in capo al Comune.
Non è dovuto il risarcimento del danno qualora l’amministrazione incorra in un errore scusabile per l’esistenza di contrasti giudiziari, incertezza del quadro normativo di riferimento o complessità della situazione fattuale.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 02.02.2024 n. 1087.
Il fatto
È stata appellata la sentenza con cui il Tar ha respinto il ricorso proposto da una società per la condanna del Comune al risarcimento dei danni derivanti dai provvedimenti di diniego della Scia presentata per l'avvio di una attività, che avrebbe comportato una gravissima perdita economica.
Si lamentava in particolare che la posizione assunta si porrebbe in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza secondo cui il privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo può limitarsi a invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell'amministrazione provare la propria incolpevolezza.
Le coordinate
Nel giudicare infondato l'appello, la V sezione ripercorre le «pacifiche coordinate ermeneutiche» tracciate dalla giurisprudenza in materia di responsabilità della Pa per i danni da provvedimento illegittimo: la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria, occorrendo anche verificare che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima e colpevole, l'interesse materiale al quale il soggetto aspira; la valutazione non può avvenire sulla base del mero dato dell'illegittimità dell'azione amministrativa, dovendo il giudice svolgere una più penetrante indagine, estesa anche alla valutazione dell'elemento soggettivo; deve essere fornita la dimostrazione che la Pa abbia agito quanto meno con colpa, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa.
E in particolare, perché si configuri la colpa dell'amministrazione occorre avere riguardo al carattere e al contenuto della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico; se il canone della condotta amministrativa è ambiguo, equivoco o costruito in modo tale da affidare all'autorità pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà sussistere solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, proporzionalità e ragionevolezza, con la conseguenza che ogni altra violazione del diritto oggettivo resta assorbita nel perimetro dell'errore scusabile.
La colpevolezza
È il caso della sentenza impugnata, che secondo i giudici di Palazzo Spada ha giustamente ritenuto non prospettabile l'elemento della colpevolezza in capo al Comune in ragione del complicato e non lineare contesto nel quale si era inserita la Scia presentata dall'appellante.
E ancora, non è stato dimostrato che, in mancanza dell'illegittimo provvedimento di diniego, l'appellante avrebbe avuto titolo ad avviare l'attività produttiva, per cui non è stata provata l'esistenza del nesso di causalità tra il provvedimento di diniego e i danni di cui si domanda il ristoro in assenza di un'adeguata dimostrazione del possesso effettivo di tutti i requisiti per avviare l'attività produttiva (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.02.2024).
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SENTENZA
8. Le statuizioni della sentenza di prime cure sono corrette e meritano conferma.
8.1. Giova richiamare le pacifiche coordinate ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni da provvedimento illegittimo alla luce delle quali va riguardata la presente fattispecie.
8.2. Com’è noto, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria -anche se non sufficiente- per accedere alla tutela risarcitoria, occorrendo anche verificare che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima e colpevole dell’amministrazione, l'interesse materiale al quale il soggetto aspira: il risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest'ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 21.04.2023 n. 4050).
Ne consegue che ai fini della sussistenza di una responsabilità dell’amministrazione per danni da provvedimento illegittimo, la valutazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, dovendo, al contrario, il giudice svolgere una più penetrante indagine, estesa anche alla valutazione dell'elemento soggettivo (non del funzionario agente ma) dell'amministrazione intesa come apparato. In particolare, deve essere fornita la dimostrazione che la pubblica amministrazione abbia agito quanto meno con colpa, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, di cui all'art. 97 Cost..
La responsabilità della pubblica amministrazione può, dunque, ritenersi accertata quando, tenuto conto del comportamento complessivo degli organi intervenuti nel procedimento (Consiglio di Stato, sez. III, 14.05.2015, n. 2464), la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tale da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato (Consiglio di Stato, sez. III, 11.03.2015 n. 1272).
In definitiva, come, anche di recente, statuito dalla giurisprudenza, “ai fini dell’accertamento della responsabilità, perché si configuri la colpa dell’amministrazione, occorre avere riguardo al carattere ed al contenuto della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, in caso di sua violazione, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico. Al contrario, se il canone della condotta amministrativa è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'autorità pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà sussistere solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle menzionate regole di imparzialità, correttezza e buona fede, proporzionalità e ragionevolezza, con la conseguenza che ogni altra violazione del diritto oggettivo resta assorbita nel perimetro dell'errore scusabile, ai sensi dell'art. 5 c.p.” (cfr. Consiglio di Stato, n. 4050/2023 già citata e giurisprudenza ivi richiamata).
8.3. Di tali principi ha fatto corretta applicazione la sentenza impugnata.
Infatti, se è vero che, come rammenta l’appellante, sulla base dell’orientamento prevalente, in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 19.03.2019 n. 1815), è pure vero che la presunzione di colpa dell'amministrazione può essere riconosciuta solo nelle ipotesi di violazioni commesse in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento, giuridico e fattuale, tale da palesarne la negligenza e l'imperizia, cioè l'aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di correttezza, imparzialità e buona fede nell'assunzione del provvedimento viziato.
Pertanto la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la complessità della situazione di fatto.
8.4. Tale è il caso oggetto del presente giudizio.
8.5. Correttamente il giudice di prime cure ha infatti ritenuto non prospettabile l’elemento della colpevolezza in capo al Comune di Arzano in ragione della complessità della sottesa situazione fattuale, sulla base dei seguenti elementi:
   a) da un lato, il precedente intricato contenzioso, relativo all’attività di parcheggio, definito con la menzionata sentenza del Tar Campania Napoli n. 2641/2011;
   b) dall’altro, l’intensa attività edilizia posta in essere sull’area interessata dalla ricorrente nel corso del 2013, non sempre ritenuta conforme ai corrispondenti titoli edilizi dall’autorità comunale, attività che comunque complicava il quadro di riferimento su cui si sarebbe innestata la s.c.i.a. produttiva oggetto del provvedimento di diniego del 2014, poi annullato dalla sentenza n. 1709/2019.
8.5.1. In considerazione del complicato e non lineare contesto, nel quale si era inserita la s.c.i.a. presentata dall’appellante, oggetto del provvedimento di diniego poi annullato, la sentenza impugnata ha quindi correttamente ritenuto che, sebbene il provvedimento inibitorio adottato dall’Ente nel 2014 fosse stato annullato dal giudice amministrativo, non era però “immediatamente percepibile la compatibilità urbanistico-edilizia dell’attività di autolavaggio con la destinazione di zona, anche ragionando nell’ottica corretta della zona bianca come sancito nella sentenza n. 1709/2019, alla luce del dato normativo di riferimento (art. 9 del d.P.R. n. 380/2001) e dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, il che contribuisce ad aggravare la complessità del sostrato fattuale oggetto di attività valutativa da parte dell’amministrazione comunale.”.
8.5.2. Tenuto conto del contesto di circostanze di fatto e del quadro normativo e giuridico di riferimento, si deve quindi escludere la sussistenza, nella fattispecie, della colpevolezza del Comune appellato.
Invero, il risarcimento del danno non si configura come una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione del bene della vita sotteso all’interesse legittimo concretamente inciso, anche del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpevolezza dell’amministrazione; quanto all’elemento soggettivo, da ultimo citato, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della situazione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione, sicché la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per l’esistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto, come appunto verificatosi nella specie (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. III, 18.06.2020 n. 3903; Consiglio di Stato, sez. IV, 05.05.2020 n. 2848).
8.6. Va poi anche evidenziato che la sentenza del Tribunale amministrativo della Campania n. 1709 del 27.03.2019 posta a fondamento della domanda risarcitoria dell’appellante non ha affermato che nell’area in questione potesse essere legittimamente avviata un’attività di autolavaggio, ma ha annullato il provvedimento di diniego, limitandosi a ravvisarne l’illegittimità alla stregua delle seguenti considerazioni:
   a) l’intervento inibitorio dell’amministrazione comunale era stato posto in essere tardivamente, dopo più di sette mesi dalla formazione del titolo abilitativo, ben oltre i sessanta giorni dalla data di presentazione della SCIA previsti dall’art. 19, comma 3, della legge n. 241/1990 e senza far ricorso all’esercizio del potere di autotutela, in violazione della norma citata;
   b) il diniego di SCIA si poneva in contraddizione con la DIA edilizia presentata dalla società ricorrente il 07.02.2013 per la realizzazione delle vasche biologiche finalizzate all’attività di autolavaggio, mai rimossa in via ordinaria o in sede di autotutela;
   c) il provvedimento di diniego era viziato per difetto di istruttoria, non avendo tenuto conto che sull’area in questione era decaduto il vincolo espropriativo impresso dallo strumento urbanistico a fini di edilizia scolastica, come già accertato dalla sentenza del Tar Campania n. 2641 del 16.05.2011 (emessa con riguardo all’attività di parcheggio esercitata sul medesimo suolo dal precedente gestore), con la conseguenza che l’attività di autolavaggio avrebbe potuto acquistare una sua compatibilità urbanistica alla luce del nuovo regime urbanistico assunto dal suolo.
8.6.1. Su queste basi la menzionata sentenza n. 1709/2019 censurava l’operato dell’ente comunale il quale:
   - se, da un lato, considerato il notevole lasso di tempo intercorso dalla SCIA, per rimuovere gli effetti della medesima, anziché inibire in via ordinaria l’attività, avrebbe dovuto “in maniera più appropriata”, verificata la sussistenza delle relative condizioni, fare ricorso al potere di autotutela previsto dall’art. 19, comma 4, legge 241/1990, esplicitando nel provvedimento di secondo grado l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento e comparando tale interesse con l’interesse privato sacrificato;
   - dall’altro lato, appurata la decadenza del vincolo espropriativo imposto sull’area interessata dall’attività di autolavaggio, prima adibita a parcheggio, “ai fini di una corretta e compiuta istruttoria, avrebbe dovuto valorizzare tale aspetto e verificare la compatibilità dell’attività in questione con una zona ormai divenuta bianca (cioè priva di disciplina urbanistica e soggetta ai limiti edificatori di cui all’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001), anziché soffermarsi sulla non più attuale classificazione urbanistica (zona V.A.I.) prevista in generale dal Piano di Fabbricazione.”
8.6.2. Il Tribunale amministrativo, pertanto, con la decisione sopra indicata, annullava il provvedimento inibitorio gravato per violazione dell’art. 19 della legge n. 241/1990 ed eccesso di potere per contraddittorietà e difetto di istruttoria, “fatti salvi, comunque, gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione”.
8.7. Orbene, alla luce delle riportate statuizioni, deve quindi rilevarsi che non è si è affatto dimostrato che, in mancanza dell’illegittimo provvedimento di diniego, l’appellante avrebbe avuto titolo ad avviare l’attività produttiva.

URBANISTICA: Secondo un costante indirizzo interpretativo, il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti di pianificazione urbanistica non può estendersi alle valutazioni di merito, a meno che esse non risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate.
In base a tale impostazione, largamente condivisa, il comune ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano regolatore.
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale, essa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono, pertanto, sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale, si è nel dettaglio chiarito che la modifica di un piano regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate, necessita di apposita motivazione esclusivamente quando le classificazioni esistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle, non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto».
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Secondo la moderna concezione della funzione di pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato sul caso Cortina (Cons. Stato. Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710), il potere conformativo del comune non può essere condizionato dalle caratteristiche oggettive dell’area o da precedenti determinazioni, pena la messa in discussione della potestà generale di piano.
Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio.
L’esercizio del potere di pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza amministrativa da tempo ritenuto che "il potere di gestione in chiave urbanistica del territorio, proprio perché comprende tra i suoi fini anche la protezione dell'ambiente, quale fattore condizionante le relative scelte può legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali che privilegino la qualità della vita, anche in parti del territorio comprensive di beni immobili non aventi le caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino livelli sovraordinati di tutela".
In tale ordine di idee, è stato ulteriormente osservato che "i limiti imposti alla proprietà privata attraverso destinazioni d'uso che garantiscano la salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei criteri propri della materia urbanistica", per cui "l'esercizio del potere di conformazione urbanistica è compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme complementari di protezione preordinate a curare con diversi strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo stesso oggetto".
Da tale innovativa impostazione discende che l’ambito di discrezionalità del comune nel determinare le scelte che incidono sull’assetto del territorio comunale è quindi molto ampio sia nel quid che nel quomodo.
È oramai pacifico in giurisprudenza che, nell'ambito di tale discrezionalità l'amministrazione comunale, qualora il comune avvii un procedimento teso alla redazione di un nuovo piano regolatore generale, o di una sua variante generale, ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio le cui destinazioni d'uso vigenti non sembrano essere più consone alle nuove scelte. Ciò può riguardare simmetricamente sia la retrocessione delle aree edificabili ad aree agricole sia quello di riconoscere a queste ultime la destinazione edificatoria.
Si tratta in questi casi dell’esplicazione della discrezionalità amministrativa che permette ai comuni di pianificare il territorio anche in senso restrittivo rispetto al passato, con i limiti della razionalità e dell’insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a favore della proprietà.

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Giusta
il consolidato principio giurisprudenziale, la scadenza del piano di lottizzazione fa riespandere la discrezionalità del Comune in ordine alle scelte pianificatorie sulle aree non trasformate.
E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio secondo il quale: “In materia urbanistica, l'inefficacia collegata alla scadenza dei termini dei piani integrati o comunque attuativi (e degli strumenti urbanistici che ne condividono la natura quali, ad esempio, i piani di lottizzazione ed i piani di zona per l'edilizia economica e popolare) è un effetto di legge che si produce automaticamente, con la conseguenza che la convenzione di lottizzazione scaduta e rimasta in parte inattuata non può vincolare i successivi strumenti urbanistici generali”.
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Il Collegio evidenzia che le osservazioni formulate dai proprietari interessati dal Piano Attuativo costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative.
Pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale.
D'altra parte le scelte effettuate dall'Amministrazione pubblica, nell'adozione degli strumenti urbanistici, costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.

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L’articolato motivo di appello appena riassunto non è fondato.
Va in primo luogo ribadito che la parte appellante non può lamentare nell’ambito del presente giudizio danni che casualmente derivano dal diniego di convenzionamento perché tale questione è ormai coperta dal giudicato formatosi per effetto della sentenza passata del Consiglio di Stato n. 7092/2021.
Le censure muovono principalmente dal fatto che il nuovo piano ha attribuito all'area di proprietà della Im.Sa.Gi. s.r.l. una volumetria, di difficile, se non impossibile (specie sul piano della relativa profittabilità economica.), realizzazione.
In via preliminare va ribadito che, secondo un costante indirizzo interpretativo, il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti di pianificazione urbanistica non può estendersi alle valutazioni di merito, a meno che esse non risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (Consiglio di Stato sez. II, 24.06.2020, n. 4040).
In base a tale impostazione, largamente condivisa, il comune ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano regolatore (Cons. St., sez. IV, 26.01.1999, n. 74).
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale, essa non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono, pertanto, sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (cfr., tra le ultime, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2023).
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale, si è nel dettaglio chiarito che la modifica di un piano regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate, necessita di apposita motivazione esclusivamente quando le classificazioni esistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle, non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto» (ex pluribus C. Stato, sez. V, 02.03.2009, n. 1149).
Nel caso in esame, in relazione alla pianificazione urbanistica del comune di Sassari, con particolare riferimento al contesto nel quale è ubicata la proprietà della società appellante, si è negli anni registrata una significativa evoluzione nella direzione del progressivo riduzione del consumo di suolo.
Le scelte di pianificazione adottate dal comune tra il 1987 (vecchio PRG) e il 2014 (PUC vigente) sono del tutto coerenti con la necessità di limitare il consumo del suolo e preservare le aree situate al limite del tessuto urbano e gli beni immobili a carattere monumentale. Tale modus operandi si colloca armonicamente nel nuovo concetto di pianificazione urbanistica così come sviluppato dalla più recente giurisprudenza amministrativa.
Secondo la moderna concezione della funzione di pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato sul caso Cortina (Cons. Stato. Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710), il potere conformativo del comune non può essere condizionato dalle caratteristiche oggettive dell’area o da precedenti determinazioni, pena la messa in discussione della potestà generale di piano.
Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio. L’esercizio del potere di pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza amministrativa da tempo ritenuto che "il potere di gestione in chiave urbanistica del territorio, proprio perché comprende tra i suoi fini anche la protezione dell'ambiente, quale fattore condizionante le relative scelte può legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali che privilegino la qualità della vita, anche in parti del territorio comprensive di beni immobili non aventi le caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino livelli sovraordinati di tutela" (Cons. Stato, sez. IV, 04.12.1998, n. 1734).
In tale ordine di idee, è stato ulteriormente osservato che "i limiti imposti alla proprietà privata attraverso destinazioni d'uso che garantiscano la salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei criteri propri della materia urbanistica", per cui "l'esercizio del potere di conformazione urbanistica è compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme complementari di protezione preordinate a curare con diversi strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo stesso oggetto" (Cons. Stato, sez. IV, n. 1734 cit.; id. 06.03.1998, n. 382).
Da tale innovativa impostazione discende che l’ambito di discrezionalità del comune nel determinare le scelte che incidono sull’assetto del territorio comunale è quindi molto ampio sia nel quid che nel quomodo.
È oramai pacifico in giurisprudenza che, nell'ambito di tale discrezionalità l'amministrazione comunale, qualora il comune avvii un procedimento teso alla redazione di un nuovo piano regolatore generale, o di una sua variante generale, ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio le cui destinazioni d'uso vigenti non sembrano essere più consone alle nuove scelte. Ciò può riguardare simmetricamente sia la retrocessione delle aree edificabili ad aree agricole sia quello di riconoscere a queste ultime la destinazione edificatoria.
Si tratta in questi casi dell’esplicazione della discrezionalità amministrativa che permette ai comuni di pianificare il territorio anche in senso restrittivo rispetto al passato, con i limiti della razionalità e dell’insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a favore della proprietà.
In coerenza con tali coordinate di fondo della funzione di pianificazione, modernamente intesa, il comune di Sassari ha ripianificato quelle parti del territorio le cui destinazioni d’uso non sembravano essere più consone alle nuove scelte dell’amministrazione. L’attività di pianificazione, per quanto emerso nel giudizio di primo grado, senza che si registi nessun rilievo di oggettivo segno contrario nei motivi di appello, è stata coerentemente e ragionevolmente preordinata ad attuare la riduzione del consumo di suolo e ha conseguito questo risultato, avendo predisposto una nuova strumentazione finalizzata a raggiungere questo obiettivo.
La circostanza, valorizzata a più riprese nell’atto di appello, per cui, nel caso in esame, sussistessero in favore della parte appellante ragioni di affidamento, scaturenti dalla convenzione di lottizzazione approvata, non priva l’amministrazione della possibilità di adottare, nel prosieguo, differenti scelte urbanistiche, a condizione che, come avvenuto nel caso in esame, siano esplicitate le ragioni del pubblico interesse che hanno indotto a ritenere superato il precedente assetto urbanistico.
La nuova pianificazione, coerentemente con la significativa evoluzione registratasi sul piano della funziona pianificatoria prima ricordata, ha contemperato le esigenze della parte appellante con quelle pubbliche di riduzione del consumo di suolo, optando per una disciplina generale che non ha previsto la conferma di indici territoriali alti. Scelta opinabile, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, ma non illegittima.
Peraltro, e in via autonomamente assorbente, nel caso di specie, il piano di lottizzazione era stato approvato nel 1993 (con pubblicazione nel febbraio 1994), ma all’approvazione non era seguita la stipulazione della relativa convenzione e, pertanto, nel febbraio 2004, trascorsi dieci anni dalla sua pubblicazione, siffatto piano era divenuto inefficace ai sensi degli articoli 16, comma 5 e 17, della legge 1150/1942.
Del resto, come accertato dalla sentenza resa dal Consiglio di Stato n. 7092/2021 (in particolare paragrafi 15, 15.1, 15.2, 15.3, 15.4) di rigetto della istanza risarcitoria proposta dalla Sa.Gi. in relazione al diniego al convenzionamento ottenuto con la richiamata sentenza n. 467/2013, la società SA. in realtà non aveva mai avanzato al comune alcuna richiesta di convenzionamento, quanto piuttosto aveva presentato una istanza per la proroga del Piano di lottizzazione a ridosso della scadenza.
Deve pertanto nel caso in esame trovare applicazione il consolidato principio giurisprudenziale al metro del quale la scadenza del piano di lottizzazione fa riespandere la discrezionalità del Comune in ordine alle scelte pianificatorie sulle aree non trasformate.
E’ stato, infatti, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato il principio secondo il quale: “In materia urbanistica, l'inefficacia collegata alla scadenza dei termini dei piani integrati o comunque attuativi (e degli strumenti urbanistici che ne condividono la natura quali, ad esempio, i piani di lottizzazione ed i piani di zona per l'edilizia economica e popolare) è un effetto di legge che si produce automaticamente, con la conseguenza che la convenzione di lottizzazione scaduta e rimasta in parte inattuata non può vincolare i successivi strumenti urbanistici generali.” (cfr.,per tutti, Consiglio di Stato, sez. IV 19/07/2021 n. 5385).
Non coglie nel segno neanche la censura che fa leva sulla mancata adeguata considerazione delle osservazioni presentate dalla Im.Sa.Gi..
In senso contrario il Collegio evidenzia che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale; d'altra parte le scelte effettuate dall'Amministrazione pubblica, nell'adozione degli strumenti urbanistici, costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (Consiglio di Stato sez. IV, 08.05.2017, n. 2089)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.02.2024 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, per evitare la demolizione va dimostrata l’esistenza ante 1967.
Il Consiglio di Stato ricorda che l’onere della prova spetta sempre e necessariamente al proprietario (o al responsabile dell’abuso).
Un comune pugliese ha annullato un permesso di costruire rilasciato nel 2016 per presa d'atto relativo a tre abitazioni di costruzione anteriore al 1942.
A un esame più attento l'ufficio tecnico comunale ha constatato una discordanza significativa tra le opere indicate nel permesso di costruire del 2016 (oltre che in una precedente Scia del 2015) e la mappa catastale del 1939. Opere che «difettavano di adeguata dimostrazione circa la datazione».
L'interessato, nonostante le richieste del comune non è stato in grado di fornire prove convincenti.
Il Comune ha pertanto annullato il permesso di costruire e emesso un'ordinanza di demolizione. Entrambi gli atti sono stati impugnati al Tar Puglia, che ha respinto il ricorso.
Il Consiglio di Stato ha confermato in pieno l'operato sia del comune, sia del primo giudice.
I giudici della Seconda Sezione di Palazzo Spada hanno ricordato l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza secondo il quale «è a carico esclusivamente del privato l'onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell'opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio».
«Tale onere -si legge nella
sentenza 01.02.2024 n. 1016- discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l'onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità. Detto onere, prima ancora che di carattere processuale, vale nei rapporti tra l'interessato e l'Amministrazione, la quale in termini generali, in presenza di un manufatto non assistito da un titolo abilitativo che lo legittimi, ha solo il potere dovere di sanzionarlo ai sensi di legge» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.03.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’onere probatorio in materia di abusi edilizi.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Prova della realizzazione prima del 1967 - Onere del proprietario o del responsabile dell’abuso – Fondamento – Principio della vicinanza della prova.
È il proprietario (o il responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che deve provare il carattere risalente del manufatto, collocandone la realizzazione in epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 761 del 1967 che con l’art. 10, novellando l’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, ha esteso l’obbligo di previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano.
Tale criterio di riparto dell’onere probatorio tra privato e amministrazione discende dall’applicazione alla specifica materia della repressione degli abusi edilizi del principio di vicinanza della prova, in forza del quale spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 01.02.2024 n. 1016 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6. L’appello è infondato alla stregua delle osservazioni che seguono.
6.1. Preliminarmente deve ricordarsi che, ai sensi dell'art. 101 c.p.a., nel processo innanzi al Consiglio di Stato il ricorrente è tenuto ad indicare in modo chiaro nell'atto di appello le critiche che egli rivolge contro i capi della sentenza gravata e le ragioni per le quali le conclusioni, cui il primo Giudice è pervenuto, non sono condivisibili, così che è inammissibile il mero richiamo delle censure sollevate con il ricorso di primo grado o la pedissequa riproposizione delle questioni e delle eccezioni articolate in quel grado laddove essere non siano accompagnate dalle necessarie puntuali critiche alla decisione del giudice.
6.2. Volgendo pertanto l’esame alle sole questioni oggetto di specifica contestazione e argomentazione nell’atto di appello, deve sottolinearsi che dette deduzioni non scalfiscono le ragionevoli conclusioni raggiunte dal TAR.
Infatti tutta l’articolata ricostruzione, offerta dagli appellanti, circa il contenuto dei plurimi interventi edilizi realizzati sull’immobile di causa (quelli di cui alla SCIA n. 3/2015 e ad una serie concatenata di C.I.L., nn. 64/2016, 66/2016, 78/2016 e 82/2016), ma in tutt’altra parte dell’edificio rispetto alle tre abitazioni di causa, non contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano correttamente desunti e condivisibili.
7.1. Deve in primo luogo condividersi il richiamo del TAR al consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, II, 05.02.2021, n. 1109 e 08.05.2020, n. 2906), secondo cui è a carico esclusivamente del privato l’onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio; tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità.
Detto onere, prima ancora che di carattere processuale, vale nei rapporti tra l’interessato e l’Amministrazione, la quale in termini generali, in presenza di un manufatto non assistito da un titolo abilitativo che lo legittimi, ha solo il potere dovere di sanzionarlo ai sensi di legge (si vedano, al proposito, Cons. Stato, sez. VI, sentenze 02.07.2020, n. 4267, 07.01.2020, n. 106, 18.10.2019, n. 7072, e 06.02.2019, n. 903) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 01.02.2024 n. 1016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ordinanza d’urgenza, il sindaco non può imporre al gestore il prezzo del contratto scaduto. Il primo cittadino può obbligare il gestore a proseguire il servizio mediante la proroga tecnica.
Con l'ordinanza contingibile e urgente il sindaco può obbligare il gestore a proseguire il servizio mediante la proroga tecnica del contratto scaduto, ma non può imporre allo stesso, per l'erogazione delle prestazioni, un corrispettivo determinato secondo accordi contrattuali non più vigenti.
Diversamente, si consentirebbe alla Pa di sacrificare la libera iniziativa economica privata a beneficio del proprio esclusivo interesse al risparmio di spesa, in violazione dei principi sanciti dall'articolo 41 della Costituzione.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 30.01.2024 n. 1811.
Il fatto
A seguito di una gara pubblica, una società gestiva il servizio di igiene ambientale nel territorio di un Comune sulla base di un contratto di durata quadriennale con scadenza al 31.07.2023. In prossimità di tale data l'ente locale chiedeva alla società di avvalersi della facoltà di proroga concessa dal capitolato speciale d'appalto per un periodo di tempo comunque non superiore a 6 mesi, occorrente per l'aggiudicazione della nuova procedura di affidamento del servizio rifiuti.
Tuttavia la società si opponeva alla richiesta di proseguire il servizio oltre la scadenza contrattuale sostenendo che l'ente non era in grado, a suo dire, di disporre alcuna proroga tecnica, non avendo a quella data neppure avviato le procedure di gara finalizzate all'affidamento del servizio di igiene urbana.
Al che il sindaco, ravvisando nell'interruzione del servizio un pericolo grave e attuale per la salute pubblica e l'igiene urbana, con ordinanza d'urgenza del 25.07.2023 ingiungeva alla società di continuare a provvedere per un periodo di 3 mesi a decorrere dal 01.08.2023, secondo le precedenti condizioni economiche convenute, ritenendo tale periodo compatibile con l'indizione e l'espletamento di una procedura per l'individuazione del nuovo gestore.
A questo punto la società impugnava l'ordinanza sindacale avanti al Tar lamentando, tra i vari motivi di ricorso, la violazione del principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata, a seguito dell'imposizione unilaterale del Comune di proseguire il servizio alle condizioni del precedente contratto ormai giunto a termine.
La definizione del corrispettivo
Nel vagliare la causa il Tar ha ritenuto legittimo l'impiego dello strumento dell'ordinanza contingibile e urgente in base al combinato disposto degli articoli 50, comma 5, del Tuel e 191 del Dlgs 152/2006, ma ha escluso che la situazione di necessità possa giustificare la definizione in via autoritativa dell'importo dei canoni da corrispondere al gestore.
A sostegno di questa decisione i giudici hanno evocato un orientamento, risalente nel tempo ma non superato, secondo cui il provvedimento contingibile e urgente non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto dall'amministrazione al privato; all'obbligo di proseguire nell'espletamento del servizio si ricollega un'esigenza di giusto compenso per il destinatario del provvedimento (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 6624/2002).
In altre parole, il profilo economico del nuovo rapporto con il gestore non può essere attratto dai presupposti di contingibilità e urgenza posti a fondamento dell'ordinanza. Di conseguenza il Tar ha disposto l'annullamento dell'ordinanza impugnata nella parte in cui, per la definizione del corrispettivo, faceva rinvio ai pregressi (e non più efficaci) accordi contrattuali, con il conseguente obbligo del Comune di formulare una nuova proposta economica alla società ricorrente in ordine alla determinazione del corrispettivo dovuto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.02.2024).
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SENTENZA
... per l'annullamento dell’ordinanza contingibile ed urgente volta ad imporre la prosecuzione della gestione del servizio di igiene urbana oltre la scadenza contrattuale a far data dal 01.08.2023 e per mesi tre.
...
Con ricorso tempestivamente promosso, la “Tr.” s.r.l. insorgeva avverso l’ordinanza sindacale n. 52 del 25.07.2023, in pari data ad essa notificata, con la quale il primo cittadino del comune di Bassano Romano le ingiungeva di continuare a provvedere, senza soluzione di continuità e per un periodo di tempo di tre mesi decorrenti dall’01.08.2023 (periodo di tempo ritenuto compatibile con l’indizione e l’espletamento di una procedura di gara per l’individuazione del nuovo gestore), al servizio di raccolta dei rifiuti urbani “(…) per come previsto dagli accordi contrattuali in precedenza stipulati”, sussistendo, a dire del Sindaco, un pericolo grave ed attuale per la salute pubblica e l’igiene urbana derivante dall’interruzione del servizio.
Più in particolare, la ricorrente esponeva di gestire il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani presso il comune resistente in forza di contratto stipulato con l’ente il 20.12.2019 ed avente una durata quadriennale, con scadenza al 31.07.2023.
Approssimandosi il termine finale di efficacia del predetto accordo, con nota del 06.07.2023 il responsabile dell’area 3° -servizi al territorio– del comune resistente informava la ricorrente dell’intenzione dell’ente di avvalersi della facoltà di proroga concessa dall’art. 3 del capitolato speciale d’appalto per un periodo di tempo comunque non superiore a sei mesi occorrente per l’aggiudicazione della nuova procedura di affidamento del servizio.
A tale nota replicava la ricorrente con comunicazione dell’11.07.2023 nella quale, rendendosi indisponibile a proseguire il rapporto contrattuale oltre la data di scadenza, essa rilevava come, a suo giudizio, l’amministrazione resistente non fosse neppure nelle condizioni di disporre alcuna proroga tecnica, non avendo, a quella data, ancora neppure avviato le procedure di gara finalizzate all’affidamento del servizio di igiene urbana.
Ancora, il 18.07.2023, la “Tr.” s.r.l. ribadiva la propria intenzione di non prestare ossequio ad eventuali proroghe informando che, alla scadenza del contratto, avrebbe provveduto a ritirare i mezzi e le attrezzature utilizzate per l’espletamento del servizio.
A valle del predetto scambio di corrispondenza, però, il 25.07.2023 interveniva il provvedimento gravato, col quale il comune di Bassano Romano –premesso che la nuova gara non risultava ancora indetta essendo stato il bilancio di previsione dell’ente approvato solo il 03.07.2023 e che, alla luce degli orientamenti dell’autorità di settore, non sussistessero le condizioni per ricorrere alla proroga tecnica del contratto in essere, non essendo stata ancora avviata la procedura di affidamento del servizio– onde evitare un interruzione del servizio che, stante anche le elevate temperature del periodo estivo, avrebbe determinato una situazione di pericolo per la salute pubblica e l’ambiente, ai sensi degli artt. 50, d.lgs. n. 267/2000 e 191, d.lgs. n. 152/2006, ordinava all’impresa ricorrente di continuare a provvedere alla raccolta dei rifiuti urbani sul territorio comunale per un periodo di tre mesi a decorrere dall’01.08.2023, avvertendo che, l’inosservanza della medesima, avrebbe integrato la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 650 c.p.
Contro il provvedimento avversato, la società ricorrente articolava i seguenti mezzi di censura.
...
Quanto al gravame proposto, ritiene il Collegio che esso possa trovare accoglimento solo parzialmente.
In particolare, da disattendere è la prima censura, con cui la società ricorrente si doleva dell’insussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza contingibile ed urgente con cui è stata imposta ad essa la prosecuzione, senza soluzione di continuità, del servizio di raccolta dei rifiuti urbani sul territorio comunale per un periodo di tre mesi decorrente dall’01.08.2023, ossia dal giorno successivo alla scadenza del contratto concluso tra le parti per una durata quadriennale a partire dall’01.08.2019.
Essa, infatti, si scontra con il consolidato orientamento pretorio –dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare nel caso di specie– secondo cui “
deve ritenersi legittimo il ricorso all'istituto della ordinanza contingibile ed urgente per la proroga del contratto del servizio di gestione dei rifiuti, malgrado il Comune non si sia tempestivamente attivato per la indizione della gara per l'affidamento di tale servizio, in quanto la situazione di pericolo per la salute pubblica e l'ambiente connesse alla gestione dei rifiuti, non fronteggiabile adeguatamente con le ordinarie misure, legittimava comunque il sindaco all'esercizio dei poteri "extra ordinem" riconosciutigli dall'ordinamento giuridico (art. 50 D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) e, di fronte all'urgenza di provvedere, non rileva affatto chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere" (TAR Lecce, I, 19.02.2019, n. 275)” (cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. II, n. 1238 del 19.07.2022; Cons. St., sez. V, n. 962 del 02.02.2021, secondo la quale “la giurisprudenza ha da sempre ammesso il ricorso alle ordinanze contingibili e urgenti in materia di affidamento o di proroga degli appalti di servizi di raccolta dei rifiuti, precisando finanche che esse "prescindono dall'imputabilità delle cause che hanno generato la situazione di pericolo cui si tratta di ovviare", in quanto "l'urgenza del provvedere all'eliminazione della situazione di pericolo, prescinde dall'accertamento dell'eventuale responsabilità della provocazione di quest'ultimo, poiché non ha natura sanzionatoria", e perciò, "ai fini dell'adozione dell'ordinanza, non rileva chi o cosa abbia determinato la situazione di pericolo che il provvedimento è volto ad affrontare" (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2610, che richiama sez. IV, 25.09.2006, n. 5639 e sez. V, 09.11.1998, n. 1585)”.
In termini confermativi, infatti, si è condivisibilmente affermato che
l'esecuzione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani deve, in generale, essere svolto con efficacia ed immediatezza a tutela del bene pubblico indicato dalla legge; pertanto qualora la necessità di provvedere si appalesi imperiosa -specie al fine di prevenire eventuali ipotesi di emergenze sanitarie e di igiene pubblica- il Sindaco può legittimamente ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente, ai sensi dell'art. 50, comma 5, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, anche se sussiste una apposita disciplina che regoli, in via ordinaria, la materia.
L'acclarato legittimo esercizio del potere di ordinanza -in presenza dei presupposti di cui all'art. 191 del T.U. ambiente- giustifica la deroga ad ogni altra normativa di settore, essendo caratteristica propria delle ordinanze ambientali di cui all' art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (così come, in genere, di tutte le ordinanze extra ordinem contemplate dall'ordinamento) quella di poter operare in deroga alle disposizioni vigenti (cfr. TAR Sicilia-Catania, sez. IV, n. 2196 del 16.09.2019).
In ordine, poi, all’asserita carenza istruttoria derivante dalla mancata allegazione dei pareri tecnici delle autorità preposte alla tutela della salute pubblica e della pubblica incolumità, ritiene il Collegio di poter condividere le conclusioni già raggiunte con il decreto presidenziale n. 4635 del 27.07.2023 con cui, nel denegare la richiesta di sospensione interinale del provvedimento avversato avanzata dalla ricorrente, veniva rilevato che “in ogni caso, appare plausibile –nell’attuale contingenza storico-climatica connotata da picchi di calore che non registrano precedenti– ritenere che l’interruzione del servizio verrebbe a generare, nell’arco di strettissimo periodo di tempo, quei pericoli che l’ordinanza avversata mira a fronteggiare ed evitare”, dovendosi considerare conforme all’id quod plerumque accidit la conclusione secondo cui, una volta interrotto il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, si determini, nel volgere di brevissimo tempo, una situazione di pericolo per la salute la cui ricorrenza non richiede certo approfondite analisi tecnico-scientifiche che corroborino la decisione dell’organo politico di ordinare d’imperio la prosecuzione del servizio.
In sostanza, quindi, non può trovare fondamento il primo motivo di doglianza articolato con l’odierno ricorso.
A conclusioni diverse deve giungersi, invece, con riguardo al secondo motivo di ricorso, con il quale veniva lamentata la sostanziale imposizione, da parte dell’amministrazione resistente, della prosecuzione del servizio alle medesime condizioni contrattuali precedentemente stipulati, risolvendosi tale previsione nell’imposizione unilaterale alla controparte privata del corrispettivo previsto per l’esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto, in contrasto con la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost.
Al riguardo, ritiene il Collegio di dover accogliere la doglianza così prospettata.
Infatti,
in forza dello strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente, l'ente può solo imporre al privato l'erogazione delle prestazioni nonostante la scadenza del contratto stipulato tra le parti, anche in assenza del consenso da parte dell'impresa a prorogarne spontaneamente gli effetti, ma non può certo imporre alla società un corrispettivo per l'espletamento di quel servizio e tanto meno può farlo rinviando ad accordi contrattuali sulla cui vigenza ed efficacia vi è contesa tra le parti (cfr. in termini del tutto analoghi, TAR Calabria–Reggio Calabria, n. 437 del 02.07.2019).
Diversamente opinandosi, infatti, si consentirebbe all'Amministrazione di sacrificare la libera iniziativa economica privata a beneficio del proprio esclusivo interesse di risparmio di spesa, con violazione dei principi desumibili dall'art. 41 Cost.
Invero, la giurisprudenza amministrativa risulta consolidata nel senso che "
il provvedimento contingibile ed urgente non può giustificare anche una sorta di prezzo imposto dall'Amministrazione al privato; all'obbligo di proseguire nell'espletamento del servizio si ricollega un'esigenza di giusto compenso per il destinatario del provvedimento" (Cons. St., sez. V, n. 6624 del 02.12.2002).
In una vicenda del tutto analoga, è stato osservato che la situazione di necessità e urgenza non giustifica la definizione in via autoritativa e definitiva dell'importo dei canoni da corrispondere al gestore, poiché "il profilo economico del rapporto in alcun modo può essere attratto dai presupposti di contingibilità e urgenza, posti a fondamento dell'ordinanza" (Cons. St., sez. V, n. 1969 del 31.03.2011).
Pertanto, la domanda di annullamento del provvedimento impugnato dev’essere accolta nei termini sopra indicati, ossia nella parte in cui stabilisce le condizioni economiche del servizio mediante rinvio ai pregressi, e non più efficaci, accordi contrattuali.

URBANISTICA: Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti; e ciò al fine di evitare un indebito sconfinamento del giudice nel c.d. merito amministrativo.
In altri termini, le scelte pianificatorie operate dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione.
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10. Possono, infine, esaminarsi congiuntamente le censure di irragionevolezza e difetto di motivazione, oltre che di lesione dell’affidamento formulate nei restanti motivi di ricorso.
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti (TAR Basilicata, Sez. I, 21.12.2017, n. 792); e ciò al fine di evitare un indebito sconfinamento del giudice nel c.d. merito amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2017, n. 4707).
In altri termini, le scelte pianificatorie operate dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione (TAR Lombardia–Milano, Sez. I, 02.01.2018, n. 2; TAR Campania-Salerno, Sez. II, 21.05.2018 n. 760) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2024 n. 652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, deve distinguersi
   - fra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata -nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo-
   - dalle altre regole che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.):
        
mentre per le disposizioni appartenenti alla prima categoria s'impone, in relazione all'immediato effetto conformativo dello jus aedificandi dei proprietari dei suoli interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio,
        
a diversa conclusione deve pervenirsi, invece, con riguardo alle prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e possono essere, quindi, oggetto di censura in occasione della sua impugnazione.
Anche il piano strutturale può dispiegare effetti di diretta conformazione della proprietà con riguardo a quelle disposizioni che rientrano nel regime di salvaguardia vigente fino alla approvazione del regolamento urbanistico.
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Il carattere di piena autonomia fra gli atti di adozione e di approvazione del P.R.G. comporta la possibilità di un'impugnativa anche successiva dell'atto di approvazione, a ciò non ostando la circostanza per cui, al ricorrere di determinate condizioni, anche la delibera di adozione risulti ex se impugnabile.
L'impugnazione dell'adozione del Piano Regolatore, nella misura in cui sia suscettibile di applicazione e, quindi, immediatamente lesiva, costituisce una facoltà e non un onere, con la conseguenza che non può in alcun modo ritenersi che la mancata impugnazione dell'atto di adozione del P.R.G. comporti ex se preclusione o decadenza nei confronti della successiva proposizione di un ricorso avverso la delibera di approvazione del Piano.
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6.5- In tale ottica, peraltro, la deliberazione consiliare n. -OMISSIS- (a prescindere dalla correttezza o meno del richiamo alla valenza costitutiva della presa d’atto) con la quale il consiglio comunale ha approvato di “prendere atto dell’efficacia del PRG, del regolamento edilizio, delle N.T.A., della localizzazione delle osservazioni e della visualizzazione delle osservazioni accoglibili del Comune di -OMISSIS-” non può intendersi come approvazione di un documento diverso da quello già adottato e su cui è maturato il silenzio-assenso.
6.5- Né a conclusioni diverse può riferirsi il riferimento alla “localizzazione delle osservazioni”, la cui indicazione risulta del tutto neutra e, ovviamente, inidonea ad innovare il Piano così come cristallizzato con il silenzio-assenso (anche perché, si ribadisce a tutto concedere, in base alla disciplina vigente sarebbe comunque necessaria una rielaborazione complessiva del documento, alla luce delle osservazioni e una successiva “staffetta" presso la Regione, che non è dato rinvenire -né avrebbe potuto, stante la maturazione del silenzio-assenso, nel provvedimento in questione).
6.6- In tale ottica, peraltro, ben si spiega la nota della Regione Sicilia n. -OMISSIS- con la quale ha precisato (a seguito di definizione di diverso contenzioso del tutto estraneo all’odierno thema decidendum) che non si deve tener conto delle osservazioni al Piano.
6.7- In sostanza, essendo certo (anche perché oggetto di plurime diffide) che, al momento dell'adozione del nuovo P.R.G. e delle relative N.T.A. con applicazione delle relative misure di salvaguardia, la convenzione di lottizzazione in discussione non era stata approvata, non è dubitabile l’incompatibilità della stessa con il nuovo P.R.G., non valendo il regime derogatorio dell’art. 52 delle N.T.A.
6.8- Peraltro, considerata la giurisprudenza per cui “In tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, deve distinguersi fra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata -nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione; la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo- dalle altre regole che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze; sull'osservanza di canoni estetici; sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali; regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.): mentre per le disposizioni appartenenti alla prima categoria s'impone, in relazione all'immediato effetto conformativo dello jus aedificandi dei proprietari dei suoli interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio, a diversa conclusione deve pervenirsi, invece, con riguardo alle prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e possono essere, quindi, oggetto di censura in occasione della sua impugnazione. Anche il piano strutturale può dispiegare effetti di diretta conformazione della proprietà con riguardo a quelle disposizioni che rientrano nel regime di salvaguardia vigente fino alla approvazione del regolamento urbanistico" (TAR Toscana, Sez. III, 20/11/2017, n. 1414) ed anche a considerare la giurisprudenza per cui “Il carattere di piena autonomia fra gli atti di adozione e di approvazione del P.R.G. comporta la possibilità di un'impugnativa anche successiva dell'atto di approvazione, a ciò non ostando la circostanza per cui, al ricorrere di determinate condizioni, anche la delibera di adozione risulti ex se impugnabile; l'impugnazione dell'adozione del Piano Regolatore, nella misura in cui sia suscettibile di applicazione e, quindi, immediatamente lesiva, costituisce una facoltà e non un onere, con la conseguenza che non può in alcun modo ritenersi che la mancata impugnazione dell'atto di adozione del P.R.G. comporti ex se preclusione o decadenza nei confronti della successiva proposizione di un ricorso avverso la delibera di approvazione del Piano” (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 09.08.2022, n. 11119), parte ricorrente avrebbe dovuto tempestivamente proporre doglianze specifiche avverso il nuovo Piano regolatore, costituente in sé fonte della lesione dei propri interessi.
6.9- In conclusione, non sussistono i presupposti per ritenere accoglibile la domanda dei ricorrenti, né sussistono ab imis i presupposti perché il Comune sia obbligato alla stipula della convenzione di lottizzazione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 23.01.2024 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Giurisprudenza consolidata rileva che “L'infondatezza della domanda giudiziale di annullamento determina l'infondatezza e la conseguente reiezione dell'azione di condanna al risarcimento del danno (...) in quanto manca l'illegittimità dell'azione amministrativa.
Del resto, la domanda di risarcimento da illegittimità provvedimentale della P.A. deve essere respinta una volta accertata la legittimità dell'atto impugnato, perché in ragione di ciò è escluso il requisito del danno ingiusto richiesto dall'art. 2043 c.c., per mancanza degli elementi costitutivi della fattispecie ivi prevista, in quanto l'attività dell'Amministrazione di adozione del provvedimento riconosciuto legittimo non può essere considerata ingiusta o illecita".
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Affinché possa configurarsi una responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione è necessario non solo che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva, ovvero di aver maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose, bensì anche che:
    i) detto affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che —valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti— risulti oggettivamente contraria ai cennati doveri di buona fede e lealtà;
    ii) tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione in termini di colpa o dolo;
    iii) il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'Amministrazione.
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7- Viene quindi scrutinata domanda di risarcimento danni.
7.1- È anzitutto da rigettare la domanda risarcitoria dei danni da atto illegittimo.
7.1.1- Giurisprudenza consolidata rileva che “L'infondatezza della domanda giudiziale di annullamento determina l'infondatezza e la conseguente reiezione dell'azione di condanna al risarcimento del danno (...) in quanto manca l'illegittimità dell'azione amministrativa. Del resto, la domanda di risarcimento da illegittimità provvedimentale della P.A. deve essere respinta una volta accertata la legittimità dell'atto impugnato, perché in ragione di ciò è escluso il requisito del danno ingiusto richiesto dall'art. 2043 c.c., per mancanza degli elementi costitutivi della fattispecie ivi prevista, in quanto -come nella specie- l'attività dell'Amministrazione di adozione del provvedimento riconosciuto legittimo non può essere considerata ingiusta o illecita" (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 28/12/2022, n. 17734: v. anche Cons. St., sez. V, 03.05.2019 n. 2870; TAR Toscana, 12.03.2019 n. 351).
7.1.2- Nella fattispecie, l’immunità degli atti impugnati dalle censure prospettate comporta l’assenza dell’essenziale presupposto per ritenere inverata una responsabilità risarcitoria.
7.2- Parimenti è da rigettare la domanda risarcitoria (su cui il quarto motivo di ricorso) per gli esborsi patiti dai ricorrenti per la progettazione, ascrivibili a violazione del dovere di agire secondo correttezza e buona fede e lesione del legittimo affidamento.
7.2.1- Si premette sul punto che “Affinché possa configurarsi una responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione è necessario non solo che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva, ovvero di aver maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose, bensì anche che:
   i) detto affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che —valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti— risulti oggettivamente contraria ai cennati doveri di buona fede e lealtà;
   ii) tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione in termini di colpa o dolo;
   iii) il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'Amministrazione
" (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 23.09.2022, n. 12110).
7.2.2- Tanto chiarito, rileva il Collegio che parte ricorrente non ha adeguatamente provato la sussistenza dei relativi presupposti (prova certamente non ritraibile dal mero dato temporale per cui il Comune aveva, prima, approvato una convenzione di lottizzazione e, a distanza di dieci giorni, adottato un Piano incompatibile con la prima), dovendo piuttosto il ricorrente fornire una prova complessiva di tutte le circostanze e gli accadimenti preesistenti (anche relativi ai rispettivi iter di approvazione del Piano di lottizzazione e di adozione del nuovo P.R.G.), idonei a ritenere adeguatamente comprovata la maturazione di un affidamento, poi disatteso, sul favorevole operato dell’Amministrazione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 23.01.2024 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti; e ciò al fine di evitare un indebito sconfinamento del giudice nel c.d. merito amministrativo.
In altri termini, le scelte pianificatorie operate dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione.
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non potendosi invece fondare sul generico interesse ad una migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il quisque de populo potrebbe nutrire.
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10. Possono, infine, esaminarsi congiuntamente le censure di irragionevolezza e difetto di motivazione, oltre che di lesione dell’affidamento formulate nei restanti motivi di ricorso.
Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti (TAR Basilicata, Sez. I, 21.12.2017, n. 792); e ciò al fine di evitare un indebito sconfinamento del giudice nel c.d. merito amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2017, n. 4707).
In altri termini, le scelte pianificatorie operate dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare.
Tali scelte, con riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico–discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso e non sono appunto sindacabili, salvo che non risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio.
Si sottraggono, invece, ai principi appena enunciati solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di un diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione (TAR Lombardia–Milano, Sez. I, 02.01.2018, n. 2; TAR Campania-Salerno, Sez. II, 21.05.2018 n. 760).
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non potendosi invece fondare sul generico interesse ad una migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010, n. 4546; id., 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 29.11.2016, n. 2250; id., 08.10.2018, n. 2228; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 05.03.2019, n. 461; TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, n. 731/2020) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.01.2024 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per consolidata giurisprudenza, le scelte di pianificazione urbanistica:
   - siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a fronte delle osservazioni dei privati interessati, configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello strumento urbanistico;
   - non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius di queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di tutela;
   - anche laddove peggiorative del regime pregresso, non richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando giustificazione nei criteri generali di impostazione dello strumento urbanistico.
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato nella loro conservazione, ravvisabile, ad es., nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968.
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3. Innanzitutto non sono accreditabili gli ordini di doglianze rubricati retro, in narrativa, sub n. 2.a-c, incentrati sulla denunciata illogicità delle seguenti destinazioni di zona, contemplate dal PUC:
   - Sp_PV – “Aree integrate per parcheggi e verde attrezzato di progetto”, in relazione all’area censita in catasto al foglio 5, particella 897 (contigua al “Palazzo Ferrajoli della Starza”);
   - APs – “Aree pubbliche per lo sport e il tempo libero di progetto”, in relazione ai lotti censiti in catasto al foglio 5, particelle 2168 e 2169;
   - Sp_I – “Aree per attrezzature destinate all'istruzione di progetto”, in relazione al fondo censito in catasto al foglio 5, particella 2359.
3.1. In argomento, giova previamente rammentare che, per consolidata giurisprudenza, le scelte di pianificazione urbanistica:
   - siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a fronte delle osservazioni dei privati interessati, configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2016, n. 1907; 20.07.2016, n. 3292; 26.07.2016, n. 3337; 24.02.2017, n. 874; 12.06.2017, n. 2822; 03.07.2017, n. 3237; 11.10.2017, n. 4707; sez. V, 10.04.2018, n. 2164; sez. IV, 28.06.2018, n. 3986; 25.06.2019; sez. II, 07.08.2019, n. 5611; sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; sez. II, 04.09.2019, n. 6086; sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; sez. II, 06.11.2019, n. 7560; 08.01.2020, n. 153; 09.01.2020, n. 161; 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 10.03.2021, n. 2056; sez. IV, 22.03.2021, n. 2410; 10.02.2022, n. 963; 21.12.2022, n. 6656; 31.01.2023, n. 1084; 02.02.2023, n. 1171; 23.02.2023, n. 1863; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.07.2016, n. 1429; 04.10.2016, n. 1803; 05.04.2017, n. 797; 16.11.2017, n. 2181; Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243; sez. II, 08.09.2016, n. 4191; Salerno, sez. II, 07.11.2022, n. 2952; 27.12.2022, n. 3663; TAR Puglia, Bari, sez. II, 10.05.2016, n. 613; TAR Piemonte, Torino, sez. II, 26.02.2016, n. 230; 15.04.2016, n. 487; sez. I, 13.05.2016, n. 657; sez. II, 07.05.2018, n. 525; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 15.03.2021, n. 246; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 04.11.2015, n. 472; 13.10.2016, n. 431; 10.08.2021, n. 247; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 21.06.2016, n. 524; TAR Emilia Romagna, Parma, 23.11.2016, n. 332; 02.01.2017, n. 1; TAR Veneto, Venezia, 03.01.2018, n. 13; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28);
   - non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius di queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di tutela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2016, n. 4666; 24.03.2017, n. 1326; 01.08.2018, n. 4734; 26.10.2018, n. 6094; 24.06.2019, n. 4297; sez. II, 08.01.2020, n. 153; 20.01.2020, n. 456; 18.05.2020, n. 3163; sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 22.03.2021, n. 2410-2422; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV, 13.10.2022, n. 8731; 06.12.2022, n. 10661; 07.12.2022, n. 10731; 02.02.2023, n. 1171; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246; 06.05.2021, n. 411; 02.09.2021, n. 780; Milano, sez. II, 22.10.2021, n. 2333; Brescia, sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 10.08.2021, n. 247; 05.07.2022, n. 307; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.09.2022, n. 11465);
   - anche laddove peggiorative del regime pregresso, non richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando giustificazione nei criteri generali di impostazione dello strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 03.02.2020, n. 844; sez. II, 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 22.03.2021, n. 2410-2422; 05.05.2021, n. 3518; sez. IV, 02.02.2023, n. 1171; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246; 06.05.2021, n. 411; 11.01.2022, n. 19; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 02.02.2023, n. 329).
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato nella loro conservazione, ravvisabile, ad es., nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV, 02.11.2022, n. 9481; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246; 02.09.2021, n. 780; sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 05.07.2022, n. 307)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2024 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità nel loro opinabile contenuto afferente al merito amministrativo.
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito (…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure, condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o di una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione o da giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione o la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non potendosi invece fondare sul generico interesse ad una migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il quisque de populo potrebbe nutrire.
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7. Passando all’esame della ulteriore serie di censure con cui le ricorrenti si dolgono della ragionevolezza e coerenza intrinseca delle scelte pianificatorie effettuate, va ricordato che, per giurisprudenza pacifica, le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l’Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità nel loro opinabile contenuto afferente al merito amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2017, n. 4707).
Con particolare riguardo alle classificazioni dei suoli che eventualmente limitino le facoltà edificatorie dei proprietari, è stato peraltro precisato che le scelte urbanistiche “sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020, n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907) (…).
Le scelte di pianificazione non sono, neppure, condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o di una sua variante, con il solo limite dell'esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un'aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; sez. IV, 01.08.2018, n. 4734; sez. IV, 12.04.2018, n. 2204; sez. IV, 25.08.2017, n. 4063) o da giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione (Cons. Stato, Sez. II, 10.07.2020, n. 4467; Sez. VI, 08.06.2020, n. 3632; sez. IV, 25.06.2019, n. 4343) o la modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. Stato Sez. II, 08.05.2020, n. 2893; Sez. IV, 30.12.2016, n. 5547)
” (Cons. Stato, Sez. II, 13.10.2021, n. 6883).
Peraltro, l’impugnazione di uno strumento urbanistico deve sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, non potendosi invece fondare sul generico interesse ad una migliore pianificazione del proprio suolo che, in quanto tale, non si differenzia dall’eguale interesse che il quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010, n. 4546; id., 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 29.11.2016, n. 2250; id., 08.10.2018, n. 2228; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 05.03.2019, n. 461; TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, n. 731/2020) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 27.12.2023 n. 7279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Collegio ricorda che la differenza tra le varianti specifiche e quelle generali al piano regolatore si fonda su di un criterio spaziale di delimitazione del potere di pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime interessano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all’esigenza di fare fronte alle sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate), le seconde consistono in una nuova disciplina generale del territorio, connessa alla stessa durata indeterminata dello strumento urbanistico e alla necessità di assoggettarlo a revisioni periodiche.
«
Ai fini della legittimità di una variante (generale o parziale) è sufficiente, sotto il profilo della motivazione e dell'istruttoria, l'accertata esistenza di problematiche, anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita della cittadinanza (quali, ad esempio, quelle relative ai parcheggi, alla viabilità, al verde pubblico etc.), evidenziando problematiche che, medio tempore, si siano aggravate, non essendo per contro necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare esigenze pubbliche».
«La variante urbanistica avente a oggetto una singola particella o un singolo immobile non è di per sé vietata a condizione che l'intervento modificativo sia comunque frutto di un esame della situazione urbanistica complessiva della zona, che dimostri la necessità dell'intervento in variante, non potendo derogarsi al principio per cui la programmazione urbanistica deve tendere alla cura integrale del territorio comunale mediante previsioni che ne favoriscano una sistemazione omogenea e ,viluppo ordinato ed armonico».
Va, inoltre, osservato che le ragioni sopravvenute, idonee a giustificare ai sensi dell'art. 10, legge 17.08.1942, n. 1150, la modifica di un piano regolatore generale, per il tramite di una variante, possono comprendere non solo il verificarsi di circostanze non esistenti al momento della redazione del piano stesso, ma anche ogni diversa valutazione di fatti e situazioni non considerati dal piano ovvero considerati in maniera successivamente palesatasi imperfetta o insufficiente. Il Comune ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare con apposite varianti, le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano regolatore.
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale essa, non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale, si è nel dettaglio chiarito che
«la variante di un piano regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate, necessita di apposita motivazione esclusivamente quando le classificazioni esistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle, non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto».

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Con un quinto mezzo di gravame Or. aveva dedotto in primo grado il difetto di motivazione della variante adottata con delibera di Giunta regionale n. 219/2013, in considerazione del fatto che la stessa, pur essendo funzionale a non consentire ulteriori edificazioni e a ridurre drasticamente i lotti residui insediabili per ragioni legate a evidenti carenze infrastrutturali (di opere a rete) e a ragioni paesistiche, ambientali e/o urbanistiche, riguardarderebbe soltanto una parte del territorio comunale e segnatamente la zona BC5.
Il motivo non è fondato.
Il Collegio ricorda che la differenza tra le varianti specifiche e quelle generali al piano regolatore si fonda su di un criterio spaziale di delimitazione del potere di pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime interessano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all’esigenza di fare fronte alle sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate), le seconde consistono in una nuova disciplina generale del territorio, connessa alla stessa durata indeterminata dello strumento urbanistico e alla necessità di assoggettarlo a revisioni periodiche.
«Ai fini della legittimità di una variante (generale o parziale) è sufficiente, sotto il profilo della motivazione e dell'istruttoria, l'accertata esistenza di problematiche, anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita della cittadinanza (quali, ad esempio, quelle relative ai parcheggi, alla viabilità, al verde pubblico etc.), evidenziando problematiche che, medio tempore, si siano aggravate, non essendo per contro necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare esigenze pubbliche» (Cons. St, sez. IV, 06.02.2002, n. 664).
«La variante urbanistica avente a oggetto una singola particella o un singolo immobile non è di per sé vietata a condizione che l'intervento modificativo sia comunque frutto di un esame della situazione urbanistica complessiva della zona, che dimostri la necessità dell'intervento in variante, non potendo derogarsi al principio per cui la programmazione urbanistica deve tendere alla cura integrale del territorio comunale mediante previsioni che ne favoriscano una sistemazione omogenea e ,viluppo ordinato ed armonico» (C. Stato, sez. IV, 02.08.2011, n. 4599).
Va, inoltre, osservato che le ragioni sopravvenute, idonee a giustificare ai sensi dell'art. 10, legge 17.08.1942, n. 1150, la modifica di un piano regolatore generale, per il tramite di una variante, possono comprendere non solo il verificarsi di circostanze non esistenti al momento della redazione del piano stesso, ma anche ogni diversa valutazione di fatti e situazioni non considerati dal piano ovvero considerati in maniera successivamente palesatasi imperfetta o insufficiente. Il Comune ha la facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare con apposite varianti, le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica, anche in relazione a specifiche zone, purché fornisca una indicazione congrua delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare e a condizione che le soluzioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento siano coerenti con i criteri d'ordine tecnico-urbanistico stabiliti per la formazione del piano regolatore (Cons. St., sez. IV, 26.01.1999, n. 74).
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell'amministrazione, cui compete il coordinamento delle esigenze che nella concreta realtà si presentano in modo articolato, con la conseguenza che, nell'adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale essa, non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e, in tale ambito, la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell'Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (cfr., tra le ultime, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2023).
Sulle orme di tale radicato insegnamento giurisprudenziale, si è nel dettaglio chiarito che
«la variante di un piano regolatore, che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate, necessita di apposita motivazione esclusivamente quando le classificazioni esistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, come quelle, non ricorrenti nella specie, derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto» (ex pluribus C. Stato, sez. V, 02.03.2009, n. 1149).
Ciò premesso, la variante di che trattasi è stata adeguatamente motivata, all’esito di un’istruttoria accurata la quale è stata ulteriormente implementata nel corso del procedimento in seguito alle richieste del CTR n. 39/2008 regionale di approfondimenti, traenti le mosse dal pericolo per il territorio e per l’ambiente della Pineta derivante dall’edificazione abnorme avvenuta in seguito all’approvazione del PRG del 2001. L’esito di tale approfondimento istruttorio sì è tradotto nella individuazione di alcuni puntuali indici di criticità per la classificazione dei lotti come edificabili o non edificabili. Sono state, in particolare, individuate le seguenti cinque categorie di criticità:
   - eccessiva acclività dei terreni tale da comportare importanti opere di sistemazione e forti movimenti di terra con eccessiva modificazione della morfologia dei siti;
   - mancanza di accessibilità dal sistema viario esistente, con conseguente necessità di creare nuovi collegamenti;
   - incompatibilità delle previsioni con le indicazioni del Piano di Bacino in presenza di criticità o pericoli (di movimenti franosi) sui versanti;
   - presenza di piante da salvaguardare perché espressione significativa di vegetazione autoctona;
   - presenza di costruzioni (box, piscine) rivelatrici dell'attuale uso come area pertinenziale di altri edifici.
Sulla scorta di tali indici di criticità, il Comune ha individuato tre diverse categorie di aree: sature; non edificabili ma dotate di indice volumetrico trasferibile ad altri lotti edificabili; edificabili ma con possibilità di ricevere un ulteriore quota di indice da trasferimenti di cubatura fino al limite previsto per ciascun lotto sulla base di un’istruttoria le cui risultanze sono state raccolte in un’apposita scheda analitica.
Muovendo dalla predetta griglia di valutazione, il comune ha proceduto a riclassificare i lotti della “Pineta”, redigendo per ognuno una scheda tecnica dettagliata che ne ha riportato: l’ubicazione; la descrizione; la compatibilità morfologica e geomorfologica; l’inquadramento da parte della Carta del dissesto; la presenza di edificazioni nel lotto e nei lotti vicini; il grado di accessibilità dalla viabilità pubblica; la documentazione fotografica.
Tale certosina attività propedeutica è stata allegata alla delibera del Consiglio comunale n. 69/2008 di riadozione della variante al piano urbanistico. L’analitica attività istruttoria passata in rassegna, letta alla luce del consolidato formante giurisprudenziale sopra richiamato, conduce a dichiarare l’infondatezza della censura in esame
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.09.2023 n. 8324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per consolidata giurisprudenza, le scelte di pianificazione urbanistica:
   - siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a fronte delle osservazioni dei privati interessati, configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello strumento urbanistico;
   - non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius di queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di tutela;
   - anche laddove peggiorative del regime pregresso, non richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando giustificazione nei criteri generali di impostazione dello strumento urbanistico.
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato nella loro conservazione, ravvisabile, ad es., nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968.
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La pianificazione territoriale «prescinde» «dalla titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di sviluppo che l’amministrazione intende perseguire.
Può dunque legittimamente accadere che un’area appartenente a un unico proprietario o costituente un unico mappale catastale sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte un altro».
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3. Deve, poi, escludersi la sussistenza dei vizi di illogicità e deficit motivazionale, asseritamente infirmanti la destinazione urbanistica riservate ad una porzione di suolo in titolarità dello S. (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.b-c).
3.1. In argomento, giova rammentare che, per consolidata giurisprudenza, le scelte di pianificazione urbanistica:
   - siccome inerenti non soltanto all'organizzazione edilizia del territorio, ma anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni di sviluppo socio-economico dello stesso, costituiscono apprezzamento di merito, connotato da ampia discrezionalità e sono, in quanto tali, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, ovvero risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio ovvero siano apertamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio; le stesse, anche a fronte delle osservazioni dei privati interessati, configurabili a guisa di meri apporti collaborativi, non necessitano, poi, di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione dello strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2012, n. 2759; 22.05.2012, n. 2952; 24.01.2013, n. 431; 26.02.2013, n. 1187; 06.05.2013, n. 2443; sez. VI, 16.05.2013, n. 2653; sez. IV, 04.06.2013, n. 3055; 18.11.2014, n. 5661; 27.04.2015, n. 2103; 14.05.2015, n. 2453; 01.09.2015, n. 4072; 12.05.2016, n. 1907; 20.07.2016, n. 3292; 26.07.2016, n. 3337; 24.02.2017, n. 874; 12.06.2017, n. 2822; 03.07.2017, n. 3237; 11.10.2017, n. 4707; sez. V, 10.04.2018, n. 2164; sez. IV, 28.06.2018, n. 3986; 25.06.2019; sez. II, 07.08.2019, n. 5611; sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; sez. II, 04.09.2019, n. 6086; sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; sez. II, 06.11.2019, n. 7560; 08.01.2020, n. 153; 09.01.2020, n. 161; 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 10.03.2021, n. 2056; sez. IV, 22.03.2021, n. 2410; 02.02.2023, n. 1171; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.07.2016, n. 1429; 04.10.2016, n. 1803; 05.04.2017, n. 797; 16.11.2017, n. 2181; Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243; sez. II, 08.09.2016, n. 4191; TAR Puglia, Bari, sez. II, 10.05.2016, n. 613; TAR Piemonte, Torino, sez. II, 26.02.2016, n. 230; 15.04.2016, n. 487; sez. I, 13.05.2016, n. 657; sez. II, 07.05.2018, n. 525; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 15.03.2021, n. 246; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 04.11.2015, n. 472; 13.10.2016, n. 431; 10.08.2021, n. 247; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 21.06.2016, n. 524; TAR Emilia Romagna, Parma, 23.11.2016, n. 332; 02.01.2017, n. 1; TAR Veneto, Venezia, 03.01.2018, n. 13; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28);
   - non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel previgente strumento urbanistico generale, di destinazioni d'uso diverse e più favorevoli, la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius di queste ultime essendo analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile e, come tale, essendo sfornita di tutela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2016, n. 4666; 24.03.2017, n. 1326; 01.08.2018, n. 4734; 26.10.2018, n. 6094; 24.06.2019, n. 4297; sez. II, 08.01.2020, n. 153; 20.01.2020, n. 456; 18.05.2020, n. 3163; sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 22.03.2021, n. 2410-2422; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV, 06.12.2022, n. 10661; 07.12.2022, n. 10731; 02.02.2023, n. 1171; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246; 06.05.2021, n. 411; 02.09.2021, n. 780; Milano, sez. II, 22.10.2021, n. 2333; Brescia, sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 10.08.2021, n. 247; 05.07.2022, n. 307);
   - anche laddove peggiorative del regime pregresso, non richiedono, quindi, una motivazione puntuale, che ponga in comparazione gli interessi pubblici perseguiti dall'ente pianificatore con quelli confliggenti dei privati, trovando giustificazione nei criteri generali di impostazione dello strumento urbanistico (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 03.02.2020, n. 844; sez. II, 04.05.2020, n. 2824; 18.05.2020, n. 3163; 22.03.2021, n. 2410-2422; sez. IV, 02.02.2023, n. 1171; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246; 06.05.2021, n. 411; 11.01.2022, n. 19).
Ciò, col solo limite della necessità di un adeguato apparato motivazionale, allorquando le pregresse destinazioni più favorevoli abbiano ingenerato un affidamento qualificato nella loro conservazione, ravvisabile, ad es., nell’emanazione di strumenti urbanistici attuativi, nella stipula di convenzioni di lottizzazione o accordi di diritto privato tra amministrazione comunale e proprietari, nella formazione di giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire, nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo ovvero nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. n. 1444/1968 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. II, 10.03.2021, n. 2056; 16.12.2021, n. 8383; sez. IV, 02.11.2022, n. 9481; TAR Umbria, Perugia, 24.01.2020, n. 28; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.09.2020, n. 627; 14.10.2020, n. 703; 15.03.2021, n. 246; 02.09.2021, n. 780; sez. II, 10.03.2022, n. 238; 11.11.2022, n. 1119; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 05.07.2022, n. 307).
...
Ciò posto, il ricorrente non può fondatamente dolersi della circostanza che la frazione di lotto controversa sia stata estrapolata dalla restante consistenza immobiliare in sua titolarità, ricadente in zona B2, “Insediamento consolidato con valore paesaggistico”, per essere classificata quale “parco” (PA).
La pianificazione territoriale «prescinde», infatti, «dalla titolarità delle aree sulle quali va ad incidere e dalla loro ripartizione ai fini catastali, avendo riguardo piuttosto alla qualità di dette aree, al contesto nel quale si inseriscono ed agli obiettivi di conservazione e/o di sviluppo che l’amministrazione intende perseguire. Può dunque legittimamente accadere che un’area appartenente a un unico proprietario o costituente un unico mappale catastale sia in parte assoggettata a un regime urbanistico e in parte un altro» (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.10.2021, n. 2354; cfr. anche TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 10.03.2021, n. 235)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.06.2023 n. 1580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ad avviso del Collegio, a fronte di un piano meramente adottato, oggetto delle osservazioni di tutti gli interessati e delle altre amministrazioni pubbliche, è da condividere la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui non può rinvenirsi un ragionevole affidamento o aspettativa da parte del privato in merito all’adozione di una particolare destinazione, nel caso in cui questi non rivesta una posizione differenziata e qualificata, la quale può sorgere solo a seguito di un piano attuativo approvato e convenzionato ovvero di un permesso di costruire già rilasciato oppure in esito ad un pronuncia giurisdizionale.
Invero, “Sul piano generale, è peraltro pacifica la peculiare rilevanza dell’interesse pubblico al mantenimento dell’ordinato assetto del territorio e al risparmio di suolo, e la sua idoneità a giustificare, nel bilanciamento degli interessi, anche l’esercizio dell’autotutela.  In tale ipotesi l’onere di motivazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati, al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio dello ius poenitendi”.
Peraltro, “«l'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza»”.
Nel caso di specie, il piano attuativo non era stato mai approvato, per cui il Comune aveva conservato piena disponibilità dei propri poteri in ambito urbanistico. L’adozione costituiva dunque esclusivamente una prima fase cui ha fatto seguito l’apertura agli apporti della collettività e delle altre amministrazioni (tra cui la Provincia, i Comitati, la Confesercenti).
Rispetto a essa, come da giurisprudenza anche di questa sezione, “l’esistenza di una precedente diversa previsione urbanistica non comporta per l'Amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti scelte operate, anche quando queste siano nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative, “dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo all'interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire; più specificamente, la mera esistenza, nella pianificazione previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in capo a quest'ultimo quell'aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe all'Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano”.
Il Collegio condivide quindi le conclusioni cui è pervenuta, conformemente alla citata giurisprudenza amministrativa, l’impugnata sentenza del TAR:
   a) pur in presenza di un provvedimento di adozione dello strumento urbanistico attuativo, non v'è obbligo per l'amministrazione di disporne l'approvazione, pure nell'ipotesi di conformità agli atti pianificatori generali essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità;
   b) è immune da tale censura il provvedimento avversato, sorretto da un più approfondito scrutinio che ha condotto all'emersione di vizi del piano attuativo che non avrebbero potuto consentirne la sua definitiva approvazione;
   c) tanto meno può essere ritenuto motivo di sviamento la circostanza che il Comune abbia tenuto conto delle osservazioni proposte dalla Provincia, da vari Comitati sorti in opposizione al progetto e dalla Confesercenti, atteso che le osservazioni dei privati svolgono pacificamente proprio tale funzione collaborativa nei riguardi dell'amministrazione alla quale possono segnalare incongruenze o illegittimità prima facie non percepite dal soggetto emanante.
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13.2.3. Quanto al motivo sub § 5.2.3., con cui l’appellante censura la violazione del principio del legittimo affidamento oltre che dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e, segnatamente, del termine ragionevole dell’annullamento, su cui la sentenza impugnata non si sarebbe pronunciata, la società fa perno sui contatti che avrebbero avuto luogo con il Comune e che avrebbero ingenerato l’affidamento circa l’esito approvativo finale.
Tuttavia, ad avviso del Collegio, a fronte di un piano meramente adottato, oggetto delle osservazioni di tutti gli interessati e delle altre amministrazioni pubbliche secondo la procedura prevista dall’art. 69 della legge regionale Toscana n. 1/2005 all’epoca vigente, è da condividere la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui non può rinvenirsi un ragionevole affidamento o aspettativa da parte del privato in merito all’adozione di una particolare destinazione, nel caso in cui questi non rivesta una posizione differenziata e qualificata, la quale può sorgere solo a seguito di un piano attuativo approvato e convenzionato ovvero di un permesso di costruire già rilasciato oppure in esito ad un pronuncia giurisdizionale (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2057 del 2022; sez. VI, n. 5292 del 2013).
Va inoltre considerato che la delibera n. 20 del 15.03.2012 (annullamento della delibera n. 56/2007 e revoca della delibera n. 86/2007) illustra in modo chiaro e analitico le plurime ragioni che ne costituiscono il fondamento.
Sul piano generale, è peraltro pacifica la peculiare rilevanza dell’interesse pubblico al mantenimento dell’ordinato assetto del territorio e al risparmio di suolo, e la sua idoneità a giustificare, nel bilanciamento degli interessi, anche l’esercizio dell’autotutela (cfr., in termini generali, relativamente agli atti di ritiro Cons. Stato, sez. IV, sentenze n. 6470 del 2021, n. 2945 del 2021, n. 293 del 2017; sez. V n. 3237 del 2015).
In tale ipotesi l’onere di motivazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati, al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio dello ius poenitendi (Cons. Stato, Ad. plen., n. 8 del 17.10.2017)
.” (Cons. Stato, sez. IV, n. 2057/2022).
Peraltro, “«l'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza» -Cons. Stato Sez. IV, 19.09.2012, n. 4977)” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 1479/2013).
Nel caso di specie, il piano attuativo non era stato mai approvato, per cui il Comune aveva conservato piena disponibilità dei propri poteri in ambito urbanistico.
L’adozione costituiva dunque esclusivamente una prima fase cui ha fatto seguito l’apertura agli apporti della collettività e delle altre amministrazioni (tra cui la Provincia, i Comitati, la Confesercenti). Rispetto a essa, come da giurisprudenza anche di questa sezione, “l’esistenza di una precedente diversa previsione urbanistica non comporta per l'Amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti scelte operate, anche quando queste siano nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative, “dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo all'interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire; più specificamente, la mera esistenza, nella pianificazione previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in capo a quest'ultimo quell'aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe all'Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano” (così, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, n. 5547)” (Cons. Stato, sez. IV, n. 135 del 2021).
Il Collegio condivide quindi le conclusioni cui è pervenuta, conformemente alla citata giurisprudenza amministrativa, l’impugnata sentenza del TAR:
   a) pur in presenza di un provvedimento di adozione dello strumento urbanistico attuativo, non v'è obbligo per l'amministrazione di disporne l'approvazione, pure nell'ipotesi di conformità agli atti pianificatori generali essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.09.2012, n. 4977);
   b) è immune da tale censura il provvedimento avversato, sorretto da un più approfondito scrutinio che ha condotto all'emersione di vizi del piano attuativo che non avrebbero potuto consentirne la sua definitiva approvazione;
   c) tanto meno può essere ritenuto motivo di sviamento la circostanza che il Comune abbia tenuto conto delle osservazioni proposte dalla Provincia, da vari Comitati sorti in opposizione al progetto e dalla Confesercenti, atteso che le osservazioni dei privati svolgono pacificamente proprio tale funzione collaborativa nei riguardi dell'amministrazione alla quale possono segnalare incongruenze o illegittimità prima facie non percepite dal soggetto emanante.
Né può assegnarsi rilievo determinante alla censura relativa alla omessa pronuncia da parte del Tar in ordine alla violazione del termine ragionevole di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990. Infatti, la sentenza del Tar illustra ampiamente le ragioni per cui ritiene che la delibera di annullamento dell’adozione del piano attuativo sia esente dalle censure sollevate.
Il fatto che il Tar non abbia ripercorso con analitica puntualità le argomentazioni della ricorrente non implica che la pronuncia sia stata viziata da omissione bensì che, per quanto possibile, vi sia stato uno sforzo di sintesi, in ossequio al principio di sinteticità degli atti di cui all’art. 3 c.p.a.
Nel processo amministrativo, l'omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112 c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo il quale l'omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile (ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 01.06.2020, n. 3422; Cons. Stato, sez. V, n. 9800/2022).
E peraltro, “l'omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale è vizio dell'impugnata sentenza che non ne determina ex se la riforma, essendo il giudice di appello legittimato a eliminare detto vizio, integrando la motivazione carente” (Consiglio di Stato sez. V, n. 1223 del 2022).
In una prospettiva sostanzialistica, non si può dubitare del fatto che la disposizione ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990 miri a tutelare il privato in modo da evitare che debba soggiacere a un tempus poenitendi sostanzialmente illimitato. Tuttavia, nel caso di specie non sussiste un tale rischio dal momento che, come si è visto, nessun affidamento era maturato in capo alla -OMISSIS-, in ragione della mancata approvazione del piano. A riprova -come ha congruamente osservato controparte comunale- il Comune di -OMISSIS- avrebbe comunque potuto concludere il procedimento in questione con provvedimento espresso di diniego di approvazione del piano attuativo, senza che il trascorrere del tempo inficiasse sulla legittimità dell’esercizio del potere. Di qui l’infondatezza della censura di controparte.
Né gli approfondimenti istruttori svolti dalla società con gli uffici comunali nel corso del tempo, di cui al § 5.2.3.2., possono condurre al riconoscimento di un affidamento giuridicamente tutelabile, mentre sfuggono alla verifica di legittimità di questo giudice gli argomenti metagiuridici svolti dalla società appellante circa la volontà del Comune di dare una “spallata” al piano della -OMISSIS-, “divenuto evidentemente scomodo”.
13.2.4. Per analoghe ragioni vanno disattese le censure con cui la società rileva che le sue osservazioni in sede di controdeduzioni non sarebbero state correttamente e compiutamente esaminate dall’amministrazione. A ben vedere, infatti, le osservazioni in questione non facevano altro che svolgere i medesimi argomenti già ripercorsi, quali, ad esempio, il carattere non vincolante delle previsioni della scheda grafica e la non necessità della acquisizione delle aree comunali.
La sentenza del Tar, oltre ad essersi pronunciata sull’infondatezza delle osservazioni in questione, ha correttamente rilevato che non si è fornita in questa sede la prova che il provvedimento impugnato avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello poi effettivamente adottato.
13.2.5. A quanto esposto consegue anche il rigetto dei motivi riferiti all’annullamento della delibera del commissario straordinario n. 86 del 07.06.2007, relativa alla vendita alla -OMISSIS- delle aree di proprietà comunale ricomprese nel progetto di piano attuativo, in quanto basati sull'asserita illegittimità dell'annullamento d'ufficio della delibera commissariale n. 56/2007 senza che alcuna censura specifica fosse rivolta nei confronti del corrispondente capo della sentenza. L’infondatezza consegue in via derivata da quanto già esposto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2022 n. 10662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, vanno richiamati e confermati i consolidati principi  secondo cui:
   - le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità;
   - in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’Amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso.
In questo caso viene in considerazione una aspettativa generica del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspira ad una utilizzazione più proficua del proprio immobile.
Inoltre:
   - l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti;
   - una destinazione di zona precedentemente impressa non determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo P.R.G., conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute;
   - la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all'atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall'amministrazione comunale.
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13.3. Analogamente sono infondati i motivi dell’appello rivolti contro la delibera consiliare n. 19/2012 (v. sopra § 5.3.), con cui è stata approvata la Variante straordinaria al R.U. di salvaguardia del P.S., già adottata con deliberazione n. 2/2011, con modifiche che avrebbero privato i terreni della -OMISSIS- delle capacità edificatorie e delle destinazioni residenziali/commerciali/direzionali/ricettive precedentemente ammesse, in lesione (in tesi) dell’affidamento dell’interessata.
In ordine alla pretesa violazione del principio del legittimo affidamento, valgono anche in questo caso le considerazioni già svolte circa l’insussistenza di un legittimo affidamento giuridicamente tutelabile, ingenerato nella società interessata dalla mera adozione del piano attuativo e in assenza dell’approvazione del medesimo e della relativa convenzione attuativa.
L’affidamento non può conseguire dal fatto che le previsioni del PN5 fossero state confermate in sede di adozione della Variante al R.U., sia per l’ampia discrezionalità di cui gode l’amministrazione nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali del regolamento urbanistico sia per l’assenza di vincoli specifici di motivazione.
In linea generale, vanno richiamati e confermati i consolidati principi (sintetizzati nella recente sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 7977 del 2022) secondo cui:
   - le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità;
   - in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell’Amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell’impostazione del piano stesso (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 22.12.1999, n. 24, nonché, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6483; 28.06.2018, n. 3987).
In questo caso viene in considerazione una aspettativa generica del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspira ad una utilizzazione più proficua del proprio immobile.
Inoltre:
   - l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710);
   - una destinazione di zona precedentemente impressa non determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo P.R.G., conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016, n. 2221; 08.06.2011, n. 3497);
   - la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all'atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall'amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2014, n. 1459).
Coerentemente con tale impostazione si è espresso anche il Tar con la sentenza impugnata. Il fatto che le previsioni del PN5 fossero state confermate in sede di variante adottata non produce di per sé alcun effetto di affidamento, atteso che la stessa Variante deve essere sottoposta al riesame del Consiglio comunale.
E d’altronde, non si vedono ragioni per discostarsi dai rilievi della sentenza impugnata che, in adesione alle tesi di controparte comunale, anche la variante adottata non configurava neanche una riconferma pura e semplice, essendo presenti (come si desume dalla scheda normativa del PN 5 - Parco di Sant’Anna (pag. 170 delle n.t.a. della Variante al R.U. adottata) una serie di specifiche misure di mitigazione e compensazione volte a garantire la sostenibilità degli interventi previsti da ritenersi vincolanti ai fini della definitiva approvazione dello stesso piano attuativo.
Tali misure avrebbero richiesto la presentazione di un progetto nuovo da parte della -OMISSIS- in ordine al quale l’Amministrazione avrebbe dovuto poi svolgere le proprie valutazioni di carattere tecnico-discrezionale circa il completo ed esaustivo rispetto delle stesse (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2022 n. 10662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla scelta del Comune di non approvare una variante urbanistica gradita ad un operatore economico.
Giova, in proposito, richiamare i consolidati principi sulla natura delle scelte pianificatorie e sui limiti del sindacato giurisdizionale.
“Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito.
L'esercizio della discrezionalità riguarda, inoltre, non soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico.
Il potere di pianificazione, infatti, è considerato espressione di un potere ampio e funzionalizzato di "governo del territorio" discendente direttamente dalla indicazione prevista dall'art. 117, comma 3, della Costituzione, che si esplica non solo nella individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale e della disciplina della edificazione dei suoli, ma in tutte le modalità di utilizzo delle aree, nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati. L'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”.
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3. Il motivo non è fondato.
Non costituisce motivo di illegittimità della delibera di non approvazione della variante la incontestata coerenza della proposta con il PAT. La compatibilità con il PAT avrebbe costituito, ove fosse stata approvata, un necessario presupposto di legittimità della variante, ma non costituiva anche un vincolo per l’amministrazione ad approvarla. Il PAT definisce, infatti, le scelte strategiche di sviluppo del territorio, ma, di regola (e comunque non nel caso di specie), non impone anche le tempistiche della loro realizzazione, che restano rimesse alla discrezionalità dell’organo consiliare.
Nel caso di specie, in particolare, la non approvazione è stata conseguenza del dibattito che si è sviluppato su un’osservazione presentata da talune sigle sindacali dei lavoratori di Be.. La scelta finale, pertanto, ha costituito un possibile e fisiologico sviluppo delle valutazioni degli interessi contrapposti che attengono all’uso del territorio il cui momento di emersione ben può condensarsi nella fase dell’analisi delle osservazioni, che costituiscono il principale strumento partecipativo della collettività locale alla formazione delle scelte pianificatorie.
Infine l’affermazione secondo cui l’osservazione si fondava sull’errato presupposto che l’approvazione della variante avrebbe avuto un immediato effetto conformativo non trova riscontro nel testo della stessa, che, si esprime, nella sostanza, in termini prospettici (“l’inserimento di una scheda a supporto di un futuro accordo pubblico-privato nell’area dell’azienda produttiva, compromette immediatamente la destinazione produttiva dell’area e della stessa Azienda, lasciando immediatamente intravvedere (ed incoraggiando tale visione) la possibilità di un diverso utilizzo (sfruttamento) dell’area”).
Ma ciò che più rileva è che il Comune aveva ben presente il contenuto della variante e che le ragioni per le quali essa non è stata approvata risiedono negli approfondimenti successivi dallo stesso promossi sulle prospettive di sviluppo aziendale delle ricorrenti che sarebbero rimasti –stando a quanto si legge nel verbale della discussione che ha preceduto la votazione della delibera impugnata– privi di sufficiente riscontro.
Nella discussione che ha preceduto la delibera di non approvazione il Sindaco ha affermato: “Questa variante è stata più volte esaminata sia nelle commissioni e sia nel Consiglio Comunale precedente dove su mia proposta è stata rinviata in attesa che la proprietà riempisse di contenuti le osservazioni presentate ancora in fase di approvazione al piano degli interventi. Devo dire che non ho avuto la possibilità di raccogliere questo tipo di contenuti da parte della ditta Be., nel senso che non ho ricevuto in qualche modo anche abbozzata qual è la volontà dell’azienda e quindi che ha fatto scaturire le osservazioni che poi abbiamo approvato ancora l’anno scorso.”.
E ancora: “In buona sostanza dal punto di vista tecnico come abbiamo già altre volte occasione di esplicare l’osservazione proposta sia dalla ditta Be. che dalla ditta Vi. è congruente al piano di assetto territoriale che è il piano urbanistico sovraordinato nel nostro territorio. La visione del piano di assetto territoriale prevedeva nel tempo una trasformazione di quell’area, è chiaro in un tempo non ben definito essendo uno strumento sovraordinato. Sono altre caratteristiche però che mi hanno fatto riflettere e poi arrivare a questo parere che in realtà dice che si può fare una cosa e si può farne anche un’altra.
E allora però se si deve farne anche un’altra bisogna che ci siano dei contenuti, il tempo per i contenuti c’è stato, il tempo per la discussione c’è stato, non abbiamo ricevuto i contenuti e non voglio assolutamente che una futura amministrazione si trovi in difficoltà qualora gli arrivi una proposta di accordo pubblico–privato contenente anche un cambio di destinazione d’uso
”.
La ragione della mancata approvazione della variante risiede, quindi, nell’assenza di chiarezza sulle prospettive che le società intendevano perseguire con essa e, di conseguenza, nella impossibilità di valutare in modo pieno la rispondenza al pubblico interesse della scelta pianificatoria proposta.
L’amministrazione, in sostanza, ha accordato prevalenza -nel dubbio sui reali programmi di sviluppo industriale delle società istanti– ad un’esigenza di chiarezza e di certezza sulle future utilizzazioni dell’area.
Si tratta di valutazioni coerenti con la natura del potere esercitato e rientranti nel novero delle scelte che legittimamente il Comune poteva compiere, non palesandosi affette da profili di macroscopica irragionevolezza.
Infatti, il sostegno e la promozione delle attività produttive del territorio certamente costituiscono finalità coerenti con i possibili obiettivi della pianificazione urbanistica, ma i contenuti e le modalità con cui esse devono inverarsi e il contemperamento delle stesse con gli altri usi del territorio e con gli interessi pubblici e privati contrapposti afferiscono al merito dell’attività amministrativa, se non all’attività politica, e non sono sindacabili, ove non palesemente illogiche.
La scelta del Comune di non approvare una variante gradita ad un operatore economico, sia pure importante per la realtà territoriale, le cui implicazioni, tuttavia, non apparivano del tutto chiare, non può ritenersi viziata da illogicità.
Giova, in proposito, richiamare i consolidati principi sulla natura delle scelte pianificatorie e sui limiti del sindacato giurisdizionale.
Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono il frutto di complesse valutazioni tecniche e amministrative, riservate al livello politico; in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni istituzionali, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tali regole solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, mentre il sindacato giurisdizionale su tali valutazioni è di carattere estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, essendo invece estraneo al sindacato giurisdizionale l'apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.04.2020, n. 2284; 31.12.2019, n. 8917; 12.05.2016, n. 1907).
L'esercizio della discrezionalità riguarda, inoltre, non soltanto scelte strettamente inerenti all'organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2018 n. 4734; id. 26.10.2018, n. 6106).
Il potere di pianificazione, infatti, è considerato espressione di un potere ampio e funzionalizzato di "governo del territorio" discendente direttamente dalla indicazione prevista dall'art. 117, comma 3, della Costituzione, che si esplica non solo nella individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale e della disciplina della edificazione dei suoli, ma in tutte le modalità di utilizzo delle aree, nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati. L'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo (Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2017, n. 821; id. 01.06.2018, n. 3314, Sez. II, 20.12.2019, n. 8631; id. 14.11.2019, n. 7839).
” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.08.2022 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Come evidenziato dalla costante giurisprudenza della Sezione, “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria”.
La Sezione rileva che, della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute. In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, co. 7, della L.r. n. 12 del 2005.
Ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori.
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3. Con il primo motivo si assume la tardività dell’adozione della variante (rispetto al termine di 90 giorni dalla scadenza del termine ultimo per la presentazione delle osservazioni allo strumento adottato di cui all’art. 13, co. 7, l.r. n. 12/2005) e, per ciò stesso, la sua illegittimità. La deliberazione n. 32/2017, al contrario, sarebbe stata approvata dopo la scadenza del citato termine di legge di novanta giorni.
Sul punto si osserva che, come evidenziato dalla costante giurisprudenza della Sezione, che il Collegio condivide (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 28.12.2020, n. 2613), “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508)”.
La Sezione rileva che, della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute. In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, co. 7, della L.r. n. 12 del 2005.
Ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori (cfr.: TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 22.1.2019, n. 122; Id., 10.12.2018, n. 2761; Id., 30.3.2017, n. 761; Id., 26.5.2016, n. 1097; cfr., da ultimo, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 10.2.2021, 374; Id., 26.11.2021, n. 2622).
Le assorbenti considerazioni esposte conducono, quindi, alla reiezione del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse.
L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le ‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà”.
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4. Con il secondo motivo, si lamenta che, nonostante l’adozione di modifiche sostanziali anche al Piano delle Regole ed al Piano dei Servizi, l’aggiornamento sarebbe stato svolto senza alcuna verifica ambientale strategica, dunque in violazione dell’art. 4, co. 2-bis, l.r. n. 12/2005 che prescrive espressamente che “le varianti al piano dei servizi, di cui all’articolo 9, e al piano delle regole, di cui all’articolo 10, sono soggette a verifica di assoggettabilità a VAS, fatte salve le fattispecie previste per l’applicazione della VAS di cui all’articolo 6, commi 2 e 6, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale)”.
Come eccepito dal Comune resistente, il motivo è inammissibile e infondato.
4.1. Anzitutto, non è stato allegato né dimostrato dai ricorrenti se e in quale misura le doglianze relative alla fase di Vas incidano sul “regime” riservato ai suoli di loro proprietà.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse. L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le ‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà” (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.11.2016 n. 2140).
4.2. In ogni caso, il motivo è anche infondato per assenza di vizi illogicità o di travisamento nella decisione di esclusione.
Il documento di piano sottoposto a Vas contemplava l’area della ricorrente (denominata “Golfo Agricolo”); a fronte di tale Vas sono stati necessari adeguamenti al piano dei servizi ed a quello delle regole, per i quali però l’amministrazione ha deciso di chiedere un parere motivato circa l’assoggettamento a Vas anche delle citate modifiche al PdS e al PdR (cfr. la deliberazione di Giunta n. 151/2016).
Con parere del marzo 2017 l’Autorità Competente per la Vas ha escluso l’assoggettamento alla stessa Vas delle modifiche ai due citati piani, in quanto gli elementi di novità non erano tali da determinare la necessità di una nuova procedura di verifica. Si tratta di un parere estremamente articolato ed analitico, fra l’altro espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa delle Autorità preposte alla Vas, parere nel quale non si ravvisano evidenti errori o palesi illogicità (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, la destinazione agricola non implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive di edificazione.
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6. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono che il Comune non avrebbe considerato, nell’assegnazione della destinazione all’area, lo stato effettivo dei luoghi, poiché erano state effettuate delle opere di piantumazione preventiva durante la vigenza del previgente Pgt, che determinerebbero la compromissione irrimediabile della possibilità di uno sfruttamento agricolo del suolo.
Il motivo è infondato.
Sul punto, si osserva che, secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, condiviso anche dalla scrivente Sezione, la destinazione agricola non implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive di edificazione (cfr. la già richiamata sentenza di questa Sezione n. 62/2022, pronunciata in una causa contro lo stesso Comune di Segrate, nonché TAR Campania, Napoli, Sez. II, 30.05.2018, n. 3563; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 11.06.2013, n. 1502).
Ne consegue che l’avvenuta piantumazione non preclude l’assegnazione di una destinazione prevalentemente agricola al comparto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”.
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Con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area il Consiglio di Stato ha ribadito
   - che “
le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e
   - che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
Sicché, le valutazioni di merito compiute dall’amministrazione nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono quindi sindacabili in sede giurisdizionale, se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza.
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8. Con il sesto motivo, si deduce che il Comune non avrebbe valutato in alcun modo la sostenibilità economica delle politiche di intervento e delle scelte pianificatorie concretamente approvate: le previsioni relative all’attuazione del parco agricolo sarebbero generiche e non darebbero conto delle modalità di finanziamento e attuazione dei servizi in progetto.
Come dedotto dalla difesa comunale, il motivo è inammissibile per la parte in cui è volto a censurare nel merito le valutazioni operate dall’amministrazione comunale, senza dedurre illogicità o irragionevolezza delle scelte effettuate, unico ambito di sindacabilità delle scelte discrezionali del Comune.
In linea generale, va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id., 09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01.2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id., 05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area –nemmeno avvenuta nel caso di specie, posto che la previsione precedente è stata annullata in via giurisdizionale-, il Consiglio di Stato, in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto, ha ribadito, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “
le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Come già osservato, le valutazioni di merito compiute dall’amministrazione nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono quindi sindacabili in sede giurisdizionale, se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sul rapporto della pianificazione comunale con il PTCP.
Il sistema della pianificazione territoriale urbanistica successivo alla riforma costituzionale del 2001, caratterizzato dalle leggi regionali c.d. di "seconda generazione" si presenta in maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge urbanistica del 1942. Esso risponde, cioè, ad una visione meno "gerarchica" e più armonica, che vede nella leale collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici principi ispiratori delle scelte.
La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello regionale sia provinciale, si connota pertanto per una natura "mista" relativamente a contenuti -prescrittivi, di indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati.
La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più nel solo tradizionale piano regolatore generale, ma presenta un'articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti tra il profilo strutturale e quello operativo, e si connota per l'intersecarsi di disposizioni volte ad una programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo socio-economico dell'intero contesto.
L'atto rimesso alla competenza dell'Ente sovraordinato (tipicamente, la Provincia), in quanto rivolto ad un ambito territoriale più ampio, non può che essere destinato ad indirizzare per linee generali le scelte degli enti territoriali, nel pieno rispetto dell'allocazione delle stesse, secondo il richiamato principio di sussidiarietà, al livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce, rispondendo all'obiettivo di valorizzare le peculiarità storiche, economiche e culturali locali e insieme assicurare il principio di adeguatezza ed efficacia dell'azione amministrativa.
Nell’impostazione articolata e flessibile del sistema della pianificazione territoriale, cioè, tipicamente strutturata su vari livelli, esso si colloca "a monte", quale inquadramento degli elementi strutturali, delle reti e delle strategie, dalle quali è evidente che il Comune non può prescindere.
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5. Sul rapporto con il PTCP, il Consiglio di Stato, sez. II – 15/10/2020 n. 6263 ha evidenziato che <<Il sistema della pianificazione territoriale urbanistica successivo alla riforma costituzionale del 2001, caratterizzato dalle leggi regionali c.d. di "seconda generazione" si presenta in maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge urbanistica del 1942. Esso risponde, cioè, ad una visione meno "gerarchica" e più armonica, che vede nella leale collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici principi ispiratori delle scelte.
La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello regionale sia provinciale, si connota pertanto per una natura "mista" relativamente a contenuti -prescrittivi, di indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati.
La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più nel solo tradizionale piano regolatore generale, ma presenta un'articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti tra il profilo strutturale e quello operativo, e si connota per l'intersecarsi di disposizioni volte ad una programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo socio-economico dell'intero contesto.
L'atto rimesso alla competenza dell'Ente sovraordinato (tipicamente, la Provincia), in quanto rivolto ad un ambito territoriale più ampio, non può che essere destinato ad indirizzare per linee generali le scelte degli enti territoriali, nel pieno rispetto dell'allocazione delle stesse, secondo il richiamato principio di sussidiarietà, al livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce, rispondendo all'obiettivo di valorizzare le peculiarità storiche, economiche e culturali locali e insieme assicurare il principio di adeguatezza ed efficacia dell'azione amministrativa.
Nell’impostazione articolata e flessibile del sistema della pianificazione territoriale, cioè, tipicamente strutturata su vari livelli, esso si colloca "a monte", quale inquadramento degli elementi strutturali, delle reti e delle strategie, dalle quali è evidente che il Comune non può prescindere
>> (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 09.03.2022 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo i consolidati principi giurisprudenziali in tema di pianificazione urbanistica:
   “- le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate;
   - il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e zone (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti;
   - l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata"; (…)
   - la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa "zonizzazione" dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo".
Ulteriormente va ribadito che la destinazione impressa dal previgente strumento urbanistico a una determinata area non costituisce, di per sé, un vincolo alla successiva pianificazione, atteso che "l'Amministrazione gode di un'ampia discrezionalità nell'effettuazione delle proprie scelte, che relega l'interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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In punto di motivazione va evidenziato, inoltre, che il ricorrente non è titolare di un’aspettativa qualificata ad evitare un’eventuale reformatio in peius della classificazione dell’area di proprietà, sicché, anche sotto tale profilo, il Comune non era gravato da un onere di motivazione puntuale delle scelte urbanistiche.
Secondo i consolidati principi giurisprudenziali in tema di pianificazione urbanistica, recentemente richiamati anche da questo giudice, infatti:
   “- le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014, n. 1871);
   - il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e zone (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2017, n. 821);
   - l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5478); (…)
   - la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa "zonizzazione" dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)
." (Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2018, n. 2780).
Ulteriormente va ribadito che la destinazione impressa dal previgente strumento urbanistico a una determinata area non costituisce, di per sé, un vincolo alla successiva pianificazione, atteso che "l'Amministrazione gode di un'ampia discrezionalità nell'effettuazione delle proprie scelte, che relega l'interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393)." (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 07.07.2020, n. 1291).” (TAR Lombardia, Brescia Sez. I, 05.05.2021, n. 407) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.05.2021 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Rapporto tra PTCP e PGT.
Va evidenziato come l’art. 2, co. 3, della L.r. n. 12 del 2005 si limiti a disporre che “i piani si uniformano al criterio della sostenibilità, intesa come la garanzia di uguale possibilità di crescita del benessere dei cittadini e di salvaguardia dei diritti delle future generazioni”.
La norma si ispira al principio dello sviluppo sostenibile, e non impone certo di prevedere sempre, nei piani, la possibilità di incrementare le sfruttamento edilizio del territorio. Anzi, a ben guardare, essa dice proprio l’opposto, e cioè che occorre evitare nuovo sfruttamento qualora questo sia pregiudizievole per i diritti delle future generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei cittadini non deve per forza conseguirsi attraverso il consumo di nuovo suolo, ben potendo esservi esigenze attuali che consiglino invece di dare prevalenza all’interesse alla preservazione dell’ambiente e del paesaggio.
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In base all’art. 2, co. 4, della l.r. n. 12/2005, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che, ai sensi della stessa legge, abbiano efficacia prevalente e vincolante.
Il modello delineato dalla legge regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio.
Ciò naturalmente non può azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui partecipazione deve essere, quindi, assicurata e non può essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive.
...
Nel caso di specie, la Provincia di Monza e della Brianza non comprime, tuttavia, in modo arbitrario il potere di pianificazione urbanistica spettante ai Comuni.
Come già evidenziato da questa Sezione in plurime occasioni, le previsioni riguardanti la Rete verde di ricomposizione paesaggistica, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle “previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla lett. a) dell’art. 18, co. 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione di tutti gli strumenti di pianificazione urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure generali” di tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre “previsioni conformative di maggiore definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”.
La disposizione normativa non contiene, invero, alcun riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e “valori paesaggistici” indicati dal P.T.R..
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali, riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R. D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15 della l.r. n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici.
...
L’individuazione degli ambiti destinati a far parte della Rete verde costituisce oltretutto scelta che involge interessi di carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province.
Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale anche in relazione alla finalità di tutela ambientale e paesaggistica.
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10. Con il primo motivo la ricorrente assume che, nella predisposizione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza, non siano tenuti in debita considerazione i principi generali di sussidiarietà, adeguatezza, partecipazione, collaborazione, efficienza e sostenibilità poiché i riferimenti statistici da cui sarebbero ricavate le varie prescrizioni vincolanti sarebbero contenuti in studi non aggiornati –riguardando un periodo che va dal 2001 al 2009– e quindi non congruenti con gli atti pianificatori comunali successivamente approvati.
10.1. La doglianza è infondata.
10.2. Pur essendo veritiera la circostanza che i riferimenti statistici contenuti in una parte della relazione accompagnatoria del P.T.C.P. –utilizzati dalla Provincia per verificare quale potrebbe essere, nel periodo di vigenza del Piano, la domanda di nuove abitazioni– sono ricavati analizzando il periodo ricompreso fra gli anni 2001 e 2009, nondimeno ciò non può far desumere in maniera automatica che il Piano sia stato elaborato, nel suo complesso, sulla base di dati obsoleti.
10.3. Difatti, va evidenziato come il Piano, approvato nel 2013 e adottato nell’anno 2011, richieda l’avvio di un iter procedimentale di molto anteriore al periodo di approvazione, in modo da consentire agli uffici di elaborare le scelte conseguenti. Oltretutto, ciò non esclude che la Provincia tenga conto, nel corso del procedimento, degli sviluppi successivi basando le decisioni su dati per quanto possibile aggiornati (così, sulla specifica questione, TAR per la Lombardia – sede di Milano, II, 23.09.2016, n. 1700; Id, 19.6. 2015, n. 1432).
10.4. Anche con riguardo all’asserita violazione del criterio della sostenibilità che impedirebbe lo sviluppo dell’edificato esistente, va evidenziato come l’art. 2, co. 3, della L.r. n. 12 del 2005 si limiti a disporre che “i piani si uniformano al criterio della sostenibilità, intesa come la garanzia di uguale possibilità di crescita del benessere dei cittadini e di salvaguardia dei diritti delle future generazioni”.
La norma si ispira al principio dello sviluppo sostenibile, e non impone certo di prevedere sempre, nei piani, la possibilità di incrementare le sfruttamento edilizio del territorio. Anzi, a ben guardare, essa dice proprio l’opposto, e cioè che occorre evitare nuovo sfruttamento qualora questo sia pregiudizievole per i diritti delle future generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei cittadini non deve per forza conseguirsi attraverso il consumo di nuovo suolo, ben potendo esservi esigenze attuali che consiglino invece di dare prevalenza all’interesse alla preservazione dell’ambiente e del paesaggio (TAR Lombardia, Milano, II, 23.09.2016, n. 1700; 19.06.2015, n. 1432; 10.09.2014, n. 2343).
11. Con la seconda doglianza e parte della terza, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si deduce che la Provincia detterebbe una disciplina eccessivamente invasiva, così da comprimere illegittimamente le prerogative comunali, in violazione degli artt. 15, 17 e 18 della legge regionale n. 12 del 2005.
11.1. Le doglianze sono infondate.
11.2. In base all’art. 2, co. 4, della legge regionale n. 12 del 2005, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che, ai sensi della stessa legge, abbiano efficacia prevalente e vincolante.
Il modello delineato dalla legge regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio.
Ciò naturalmente non può azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui partecipazione deve essere, quindi, assicurata e non può essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive.
11.3. Nel caso di specie, la Provincia di Monza e della Brianza non comprime, tuttavia, in modo arbitrario il potere di pianificazione urbanistica spettante ai Comuni.
Come già evidenziato da questa Sezione in plurime occasioni (sentenze 23.07.2020, n. 1433; 16.03.2020, n. 489; 30.06.2017, n. 1474; 15.12.2017, n. 2394), le previsioni riguardanti la Rete verde di ricomposizione paesaggistica, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle “previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla lett. a) dell’art. 18, co. 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione di tutti gli strumenti di pianificazione urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure generali” di tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre “previsioni conformative di maggiore definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”.
La disposizione normativa non contiene, invero, alcun riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e “valori paesaggistici” indicati dal P.T.R. (cfr. sul punto in maniera specifica, TAR per la Lombardia - sede di Milano, Sez. II, 30.6.2017, n. 1474).
11.4 Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali, riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R. D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’articolo 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici (cfr.: TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 08.10.2014, n. 2423).
11.5. L’individuazione degli ambiti destinati a far parte della Rete verde costituisce oltretutto scelta che involge interessi di carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province.
Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.01.2020, n. 379; TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 23.07.2020, n. 1433; Id., 30.06.2017, n. 1474; Id., 05.04.2017, n. 798).
11.6. Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis, Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale anche in relazione alla finalità di tutela ambientale e paesaggistica (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.04.2021 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più in generale, dagli atti del procedimento.
Oltretutto l’individuazione degli ambiti da ricomprendere nella rete verde e nei correlati corridoi non è vincolata dai contenuti degli strumenti urbanistici comunali, ma ad essi si sovrappone e rappresenta una valutazione di merito affidata alla Provincia.
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In materia urbanistica non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dalla ricorrente attengano al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede.
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12. Con la quinta censura si assume che attraverso l’art. 32 delle N.T.A. del P.T.C.P. siano disciplinate tutte le aree ricomprese nel corridoio trasversale della rete verde, in cui sarebbe incluso anche il tracciato dell’Autostrada Pedemontana, provocando in tal modo una frattura del territorio comunale avente una ampiezza di circa due km che imporrebbe, senza alcun coinvolgimento dei Comuni interessati, la delocalizzazione delle attività ivi esistenti.
12.1. La doglianza è infondata.
12.2. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.01.2020, n. 379), potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più in generale, dagli atti del procedimento (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3987); oltretutto l’individuazione degli ambiti da ricomprendere nella rete verde e nei correlati corridoi non è vincolata dai contenuti degli strumenti urbanistici comunali, ma ad essi si sovrappone e rappresenta una valutazione di merito affidata alla Provincia (cfr., sugli Ambiti agricoli strategici, Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.11.2018, nn. 6483 e 6484).
12.3. Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia (v. supra, punto 11.6).
Del resto, nella Relazione di Piano si sottolinea come il P.T.C.P. abbia l’obiettivo di rilanciare i processi di sviluppo a partire da un utilizzo più razionale, ordinato e consapevole delle risorse territoriali disponibili, anche attraverso una razionalizzazione degli insediamenti produttivi.
A questo fine “il PTCP propone di verificare le condizioni di compatibilità di un insediamento produttivo secondo tre parametri: compatibilità urbanistica, (riguarda i rapporti tra l’insediamento produttivo e i tessuti urbani e residenziali circostanti), compatibilità logistica (presuppone la possibilità, per quelle attività produttive che generano flussi significativi di traffico pesante e/o flussi di traffico leggero ad ampio raggio, di accedere alla rete stradale primaria e alle piattaforme logistiche intermodali senza attraversare centri abitati e zone residenziali) e compatibilità ambientale-paesaggistica (collocazione dell’insediamento produttivo nei confronti di zone di pregio ambientale o paesaggistico)”.
Quindi “la rete verde provinciale di ricomposizione paesaggistica, rappresentata nella Tavola 6a, identifica un sistema integrato di spazi aperti di varia natura e qualificazione, ambiti boschivi e alberati. In quanto tale essa assume un valore strategico nell’insieme delle proposte del PTCP proponendosi di riqualificare i paesaggi rurali, urbani e periurbani, di valorizzare le loro componenti ecologiche, naturali e storico-culturali, di contenere il consumo di suolo e la sua eccessiva impermeabilizzazione, di promuovere la fruizione del paesaggio” (sul punto specifico, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 23.07.2020, n. 1433).
Inoltre, “l’obiettivo di ricucire un varco ‘verde’ di protezione paesaggistica ed ecologica assume dunque qui particolare importanza, non solo come elemento di conservazione ma anche di possibile stimolo a un recupero di aree urbane di frangia, degradate o malamente utilizzate. Si è pertanto identificato un ‘corridoio trasversale’ che risponde ai requisiti della Rete Ecologica Provinciale e, di conseguenza, Regionale avente come estremi il Parco delle Groane e il Parco dell’Adda Nord” (Relazione di Piano, pag. 114).
12.4. In ordine, poi, al deteriore trattamento rispetto al Piano adottato, nel caso di specie pare applicabile, a fortiori, l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dalla ricorrente attengano al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 10.12.2019, n. 2636; 20.08.2019, n. 1896).
12.5. Peraltro, all’atto dell’adozione del P.T.C.P., l’area di proprietà della ricorrente, sebbene già edificata, non è assoggettata a previsione di Ambito di trasformazione dal Documento di Piano del P.G.T. del Comune di Desio e quindi non risulta interessata dalla specifica norma avente valore prescrittivo e prevalente di cui al comma 3 dell’art. 32 delle N.T.A. del P.T.C.P. (riguardante, tra l’altro, la salvaguardia e valorizzazione da un punto di vista paesaggistico/ambientale delle aree verdi libere contermini all’infrastruttura autostradale e il contenimento del consumo di suolo); di contro, essendo il predetto compendio assoggettato alle disposizioni del Piano delle regole del P.G.T., ai sensi del comma 3.a dell’art. 31 delle N.T.A. del P.T.C.P., ne deriva la perduranza delle previsioni del P.G.T. del Comune Desio vigenti all’adozione del P.T.C.P., con la possibilità di effettuare gli ulteriori interventi previsti dallo strumento urbanistico comunale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.04.2021 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’art. 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che il Consiglio comunale decida sulle osservazioni nel termine di novanta giorni, cosa che è effettivamente avvenuta nella fattispecie, essendosi rinviato a un momento successivo solo per la definitiva approvazione degli atti di variante.
Come già ritenuto dalla Sezione in altre pronunce, “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 […] [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria.
La Sezione ha, invero, rilevato che della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005. Ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori”.
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3. Con il primo motivo, le società ricorrenti lamentano che la variante sia stata definitivamente approvata oltre il termine di novanta giorni dalla scadenza del termine per la proposizione delle osservazioni, mentre, entro il termine, l’amministrazione si sarebbe limitata a controdedurre alle osservazioni.
Ciò in violazione dell’art. 13, comma 7, della L.R. n. 12/2005, il quale prevede che “Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo”.
In tesi, la delibera di approvazione della variante sarebbe illegittima poiché intervenuta quando gli atti di adozione erano già divenuti inefficaci.
Il motivo è infondato.
Anzitutto, l’art. 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che il Consiglio comunale decida sulle osservazioni nel termine di novanta giorni, cosa che è effettivamente avvenuta nella fattispecie, essendosi rinviato a un momento successivo solo per la definitiva approvazione degli atti di variante.
Come già ritenuto dalla Sezione in altre pronunce (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 28.12.2020, n. 2613), che il Collegio condivide, “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 […] [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
La Sezione ha, invero, rilevato che della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005. Ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097)
”.
Ciò determina il rigetto della censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2021 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla sussistenza, o meno, di un’aspettativa qualificata ad evitare un’eventuale reformatio in pejus della classificazione dell’area di proprietà.
Va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Altresì, "le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”.
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato ha ribadito
   - che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e
   - che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
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5. Con il terzo motivo, infine, le ricorrenti ripropongono, declinandoli quali profili di vizio per omessa istruttoria e genericità delle controdeduzioni, le medesime osservazioni svolte in relazione alla variante adottata e non accolte in sede di controdeduzioni.
5.1. Come già evidenziato in fatto, le società chiedevano, con le osservazioni,
   (i) il mantenimento dell’azzonamento originario (come aree esistenti e di completamento D1),
   (ii) che nelle tavole allegate alla variante venisse indicata anche l’impronta in pianta del fabbricato e la relativa campitura,
   (iii) l’esclusione di vincoli di qualsiasi natura che possano inficiare il corretto esercizio delle attività che interessano il capannone e
   (iv) la qualificazione come “pubblica” del tratto di sede stradale di accesso al capannone per renderla sicura mediante illuminazione ed asfaltatura.
Il Comune le respingeva controdeducendo che
   (i) “l’area di proprietà è individuata entro ‘tessuto prevalentemente produttivo’, in quanto la Variante di PGT individua un solo tessuto, non esistendo più il citato tessuto ‘aree esistenti e di completamento D1’”, che
   (ii) “la medesima impronta del fabbricato è già individuata nelle tavole cartografiche. La localizzazione degli edifici esistenti, qualora attivato un intervento edilizio sugli stessi, è definita da specifico rilievo in loco”, che
   (iii) “la localizzazione di vincoli sovraordinati è indipendente dallo strumento urbanistico, il quale recepisce i medesimi nella cartografia di Piano. Si individua nel dettaglio un vincolo derivante dalla presenza dell’elettrodotto ad alta tensione, con relative fasce di rispetto […], specificando che nessun altro vincolo, oltre a quanto già individuato, è localizzato nell’area”; infine, quanto alla qualificazione della strada di accesso come “pubblica”, riteneva che le richieste non fossero “coerenti con i dettami e gli obiettivi della presente redigenda Variante al PGT, citati nella Deliberazione di avvio del procedimento”.
5.2. I profili di vizio allegati dalle ricorrenti sono insussistenti.
5.3. Quanto all’asserita genericità delle controdeduzioni, è sufficiente leggerne il contenuto per avvedersi che esse, lungi dall’essere “stereotipate e generiche”, replicano puntualmente alle osservazioni della proprietà.
5.4. Quanto al merito delle singole osservazioni, le ricorrenti lamentano in primo luogo (i) che il Comune non abbia motivato circa l’inserimento dell’area nella nuova zona “tessuto prevalentemente produttivo” e non abbia giustificato tale scelta in relazione agli obiettivi della variante.
La tesi delle ricorrenti è infondata.
In punto di fatto, il Comune ha in realtà dato conto della scelta effettuata, esplicitando che la zona D1 desiderata dalle ricorrenti non esiste più a seguito della riorganizzazione della pianificazione. Inoltre, le ricorrenti non allegano in alcun modo quale sia l’interesse al mantenimento della precedente classificazione (si ripete, non più esistente), nemmeno operando un raffronto tra la disciplina previgente e quella attuale e allegando i profili di attuale lesione.
Peraltro, la difesa comunale ha messo in luce le ragioni di semplificazione sottese alla scelta di riclassificazione, esplicitate nella delibera di adozione della variante.
Ciò precisato, deve essere comunque ribadito che non sussiste, nel caso di specie, un’aspettativa qualificata delle ricorrenti ad evitare un’eventuale reformatio in pejus (nemmeno affermata, in realtà) della classificazione dell’area di proprietà, sicché, anche sotto tale profilo, il Comune non era gravato da un onere di motivazione puntuale.
Sul punto, va infatti ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id., 09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01.2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id., 05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato, in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto, ha ribadito, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2021 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’art. 2, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 si limita a disporre che “i piani si uniformano al criterio della sostenibilità, intesa come la garanzia di uguale possibilità di crescita del benessere dei cittadini e di salvaguardia dei diritti delle future generazioni”.
La norma si ispira al principio dello sviluppo sostenibile, e non impone certo di prevedere sempre, nei piani, la possibilità di incrementare le sfruttamento edilizio del territorio. Anzi, a ben guardare, essa dice proprio l’opposto, e cioè che occorre evitare nuovo sfruttamento qualora questo sia pregiudizievole per i diritti delle future generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei cittadini non deve per forza conseguirsi attraverso il consumo di nuovo suolo, ben potendo esservi esigenze attuali che consiglino invece di dare prevalenza all’interesse alla preservazione dell’ambiente e del paesaggio.
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4. Con il primo motivo la ricorrente assume che nella predisposizione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza non sarebbero stati tenuti in debita considerazione i principi generali di sussidiarietà, adeguatezza, partecipazione, collaborazione, efficienza e sostenibilità, poiché i riferimenti statistici da cui sarebbero state ricavate le varie prescrizioni vincolanti sarebbero contenuti in studi non aggiornati –riguardando un periodo che va dal 2001 al 2009– e quindi non congruenti con gli atti pianificatori comunali successivamente approvati.
4.1. La doglianza è infondata.
Pur essendo veritiera la circostanza che i riferimenti statistici contenuti in una parte della relazione accompagnatoria del P.T.C.P. –utilizzati dalla Provincia per verificare quale potrebbe essere, nel periodo di vigenza del Piano, la domanda di nuove abitazioni– sono stati ricavati analizzando il periodo ricompreso fra gli anni 2001 e 2009, nondimeno ciò non può far desumere in maniera automatica che il Piano sia stato elaborato, nel suo complesso, sulla base di dati obsoleti.
Difatti, va evidenziato come il Piano, approvato nel 2013 e adottato nell’anno 2011, ha richiesto un avvio dell’iter procedimentale di molto anteriore al periodo di approvazione, in modo da consentire agli uffici di elaborare le scelte conseguenti. Oltretutto, ciò non esclude che la Provincia abbia tenuto conto, nel corso del procedimento, degli sviluppi successivi basando le decisioni su dati per quanto possibile aggiornati (così, sulla specifica questione, TAR Lombardia, Milano, II, 23.09.2016, n. 1700; altresì 19.06.2015, n. 1432).
4.2. Anche con riguardo all’asserita violazione del criterio della sostenibilità che impedirebbe lo sviluppo dell’edificato esistente, va evidenziato come l’art. 2, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 si limita a disporre che “i piani si uniformano al criterio della sostenibilità, intesa come la garanzia di uguale possibilità di crescita del benessere dei cittadini e di salvaguardia dei diritti delle future generazioni”.
La norma si ispira al principio dello sviluppo sostenibile, e non impone certo di prevedere sempre, nei piani, la possibilità di incrementare le sfruttamento edilizio del territorio. Anzi, a ben guardare, essa dice proprio l’opposto, e cioè che occorre evitare nuovo sfruttamento qualora questo sia pregiudizievole per i diritti delle future generazioni.
Del resto, l’incremento del benessere dei cittadini non deve per forza conseguirsi attraverso il consumo di nuovo suolo, ben potendo esservi esigenze attuali che consiglino invece di dare prevalenza all’interesse alla preservazione dell’ambiente e del paesaggio (TAR Lombardia, Milano, II, 23.09.2016, n. 1700; 19.06.2015, n. 1432; 10.09.2014, n. 2343).
4.3. Ciò determina il rigetto della sopra esposta censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.12.2020 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Rete del verde a protezione dei valori paesaggistici nel PTCP.
Come già evidenziato da questa Sezione in plurime occasioni, le previsioni riguardanti la Rete verde di ricomposizione paesaggistica, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle “previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione di tutti gli strumenti di pianificazione urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure generali” di tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre “previsioni conformative di maggiore definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”. La disposizione normativa non contiene, invero, alcun riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e “valori paesaggistici” indicati dal P.T.R..
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali, riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R.
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’articolo 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici.
L’individuazione degli ambiti destinati a far parte della Rete verde costituisce oltretutto scelta che involge interessi di carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province. Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni
.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale anche in relazione alla finalità di tutela ambientale e paesaggistica
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5. Con la seconda doglianza e parte della terza, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si deduce che la Provincia avrebbe dettato una disciplina eccessivamente invasiva, così da aver illegittimamente compresso le prerogative comunali, in violazione degli artt. 15, 17 e 18 della legge regionale n. 12 del 2005.
5.1. Le doglianze sono infondate.
In base all’art. 2, comma 4, della legge regionale n. 12, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che, ai sensi della stessa legge, abbiano efficacia prevalente e vincolante.
Il modello delineato dalla legge regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio.
Ciò naturalmente non può azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui partecipazione deve essere quindi assicurata e non può essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive.
Nel caso di specie, la Provincia di Monza e della Brianza non ha, tuttavia, con il proprio P.T.C.P., arbitrariamente compresso il potere di pianificazione urbanistica spettante ai Comuni.
Come già evidenziato da questa Sezione in plurime occasioni (sentenze 23.07.2020, n. 1433; 16.03.2020, n. 489; 30.06.2017, n. 1474; 15.12.2017, n. 2394) le previsioni riguardanti la Rete verde di ricomposizione paesaggistica, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle “previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Difatti, l’art. 77 richiede la conformazione di tutti gli strumenti di pianificazione urbanistica agli “obiettivi” e alle “misure generali” di tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre “previsioni conformative di maggiore definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”. La disposizione normativa non contiene, invero, alcun riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e “valori paesaggistici” indicati dal P.T.R. (cfr. sul punto in maniera specifica, TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1474).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.T.C.P. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali, riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R.
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’articolo 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 08.10.2014, n. 2423).
L’individuazione degli ambiti destinati a far parte della Rete verde costituisce oltretutto scelta che involge interessi di carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province. Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n. 379; TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 30.06.2017, n. 1474; 05.04.2017, n. 798).
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis, Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale anche in relazione alla finalità di tutela ambientale e paesaggistica (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1474; 05.04.2017, n. 798; 27.05.2014, n. 1355).
5.2. Ciò determina il rigetto delle scrutinate doglianze (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.12.2020 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASecondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate, potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più in generale, dagli atti del procedimento; oltretutto l’individuazione degli ambiti da ricomprendere nella rete verde e nei correlati corridoi non è vincolata dai contenuti degli strumenti urbanistici comunali, ma ad essi si sovrappone e rappresenta una valutazione di merito affidata alla Provincia.
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti; e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo, ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale, anche in relazione alla finalità di tutela ambientale e paesaggistica.
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Giusta l’orientamento della costante giurisprudenza, in materia urbanistica non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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6. Con la quinta censura si assume che attraverso l’art. 32 delle N.T.A. del P.T.C.P. sono state disciplinate tutte le aree ricomprese nel corridoio trasversale della rete verde, in cui sarebbe incluso anche il tracciato dell’Autostrada Pedemontana, provocando in tal modo una frattura del territorio comunale avente una ampiezza di circa due km che imporrebbe, senza alcun coinvolgimento dei Comuni interessati, la delocalizzazione delle attività ivi esistenti.
6.1. La doglianza è infondata.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, l’onere di motivazione gravante sull’Amministrazione in sede di adozione di strumenti urbanistici, anche sovracomunali, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei criteri principali che sorreggono le scelte effettuate (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n. 379), potendo la motivazione desumersi anche dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica e, più in generale, dagli atti del procedimento (cfr. Consiglio di Stato, IV, 28.06.2018, n. 3987); oltretutto l’individuazione degli ambiti da ricomprendere nella rete verde e nei correlati corridoi non è vincolata dai contenuti degli strumenti urbanistici comunali, ma ad essi si sovrappone e rappresenta una valutazione di merito affidata alla Provincia (cfr., sugli Ambiti agricoli strategici, Consiglio di Stato, IV, 19.11.2018, nn. 6483 e 6484).
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis, Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo, ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale, anche in relazione alla finalità di tutela ambientale e paesaggistica (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 05.04.2017, n. 798).
Del resto, nella Relazione di Piano si sottolinea come il P.T.C.P. abbia l’obiettivo di rilanciare i processi di sviluppo a partire da un utilizzo più razionale, ordinato e consapevole delle risorse territoriali disponibili, anche attraverso una razionalizzazione degli insediamenti produttivi. A questo fine “il PTCP propone di verificare le condizioni di compatibilità di un insediamento produttivo secondo tre parametri: compatibilità urbanistica, (riguarda i rapporti tra l’insediamento produttivo e i tessuti urbani e residenziali circostanti), compatibilità logistica (presuppone la possibilità, per quelle attività produttive che generano flussi significativi di traffico pesante e/o flussi di traffico leggero ad ampio raggio, di accedere alla rete stradale primaria e alle piattaforme logistiche intermodali senza attraversare centri abitati e zone residenziali) e compatibilità ambientale-paesaggistica (collocazione dell’insediamento produttivo nei confronti di zone di pregio ambientale o paesaggistico)”.
Quindi “la rete verde provinciale di ricomposizione paesaggistica, rappresentata nella Tavola 6a, identifica un sistema integrato di spazi aperti di varia natura e qualificazione, ambiti boschivi e alberati. In quanto tale essa assume un valore strategico nell’insieme delle proposte del PTCP proponendosi di riqualificare i paesaggi rurali, urbani e periurbani, di valorizzare le loro componenti ecologiche, naturali e storico-culturali, di contenere il consumo di suolo e la sua eccessiva impermeabilizzazione, di promuovere la fruizione del paesaggio” (sul punto specifico, TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; in precedenza 15.12.2017, n. 2394).
Inoltre, “l’obiettivo di ricucire un varco ‘verde’ di protezione paesaggistica ed ecologica assume dunque qui particolare importanza, non solo come elemento di conservazione ma anche di possibile stimolo a un recupero di aree urbane di frangia, degradate o malamente utilizzate. Si è pertanto identificato un ‘corridoio trasversale’ che risponde ai requisiti della Rete Ecologica Provinciale e, di conseguenza, Regionale avente come estremi il Parco delle Groane e il Parco dell’Adda Nord” (Relazione di Piano, pag. 114, richiamata a pag. 7 dalla memoria provinciale depositata il 26.10.2020).
In ordine, poi, al deteriore trattamento rispetto al Piano adottato, nel caso di specie pare applicabile, a fortiori, l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dalla ricorrente attengano al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 10.12.2019, n. 2636; 20.08.2019, n. 1896).
Peraltro, all’atto dell’adozione del P.T.C.P., l’area di proprietà della ricorrente, sebbene già edificata, non era assoggettata a previsione di Ambito di trasformazione dal Documento di Piano del P.G.T. del Comune di Desio e quindi non risulta interessata dalla specifica norma avente valore prescrittivo e prevalente di cui al comma 3 dell’art. 32 delle N.T.A. del P.T.C.P. (riguardante, tra l’altro, la salvaguardia e valorizzazione da un punto di vista paesaggistico/ambientale delle aree verdi libere contermini all’infrastruttura autostradale e il contenimento del consumo di suolo); di contro, essendo il predetto compendio assoggettato alle disposizioni del Piano delle regole del P.G.T., ai sensi del comma 3.a dell’art. 31 delle N.T.A. del P.T.C.P., ne deriva la perduranza delle previsioni del P.G.T. del Comune Desio vigenti all’adozione del P.T.C.P., con la possibilità di effettuare gli ulteriori interventi previsti dallo strumento urbanistico comunale (cfr. all. 5 al ricorso).
6.2. Ne discende il rigetto della scrutinata censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.12.2020 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In merito alla revisione della disciplina dell’area di proprietà rispetto al previgente strumento urbanistico, la giurisprudenza ha più volte chiarito che il potere pianificatorio può essere esercitato anche incidendo negativamente sull’affidamento (mero e non qualificato) dei privati al mantenimento delle pregresse previsioni urbanistiche.
In linea generale, va infatti ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”.
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato, in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto, ha ribadito
   - che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e
   - che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
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3. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta che all’area di proprietà sarebbe stata attribuita destinazione boschiva in difformità dallo stato di fatto dei luoghi, poiché sull’area vi sarebbe invero solo vegetazione arbustiva. Inoltre, la nuova destinazione impressa all’area –che, come si è detto, in precedenza era destinata ad attrezzatura turistica soggetta a piano attuativo– confliggerebbe con l’interesse pubblico, desumibile dal PGT, a valorizzare il territorio comunale mediante l’iniziativa turistica.
3.1. Anzitutto, in merito alla revisione della disciplina dell’area di proprietà rispetto al previgente strumento urbanistico, la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha più volte chiarito che il potere pianificatorio può essere esercitato anche incidendo negativamente sull’affidamento (mero e non qualificato) dei privati al mantenimento delle pregresse previsioni urbanistiche.
In linea generale, va infatti ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresentino scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id., 09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01.2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id., 05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Proprio con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area, il Consiglio di Stato, in seno all’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto, ha ribadito, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Nella fattispecie in esame, come emerge dalla narrativa in fatto, nessun affidamento qualificato può essere riconosciuto in capo alla ricorrente, che si limita invero ad allegare di voler sfruttare l’area secondo la precedente destinazione, ritenuta più conforme alle caratteristiche della zona.
Come già osservato, le valutazioni di merito compiute dall’amministrazione nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono sindacabili in sede giurisdizionale, se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se è vero che il Comune non può imporre un vincolo forestale né un vincolo paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei suoli, che include le aree destinate all'esercizio sia di attività propriamente agricole che di delle attività boschive, tanto è vero che l'art. 59, comma 3°, lett. b), della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice fondiario anche su ‘terreni a bosco’.
La giurisprudenza poi riconosce che la classificazione a zona agricola possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell'insediamento urbano ed assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di contenimento dell'espansione dell'aggregato urbano. Ne consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può ritenersi illegittima in quanto riconducibile ad una destinazione a verde agricolo.
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3.2. Così tracciati i limiti del sindacato di legittimità, deve essere respinto anche il profilo di censura attinente alla non conformità della destinazione boschiva rispetto alle caratteristiche dell’area, in quanto caratterizzata da vegetazione prevalentemente arbustiva.
In merito alla riconducibilità al concetto di bosco dei cd. “elementi boscati minori”, la Sezione si è già espressa –con argomenti che il Collegio condivide– evidenziando che, sostanzialmente, la destinazione boschiva prevista dal PGT non impone un vincolo forestale, bensì è equiparabile a una destinazione a verde agricolo e ad essa riconducibile.
Conseguentemente, è irrilevante la verifica –richiesta dalla ricorrente in via istruttoria– in ordine alla specifica natura degli arbusti presenti sui suoli, trattandosi nella sostanza di una destinazione agricola.
Ha precisato infatti la Sezione che “se è vero che il Comune non può imporre un vincolo forestale né un vincolo paesistico, ciò non preclude al Comune di prevedere una destinazione a verde agricolo, conformativa dello stato dei suoli, che include le aree destinate all'esercizio sia di attività propriamente agricole che di delle attività boschive, tanto è vero che l'art. 59, comma 3°, lett. b), della l.r. Lombardia n. 12/2005 riconosce un indice fondiario anche su ‘terreni a bosco’. La giurisprudenza (ex plurimis TAR Valle d'Aosta, sentenza 02.11.2011 n. 73) poi riconosce che la classificazione a zona agricola possiede anche una valenza conservativa dei valori naturalistici, venendo a costituire il polmone dell'insediamento urbano ed assumendo, per tale via, la funzione decongestionante e di contenimento dell'espansione dell'aggregato urbano. Ne consegue che la previsione boschiva prevista nel PGT non può ritenersi illegittima in quanto riconducibile ad una destinazione a verde agricolo” (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13.05.2019, n. 1065).
3.3. Inoltre, come allegato dal Comune nelle proprie difese, deve tenersi in considerazione che i mappali dei quali si controverte sono azzonati a bosco in conformità alle indicazioni fornite dalla Provincia di Varese nel parere di compatibilità del PGT con il PTCP.
In tale sede, la Provincia di Varese ha segnalato la necessità di escludere dette aree dal Tessuto Urbano Consolidato, mantenendo le stesse in ambito agricolo, al fine di preservare lo stato naturale dei luoghi e valorizzare il sistema agricolo diffuso in zona montana (cfr. docc. 9 e 10 del Comune), sicché la non irragionevolezza –ed anzi la vincolatività– della scelta urbanistica compiuta può essere colta anche sotto questo aspetto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Circa la natura prescrittiva del PTCP "Le previsioni riguardanti la tutela del paesaggio provinciale possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle ‘previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’art. 77’, di cui alla lett. a) dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Anche in relazione alla difesa del territorio, e in particolare per gli aspetti relativi alla componente idrogeologica, è riconosciuta efficacia prevalente alle linee di intervento, nonché alle opere prioritarie di sistemazione e consolidamento stabilite attraverso il P.T.C.P. (art. 56, comma 1, lett. d), della legge regionale n. 12 del 2005, che richiama il precedente art. 18, comma 2, lett. d).
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici e di rispetto dell’assetto idrogeologico del territorio.
L’individuazione degli ambiti di rilievo paesaggistico e le linee di intervento in relazione all’assetto idrogeologico costituiscono oltretutto scelte che involgono interessi di carattere sovracomunale, ambientali, paesaggistici e di difesa del territorio, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province.
Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni.".
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Circa la natura prescrittiva del PTCP, ci si richiama a quanto già evidenziato da questa Sezione in plurime occasioni (cfr., da ultimo, sentenza 12.08.2020, n. 1568, ma anche sentenze 18.05.2020, n. 841; 16.03.2020, n. 489; 30.06.2017, n. 1474; 15.12.2017, n. 2394), e confermato pure dal Consiglio di Stato (Sez. IV, 10.09.2019, n. 6124; 02.09.2019, n. 6050; 19.11.2018, n. 6483), “le previsioni riguardanti la tutela del paesaggio provinciale possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle ‘previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77’, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005; anche in relazione alla difesa del territorio, e in particolare per gli aspetti relativi alla componente idrogeologica, è riconosciuta efficacia prevalente alle linee di intervento, nonché alle opere prioritarie di sistemazione e consolidamento stabilite attraverso il P.T.C.P. (art. 56, comma 1, lett. d), della legge regionale n. 12 del 2005, che richiama il precedente art. 18, comma 2, lett. d).
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici e di rispetto dell’assetto idrogeologico del territorio (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 08.10.2014, n. 2423).
L’individuazione degli ambiti di rilievo paesaggistico e le linee di intervento in relazione all’assetto idrogeologico costituiscono oltretutto scelte che involgono interessi di carattere sovracomunale, ambientali, paesaggistici e di difesa del territorio, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province. Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n. 379; TAR Lombardia, Milano, II, 16.03.2020, n. 489; 05.04.2017, n. 798)
”.
3.4. Quanto sinora evidenziato, porta al rigetto del motivo anche sotto il profilo per cui la destinazione prescelta per l’area sarebbe stata assunta in contraddittorietà con la vocazione turistica della medesima, tutelata in linea generale nel piano.
Da un lato, infatti, trattasi di una valutazione di merito compiuta dall’amministrazione e dunque insindacabile se non nei limiti già precisati e insussistenti nella fattispecie. Dall’altro lato, il fatto che nel PGT si dia spazio allo sviluppo turistico del territorio –quand’anche vero– non implicherebbe necessariamente che anche all’area della ricorrente debba essere impressa siffatta destinazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e ‘mirata’.
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E'
consolidato il principio per cui, in sede di formazione dei piani urbanistici, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare specifici interessi urbanistici rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
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3.5. Infine, in ordine agli aspetti motivazionali di cui il piano sarebbe carente (ovverosia che non sarebbe stato contemperato con l’interesse pubblico l’interesse a non “sacrificare” l’edilizia turistica privata), fermo quanto già sopra osservato circa la possibilità di riforma della destinazione urbanistica in senso peggiorativo, il Collegio condivide quanto costantemente ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, ovverosia che “l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e ‘mirata’” (cfr. Cons. Stato n. 2780/2018 cit. e Cons. Stato, Sez. IV, 03.11.2008, n. 5478).
Nel caso di specie, quindi, a fronte dell’insussistenza di un’aspettativa qualificata, l’amministrazione non era gravata da un onere di puntuale motivazione –come quella invece pretesa dalla ricorrente– circa le scelte urbanistiche effettuate.
4. Con il secondo motivo di ricorso (rubricato sub 3 dalla ricorrente), si deduce l’illogicità della scelta dell’amministrazione, che avrebbe azzerato la capacità edificatoria del compendio della società ricorrente, a fronte di una destinazione a “zona C di espansione residenziale” per un’area contigua (mappali 192 e 205) in precedenza non edificabile.
Il motivo è infondato, non essendo nella fattispecie nemmeno soddisfatto l’onere di allegazione (tanto meno quello della prova) dell’identità oggettiva della situazione presa in considerazione.
Peraltro, indipendentemente dalla classificazione e delimitazione delle aree in questione, è consolidato il principio per cui, in sede di formazione dei piani urbanistici, la valutazione dell'idoneità delle aree a soddisfare specifici interessi urbanistici rientra nei limiti dell'esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è neppure configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, 05.06.2019, n. 3806; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 17.04.2020, n. 653) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAOccorre qui evidenziare che i poteri di modifica d’ufficio che la regione è abilitata ad esercitare, in virtù della normativa nazionale (art. 10 RD n. 1150/1942) e di quella regionale, sono riconosciuti al fine di tutelare superiori interessi che a livello locale potrebbero non trovare adeguata tutela.
Invero, le esigenze di tutela del paesaggio (che qui rileva per la questione del Naviglio di Bra) e della regolazione del consumo di suolo agricolo (che rileva per lo stralcio dell’area DI2263) abilitano proprio tali facoltà regionali.
Come anche la giurisprudenza ha riconosciuto “L'art. 10, secondo comma, lett. c), della legge n. 1150/1942 prevede il potere della Regione di proporre le modifiche d'ufficio al P.R.G. riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio, nonché di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici.
La giurisprudenza costante afferma che l'attribuzione ad una data area della destinazione a zona agricola ben può essere dettata da finalità di tutela ambientale.
Se ne desume che l'attribuzione ad opera della Regione, in sede di proposta di modifiche d'ufficio del P.R.G., al terreno di proprietà della ricorrente, della destinazione a zona agricola sia pienamente riconducibile alla previsione di cui all'art. 10, secondo comma, lett. c), della legge n. 1150/1942.[…] secondo la costante giurisprudenza, le modifiche finalizzate alla tutela dell'ambiente e del paesaggio, essendo, per l'appunto, distintamente previste dalla lett. c) del secondo comma dell'art. 10 cit., non soggiacciono al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte del secondo comma del medesimo art. 10”.
Anche considerando la circostanza che la legge regionale attribuisce al contraddittorio con il Comune maggiore peso rispetto alla normativa nazionale, questo non muta le considerazioni di principio svolte dalla giurisprudenza in ordine alle finalità di tutela degli interessi superiori succitati.
Proprio tale necessità giustifica l’esistenza stessa di una autonoma fase di approvazione regionale nell’ambito di un unitario procedimento di adozione del piano regolatore comunale.
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4. Con il terzo, il quarto ed il settimo motivo del primo ricorso (quest’ultimo corrispondente al terzo del ricorso RG n. 1212/2014), che vengono trattati congiuntamente in quanto connessi oggettivamente anche se il primo con riferimento alla questione del Naviglio ed il secondo allo stralcio dell’area DI2263, la ricorrente lamenta sostanzialmente la violazione degli art. 15 e 17 della LR n. 56/1977, nella misura in cui la Regione avrebbe utilizzato i poteri di modifica ex officio in sede di approvazione del PRGC oltre i casi strettamente consentiti dalla legge.
In particolare l’art. 15 (nella formulazione applicata al procedimento, quindi antecedente alla riforma del 2013) consentiva le modifiche d’ufficio in tre tipologie di casi:
   a) per la correzione di meri errori materiali (“Con l'atto di approvazione la Giunta regionale può apportare d'ufficio al Piano Regolatore Generale modifiche riguardanti correzioni di errori, chiarimenti su singole prescrizioni e adeguamenti a norma di legge” – art. 15, comma 11);
   b) in caso di modifiche non sostanziali (“Nell'ambito dell'attività istruttoria, il Presidente della Giunta regionale, o l'Assessore delegato, acquisito ove del caso il parere della Commissione Tecnica Urbanistica, può richiedere al Comune modifiche che non mutino le caratteristiche essenziali quantitative e strutturali del Piano e i suoi criteri di impostazione, ed in particolare, nel rispetto di tali caratteristiche e criteri, modifiche che riguardino:
         a) l'adeguamento alle disposizioni dei piani di settore, dei piani sovracomunali e delle loro varianti;
         b) la razionale organizzazione e realizzazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato o della Regione, anche ai fini dell'eventuale coordinamento con i Comuni contermini;
         c) la tutela dell'ambiente e del paesaggio, dei beni culturali ed ambientali nonché di specifiche aree classificate come di elevata fertilità;
         d) l'osservanza degli standard.
Le richieste di modifica di cui al precedente comma sono comunicate, dal Presidente della Giunta regionale o dall'Assessore delegato, al Comune che, entro 60 giorni, assume le proprie determinazioni con deliberazione del consiglio comunale, da trasmettersi alla Giunta regionale entro 15 giorni dall'apposizione del visto di esecutività. Il ricevimento delle richieste di modifica vincola il Comune alla immediata salvaguardia delle osservazioni formulate dalla Regione. Ove il termine per l'assunzione della delibera comunale anzidetta decorra inutilmente, le modifiche sono introdotte d'ufficio nel Piano Regolatore dalla Giunta regionale
" – art. 15, comma 12 e 13);
   c) in caso di modifiche parziali (“Le proposte di modifica che, su parere della Commissione Tecnica Urbanistica, mutino parzialmente le caratteristiche del Piano Regolatore sono comunicate dal Presidente della Giunta regionale o dall'Assessore delegato al Comune che provvede entro 90 giorni dal ricevimento alla rielaborazione parziale del Piano”- art. 15, comma 14).
A parere della ricorrente nessuna delle ipotesi contemplate dalla legge si è verificata nel caso di specie e pertanto tali interventi, per entrambe le modifiche, non sono legittimi.
Nelle argomentazioni del quarto motivo si aggiunge, altresì, che anche laddove si ammettesse che la Regione abbia esercitato il potere d’ufficio previsto all’art. 15, comma 12, lett. c), in ogni caso il relativo esercizio sarebbe illegittimo poiché: sul piano procedurale, non sarebbe stato attivato il necessario confronto con il Comune (così violando anche l’omologa normativa nazionale contenuta all’art. 10 del RD n. 1150/1942), considerando che l’estensione della fascia a 25m è stata introdotta senza coinvolgere nuovamente l’ente locale; sul piano sostanziale le ragioni di carattere paesaggistico non emergono nei fatti e non sono state motivate.
Anche i motivi appena illustrati non convincono.
Richiamando integralmente quanto già detto in ordine alla istruttoria condotta ed alle motivazioni fornite dalla delibera regionale sulle esigenze di tutela paesaggistica e quanto si dirà, in seguito, in ordine ai poteri di “stralcio” (che riguarda l’area DI2263 – quindi il settimo motivo), occorre qui evidenziare che i poteri di modifica d’ufficio che la regione è abilitata ad esercitare, in virtù della normativa nazionale (art. 10 RD n. 1150/1942) e di quella regionale, sono riconosciuti al fine di tutelare superiori interessi che a livello locale potrebbero non trovare adeguata tutela.
Come si è avuto modo di evidenziare in precedenza, le esigenze di tutela del paesaggio (che qui rileva per la questione del Naviglio di Bra) e della regolazione del consumo di suolo agricolo (che rileva per lo stralcio dell’area DI2263) abilitano proprio tali facoltà regionali.
Come anche la giurisprudenza ha riconosciuto “L'art. 10, secondo comma, lett. c), della legge n. 1150/1942 prevede il potere della Regione di proporre le modifiche d'ufficio al P.R.G. riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio, nonché di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici. La giurisprudenza costante afferma che l'attribuzione ad una data area della destinazione a zona agricola ben può essere dettata da finalità di tutela ambientale. Se ne desume che l'attribuzione ad opera della Regione, in sede di proposta di modifiche d'ufficio del P.R.G., al terreno di proprietà della ricorrente, della destinazione a zona agricola sia pienamente riconducibile alla previsione di cui all'art. 10, secondo comma, lett. c), della legge n. 1150/1942.[…] secondo la costante giurisprudenza, le modifiche finalizzate alla tutela dell'ambiente e del paesaggio, essendo, per l'appunto, distintamente previste dalla lett. c) del secondo comma dell'art. 10 cit., non soggiacciono al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte del secondo comma del medesimo art. 10” (TAR Lombardia Milano Sez. II, 24/11/2006, n. 2487).
Anche considerando la circostanza che la legge regionale attribuisce al contraddittorio con il Comune maggiore peso rispetto alla normativa nazionale, questo non muta le considerazioni di principio svolte dalla giurisprudenza in ordine alle finalità di tutela degli interessi superiori succitati. Proprio tale necessità giustifica l’esistenza stessa di una autonoma fase di approvazione regionale nell’ambito di un unitario procedimento di adozione del piano regolatore comunale.
L’intervento sul Naviglio di Bra, infatti, non può che essere inquadrato, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, nel novero delle “potestà della Regione di apportare modifiche d'ufficio al piano [il che] comporta che il limite della innovazione sostanziale vale solo per le modifiche facoltative e non riguarda, al contrario, quelle attinenti alla tutela del paesaggio e dell'ambiente, le quali pertanto possono anche incidere sulle caratteristiche essenziali e sui criteri di impostazione del piano” (TAR Piemonte Torino Sez. II, 14/08/2018, n. 956).
Per tali ordini di ragioni anche questi motivi non possono essere accolti
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 14.09.2020 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza amministrativa ha da tempo riconosciuto che “in relazione ai poteri di intervento della Regione sul PRG adottato dal Comune, si osserva che lo stralcio si differenzia sostanzialmente dalla modifica d'ufficio, consistendo il primo in una approvazione parziale del PRG e la seconda in una sovrapposizione definitiva della volontà regionale a quella del Comune.
Nel caso di stralcio la Regione restituisce al Comune l'iniziativa, invitandolo a rinnovare l'esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte, lasciando integro e impregiudicato il potere comunale di riproporre una nuova disciplina urbanistica, mentre con la modifica d'ufficio il potere comunale non può più essere in tale sede esercitato”.
Ed ancora, “con lo «stralcio», la Regione restituisce al Comune l'iniziativa, mentre con le «modifiche d'ufficio» sovrappone ultimativamente la propria volontà a quella del comune, sicché, ai fini dello stralcio, non è necessaria quella preventiva consultazione del comune, che la legge richiede, invece, rispetto alle modifiche, né operano i limiti di cui all'art. 10 L. n. 1150/1942 ovvero sussiste un obbligo di ripubblicazione del piano adottato”.
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5. Con il quinto motivo (che corrisponde al primo del ricorso RG n. 1212/2014) la società lamenta la violazione degli artt. 15 e 17 della LR 56/1977 e difetto di motivazione. Nello specifico si censura la legittimità dello “stralcio” dell’area DI2263 che sarebbe avvenuto, contrariamente a quanto sostiene la giurisprudenza, senza motivazione e su parti sostanziali del piano.
Quest’ultimo profilo, peraltro, aggravato dal fatto che non si sarebbe tenuto in debita considerazione quanto segnalato dall’Organo Tecnico Regionale per la VAS (che nella nota prot. 1042/2012, allegata al provvedimento impugnato, rimarcava la necessità di verificare l’effettivo bisogno di salvaguardia del consumo di suolo valutando le manifestazioni di interesse da parte di cittadini ed imprese), alle misure di mitigazione ambientale proposte ed al fatto che il Comune avesse mantenuto la destinazione dell’area motivando sulla base del progetto di insediamento produttivo che la ricorrente aveva prospettato.
Anche questa doglianza non coglie nel segno.
L’amministrazione regionale evidenzia, nella propria memoria, come per effetto del proprio intervento la destinazione dell’area non venga mutata ma semplicemente ricondotta alla propria originaria vocazione agricola (come si legge nell’allegato A della deliberazione impugnata).
Convince, pertanto, la ricostruzione di parte resistente secondo cui tale circostanza esclude la sussistenza di una modifica ex officio, ovvero una sovrapposizione definitiva della volontà regionale a quella del Comune, configurandosi, al contrario, una semplice mancata approvazione del piano. Tale esito, infatti, si configura quale uno dei possibili naturali sbocchi del procedimento complesso di adozione del PRGC.
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo riconosciuto che “in relazione ai poteri di intervento della Regione sul PRG adottato dal Comune, si osserva che lo stralcio si differenzia sostanzialmente dalla modifica d'ufficio, consistendo il primo in una approvazione parziale del PRG e la seconda in una sovrapposizione definitiva della volontà regionale a quella del Comune. Nel caso di stralcio la Regione restituisce al Comune l'iniziativa, invitandolo a rinnovare l'esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte, lasciando integro e impregiudicato il potere comunale di riproporre una nuova disciplina urbanistica, mentre con la modifica d'ufficio il potere comunale non può più essere in tale sede esercitato” (Cons. Stato Sez. IV, 17/09/2013, n. 4614).
Ed ancora, “con lo «stralcio», la Regione restituisce al Comune l'iniziativa, mentre con le «modifiche d'ufficio» sovrappone ultimativamente la propria volontà a quella del comune, sicché, ai fini dello stralcio, non è necessaria quella preventiva consultazione del comune, che la legge richiede, invece, rispetto alle modifiche (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 07.09.2006, n. 5203), né operano i limiti di cui all'art. 10 L. n. 1150/1942 ovvero sussiste un obbligo di ripubblicazione del piano adottato (Consiglio Stato, sez. IV, 03.02.2006, n. 400)” (TAR Campania-Napoli Sez. II Sent., 16/06/2009, n. 3292).
Occorre infine evidenziare che la mancata parziale approvazione del Piano, quale fisiologica facoltà regionale, nel caso di specie, attiene ad un’area circoscritta e non stravolge le scelte complessive del Comune.
Lo “stralcio” realizzato, infatti, possiede i requisiti minimi individuati dalla prevalente giurisprudenza: è circoscritto ad aree specifiche ed è supportato da valida motivazione.
Come parte resistente evidenzia lo stralcio, oltre a riguardare un’area ben individuata, incide su una porzione irrisoria del complessivo territorio comunale dedicato ad attività produttiva (si tratta di una superficie di poco più di 50.000 mq a fronte di circa 3 milioni di mq).
Per quanto attiene alla motivazione, l’allegato “A” alla delibera regionale, anche mediante il rinvio alla relazione redatta dal Settore Progettazione, Assistenza e Copianificazione (posteriore alle controdeduzioni comunali), contiene una serie di dettagliate indicazioni in ordine alle caratteristiche che giustificano il mantenimento della destinazione agricola per l’area. Gli argomenti spaziano dalle ragioni paesaggistiche all’eccessivo dimensionamento delle zone per attività economiche (a fronte di aree libere residue nel PRG); dalle criticità riscontrate nella delimitazione dell’area stessa (che, in sede di controdeduzioni, sarebbe stata definita unendo due preesistenti zone, tanto da essere inquadrabile come una sorta di “variante in itinere”) alla disponibilità, in capo alla ricorrente, di aree alternative per l’edificazione.
La Regione, inoltre, evidenzia come lo stralcio consenta l’allineamento del PRG al PTR vigente ed, in particolare, all’art. 31 di quest’ultimo (che reca la disciplina del “Dimensionamento”, prevedendo che “La pianificazione locale, al fine di contenere il consumo di suolo rispetta le seguenti direttive:
   a) i nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali possono prevedersi solo quando sia dimostrata l’inesistenza di alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. In particolare è da dimostrarsi l’effettiva domanda previa valutazione del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato, di quello sotto-utilizzato e di quello da recuperare;[…]
   c) quando le aree di nuovo insediamento risultino alle estreme propaggini dell’area urbana, esse sono da localizzare ed organizzare in modo coerente con i caratteri delle reti stradali e tecnologiche e concorrere, con le loro morfologie compositive e le loro tipologie, alla risoluzione delle situazioni di frangia e di rapporto col territorio aperto evitando fratture, anche formali, con il contesto urbano. Nella scelta delle tipologie del nuovo edificato sono da privilegiare quelle legate al luogo ed alla tradizione locale;…
”).
Tali considerazioni, inoltre, non contraddicono quanto indicato dall’OTR per la VAS che raccomandava di considerare le reali esigenze di preservazione dei fondi agricoli anche in relazione alle manifestazioni di interesse espresse da cittadini ed imprese (allegato “B” alla delibera impugnata). L’Amministrazione comunale, nelle proprie memorie, ha infatti evidenziato come nelle proprie controdeduzioni abbia effettivamente considerato la proposta della Società ricorrente di allocare unità produttive all’interno dell’area oggetto di stralcio. Questo, però, non toglie che le opposte esigenze manifestate dalla Regione valgano a giustificare il potere di approvazione parziale effettivamente esercitato, considerato che tale facoltà non è soggetta a vincoli conformativi derivanti dalla diversa proposta comunale formulata in sede di controdeduzioni.
Considerando la natura giuridica dello “stralcio” ed i connotati che lo stesso ha assunto nel caso di specie in ordine all’individuazione dell’area ed alle motivazioni che lo sorreggono, anche questo ulteriore motivo non risulta fondato
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 14.09.2020 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Giusta la giurisprudenza dominante:
   - “Le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l'Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti";
ciò, al fine d'evitare "un indebito sconfinamento (del G.A.) nel cd. <merito amministrativo>"; [.. omissis ..]
   - "Le scelte pianificatorie operate dall'Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare;
le stesse, dunque, quando si concentrano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano stesso e non sono sindacabili, salvo che non risultino incoerenti con l'impostazione di fondo dell'intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio;
si sottraggono invece ai principi di cui sopra solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni, quali l'esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell'obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione".
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Prima di esaminare le censure con le quali parte ricorrente lamenta la specifica destinazione della zona impressa sulle particelle di sua proprietà a seguito dell’approvazione del PUC, occorre richiamare la giurisprudenza dominante, condivisa dal Collegio alla luce della quale “Le scelte di politica urbanistica, espresse negli strumenti generali di pianificazione, si caratterizzano per la loro ampia discrezionalità in ordine ai tempi e alle modalità di intervento sul proprio territorio circa la destinazione di singole aree, in funzione delle concrete possibilità operative che solo l'Amministrazione è in grado di accertare e che, pertanto, non sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità, se non per la loro manifesta illogicità, contraddittorietà o insussistenza dei presupposti" (TAR Basilicata, Sez. I, 21/12/2017, n. 792); ciò, al fine d'evitare "un indebito sconfinamento (del G.A.) nel cd. <merito amministrativo>" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11/10/2017, n. 4707); [.. omissis ..] "Le scelte pianificatorie operate dall'Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero arbitrarietà irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare; le stesse, dunque, quando si concentrano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano stesso e non sono sindacabili, salvo che non risultino incoerenti con l'impostazione di fondo dell'intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio; si sottraggono invece ai principi di cui sopra solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni, quali l'esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell'obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione" (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, 02/01/2018, n. 2); - per tutte, TAR Campania, Salerno, Sez. II, 21.05.2018, n. 760.
Al riguardo, premesso che nel caso di specie, la modifica della destinazione delle particelle di proprietà di parte ricorrente è avvenuta a seguito della conseguente modifica della limitrofa particella concernente un bene confiscato, come ammesso dalla stessa parte ricorrente, non appare illogica e irragionevole, né in contrasto con la legislazione vigente, la scelta dell’amministrazione di destinare a zona F2 l’area sulla quale insiste un bene confiscato, atta a soddisfare l’esigenza di servizi di infrastrutture e, quindi, conseguentemente riclassificare quella di parte ricorrente in ES-Agricola di salvaguardia periurbana, in quanto posta lateralmente al bene confiscato, come emerge dalla planimetria prodotta in giudizio dalla stessa parte ricorrente.
A quanto sopra deve aggiungersi che la valutazione dei beni confiscati esula dal profilo urbanistico e che le censure dedotte da parte ricorrente con il terzo motivo di ricorso e quanto rappresentato in merito nella memoria depositata per l’udienza di discussione mirino più alla valutazione sociale del territorio che a quello urbanistica.
Inoltre nella fattispecie per cui è causa non sussistono particolari situazioni d’affidamento del privato all'attribuzione, all'area di proprietà, di una diversa e più favorevole destinazione urbanistica (secondo l'esemplificazione, contenuta nella massima sopra citata, “quali l'esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell'obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all'espropriazione”).
Tali situazioni d'affidamento qualificato non possono farsi discendere, nello specifico, dalla diversa destinazione d’uso, assegnata, allo stesso lotto, nella prima versione del P.U.C. (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 06.03.2019, n. 375 cit.) a seguito dell’accoglimento della sua istanza, prodotta nella fase partecipativa del piano preliminare, né parte ricorrente ha rappresentato quale fosse la precedente destinazione nel PRG approvato con DPGR n. 9624 del 17.11.1983, richiamato nella delibera di approvazione del PUC oggetto di impugnazione e, pertanto, non è dato comprendere come la tipizzazione dell’area del PUC approvato abbia inciso su quella del previgente PRG.
Inoltre, come condivisibilmente sostenuto dal Comune resistente, non può assumere rilevanza quanto evidenziato dalla ricorrente in merito ad una pregressa lottizzazione risalente a quaranta anni addietro. Peraltro parte ricorrente ha prodotto in giudizio soltanto la concessione n. 51 risalente al 1978 concernente la realizzazione di infrastrutture preordinate alla definizione di lotti edificabili ma non ha dato prova che all’attualità sussista una delle sopra richiamate situazioni d’affidamento e si è limitata ad una mera affermazione in merito ad una preesistente urbanizzazione dell’area, senza tuttavia fornire adeguata prova al riguardo.
Pertanto devi ritenersi che il vizio procedimentale dedotto non determini l’illegittimità della delibera di approvazione del PUC sia in quanto, come detto, nel caso di specie non si è ravvisata la necessità della ripubblicazione del piano, sia perché, comunque, l’integrazione del segmento procedimentale ritenuto inficiato ed inciso dall’eventuale pronuncia annullatoria non porterebbe ad una diversa considerazione delle specifiche scelte urbanistiche (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.02.2020 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’Associazione ricorrente, costituita nell’anno 1955 e riconosciuta con il D.P.R. n. 1111 del 1958, si prefigge, tra l’altro, lo scopo di tutelare il “carattere ambientale delle città, specialmente in rapporto allo sviluppo dell’urbanistica moderna”, avviando tutte le iniziative idonee a “promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti, dei centri storici e della qualità della vita”.
Sicché, la ricorrente è legittimata ad agire in giudizio quale Associazione riconosciuta ai sensi degli artt. 13 e 18, comma 5, della legge n. 349/1986, e in tale veste può contestare in giudizio anche gli atti di pianificazione urbanistica funzionali a definire e contemperare tutti gli interessi presenti sul territorio qualora, come nel caso di specie, si deduca che incidano negativamente sugli interessi ambientali.
Ciò risulta condiviso da ampia giurisprudenza, che ha sottolineato come la tutela degli interessi ambientali può anche estrinsecarsi attraverso l’impugnazione di atti amministrativi generali di valenza urbanistica e di natura pianificatoria e programmatoria, qualora incidenti negativamente sui citati profili ambientali, in ragione della loro strumentalità rispetto alla corretta valutazione delle ricadute sul paesaggio e sull’ambiente degli interventi programmati.
Del resto, secondo i più recenti approdi giurisprudenziali, il territorio deve essere considerato non più solo come uno spazio topografico suscettibile di occupazione edificatoria, ma va ritenuto una risorsa complessa che incarna molteplici vocazioni di tipo ambientale, culturale, produttiva, storica, ecc..
La stessa giurisprudenza amministrativa ha, a più riprese, confermato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
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Quanto all’eccepita carenza di interesse, va evidenziato che le istanze di cui la ricorrente è istituzionalmente portatrice –essendo iscritta, come già sottolineato in precedenza, nell’elenco delle associazioni che possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi (artt. 13 e 18, comma 5, della legge n. 349/1986)– oltre a trovare un fondamento normativo, vanno rapportate anche alla tipologia di censure dedotte, visto che l’interesse deve essere ritenuto certamente sussistente nel caso in cui si eccepisca in via diretta la lesione del bene ambiente o si contesti l’attività pianificatoria in relazione alle sue ricadute sul complessivo sviluppo dell’ambito territoriale interessato.
Va specificato, nondimeno, che l’ammissibilità del ricorso, sebbene riconosciuta in via generale, deve poi essere verificata partitamente in rapporto alle singole censure, considerato che soltanto quelle attraverso le quali si assume in via diretta la lesione del bene ambiente o dell’assetto urbanistico sono suscettibili di esame da parte del Giudice, mentre per quelle che attengono ad aspetti solo indirettamente e occasionalmente collegati all’interesse perseguito dall’Associazione ricorrente non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale in questa sede, tenuto conto che l’essere al cospetto di interessi diffusi non può condurre ad obliterare la natura soggettiva del giudizio amministrativo.
Diversamente operando, attraverso l’astratta legittimazione di un soggetto giuridico, non associata ad un interesse concreto e attuale, si perverrebbe ad un giudizio di tipo oggettivo.
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3. Ancora in via preliminare, va scrutinata l’eccezione, formulata da tutte le difese delle parti resistenti, di inammissibilità, totale o parziale del ricorso, per difetto di legittimazione attiva e/o per carenza di interesse dell’Associazione ricorrente.
3.1. L’eccezione è infondata.
L’Associazione ricorrente, costituita nell’anno 1955 e riconosciuta con il D.P.R. n. 1111 del 1958, si prefigge, tra l’altro, lo scopo di tutelare il “carattere ambientale delle città, specialmente in rapporto allo sviluppo dell’urbanistica moderna” (art. 3, dell’Atto costitutivo: all. 5 al ricorso), avviando tutte le iniziative idonee a “promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti, dei centri storici e della qualità della vita” (art. 3 dello Statuto: all. 6 al ricorso).
La ricorrente è legittimata ad agire in giudizio quale Associazione riconosciuta ai sensi degli artt. 13 e 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986, e in tale veste può contestare in giudizio anche gli atti di pianificazione urbanistica funzionali a definire e contemperare tutti gli interessi presenti sul territorio qualora, come nel caso di specie, si deduca che incidano negativamente sugli interessi ambientali (TAR Veneto, II, 18.01.2017, n. 50).
Ciò risulta condiviso da ampia giurisprudenza, che ha sottolineato come la tutela degli interessi ambientali può anche estrinsecarsi attraverso l’impugnazione di atti amministrativi generali di valenza urbanistica e di natura pianificatoria e programmatoria, qualora incidenti negativamente sui citati profili ambientali, in ragione della loro strumentalità rispetto alla corretta valutazione delle ricadute sul paesaggio e sull’ambiente degli interventi programmati (Consiglio di Stato, V, 24.05.2018, n. 3109; IV, 14.04.2011, n. 2329; TAR Veneto, II, 18.01.2017, n. 50).
Del resto, secondo i più recenti approdi giurisprudenziali, il territorio deve essere considerato non più solo come uno spazio topografico suscettibile di occupazione edificatoria, ma va ritenuto una risorsa complessa che incarna molteplici vocazioni di tipo ambientale, culturale, produttiva, storica, ecc. (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019).
La stessa giurisprudenza amministrativa ha, a più riprese, confermato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; 19.02.2015, n. 839; TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1896; 17.04.2019, n. 868; 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
3.2. Quanto all’eccepita carenza di interesse, va evidenziato che le istanze di cui la ricorrente è istituzionalmente portatrice –essendo iscritta, come già sottolineato in precedenza, nell’elenco delle associazioni che possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi (artt. 13 e 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986)– oltre a trovare un fondamento normativo, vanno rapportate anche alla tipologia di censure dedotte, visto che l’interesse deve essere ritenuto certamente sussistente nel caso in cui si eccepisca in via diretta la lesione del bene ambiente o si contesti l’attività pianificatoria in relazione alle sue ricadute sul complessivo sviluppo dell’ambito territoriale interessato (cfr. TAR Campania, Salerno, II, 25.07.2019, n. 1420).
3.3. Va specificato, nondimeno, che l’ammissibilità del ricorso, sebbene riconosciuta in via generale, deve poi essere verificata partitamente in rapporto alle singole censure, considerato che soltanto quelle attraverso le quali si assume in via diretta la lesione del bene ambiente o dell’assetto urbanistico sono suscettibili di esame da parte del Giudice, mentre per quelle che attengono ad aspetti solo indirettamente e occasionalmente collegati all’interesse perseguito dall’Associazione ricorrente non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale in questa sede, tenuto conto che l’essere al cospetto di interessi diffusi non può condurre ad obliterare la natura soggettiva del giudizio amministrativo.
Diversamente operando, attraverso l’astratta legittimazione di un soggetto giuridico, non associata ad un interesse concreto e attuale, si perverrebbe ad un giudizio di tipo oggettivo (TAR Lombardia, Milano, III, 21.02.2017, n. 436; cfr. anche Consiglio di Stato, V, 01.04.2014, n. 1572).
3.4. Da ciò discende l’ammissibilità, in via generale, del ricorso proposto dall’Associazione ricorrente, con la specificazione legata alla verifica della stessa in rapporto ad ogni singola censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.11.2019 n. 2500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICAL’art. 34 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli Enti locali) nel definire e disciplinare gli accordi di programma non impedisce affatto che vi partecipino soggetti privati, ma richiede soltanto che si tratti di interventi preordinati alla tutela di un interesse pubblico e involgenti la competenza di più Amministrazioni statali, locali o regionali, o di altri soggetti pubblici.
La partecipazione dei privati ad un accordo di programma, fermo restando il necessario e doveroso perseguimento dell’interesse pubblico, deve ritenersi ammissibile sulla scorta di diverse ragioni, tutte finalizzate a rendere lo strumento convenzionale, oltre che duttile, anche efficace.
In primo luogo, la partecipazione del privato non può essere esclusa a priori nell’esercizio di attività di carattere pubblicistico o di natura autoritativa, visto che l’art. 11 della legge n. 241 del 1990, consentendo alla singola amministrazione di stipulare accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti, non può non applicarsi anche laddove si è al cospetto di una pluralità di amministrazioni coinvolte.
L’applicazione in senso riduttivo dell’art. 34 citato, ossia la previsione di una riserva di partecipazione all’accordo soltanto alle Amministrazioni pubbliche, creerebbe delle problematiche nei casi in cui debbono essere coinvolti anche soggetti privati a parziale o totale controllo pubblico, magari costituiti appositamente per attuare accordi di partenariato pubblico-privato. Gli accordi di programma sarebbero altresì impediti nei casi in cui per la loro attuazione fosse necessario l’intervento del privato che, come nel caso de quo, è titolare di una posizione o di diritti che sono un presupposto di fattibilità dell’accordo.
Infine, la pretermissione del privato dall’accordo, seppure fosse superabile ricorrendo a strumenti di tipo ablatorio o similari, renderebbe impossibile la previsione di oneri contrattuali a suo carico, con la conseguente assenza di garanzie in favore degli enti pubblici coinvolti: si pensi agli obblighi di bonifica di un sito inquinato e alle opere di urbanizzazione poste a carico dei privati coinvolti nell’attuazione di programmi di rilievo pubblicistico (come è successo nella specie, essendosi il privato impegnato a corrispondere un contributo straordinario aggiuntivo rispetto all’importo degli oneri e dello standard dovuto, pari a un milione di euro, e si è impegnato in attività di bonifica).
Nemmeno appare violato il disposto di cui all’art. 6 della legge regionale n. 2 del 2003, visto che lo stesso al comma 12, nel regolamentare gli accordi di programma promossi da enti diversi dalla Regione, stabilisce anche la parte di disciplina che si può applicare ai predetti accordi, escludendosi perciò in tali frangenti una sua applicazione integrale.
Appare, peraltro, evidente che la scelta delle aree su cui effettuare gli interventi, oltre che dei progetti da realizzare, come accade in relazione a tutti i procedimenti di pianificazione territoriale, rientra nella piena discrezionalità dell’Amministrazione e risulta insindacabile da parte del giudice amministrativo (“le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo”).

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6. Con la seconda censura si assume la violazione dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267 del 2000, in quanto la partecipazione all’Accordo di Programma sarebbe stata estesa illegittimamente anche a soggetti privati, mentre ne sarebbero stati esclusi soggetti pubblici direttamente interessati, come la Città metropolitana; l’Accordo non sarebbe conforme nemmeno al disposto dell’art. 6 della legge regionale n. 2 del 2003, vista la mancata osservanza del procedimento ivi disciplinato e il coinvolgimento del tutto strumentale di soggetti privati, finalizzato al perseguimento di interessi estranei a quelli pubblici.
6.1. La doglianza è infondata.
L’art. 34 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli Enti locali) nel definire e disciplinare gli accordi di programma non impedisce affatto che vi partecipino soggetti privati, ma richiede soltanto che si tratti di interventi preordinati alla tutela di un interesse pubblico e involgenti la competenza di più Amministrazioni statali, locali o regionali, o di altri soggetti pubblici.
La partecipazione dei privati ad un accordo di programma, fermo restando il necessario e doveroso perseguimento dell’interesse pubblico, certamente sussistente nella vicenda de qua, deve ritenersi ammissibile sulla scorta di diverse ragioni, tutte finalizzate a rendere lo strumento convenzionale, oltre che duttile, anche efficace (Consiglio di Stato, IV, 29.07.2008, n. 3757; TAR Piemonte, II, 16.05.2018, n. 604).
In primo luogo, la partecipazione del privato non può essere esclusa a priori nell’esercizio di attività di carattere pubblicistico o di natura autoritativa, visto che l’art. 11 della legge n. 241 del 1990, consentendo alla singola amministrazione di stipulare accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti, non può non applicarsi anche laddove si è al cospetto di una pluralità di amministrazioni coinvolte (cfr. Cass. civ., SS.UU., 07.01.2016, n. 64).
L’applicazione in senso riduttivo dell’art. 34 citato, ossia la previsione di una riserva di partecipazione all’accordo soltanto alle Amministrazioni pubbliche, creerebbe delle problematiche nei casi in cui debbono essere coinvolti anche soggetti privati a parziale o totale controllo pubblico, magari costituiti appositamente per attuare accordi di partenariato pubblico-privato. Gli accordi di programma sarebbero altresì impediti nei casi in cui per la loro attuazione fosse necessario l’intervento del privato che, come nel caso de quo, è titolare di una posizione o di diritti che sono un presupposto di fattibilità dell’accordo.
Infine, la pretermissione del privato dall’accordo, seppure fosse superabile ricorrendo a strumenti di tipo ablatorio o similari, renderebbe impossibile la previsione di oneri contrattuali a suo carico, con la conseguente assenza di garanzie in favore degli enti pubblici coinvolti: si pensi agli obblighi di bonifica di un sito inquinato e alle opere di urbanizzazione poste a carico dei privati coinvolti nell’attuazione di programmi di rilievo pubblicistico (come è successo nella specie, essendosi il privato impegnato a corrispondere un contributo straordinario aggiuntivo rispetto all’importo degli oneri e dello standard dovuto, pari a un milione di euro, e si è impegnato in attività di bonifica).
Nemmeno appare violato il disposto di cui all’art. 6 della legge regionale n. 2 del 2003, visto che lo stesso al comma 12, nel regolamentare gli accordi di programma promossi da enti diversi dalla Regione, stabilisce anche la parte di disciplina che si può applicare ai predetti accordi, escludendosi perciò in tali frangenti una sua applicazione integrale.
Una volta accertata, in via generale, la legittimità della partecipazione dei privati all’accordo di programma, va anche chiarito che nella fattispecie de qua il coinvolgimento di alcuni soggetti privati si giustifica con la circostanza che questi ultimi sono proprietari di aree direttamente coinvolte nell’attuazione dell’accordo di programma, in assenza delle quali, tale accordo non avrebbe potuto essere attuato efficacemente, venendo meno l’oggetto principale che ha indotto le Amministrazioni pubbliche a dare avvio ad un tale procedimento; in particolare Sa. risultava proprietaria di un compendio immobiliare, sito in Via ... n. 1, facente parte della Zona Speciale Farini – Unità di intervento Farini – Valtellina dell’Accordo di Programma (all. 1S e 1G del Comune), che risulta strategico in quanto collega il comparto con la zona Garibaldi, il quartiere Isola ed il Cimitero Monumentale. Ciò rende ragionevole la determinazione delle Amministrazioni in ordine al coinvolgimento dei privati –peraltro avvenuta formalmente soltanto il 29.05.2017– nella redazione e nell’approvazione dell’accordo.
Appare, peraltro, evidente che la scelta delle aree su cui effettuare gli interventi, oltre che dei progetti da realizzare, come accade in relazione a tutti i procedimenti di pianificazione territoriale, rientra nella piena discrezionalità dell’Amministrazione e risulta insindacabile da parte del giudice amministrativo (“le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo”: cfr. Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 04.04.2019, n. 751).
6.2. Da quanto evidenziato discende il rigetto anche del suesposto motivo di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.11.2019 n. 2500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Difatti, lo strumento urbanistico previgente classificava l’area in parte in zona omogenea F (attrezzature pubbliche) ed in parte in zona omogenea E (agro-silvo-pastorale).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
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In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità edificatorie del comparto di proprietà dei ricorrenti, rispetto alle previsioni contenute nel Piano adottato, deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
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2. Con il primo motivo si assume l’illegittimità della destinazione agricola impressa all’area di proprietà dei ricorrenti, essendo la stessa assolutamente immotivata e priva di un adeguato supporto istruttorio; del resto, in sede di adozione del Piano sarebbero state ben individuate le caratteristiche dell’area e la Provincia, attraverso il parere di compatibilità con il P.T.C.P., non avrebbe imposto affatto una modifica della destinazione dell’area rispetto al Piano adottato; inoltre, vi sarebbe una disparità di trattamento rispetto ad altri comparti che sarebbero stati resi edificabili, seguendo un procedimento inverso rispetto a quello che ha riguardato i terreni dei ricorrenti.
2.1. La doglianza è infondata.
La motivazione, posta a supporto della destinazione agricola impressa al comparto in cui è situata l’area di proprietà dei ricorrenti, con riguardo al Piano approvato in via definitiva, specifica che «si prende atto dell’appartenenza [dell’area] al sistema paesistico-ambientale e della prevalente valenza paesistica. Anche in considerazione della presenza di antenne di telecomunicazione si riconduce l’area ad ambito agricolo» (all. 1 al ricorso, P13); una tale motivazione trova il presupposto nella prescrizione della Provincia, che assume come l’area RCC18 riportata «nella tavola quadro strutturale 3 – sistema rurale paesistico ambientale, è classificata tra gli ambiti a prevalente valenza paesistica da sottoporre a tutela di cui all’art. 60 delle NdA del P.T.C.P. (ambito C2) ed inoltre si chiede di valutare la previsione in relazione anche all’adiacente area della antenne presenti in Valcava» (all. 10 al ricorso).
Il citato art. 60 delle N.d.A. del P.T.C.P. (all. 9 al ricorso) dispone che, per gli ambiti a prevalente valenza paesistica di interesse provinciale (C2), gli strumenti di pianificazione generale possano consentire limitate utilizzazioni di aree contigue ai tessuti edificati, per ospitare il soddisfacimento dei fabbisogni insediativi strettamente commisurati alla domanda endogena, oltre al compimento delle opere necessarie per la realizzazione di infrastrutture di rete dei servizi di pubblico interesse (punti 5 e 7); in tal modo si evidenzia l’eccezionalità dell’utilizzo a fini edificatori delle predette aree, con ciò giustificando la scelta del Comune di preservare il contesto, quale affermazione della regola generale contenuta nella disposizione sopra menzionata.
Il Comune, quindi, anche per riscontrare l’osservazione provinciale –sebbene formulata in modo non prescrittivo– ha ritenuto di azzonare l’ambito come agricolo, modificando la destinazione impressa allo stesso in sede di adozione.
Anche in considerazione del contenuto del parere di compatibilità provinciale, in precedenza richiamato e posto alla base del recepimento dell’osservazione, va sottolineato come le valutazioni effettuate dal Comune appaiono pienamente ragionevoli e assolutamente giustificate e coerenti con i presupposti di fatto e le risultanze istruttorie.
Del resto, secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 27.02.2017, n. 451).
Difatti, lo strumento urbanistico previgente classificava l’area in parte in zona omogenea F (attrezzature pubbliche) ed in parte in zona omogenea E (agro-silvo-pastorale).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 18.06.2018, n. 1534).
In ordine, poi, all’avvenuto azzeramento delle capacità edificatorie del comparto di proprietà dei ricorrenti, rispetto alle previsioni contenute nel Piano adottato, deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
2.2. Ulteriormente, la diversa collocazione della proprietà dei ricorrenti rispetto a quelle di altri soggetti, seppure poste tra loro in rapporto di prossimità, giustifica certamente una differente classificazione urbanistica delle stesse, anche in conseguenza della disomogeneità degli interventi da effettuarsi nei vari comparti edificatori e in ragione della loro consistenza.
Pertanto, in assenza di omogeneità delle zone poste in comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto meno in relazione all’assetto urbanistico del territorio, dove l’Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità, non rilevando affatto l’ampiezza dei lotti interessati dalle differenti previsioni.
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (TAR Lombardia, Milano, II, 22.01.2019, n. 122; 27.02.2018, n. 567; si veda pure Consiglio di Stato, IV, 16.01.2012, n. 119).
2.3. Pertanto, la suesposta censura va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Aderendo all’indirizzo della Corte costituzionale, va ribadito che sono estranei allo schema ablatorio-espropriativo, con le connesse garanzie costituzionali, i vincoli che importano una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, come nel caso de quo, che non comportino l’espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica.
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4. Con la terza doglianza si deduce l’illegittimità delle previsioni pianificatorie che attraverso la destinazione dell’area ad uso pubblico avrebbero sostanzialmente dato luogo ad uno svuotamento della capacità edificatoria del lotto e quindi posto in essere un’attività di tipo ablatorio, senza alcuna motivazione e senza alcun ristoro.
4.1. La doglianza è infondata.
La zonizzazione impressa all’area dei ricorrenti non ha determinato affatto conseguenze di natura ablatoria, atteso che dall’esame del Piano dei Servizi emerge l’attribuzione «a tutte le aree standard da acquisire alla proprietà pubblica, e/o da destinare ad interesse pubblico, non comprese in Piani Attuativi, un indice volumetrico “bonus” da utilizzare negli ambiti residenziali di trasformazione o negli ambiti urbani consolidati in ragione di 0,25 mc/mq [mentre] nel caso in cui sulle aree di cui al punto 1 l’intervento sia realizzato da parte dei privati in regime di convenzione per l’uso pubblico, decade l’utilizzabilità del “bonus” ivi definito» (all. 19 al ricorso, pag. 4). Ciò sottolinea come gli interventi prospettati siano realizzabili anche ad iniziativa privata, sebbene previa stipula di una convenzione con l’Ente pubblico.
Pertanto, aderendo all’indirizzo della Corte costituzionale, va ribadito che sono estranei allo schema ablatorio-espropriativo, con le connesse garanzie costituzionali, i vincoli che importano una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, come nel caso de quo, che non comportino l’espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica (Corte costituzionale, sentenza 20.05.1999, n. 179; TAR Lombardia, Milano, II, 03.12.2018, n. 2724; 27.02.2018, n. 566; TAR Piemonte, II, 29.01.2016, n. 133).
4.2. Ciò determina il rigetto anche della sopraesposta doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Allorché nelle more del giudizio di impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga altro strumento, completamente sostitutivo del precedente, più nessun interesse a discutere sul precedente strumento urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti un’eventuale pronuncia sul primo atto “inutiliter data”.
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2. Sempre in via preliminare, va dichiarata l’improcedibilità del ricorso R.G. n. 228/2008, in quanto proposto avverso una Variante al P.R.G. approvata nel 2007, che risulta essere stata superata con l’approvazione del P.G.T. nel 2012, a sua volta impugnato con il ricorso R.G. n. 122/2013; inoltre, all’impugnazione del Regolamento comunale di igiene, vigente nel 2008, non ha fatto seguito l’impugnazione da parte dei ricorrenti delle modifiche allo stesso apportate negli anni 2010 e 2011 (cfr. all. 11 del Comune).
Pertanto, secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, «allorché nelle more del giudizio di impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga altro strumento, completamente sostitutivo del precedente, più nessun interesse a discutere sul precedente strumento urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti un’eventuale pronuncia sul primo atto “inutiliter data”» (TAR Lombardia, Milano, II, 30.07.2018, n. 1877; 02.05.2018, n. 1191; altresì Consiglio di Stato, IV, 03.06.2010, n. 3538).
2.1. Di conseguenza, il ricorso R.G. n. 228/2008 va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.08.2018 n. 1945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività antropiche più in generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in via assoluta.
In ogni caso va ribadito che le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati ad una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
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In materia urbanistica non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale.
L’eccepito difetto di motivazione della scelta pianificatoria posta in essere dal Comune, oltre ad apparire in fatto infondato, risulta smentito anche dal consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree.
Pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano”.
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5.2. I ricorrenti poi, in sede di presentazione delle osservazioni, hanno lamentato l’illegittima destinazione dell’area di loro proprietà, in cui è situato l’allevamento suinicolo, in parte ad ambito di non trasformazione urbanistica, in parte ad ambito agricolo di valenza ambientale e in parte ad ambito di trasformazione a verde a valenza paesistica ambientale, piuttosto che il riconoscimento della più confacente destinazione ad ambiti agricoli produttivi.
Va chiarito peraltro che la destinazione impressa con il P.G.T. non ha avuto alcun impatto sulla consistenza dell’allevamento suinicolo già legittimamente insediato, ma è finalizzata ad impedire soltanto una sua espansione futura.
Le ragioni poste alla base della scelta pianificatoria comunale sono da ricercare nelle previsioni del P.T.C.P. di Lodi che hanno inserito l’area de qua in un Ambito Agricolo di Interesse Paesaggistico; al fine di garantire l’omogeneità del predetto contesto il Comune ha ritenuto di non poter riconoscere la destinazione ad ambito agricolo produttivo dei terreni di proprietà dei ricorrenti (cfr. doc. 13 al ricorso, allegato “F”, punto 33).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività antropiche più in generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in via assoluta (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 18.06.2018, n. 1534).
In ogni caso va ribadito che le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati ad una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
Del resto, gli specifici rilievi formulati dai ricorrenti, oltre ad impingere nel merito delle scelte dell’Amministrazione, non si fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle determinazioni comunali in relazione ai dati fattuali posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo alla decisione di conservare l’omogeneità di un Ambito con rilevanza paesaggistica, già individuato a livello di pianificazione provinciale.
Oltretutto, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
5.3. L’eccepito difetto di motivazione della scelta pianificatoria posta in essere dal Comune, oltre ad apparire in fatto infondato, risulta smentito anche dal consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia, Milano, II, 20.06.2017, n. 1371; 30.03.2017, n. 761; altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317).
5.4. Ciò determina il rigetto delle predette censure e, quindi, dell’intero ricorso R.G. n. 122/2013 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.08.2018 n. 1945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, nelle controversie relative all’impugnazione di strumenti urbanistici generali non sono ravvisabili soggetti controinteressati.
Invero, la funzione esclusiva del piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione.
Ciò anche in considerazione del fatto che laddove venisse annullato l’atto di pianificazione generale, ne discenderebbe l’automatica caducazione dei Piani di settore o attuativi contemplati dal predetto strumento generale.

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1.1. In primo luogo deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata notifica dello stesso ad almeno un controinteressato, fondata sull’avvenuta impugnazione di specifiche previsioni relative ad alcuni ambiti A.T.E. (Ambito di trasformazione esterna), che avrebbe reso necessaria l’evocazione in giudizio anche dei soggetti beneficiari di tali Piani attuativi.
1.2. L’eccezione è infondata.
Secondo una consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, nelle controversie relative all’impugnazione di strumenti urbanistici generali non sono ravvisabili soggetti controinteressati (Consiglio di Stato, V, 04.09.2013, n. 4411; IV, 05.03.2013, n. 1344; TAR Basilicata, I, 17.07.2017, n. 503).
Invero, la funzione esclusiva del piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione.
Ciò anche in considerazione del fatto che laddove venisse annullato l’atto di pianificazione generale, ne discenderebbe l’automatica caducazione dei Piani di settore o attuativi contemplati dal predetto strumento generale.
Pertanto, la prima eccezione deve essere respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza ha affermato che i motivi di ricorso non devono essere necessariamente rubricati in modo puntuale, né devono essere espressi con formulazione giuridica assolutamente rigorosa, bastando che siano esposti con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a supporto della domanda finale, come altresì chiarito dall’art. 40 del cod. proc. amm. nel quale si richiede l’esposizione “dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso”.
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1.3. Con una ulteriore eccezione viene dedotta la nullità del ricorso per genericità delle censure, in quanto non ancorate a dati concreti e idonei a fondare la domanda attorea.
1.4. Anche la predetta eccezione è infondata.
Dalla lettura del ricorso si ricavano perfettamente sia il contenuto della domanda che le ragioni fattuali e giuridiche poste a fondamento della stessa; è poi una questione attinente al merito del gravame quella relativa alla fondatezza o meno delle pretese ivi formulate e alla compiuta ed esaustiva dimostrazione degli elementi posti alla base delle stesse.
La giurisprudenza ha affermato, difatti, che i motivi di ricorso non devono essere necessariamente rubricati in modo puntuale, né devono essere espressi con formulazione giuridica assolutamente rigorosa, bastando che siano esposti con specificità sufficiente a fornire almeno un principio di prova utile alla identificazione delle tesi sostenute a supporto della domanda finale, come altresì chiarito dall’art. 40 del cod. proc. amm. nel quale si richiede l’esposizione “dei motivi specifici su cui si fonda il ricorso” (cfr. Consiglio di Stato, III, 25.10.2016, n. 4463; VI, 09.07.2012, n. 4006).
Ne discende, pertanto, il rigetto anche della suesposta eccezione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va premesso che la mancata impugnazione della delibera di approvazione di un piano urbanistico non determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso la delibera comunale di adozione del medesimo, poiché l’annullamento di quest’ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione, nella parte in cui conferma le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Ne discende perciò che anche l’avvenuta successiva approvazione dei Piani di settore o attuativi di quello generale non determina, nemmeno parzialmente, l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in ragione del rapporto di presupposizione dell’atto pianificatorio generale rispetto a quello attuativo e del suo effetto caducante e non meramente viziante.
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1.5. Con un’ultima eccezione si assume l’improcedibilità del ricorso nella parte in cui è rivolta all’attuazione dell’ambito A.T.E. 10, essendo intervenuta nel corso del giudizio la sua approvazione con atto del Consiglio comunale, non oggetto di specifica impugnazione.
1.6. L’eccezione è infondata.
In linea generale, va premesso che la mancata impugnazione della delibera di approvazione di un piano urbanistico non determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso la delibera comunale di adozione del medesimo, poiché l’annullamento di quest’ultima esplica effetti caducanti e non meramente vizianti sul successivo provvedimento di approvazione, nella parte in cui conferma le previsioni contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa (ex multis, TAR Piemonte, II, 10.01.2017, n. 42).
Ne discende perciò che anche l’avvenuta successiva approvazione dei Piani di settore o attuativi di quello generale non determina, nemmeno parzialmente, l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in ragione del rapporto di presupposizione dell’atto pianificatorio generale rispetto a quello attuativo e del suo effetto caducante e non meramente viziante.
Quindi, anche la predetta eccezione va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In termini generali, osserva il Collegio che:
   a) la necessità di fare riferimento ad una nozione ampia e funzionalizzata del concetto di “governo del territorio” è stata a più riprese affermata dalla Sezione, anche di recente, e costituisce indirizzo dal quale il Collegio non intende discostarsi:
         a1) invero, “il potere di pianificazione urbanistica del territorio -la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita ex art. 117 comma 3, Cost.alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune,- non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli -e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti-, ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della "disciplina urbanistica e dei suoi scopi" -art. 1-, non solo nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica"; in definitiva, l'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.”): la nozione ampia di “governo del territorio”, comportando la potestà legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà amministrativa dei comuni in subiecta materia;
   b) come è noto, nel sistema giuridico italiano all’ente Comune è tradizionalmente affidata la funzione amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma III, della Costituzione) che esso esercita, di regola attraverso una duplice direttrice:
         b1) invero, “in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa statale e regionale, occorre differenziare tra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze; la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali ecc.: “.

Con più specifica aderenza alla tematica oggetto di esame, il Collegio non intende decampare dai principi di recente affermati dalla decisione della Sezione n. 2026/2017 (peraltro resa con riferimento all’insediamento di una struttura di vendita in un comune della regione Liguria) nell’ambito della quale si è affermato che “oggetto della presente controversia è la verifica della compatibilità dei limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica con i principi in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi sanciti dalla direttiva 123/2006/CE e dai provvedimenti legislativi che vi hanno dato attuazione.
La premessa di fondo è che la disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l'attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali.
La questione, pertanto, involge tipicamente un giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte dall'autorità comunale rispetto alle effettive esigenze di tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto del territorio; esigenze che, per l'appunto, devono essere sempre riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e non fondate su ragioni meramente economiche e commerciali, che si pongano quale ostacolo o limitazione al libero esercizio dell'attività di impresa che non deve comunque svolgersi in contrasto con l'utilità sociale (in argomento da ultimo, proprio in materia di apertura di strutture di vendita e di rapporti fra la direttiva 12.12.2006 n. 2006/123/CE, c.d. Bolkestein, v. Corte cost., 25.02.2016, n. 39; Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1860; 13.01.2014, n. 70).

Alla stregua dei superiori principi, la sintesi che ne può discendere è la seguente:
   a) è consentito ai comuni di operare scelte di pianificazione al fine di garantire un corretto insediamento delle strutture di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi all'ambiente urbano;
   b) le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, infatti, rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi. La diversità degli interessi pubblici tutelati impedisce di attribuire in astratto prevalenza, alle norme in materia commerciale rispetto al piano urbanistico;
   c) di regola, la anticoncorrenzialità della disposizione preclusiva ricorre allorché essa si sostanzi in valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o commerciale (rectius: tali valutazioni costituiscono indici univoci di anticoncorrenzialità).
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3. Così risolte le problematiche di natura pregiudiziale, ed accertato che non esistono ostacoli alla possibilità di pervenire alla decisione di merito, può adesso passarsi alla disamina delle (censure contenute nell’appello.
3.1. Osserva in proposito il Collegio, che:
   a) la necessità di fare riferimento ad una nozione ampia e funzionalizzata del concetto di “governo del territorio” è stata a più riprese affermata dalla Sezione, anche di recente, e costituisce indirizzo dal quale il Collegio non intende discostarsi (tra le tante: Consiglio di Stato, sez. IV, 22/02/2017, n. 821 “il potere di pianificazione urbanistica del territorio -la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita ex art. 117 comma 3, Cost.alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune,- non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli -e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti-, ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della "disciplina urbanistica e dei suoi scopi" -art. 1-, non solo nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica"; in definitiva, l'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.”): la nozione ampia di “governo del territorio”, comportando la potestà legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà amministrativa dei comuni in subiecta materia;
   b) come è noto, nel sistema giuridico italiano all’ente Comune è tradizionalmente affidata la funzione amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma III, della Costituzione) che esso esercita, di regola attraverso una duplice direttrice (tra le tante Cons. Stato Sez. VI, 30.06.2011, n. 3888 “in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa statale e regionale, occorre differenziare tra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze; la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali ecc.: “).
3.2. Se questo è il quadro generale, occorre avvertire che la giurisprudenza si è a più riprese interrogata sulla “tenuta” e sulla complessiva compatibilità di tali principi con le numerose innovazioni legislative (talune anche conseguenti a determinazioni comunitarie) sopravvenute medio tempore, che hanno dettato discipline “particolari” con riferimento a variegate tipologie di insediamenti (esempio: quelli dedicati alla produzione di energia da fonti rinnovabili, le strutture di vendita etc.).
3.2.1. Con più specifica aderenza alla tematica oggetto di esame, il Collegio non intende decampare dai principi di recente affermati dalla decisione della Sezione n. 2026 del 2017 (peraltro resa con riferimento all’insediamento di una struttura di vendita in un comune della regione Liguria) nell’ambito della quale si è affermato che “oggetto della presente controversia è la verifica della compatibilità dei limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica con i principi in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi sanciti dalla direttiva 123/2006/CE e dai provvedimenti legislativi che vi hanno dato attuazione.
La premessa di fondo è che la disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l'attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali.
La questione, pertanto, involge tipicamente un giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte dall'autorità comunale rispetto alle effettive esigenze di tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto del territorio (cfr. Corte giustizia UE, sez. IV, 26.11.2015, n. 345; sez. II, 24.03.2011, n. 400); esigenze che, per l'appunto, devono essere sempre riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e non fondate su ragioni meramente economiche e commerciali, che si pongano quale ostacolo o limitazione al libero esercizio dell'attività di impresa che non deve comunque svolgersi in contrasto con l'utilità sociale (in argomento da ultimo, proprio in materia di apertura di strutture di vendita e di rapporti fra la direttiva 12.12.2006 n. 2006/123/CE, c.d. Bolkestein, v. Corte cost., 25.02.2016, n. 39; Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1860; 13.01.2014, n. 70).
7.1.3. Nel caso di specie, dalla piana lettura degli atti impugnati -ed in particolare di quelli contestati con il terzo atto di motivi aggiunti (la determina dirigenziale finale del 09.04.2015, conforme alla delibera di Consiglio comunale del 26.02.2015 ed al decisivo parere dell'Ufficio urbanistica in data 09.02.2015)- è dato evincere che l'amministrazione comunale ha posto a base del diniego di procedibilità sei autonome ragioni, tutte incentrate proprio sui motivi imperativi di interesse generale presi in considerazione dall'art. 31, co. 2, d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito dalla l. 22.12.2011, n. 214, concernenti la tutela dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano.
A ciò l'amministrazione comunale si determinava, peraltro, anche in esecuzione -come dalla stessa puntualmente ricordato- della circolare 13.03.2013 (prot. n. PG/2013/42712) della Regione Liguria, volta a stabilire i principi cardine da osservare nella nuova programmazione commerciale ed urbanistica, approvata con deliberazione di Consiglio regionale n. 31/2012, tra cui spiccano:
   a) quello di previamente verificare se nel vigente strumento urbanistico (PUC o PRG o PdF) siano già individuate le aree compatibili con l'insediamento delle gradi strutture di vendita o attività ad esse assimilate (come i parchi commerciali);
   b) quello di consentire l'insediamento di quelle strutture che, sole, insistono nelle aree, zone o edifici che abbiano una specifica destinazione a ciò deputata.
Avuto, pertanto, riguardo alla specifica ed oggettivamente apprezzabile ragione ostativa opposta dall'amministrazione locale (l'avere già previsto, nell'ambito del territorio comunale, in rapporto al tessuto urbano ed insediativo, altra area deputata ad ospitare le dette strutture di vendita), non può che concludersi nel senso della compatibilità delle criticate limitazioni urbanistiche e programmatorie rispetto agli obiettivi di tutela del territorio e dell'ambiente, ivi compreso quello urbano, nel perseguimento di esigenze attinenti a motivi imperativi di pubblico interesse (il corretto uso del territorio, il bilanciamento del carico urbanistico, la preservazione dal consumo esasperato di suolo, la valorizzazione del bacino di utenza), prescindendo del tutto, la decisione impugnata, da valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o commerciale
.”.
3.3. Alla stregua dei superiori principi, la sintesi che ne può discendere è la seguente:
   a) è consentito ai comuni di operare scelte di pianificazione al fine di garantire un corretto insediamento delle strutture di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi all'ambiente urbano;
   b) le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, infatti, rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi. La diversità degli interessi pubblici tutelati impedisce di attribuire in astratto prevalenza, alle norme in materia commerciale rispetto al piano urbanistico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2017, n. 2699 Cons. Stato, sez. VI, 10.04.2012, n. 2060);
   c) di regola, la anticoncorrenzialità della disposizione preclusiva ricorre allorché essa si sostanzi in valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o commerciale (rectius: tali valutazioni costituiscono indici univoci di anticoncorrenzialità) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.06.2018 n. 3314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Invero, “in base al principio della successione nel tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore:
   - hanno un carattere di assoluta prevalenza,
   - non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività" del precedente PRG;
   - si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le quali non possono comunque conservare alcuna efficacia”.
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Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, “le scelte in ordine alla destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale in relazione a situazioni soggettive di affidamento qualificato del privato in ordine a una precipua destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di annullamento di diniego di permesso di costruire o di silenzio rifiuto su una domanda di permesso di costruire, oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa del privato alla salvaguardia della precedente tipizzazione come zona edificabile dei suoli di sua pertinenza e/o all'ottenimento di una tipizzazione più gradita è cedevole rispetto all'esercizio della potestà pianificatoria finalizzata alla corretta e razionale disciplina urbanistica del territorio comunale e che trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al P.R.G..
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4.2 - Quanto al denunciato vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione e travisamento dei presupposti, giova evidenziare che –per espressa ammissione di parte ricorrente- “risponde a loro precipuo interesse preservare il regime edificatorio rinveniente dalle previsioni del previgente pdf, per come fatte rivivere dalla sentenza n. 1651/10 di annullamento del PRG del 15/02/2005”.
Tale “reviviscenza” non è, tuttavia, fondatamente invocabile dai ricorrenti, se non in termini di interesse di mero fatto.
Ed invero, “in base al principio della successione nel tempo delle norme, con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all'attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore:
   -- hanno un carattere di assoluta prevalenza,
   -- non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività" del precedente PRG;
   -- si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica norma transitoria ah hoc) alle precedenti disposizioni le quali non possono comunque conservare alcuna efficacia” (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2012, n. 693)
” - Tar Lombardia sez. IV, sent. 11/07/2014 n. 1842.
La illegittimità della tipizzazione B1 derivante dalla statuizione di questo TAR (sentenza n. 1651/2010) se obbliga l’A.C. a “ritipizzare” l’area, non determina, altresì, in via automatica l’applicazione della previgente tipizzazione. E ciò a tacere del fatto che il previgente pdf risalente all’anno 1966 non tiene conto del vincolo archeologico apposto soltanto nel 1996, di talché l’auspicata tipizzazione (comportante un IFF di 5 mc/mq) sarebbe del tutto sganciata dall’attuale stato di fatto e di diritto e dei suoli.
4.2.1 - Va inoltre osservato che secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, “le scelte in ordine alla destinazione urbanistica, in specie se espresse in sede di emanazione di nuovo strumento urbanistico, o sua variante generale, costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il piano, salva l'esigenza di motivazione puntuale in relazione a situazioni soggettive di affidamento qualificato del privato in ordine a una precipua destinazione, come rivenienti da precedenti convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato, giudicati di annullamento di diniego di permesso di costruire o di silenzio rifiuto su una domanda di permesso di costruire, oppure qualora sia impressa destinazione agricola a area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex multis, cfr. TAR Basilicata, n. 747 del 07.07.2016, C.d.S., sezione IV, 04.10.2013, n. 4917; id. sez. IV, 07.11.2012, n. 5665; id. 16.11.2011, n. 6049; id. 09.12.2010, n. 8682, 22.06.2006, n. 3880, 14.10.2005, n. 5716)”.
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa del privato alla salvaguardia della precedente tipizzazione come zona edificabile dei suoli di sua pertinenza e/o all'ottenimento di una tipizzazione più gradita è cedevole rispetto all'esercizio della potestà pianificatoria finalizzata alla corretta e razionale disciplina urbanistica del territorio comunale e che trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al P.R.G. (TAR Friuli-Venezia Giulia, 07/10/2014, n. 488; TAR Trento, 21/02/2012, n. 57, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, sent. n. 3321/2016).
Conclusivamente va affermato che non esiste nell’ordinamento giuridico italiano un principio di stabilità delle previsioni urbanistiche
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 07.12.2017 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per costante giurisprudenza, le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in funzione di interessi generali e non individuali.
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La giurisprudenza amministrativa ha più volte evidenziato che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana.

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3. Con il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, riproposto con il ricorso per motivi aggiunti, viene dedotta violazione dell’art. 9 della Legge n. 1150/1942, poiché il Comune non si è limitato a respingere l’osservazione del ricorrente, ma ha impresso all’area una nuova e definitiva destinazione (zona TRP) rispetto a quella impressa in sede di adozione (zona V) e che riproponeva il vincolo preesistente da quasi vent’anni per la realizzazione di un parco urbano. Di conseguenza il PRG avrebbe dovuto essere ripubblicato affinché il ricorrente potesse presentare osservazioni contro la nuova destinazione urbanistica.
La censura è infondata.
Sul punto va ricordato che, secondo l’indirizzo ormai prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la ripubblicazione del piano risulta essere necessaria solo nel caso vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14.04.2016 n. 1516; Sez. IV, 12.03.2009 n. 1477; id. 05.11.2003 n. 7782; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13.04.2017 n. 856; id. 25.05.2012 n. 1440; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.01.2017 n. 29; TAR Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1839; id. 12.12.2016 n. 1768; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 11.11.2014 nn. 2771-2275; TAR Veneto, Sez. II, 22.05.2013 n. 728; TAR Marche, 16.07.2010 n. 3114; id. 30.06.2010 n. 2818; id. 04.05.2010 n. 212).
Nel caso specifico la modifica della zonizzazione ha riguardato una modesta porzione di mq. 48.792 rispetto ad un territorio comunale che si sviluppa su kmq. 17,53 (come emerge dalle informazioni statistiche desumibili attraverso Internet), cioè meno dello 0,3% (ovvero il 3 per mille) di quest’ultimo.
Risulta poi dubbio che la modifica da zona V (zona a parco e verde pubblico attrezzato) a zona TRP (Territorio rurale di valore paesaggistico-ambientale) costituisca un mutamento essenziale, poiché trattasi di zone che hanno in comune la salvaguardia delle aree verdi, ancorché una finalizzata all’uso pubblico e l’altra all’uso privato.
Va comunque osservato che, per costante giurisprudenza, le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in funzione di interessi generali e non individuali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.12.2014 n. 6386; id. 01.07.2014 n. 3294; 10.06.2014 n. 2973; 18.11.2013 n. 5453; 09.03.2011 n. 1503; 26.10.2012 n. 5492; 12.05.2010 n. 2842).
Il ricorrente ha fornito il proprio apporto collaborativo attraverso la proposta preliminare di riassetto dell’intera zona e poi con formali osservazioni al piano adottato. Tali osservazioni, tra l’altro, contestavano l’illegittimità della reiterazione di vincoli scaduti senza un adeguato indennizzo; profilo al quale l’Amministrazione si è adeguata eliminando il vincolo, con obiettiva e doverosa necessità di imprimere all’area una diversa destinazione libera da vincoli preordinati all’esproprio.
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evidenziato che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.12.2016 n. 5334; id. 12.05.2016 n. 1917; 16.11.2011 n. 6049; 27.07.2011 n. 4505; 13.10.2010 n. 7478; 27.07.2010 n. 4920).
L’implicito rigetto della proposta preliminare di riassetto della zona e l’originaria classificazione a zona V (zona a parco e verde pubblico attrezzato), rendono evidente la volontà dell’Amministrazione Comunale di non destinare questa porzione di territorio allo sviluppo urbano, per cui non si intravede quale ulteriore apporto collaborativo avrebbe potuto fornire il ricorrente dopo la ripubblicazione del piano e le osservazioni contro la nuova classificazione a zona TRP, al fine di ottenere una destinazione urbanistica diversa, ma sempre compatibile con dette esigenze pianificatorie (TAR Marche, sentenza 17.05.2017 n. 368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La mancata approvazione del P.G.T. nei termini indicati dall’art. 13 della legge regionale n. 12/2005, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, non determina la caducazione degli atti precedentemente adottati ma l’inefficacia degli stessi.
La ratio della norma, dunque, in considerazione del concetto stesso di inefficacia (che è ben diverso da quello di caducazione), non pare essere quella di imporre comunque, in caso di sforamento dei termini, la reiterazione dell’intera procedura pianificatoria, ma unicamente quella di evitare la presenza di piani adottati che producano effetti attraverso misure di salvaguardia senza però che l’assetto urbanistico del territorio sia stato stabilmente assicurato tramite la definitiva approvazione del Piano.
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Le censure di cui al primo motivo di ricorso, relativo alla violazione dei termini di cui all’art. 13, comma 7, della legge regionale n. 12/2005, non possono essere condivise.
Si osserva, in linea generale e preliminare, che la mancata approvazione del P.G.T. nei termini indicati dall’art. 13 della legge regionale n. 12/2005, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, non determina la caducazione degli atti precedentemente adottati ma l’inefficacia degli stessi. La ratio della norma, dunque, in considerazione del concetto stesso di inefficacia (che è ben diverso da quello di caducazione), non pare essere quella di imporre comunque, in caso di sforamento dei termini, la reiterazione dell’intera procedura pianificatoria, ma unicamente quella di evitare la presenza di piani adottati che producano effetti attraverso misure di salvaguardia senza però che l’assetto urbanistico del territorio sia stato stabilmente assicurato tramite la definitiva approvazione del Piano.
Sotto distinto profilo, è necessario poi prendere atto della indubbia particolarità procedimentale che ha caratterizzato la vicenda per cui è causa.
Invero, l’avvenuto ritiro del P.G.T. approvato (ma senza pubblicazione del relativo avviso e, quindi, non efficace), ha determinato l’innesto di un segmento procedimentale differente ed ulteriore il quale, prevedendo la rinnovazione della valutazione delle osservazioni già presentate e la riapertura dei termini di presentazione di eventuali ulteriori osservazioni, ha comportato uno slittamento dei tempi (ove si consideri il primo termine di presentazione delle osservazioni). Tale rinnovata attività di valutazione delle osservazioni (quelle originarie e quelle nuove) e la conseguente definitiva approvazione del Piano si sono svolte, peraltro, nel rispetto dei termini di legge, con riferimento, ovviamente, a quelli indicati ex novo nell’atto di ritiro e, sotto tale profilo, nessun vizio inficia gli atti impugnati.
Infine, si deve ulteriormente rilevare che l’Amministrazione comunale resistente, attraverso il procedimento censurato, ha comunque garantito la piena ed effettiva partecipazione procedimentale degli interessati, valutando tutte le osservazioni pervenute; per quanto riguarda, in particolare, la specifica posizione della società ricorrente, con comunicazione prot. n. 36360 del 22.10.2012, effettuata ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990, l’Amministrazione comunale aveva reso noto alla ricorrente stessa che, tra le altre, erano state depositate osservazioni al P.G.T. adottato relative a previsioni urbanistiche su aree riconducibili alla proprietà della medesima, comunicando la possibilità di prendere visione degli atti e produrre memorie scritte e documenti, possibilità sfruttata dalla ricorrente che provvedeva a produrre note difensive; la società ricorrente ha, quindi, potuto interloquire con l’Amministrazione comunale, evidenziando le proprie ragioni nell’ambito di un modulo partecipativo sostanzialmente rispettato.
Non pare, dunque, che la posizione della ricorrente sia stata lesa sotto questo specifico profilo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2017 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Occorre considerare che gli atti impugnati sono, come visto, legittimi e che il giudice amministrativo può riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal comportamento inoperoso dell'Amministrazione solo quando sia stata accertata la spettanza del c.d. bene della vita, atteggiandosi così il riconoscimento del diritto del ricorrente al bene della vita come presupposto indispensabile per configurare una condanna al risarcimento del relativo danno.
D’altro canto, l'approvazione del piano attuativo non è atto dovuto, ancorché esso risulti conforme al regolamento urbanistico al momento vigente, essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale; ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza.

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9. Con la quinta censura i ricorrenti deducono che il Comune di Lucca sarebbe responsabile sia del ritardo nella conclusione della procedura di approvazione del piano attuativo, ritardo che avrebbe cagionato la decadenza della previsione urbanistica ex art. 55 della L.R. n. 1/2005, sia dello stravolgimento della variante del regolamento urbanistico adottata; gli esponenti evidenziano che l’Amministrazione responsabile del ritardo ha causato la sopravvenienza di una normativa urbanistica preclusiva dell’intervento oggetto della domanda del privato: secondo i deducenti, il decorso infruttuoso del termine del procedimento costituisce indice presuntivo di colpa, l’affidamento del privato sulla certezza dei tempi dell’azione amministrativa è di per sé meritevole di tutela ed il danno è costituito dalla procurata impossibilità di realizzare le opere progettate, cui corrisponde una perdita patrimoniale di euro 6.104.000.
Sotto altro profilo, gli istanti lamentano che la vicenda, mettendo in forse per anni il futuro dei loro beni e delle loro aziende, li avrebbe cagionato una malattia a livello psichico rilevante quale danno esistenziale.
I suddetti rilievi non sono condivisibili.
L’originaria documentazione allegata alla proposta di piano attuativo presentata dai deducenti era incompleta, come dimostrano le richieste istruttorie della Conferenze dei Servizi e della Regione.
I ricorrenti hanno presentato nuovi elaborati in data 20.06.2008, cui hanno fatto seguito i pareri positivi, in data 10.10.2008 e 19.12.2008, della competente Circoscrizione (chiamata a pronunciarsi in quanto titolare di funzioni consultive su argomenti di specifico interesse della circoscrizione e su provvedimenti di competenza dell’Amministrazione comunale aventi carattere generale, in forza del regolamento dei consigli di circoscrizione) e della Commissione urbanistica.
Di conseguenza, assumendo come dies a quo la data dell’ultimo parere acquisito, il procedimento di approvazione del piano attuativo avrebbe dovuto concludersi prima del venir meno dell’efficacia del regolamento urbanistico (cioè prima del 14.04.2009) alla luce del tenore letterale dell’art. 22 della legge n. 136/1999, secondo cui l’approvazione, da parte dei consigli comunali, dei piani attuativi di iniziativa privata deve intervenire entro il termine di 90 giorni a decorrere dalla presentazione dell’istanza corredata dei prescritti elaborati o, qualora siano necessari, dalla acquisizione dei pareri o nulla osta.
Occorre tuttavia considerare che gli atti impugnati sono come visto legittimi e che il giudice amministrativo può riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal comportamento inoperoso dell'Amministrazione solo quando sia stata accertata la spettanza del c.d. bene della vita, atteggiandosi così il riconoscimento del diritto del ricorrente al bene della vita come presupposto indispensabile per configurare una condanna al risarcimento del relativo danno (Consiglio di Stato, IV, 07.03.2013, n. 1406; idem, 28.05.2013, n. 2899; TAR Lazio Roma, III, 19.07.2013, n. 7386; TAR Liguria, I, 02.07.2013, n. 985).
D’altro canto, l'approvazione del piano attuativo non è atto dovuto, ancorché esso risulti conforme al regolamento urbanistico al momento vigente, essendo l'approvazione medesima sempre espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale; ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza (Cons. Stato, IV, 12.03.2013, n. 1479; TAR Lombardia, Brescia, I, 12.01.2016, n. 23; TAR Puglia, Bari, III, 12.03.2015, n. 403).
Tali conclusioni valgono in particolar modo nel caso di specie, in cui da un lato rilevavano, già nel 2008, prima dell’adozione del richiamato piano attuativo, problematiche connesse allo sforamento, da parte delle previsioni del regolamento urbanistico all’epoca vigente, delle quantità edificatorie indicate nel piano strutturale, con particolare riferimento, tra le altre, all’UTOE n. 4 di interesse dei ricorrenti (pagina 3 della relazione illustrativa allegata alla delibera di approvazione della variante straordinaria), dall’altro sono emersi profili di collisione tra il regolamento urbanistico e il PIT, come è dimostrato dal tenore delle osservazioni presentate dalla Regione (che sono state poi recepite dal Consiglio Comunale anche nel senso di stralciare, in sede di definitiva approvazione della contestata variante, la previsione del piano attuativo di interesse dei ricorrenti), talché non può ritenersi accertata la spettanza del bene della vita cui aspiravano i ricorrenti.
Del resto, la sensibilizzazione verso aspetti di sostenibilità ambientale valorizzati in norme regionali aveva indotto il Consiglio Comunale ad introdurre già in fase di adozione della variante straordinaria, in relazione al piano attuativo proposto dalla ricorrente, prescrizioni di misure di mitigazione ambientale vincolanti ai fini della definitiva approvazione del piano stesso (si veda l’art. 129.4 delle NTA della variante adottata, costituente il documento n. 6 depositato in giudizio dal Comune).
Infine, non può trovare applicazione l’art. 2-bis della legge n. 241/1990 invocato dai ricorrenti, trattandosi di norma entrata in vigore il 04.07.2009, vale a dire dopo la lamentata inosservanza del termine di conclusione del procedimento di approvazione del piano attuativo.
Per tali ragioni non può essere accolta la richiesta risarcitoria, la cui quantificazione è stata ragguagliata dai deducenti alla differenza tra volume edificabile derivante dalla variante approvata e volume edificabile derivante dal piano attuativo adottato ma non approvato (danno subito come minor volume edificabile)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La c.d. dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima.
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Con il primo motivo i ricorrenti -in relazione alla circostanza che l’area in questione avrebbe dovuto essere ceduta dai proprietari al Comune in forza del P.L. del 1957- rilevano che del tutto illegittimamente ad una mancata acquisizione del terreno da parte dell’Amministrazione si è aggiunta la trasformazione dell'area edificabile, sostenendo che l’Amministrazione comunale quindi si è privata di beni che ben potrebbe pretendere e che comunque sino ad ora ha usato a beneficio della collettività.
La censura è fondata.
La difesa dell’Amministrazione ha evidenziato come, a causa del gran tempo trascorso, nessuno dei tecnici comunali era a conoscenza del fatto che l'area era stata in passato promessa in cessione al Comune, sicché trattarono l'osservazione presentata dalle sigg.re Po. come tutte quelle di analogo tenore: accolsero parzialmente l'osservazione, riclassificando solo la metà dell'area come ZB5 e pretendendo in cambio la cessione della restante metà.
Abilmente la difesa del Comune rileva che l’obbligazione risultava prescritta per decorso del termine di adempimento (10+10 anni), ma tale circostanza non può avere rilevanza dirimente.
Un conto è l’impossibilità di ottenere oggi la cessione dell’area in forza della convenzione del 1957/1964 altra questione è quella –che sola qui viene in rilievo– della possibilità di accogliere una osservazione infondata in punto di fatto e di diritto.
In punto di fatto, perché le controinteressate hanno taciuto al Comune che l’area era rimasta in loro proprietà nonostante la convenzione di lottizzazione del 1964 ne prevedesse espressamente la cessione al Comune.
In punto di diritto, perché hanno affermato, nel proporre l’osservazione (v. doc. n. 7 del Comune), che l’area era stata gravata da vincolo espropriativo da tempo decaduto mentre veniva in rilievo una destinazione a verde pubblico avente caratteristiche di vincolo a carattere non già espropriativo ma conformativo (cfr. l’univo indirizzo della giurisprudenza sul punto: ex multis di recente Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2015, n. 5582: La destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale).
Non v’è motivo per non credere alla tesi della buona fede dei tecnici comunali (anche se la mancata acquisizione connota di negligenza e inefficienza l’agere complessivo dell’Amministrazione comunale negli anni decorsi) Peraltro va osservato che si era in presenza di area avente de iure e de facto destinazione di verde attrezzato. Né vale sostenere che analoghe richieste sono state accolte.
I ricorrenti hanno affermato (allegato fotografie (doc. n. 6 del deposito del 20.12.2010) che sull’area in questione sono state poste dal Comune attrezzature sportive, porte per il calcio e recinzione, circostanza non smentita dalla Amministrazione comunale da ritenersi quindi comprovato ex art. 64, c. 2 c.p.a.
In tale contesto l’affermazione della difesa comunale secondo cui “Ben lungi dall'essere viziato da sviamento di potere, il comportamento del Comune di Panna è invece del tutto rispondente al pubblico interesse ed ai principi di equità che devono informare l'agire della Pubblica Amministrazione”, in quanto “il diritto a pretendere la cessione si era ormai da decenni prescritto e non sussisteva, pertanto, alcuna ragione per trattare diversamente i proprietari di quell'area destinata a verde dai proprietari delle altre aree, situate nella stessa zona, che sono state riclassificate in cambio della cessione del 50% della superficie”, astrattamente condivisibile si infrange contro la sussistenza nella fattispecie di un obbligo di cessione non eseguito e del concreto e duraturo utilizzo –senza alcuna opposizione delle formali proprietarie- dell’uso pubblico dell’area a verde attrezzato.
Del resto non vi è affatto analogia fra un area astrattamente classificata a verde ma rimasta in possesso dei proprietari (quale deve ritenersi, in mancanza di alcuna prova fornita dall’amministrazione al riguardo quella di cui all’osservazione n. 527), e quella qui in contestazione che era oggetto di pattuizione di cessione e che è da lustri dedicata all’uso pubblico.
Va soggiunto –anticipando quanto si verrà ad esporre trattando del secondo motivo- che, ove fosse stata posta in essere la ripubblicazione del piano dopo l’accoglimento dell’osservazione, i diretti interessati (gli attuali ricorrenti così come i cittadini utenti del parco ai quali è riferimento a pag. 6 della memoria del Comune) avrebbero potuto proporre osservazioni al riguardo. In tal modo l’amministrazione sarebbe venuta a conoscenza della reale situazione dell’area ed avrebbe potuto assumere a ragion veduto e non su un falso presupposto le proprie determinazioni pianificatorie.
In ogni caso il Comune ben avrebbe potuto instaurare un giudizio per fare valere comunque l’usucapione a seguito del possesso ultraventennale dell’area.
Non va esclusa neppure la possibilità del verificarsi della fattispecie della c.d. dicatio ad patriam, che, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività “uti cives”, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (cfr. ex multis Cassazione civile, sez. I, 11/03/2016, n. 4851) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ogni scelta pianificatoria è espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti.
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27. Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell'ampia discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogica la decisione di porre rimedio all’eccessivo consumo di suolo ormai posto in essere in una parte del territorio provinciale (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 27.05.2014, n. 1355)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.06.2015 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La legge regolatrice del contenuto del PTCP, se consente senza dubbio alla provincia di fissare limiti all’attività edilizia, mediante l’individuazione di aree e zone non edificabili (ponendo quindi a carico dei comuni un obbligo di non fare, vale a dire un divieto di consentire un’attività di edificazione lesiva di superiori valori di tutela ambientale), non ammette però che la provincia possa addossare ai comuni specifici obblighi positivi di fare, vale a dire –nel caso di specie– di reperire standard anche in misura eventualmente superiore a quella risultante dagli strumenti urbanistici comunali.
Neppure le norme della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, che disciplinano il contenuto del PGT e gli oneri di urbanizzazione, consentono di riconoscere alle amministrazioni provinciali le prerogative di cui sopra; al contrario, l’unico esplicito obbligo positivo da osservarsi in caso di costruzione su suolo libero è quello dell’art. 43, comma 2-bis, della citata legge regionale, sulla maggiorazione del contributo di costruzione in caso di interventi che sottraggono superfici agricole allo stato di fatto (norma, quest’ultima, che manifesta l’evidente volontà del legislatore regionale di contenere il consumo di suolo; tale finalità non può però –in mancanza di una superiore previsione di legge– giustificare l’imposizione ai comuni da parte della provincia di reperimento di maggiori standard per scopi di mitigazione ambientale e riforestazione).

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63. Con il settimo e l’ottavo motivo, vengono censurati gli art. 31 e 46 della norme tecniche di attuazione (NTA) del PTCP, i quali impongono il reperimento di standard aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9 della legge-regionale n. 12 del 2005 in caso di trasformazione delle aree.
64. In proposito è opportuno premettere che al ricorrere di particolari condizioni previste dall’art. 31 delle NTA del PTCP, sulle arre inserite nella rete verde di ricomposizione paesaggistica sono ammessi interventi edilizi. Tuttavia, come riferito dai ricorrenti, in base alle norme impugnate, tali interventi sono subordinati al reperimento di standard aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla vigente normativa.
65. Ciò premesso si deve rilevare che previsioni come quelle contenute negli artt. 31 e 46 delle NTA finiscono per imporre ai comuni il reperimento di standard, fra l’altro espressamente definiti come non monetizzabili, per i quali la pianificazione provinciale fissa in maniera precisa la misura e la destinazione (riqualificazione ambientale e forestazione).
66. Tali standard provinciali si aggiungono a quelli previsti dai PGT e –in assenza di una diversa previsione– potrebbero anche superare quelli minimi inderogabili previsti dal d.m. n. 1444 del 1968 (a tale proposito, si ricordi il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che impone un onere di motivazione specifica in caso di superamento degli standard minimi; cfr. fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sezione II, 21.10.2009, n. 4787).
67. La previsione di piano provinciale sull’obbligo di reperimento di standard comunali appare lesiva del principio di legalità dell’azione amministrativa, non esistendo alcuna norma di legge che attribuisca alla provincia una simile prerogativa.
68. In particolare, la legge regolatrice del contenuto del PTCP, se consente senza dubbio alla provincia di fissare limiti all’attività edilizia, mediante l’individuazione di aree e zone non edificabili (ponendo quindi a carico dei comuni un obbligo di non fare, vale a dire un divieto di consentire un’attività di edificazione lesiva di superiori valori di tutela ambientale), non ammette però che la provincia possa addossare ai comuni specifici obblighi positivi di fare, vale a dire –nel caso di specie– di reperire standard anche in misura eventualmente superiore a quella risultante dagli strumenti urbanistici comunali.
69. Si badi che le aree a standard, così come reperite, implicano un incremento del patrimonio immobiliare dei comuni, con inevitabile aumento dei costi di gestione e manutenzione, che resterebbero in capo ai comuni stessi.
70. Neppure le norme della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 che disciplinano il contenuto del PGT e gli oneri di urbanizzazione consentono di riconoscere alle amministrazioni provinciali le prerogative di cui sopra; al contrario, l’unico esplicito obbligo positivo da osservarsi in caso di costruzione su suolo libero è quello dell’art. 43, comma 2-bis, della citata legge regionale, sulla maggiorazione del contributo di costruzione in caso di interventi che sottraggono superfici agricole allo stato di fatto (norma, quest’ultima, che manifesta l’evidente volontà del legislatore regionale di contenere il consumo di suolo; tale finalità non può però –in mancanza di una superiore previsione di legge– giustificare l’imposizione ai comuni da parte della provincia di reperimento di maggiori standard per scopi di mitigazione ambientale e riforestazione).
71. In conclusione, la pretesa provinciale appare violare l’art. 23 della Costituzione che, come noto, impone la riserva di legge per gli obblighi di prestazione personale o patrimoniale, oltre il già ricordato principio di legalità dell’azione amministrativa e quello della tipicità degli atti amministrativi (sulla rilevanza di tali principi, anche in sede di pianificazione urbanistica, si veda la recente pronuncia del TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.07.2014, n. 1972).
72. Per queste ragioni, gli art 31 e 46 delle NTA devono essere annullati in parte qua
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.06.2015 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla possibilità, o meno, del PTCP di introdurre una disciplina peggiorativa rispetto a quella dettata dal piano di governo del territorio (PGT).
Il PTCP approvato dalla Provincia, con riguardo alle aree di proprietà delle ricorrenti, ha introdotto una disciplina peggiorativa rispetto a quella dettata dal piano di governo del territorio (PGT) del Comune. Quest’ultimo le colloca invero in un ambito di trasformazione e, quindi, le classifica come aree in cui l’edificazione è ammessa.
Ciò premesso, va osservato che, ovviamente, le province non sono vincolate dai previgenti PGT approvati dai comuni; sicché è sempre ammessa la possibilità per i PTCP di introdurre una disciplina peggiorativa.
Va ancora osservato che, in linea generale, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, non sussiste ipotesi di affidamento qualificato in capo al proprietario della singola area che veda introdurre, da parte dello strumento di pianificazione sopravvenuto, prescrizioni meno favorevoli rispetto a quelle previgenti. Va difatti considerato affidamento generico quello alla non reformatio in peius della previgente disciplina.
La giurisprudenza ha però rilevato che, in alcune ipotesi, tale qualificato affidamento sussiste. Una di queste ipotesi ricorre proprio nel caso in cui il piano sopravvenuto, emanato da una regione o da un ente infraregionale, introduca disposizioni discordanti con gli strumenti urbanistici comunali vigenti.
Tuttavia, anche in tali ipotesi non è necessaria l’introduzione di norme di salvaguardia, essendo invece sufficiente che l’ente sovracomunale assolva ad un onere motivazionale aggravato, indicando le puntuali ragioni che l’hanno indotto a disattendere le norme del piano urbanistico.
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25. Con il secondo motivo, le ricorrenti censurano la norma di salvaguardia contenuta nel citato art. 31 della NdP che, come detto, sancisce il divieto di realizzare nuove edificazioni sulle aree inserite nella rete verde di ricomposizione paesaggistica. Tale norma fa salve le contrastanti previsioni contenute negli strumenti urbanistici vigenti al momento di adozione del PTCP.
La disposizione, a dire delle parti, sarebbe irrazionale e, soprattutto, contraria all’art. 17, comma 10, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, laddove fa riferimento al momento d’adozione del piano provinciale, posto che fino alla pubblicazione della delibera di approvazione, il PTCP è privo di qualsiasi efficacia.
26. Anche questa doglianza non può trovare condivisione per le ragioni di seguito esposte.
27. Il PTCP approvato dalla Provincia di Monza e Brianza, con riguardo alle aree di proprietà delle ricorrenti, ha introdotto una disciplina peggiorativa rispetto a quella dettata dal piano di governo del territorio (PGT) del Comune di Camparada. Quest’ultimo le colloca invero in un ambito di trasformazione e, quindi, le classifica come aree in cui l’edificazione è ammessa.
28. Ciò premesso, va osservato che, ovviamente, le province non sono vincolate dai previgenti PGT approvati dai comuni; sicché è sempre ammessa la possibilità per i PTCP di introdurre una disciplina peggiorativa.
29. Va ancora osservato che, in linea generale, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, non sussiste ipotesi di affidamento qualificato in capo al proprietario della singola area che veda introdurre, da parte dello strumento di pianificazione sopravvenuto, prescrizioni meno favorevoli rispetto a quelle previgenti. Va difatti considerato affidamento generico quello alla non reformatio in peius della previgente disciplina (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2005, n. 719; id. 26.05.2003 n. 2827).
30. La giurisprudenza ha però rilevato che, in alcune ipotesi, tale qualificato affidamento sussiste. Una di queste ipotesi ricorre proprio nel caso in cui il piano sopravvenuto, emanato da una regione o da un ente infraregionale, introduca disposizioni discordanti con gli strumenti urbanistici comunali vigenti (cfr. TAR Lombardia-Milano, sez. II, 24.07.1995, n. 986).
31. Tuttavia, anche in tali ipotesi non è necessaria l’introduzione di norme di salvaguardia, essendo invece sufficiente che l’ente sovracomunale assolva ad un onere motivazionale aggravato, indicando le puntuali ragioni che l’hanno indotto a disattendere le norme del piano urbanistico (cfr. ancora TAR Lombardia Milano sent. n. 986 del 1995 cit.).
32. Nel caso di specie risulta dagli atti che l’estensione delle aree da inserire nella rete verde di ricomposizione paesaggistica è stata dettata dalla necessità di recepire le indicazioni fornite dalla Giunta regionale in sede di espressione del parere di conformità sul PTCP, reso ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.
33. Ritiene il Collegio che tale argomentazione costituisca di per sé ragione, oltre che congrua, sufficientemente dettagliata, tale quindi da soddisfare i requisiti sopra indicati.
34. Difatti, al di là di ogni disquisizione circa la vincolatività o meno delle prescrizioni impartite dalla Regione in sede di parere di conformità, va rilevato che la particolare natura degli interessi sottesi a tali prescrizioni (tutela dell’ambiente e del paesaggio), rende ragionevole ed opportuna la decisione di adeguarsi ad esso.
35. Ne consegue che la Provincia avrebbe potuto, sulla base di tale motivazione, introdurre una disciplina peggiorativa non mitigata da alcuna norma di salvaguardia.
36. Non può quindi essere censurata la disposizione di cui all’art. 31 delle NdP, giacché questa, come dimostrato, costituisce comunque una ulteriore forma di garanzia non strettamente dovuta che non si può considerare irrazionale ed arbitraria solo perché individua, quale momento rilevante ai fini della salvezza delle disposizioni previgenti, quello di adozione del PTCP.
37. Va per queste ragioni ribadita l’infondatezza del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.09.2014 n. 2405 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, le scelte effettuate dall'Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica costituiscono apprezzamento di merito, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Esse, inoltre, quando si concretano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano, essendo necessaria una motivazione specifica soltanto in presenza di un <<affidamento qualificato>> del privato (cfr. a proposito delle situazioni ritenute meritevoli di particolare tutela, in quanto caratterizzate da un affidamento «qualificato»: TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2011, n. 1950, che elenca i casi di:
   a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
   b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
   c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la quale vanta una generica aspettativa alla conservazione della precedente previsione urbanistica, onde conseguire un utilizzo, nella sua prospettiva, più proficuo dell'area in questione.
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione delle osservazioni al piano da parte dei privati; queste, infatti, sono semplici apporti collaborativi offerti dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
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XIV. Con il terzo motivo si deduce, poi, la violazione di legge e l’eccesso di potere per difetto di motivazione della deliberazione di approvazione del piano, trattandosi di modifica di destinazione edificatoria impressa da tempo risalente.
XV. Il motivo è infondato.
XVI. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 19.03.2012, n. 307; Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2011, n. 1222, id. 13.02.2009, n. 811; id. 13.03.2008, n. 1095), le scelte effettuate dall'Amministrazione in sede di pianificazione urbanistica costituiscono apprezzamento di merito, sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Esse, inoltre, quando si concretano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano, essendo necessaria una motivazione specifica soltanto in presenza di un <<affidamento qualificato>> del privato (cfr. a proposito delle situazioni ritenute meritevoli di particolare tutela, in quanto caratterizzate da un affidamento «qualificato»: TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.03.2011, n. 1950, che elenca i casi di:
   a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
   b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
   c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo).
In nessuna di siffatte situazioni si trova la ricorrente, la quale vanta una generica aspettativa alla conservazione della precedente previsione urbanistica, onde conseguire un utilizzo, nella sua prospettiva, più proficuo dell'area in questione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 22.12.1999 n. 24; Sez. IV, 25.07.2001 n. 4077; TAR Catania, sez. I, 13.02.2012 n. 386; TAR Salerno, 17.12.2002, n. 2358).
Né si può ritenere che l'obbligo di motivazione venga rafforzato, imposto o mutato in base alla sola presentazione delle osservazioni al piano da parte dei privati; queste, infatti, sono semplici apporti collaborativi offerti dai cittadini alla formazione dello strumento urbanistico ed il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2007, n. 5357; id. 30.06.2004, n. 4804; TAR Campania Salerno, sez. I, 08.01.2010, n. 15).
Nel caso di specie, la deliberazione impugnata richiama la relazione di controdeduzione alle osservazioni presentate nell’interesse della ricorrente, ove si fa esplicito riferimento alla volontà dell’ente locale di convergere con la raccomandazione della Provincia di Como, pure richiamata, sullo stralcio del comparto P2 dagli ambiti di trasformazione (cfr. pag. 6 della Relazione di controdeduzioni, All. A alla d.C.C. n. 5/2010), e tanto è sufficiente a garantire il rispetto dell’obbligo di motivazione succitato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 23.03.2024

P.R.G./P.G.T. oppure Piano Attuativo:
quando è necessario procedere alla ripubblicazione (dopo l'adozione e prima dell'approvazione)?

   In estrema sintesi, le modifiche al Piano Regolatore Generale (PRG)/Piano di Governo del Territorio (P.G.T.) possono essere suddivise in diverse categorie, tra cui le modifiche “facoltative”, le modifiche “concordate” e le modifiche “obbligatorie”. Segnatamente:
     
modifiche “facoltative consistenti in innovazioni non sostanziali al PRG/PGT. Ad esempio, potrebbero coinvolgere dettagli minori o aggiustamenti che non alterano in modo significativo la pianificazione urbana. Se queste modifiche superano i limiti stabiliti dalle linee guida del piano, il Comune è obbligato a ripubblicare il PRG/PGT per informare gli interessati;
      modifiche “concordate conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al Piano e accettate dal Comune. Anche per le modifiche concordate, se superano i limiti delle linee guida del piano, è richiesta la ripubblicazione del PRG/PGT;
      modifiche “obbligatorie in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP), la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi. Tuttavia, non è necessaria la ripubblicazione del PRG/PGT per queste modifiche, poiché il loro carattere dovuto rende superfluo l’apporto collaborativo del privato.
   Quindi, la ripubblicazione del PRG/PGT è richiesta per le modifiche "
facoltative" e "concordate" (sempre che queste modifiche superino i limiti stabiliti dalle linee guida del piano), ma non per quelle "obbligatorie". Questo assicura che le scelte pianificatorie siano coerenti e rispettino gli standard stabiliti a livello regionale e comunale.

GIURISPRUDENZA

URBANISTICA: Il Collegio ritiene di dare continuità all’indirizzo esegetico già espresso dalla Sezione che, mutatis mutandis, ha ritenuto applicabile a fattispecie di tenore analogo a quella in esame il consolidato orientamento interpretativo secondo cui «la necessità di ripubblicazione del piano "viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono [...]".
In altri termini, "[...] la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione [...]
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree [...] in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree"».
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6.5- Con il quarto motivo di ricorso, i deducenti sostengono che l’Amministrazione, in fase di approvazione, avrebbe apportato sostanziali modifiche al piano adottato senza previamente sottoporle ai privati interessati, con illegittima compromissione delle relative garanzie partecipative.
Le argomentazioni difensive non risultano condivisibili.
Va premesso in punto di fatto che, nel caso di specie, le modifiche lamentate rispetto al piano in regime di adozione riguardano:
   i) l’abbassamento del livello di tutela (id est, da tre a due) per il terreno “A- interno”;
   ii) l’introduzione di non meglio precisate “prescrizioni e limitazioni prima non previste” per il terreno “B-costiero” che, salva la nuova numerazione attribuita al relativo paesaggio, viene mantenuto all’interno del livello di Tutela “3”.
Ciò posto, il Collegio ritiene di dare continuità all’indirizzo esegetico già espresso dalla Sezione con la recente sentenza del 02/11/2023, n. 3263 che, mutatis mutandis, ha ritenuto applicabile a fattispecie di tenore analogo a quella in esame il consolidato orientamento interpretativo secondo cui «la necessità di ripubblicazione del piano "viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono [...]"; in altri termini, "[...] la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione [...] Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree [...] in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree" (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 06.12.2022, n. 10662)».
Nel caso di specie, come già evidenziato, le modifiche lamentate non implicano uno stravolgimento generale dei criteri di elaborazione del piano ma rappresentano, piuttosto, un’operazione di “messa a punto” della disciplina d’uso di specifici e circoscritti territori (peraltro, con esiti più vantaggiosi per i deducenti, quanto meno con riferimento al terreno “A- interno”) in seguito all’esame delle osservazioni presentate dai privati interessati, correlandosi direttamente al contenuto di queste ultime. Ne consegue che nessuna ripubblicazione del piano andava effettuata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 05.03.2024 n. 879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Obbligo di ripubblicazione del Piano Urbanistico.
Deve rilevarsi come l’art. 13, comma 9, della l.r. n. 12 del 2005 escluda la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”, non essendo prevista la concessione di nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni.
Del resto, non può essere rinvenuto un rapporto di rigida correlazione tra le osservazioni recepite e i pareri acquisiti, da un lato, e la possibilità di modificare il Piano di governo adottato, dall’altro, perché questo significherebbe privare il pianificatore della discrezionalità che gli appartiene sino all’esito del procedimento e anteporre –o quantomeno equiparare– l’interesse privato al godimento più lucrativo della propria area con quello pubblico della pianificazione. L’interesse principale nell’esercizio del potere di pianificazione –sia in sede di adozione sia in sede di approvazione– resta quello, pubblico, di garantire la funzionalità complessiva delle scelte di governo del territorio.
A conferma di ciò, si pensi al fatto che le osservazioni dei privati sono ritenute costantemente in giurisprudenza come dei “meri apporti procedimentali”, sulle quali l’Amministrazione si può pronunciare anche accorpandole per ambiti omogenei e senza effettuare una controdeduzione puntuale.
...
Nemmeno sussiste un obbligo di ripubblicazione del piano urbanistico, se non a fronte di modifiche che comportano una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale, ovvero laddove si apportino mutamenti così rilevanti da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del Piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Ciò è confermato dalla possibilità di introdurre modifiche d’ufficio in sede di approvazione del Piano che si distinguono in
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del Piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), in
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al Piano e accettate dal Comune).
È evidente che, in tale classificazione, le modifiche facoltative sono quelle a cui l’Amministrazione si determina d’ufficio, al fine di mantenere –anche per l’effetto di ulteriori modifiche apportate al Piano– l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra l’altro, il consumo di suolo nei limiti di legge.
Tale conclusione è stata ribadita a più riprese anche dal Giudice d’appello, che ha sottolineato come «l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute.
Pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree».
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SENTENZA
... per l’annullamento
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del 14.12.2019, n. 52, pubblicata in data 22.04.2020, nelle sole parti in cui,
   (i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio, ha assoggettato l’area di proprietà delle parti ricorrenti al regime di cui al neo introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A. del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse paesaggistico”, nelle quali è esclusa la possibilità di nuova edificazione, e
   (ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del P.d.R., a mente del quale nelle “aree agricole di tipo produttivo” “la nuova edificazione a destinazione agricola potrà intervenire qualora (…) l’avente titolo disponga di una superficie di proprietà, contermine all’edificio di prevista realizzazione, non inferiore a 10.000 mq”.
...
3.3. Quanto all’eccepita violazione del procedimento pianificatorio, discendente dall’avvenuto azzonamento peggiorativo dell’area di proprietà dell’Azienda agricola soltanto in fase di approvazione dello strumento urbanistico e in seguito all’accoglimento delle osservazioni proposte da un soggetto terzo, senza consentire agli interessati di presentare le proprie osservazioni a margine di una tale scelta, deve rilevarsi come l’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 escluda la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”, non essendo prevista la concessione di nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; II, 23.09.2016, n. 1700).
Del resto, non può essere rinvenuto un rapporto di rigida correlazione tra le osservazioni recepite e i pareri acquisiti, da un lato, e la possibilità di modificare il Piano di governo adottato, dall’altro, perché questo significherebbe privare il pianificatore della discrezionalità che gli appartiene sino all’esito del procedimento e anteporre –o quantomeno equiparare– l’interesse privato al godimento più lucrativo della propria area con quello pubblico della pianificazione. L’interesse principale nell’esercizio del potere di pianificazione –sia in sede di adozione sia in sede di approvazione– resta quello, pubblico, di garantire la funzionalità complessiva delle scelte di governo del territorio (TAR Lombardia, Milano, II, 26.09.2022, n. 2053).
A conferma di ciò, si pensi al fatto che le osservazioni dei privati sono ritenute costantemente in giurisprudenza come dei “meri apporti procedimentali”, sulle quali l’Amministrazione si può pronunciare anche accorpandole per ambiti omogenei e senza effettuare una controdeduzione puntuale (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 423).
Nemmeno sussiste un obbligo di ripubblicazione del piano urbanistico, se non a fronte di modifiche che comportano una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale, ovvero laddove si apportino mutamenti così rilevanti da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del Piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Ciò è confermato dalla possibilità di introdurre modifiche d’ufficio in sede di approvazione del Piano che si distinguono in modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del Piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), in modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al Piano e accettate dal Comune).
È evidente che, in tale classificazione, le modifiche facoltative sono quelle a cui l’Amministrazione si determina d’ufficio, al fine di mantenere –anche per l’effetto di ulteriori modifiche apportate al Piano– l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra l’altro, il consumo di suolo nei limiti di legge (TAR Lombardia, Milano, II, 26.09.2022, n. 2053; anche, II, 06.07.2021, n. 1656).
Tale conclusione è stata ribadita a più riprese anche dal Giudice d’appello, che ha sottolineato come «l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343, 26.04.2006 n. 2297, 31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769)
» (Consiglio di Stato, IV, 28.03.2023, n. 3168; anche, IV, 02.01.2023, n. 21).
Pertanto, nessuna illegittimità può essere rinvenuta sotto il richiamato profilo nel procedimento pianificatorio posto in essere dal Comune di Lurate Caccivio.
3.4. Alla stregua delle suesposte considerazioni, la scrutinata censura deve essere respinta.
4. L’infondatezza della esaminata doglianza rende ultroneo l’esame del primo motivo di ricorso –con il quale è stato contestato il limite minimo di superficie imposto per poter realizzare interventi edificatori in zona agricola–, poiché al cospetto di un divieto (di edificazione) fondato su una pluralità di motivazioni, idonea ciascuna, singolarmente intesa, a fondarne la legittimità, l’accertata immunità da vizi di quella in precedenza scrutinata determina la reiezione del ricorso (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.09.2021, n. 6235; 11.08.2021, n. 5847; VI, 31.03.2021, n. 2687; TAR Lombardia, Milano, II, 09.12.2021, n. 2763) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.02.2024 n. 492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento giurisprudenziale, in caso di modifiche sostanziali da parte della regione, il comune interessato, con apposita deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale, il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, che pertanto possono mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del piano.
Del resto costituisce altresì un principio consolidato che, in materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che, modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150, ha ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a certe condizioni, di introdurre direttamente talune modifiche con lo stesso atto di approvazione— va riconosciuta la legittimità dell’approvazione «a stralcio con raccomandazioni».
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale».
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione del piano».
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte».
In linea con tale indirizzo interpretativo, il Consiglio di Stato ha chiarito che “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri precedenti, “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono”.

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Con un ulteriore sub motivo di appello la parte appellante lamenta la illegittimità degli atti di approvazione del PUC in quanto, specie nel passaggio della fase tra la adozione (delibera 52/2011) e la approvazione definitiva (delibera 43/2012), il Progetto Norma di Via Budapest avrebbe subito modifiche rilevanti, come emergerebbe dal raffronto dei relativi elaborati (docc. 22 e 37), ragione per cui il Piano avrebbe dovuto essere sottoposto a nuova pubblicazione, nuove osservazioni e nuova verifica di coerenza regionale, ovverosia all’intero iter di riapprovazione.
Il motivo non è fondato.
Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento giurisprudenziale (cfr. Suprema Corte di Cassazione, Sez. II, 09.06.1993, n. 6442), in caso di modifiche sostanziali da parte della regione, il comune interessato, con apposita deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale, il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, che pertanto possono mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del piano. (C. Stato, sez. IV, 30.09.2002, n. 4984).
Del resto costituisce altresì un principio consolidato che, in materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id., 31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che, modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150, ha ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a certe condizioni, di introdurre direttamente talune modifiche con lo stesso atto di approvazione— va riconosciuta la legittimità dell’approvazione «a stralcio con raccomandazioni» (cfr. C. Stato, sez. IV, 06.04.1999, n. 524).
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale» (cfr. C. Stato, sez. IV: 17.09.2013, n. 4614).
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione del piano» (C. Stato, sez. III, 24.03.2009, n. 617/09).
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte» (cfr. C. Stato, sez. IV, 06.09.2005, n. 4563).
In linea con tale indirizzo interpretativo, Consiglio di Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839 ha chiarito che “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame
”.
La giurisprudenza di questa Sezione (sez. IV, 19.11.2018, n. 6484) ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri precedenti, “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.02.2024 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Pur prescindendo dalla natura meramente programmatica della fase preliminare, la configurazione di una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile, secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti.
Deve infatti “escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”; così come deve escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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8.3. Per mera completezza di motivazione, deve peraltro osservarsi che, anche a prescindere dalla sua inammissibilità per tardività, la censura è comunque infondata.
La continuità tra le linee programmatiche indicate nella determinazione, più volte citata, n. -OMISSIS-/2014 oggetto della consultazione pubblica del 2017, e il PUC oggetto di adozione è stata evidenziata, con riscontro documentale ed argomentazione logica immune da censure di irragionevolezza, nella relazione al piano predisposta dalla professionista incaricata, nella quale si rappresenta che la fase di predisposizione delle nuove tavole del PUC da trasmettere all’Ente per la nuova adozione è stata preceduta dalle necessarie attività di revisione ed adeguamento degli elaborati, tenuto conto sia delle indicazioni pervenute nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti Competenti in materia ambientale (attività preservata dalla Commissione Straordinaria), sia delle prescrizioni contenute nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento Territoriale della Città Metropolitana di Napoli adottato, ferma restando invece tutta l’attività propedeutica, comprendente gli indirizzi programmatici, il preliminare di piano, la fase di ascolto e di raccolta contributi, nonché i pareri preventivi dei soggetti competenti in materia ambientale; atti, questi ultimi, che, come ribadito dalla determinazione n. -OMISSIS-/2019, restavano confermati (cfr. in termini Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 7923/2021).
Ciò in coerenza con l’obiettivo della Commissione straordinaria di restituire alla cittadinanza un piano urbanistico di piena legalità, epurato da quegli aspetti patologici conseguenti a ingerenze distorsive in grado di inficiare le decisioni pianificatorie, le quali, come emerge dal D.P.R. di scioglimento, erano state circoscritte ad una fase procedurale ben determinata, culminata con le delibere di adozione del piano del 2017 da parte del disciolto Consiglio comunale.
E invero, è in tale fase che, il precedente progettista, a seguito di pressioni da parte di diversi consiglieri comunali, mutando indirizzo, aveva accolto numerose osservazioni di privati, stravolgendo di fatto il piano adottato e determinando un incremento di volumetria e di alloggi incoerente con le indicazioni degli enti sovracomunali.
In tale prospettiva è evidente l’effetto di elisione delle interferenze criminogene che del tutto coerentemente e ragionevolmente si è voluto conseguire, retroagendo ad una fase procedurale in cui, a ben vedere, il dibattito sull’adottando piano si era svolto in pieno contraddittorio con tutte le parti interessate, sulla base di un progetto preliminare legittimamente predisposto in conformità agli indirizzi e agli obiettivi programmatici approvati dal consiglio comunale nel 2014, e che del tutto ragionevolmente la stessa Commissione straordinaria ha inteso salvaguardare e confermare.
Le superiori considerazioni consentono di superare le deduzioni censorie articolate dalla parte ricorrente, essendo al contrario evidente la continuità di indirizzo con gli obiettivi dichiarati negli atti di programmazione posti a monte della procedura, così come ribadito dalla determinazione n. -OMISSIS-/2019, che li ha confermati, pur rilevando la necessità di calare e riproporzionare i medesimi obiettivi con l’attualità di un mutato contesto demografico. In sostanza, in tale contesto la progettista si è limitata ad effettuare una revisione ed adeguamento degli elaborati, sulla scorta sia delle indicazioni pervenute nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti Competenti in materia Ambientale (attività preservata dalla Commissione Straordinaria), che delle prescrizioni contenute nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento Territoriale della Città Metropolitana di Napoli.
A tanto va anche soggiunto che, pur prescindendo dalla natura meramente programmatica della fase preliminare, la configurazione di una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile, secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti; deve infatti “escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484)”; così come deve escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”; Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 17.02.2020, n. -OMISSIS-8) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2024 n. 652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Pur prescindendo dalla natura meramente programmatica della fase preliminare, la configurazione di una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile, secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti.
Deve infatti “escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”; così come deve escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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8.3. Per mera completezza di motivazione, deve peraltro osservarsi che, anche a prescindere dalla sua inammissibilità per tardività, la censura è comunque infondata.
La continuità tra le linee programmatiche indicate nella determinazione, più volte citata, n. 46/2014 oggetto della consultazione pubblica del 2017, e il PUC oggetto di adozione è stata evidenziata, con riscontro documentale ed argomentazione logica immune da censure di irragionevolezza, nella relazione al piano predisposta dalla professionista incaricata, nella quale si rappresenta che la fase di predisposizione delle nuove tavole del PUC da trasmettere all’Ente per la nuova adozione è stata preceduta dalle necessarie attività di revisione ed adeguamento degli elaborati, tenuto conto sia delle indicazioni pervenute nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti Competenti in materia ambientale (attività preservata dalla Commissione Straordinaria), sia delle prescrizioni contenute nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento Territoriale della Città Metropolitana di Napoli adottato, ferma restando invece tutta l’attività propedeutica, comprendente gli indirizzi programmatici, il preliminare di piano, la fase di ascolto e di raccolta contributi, nonché i pareri preventivi dei soggetti competenti in materia ambientale; atti, questi ultimi, che, come ribadito dalla determinazione n. 93/2019, restavano confermati (cfr. in termini Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 7923/2021).
Ciò in coerenza con l’obiettivo della Commissione straordinaria di restituire alla cittadinanza un piano urbanistico di piena legalità, epurato da quegli aspetti patologici conseguenti a ingerenze distorsive in grado di inficiare le decisioni pianificatorie, le quali, come emerge dal D.P.R. di scioglimento, erano state circoscritte ad una fase procedurale ben determinata, culminata con le delibere di adozione del piano del 2017 da parte del disciolto Consiglio comunale.
E invero, è in tale fase che, il precedente progettista, a seguito di pressioni da parte di diversi consiglieri comunali, mutando indirizzo, aveva accolto numerose osservazioni di privati, stravolgendo di fatto il piano adottato e determinando un incremento di volumetria e di alloggi incoerente con le indicazioni degli enti sovracomunali.
In tale prospettiva è evidente l’effetto di elisione delle interferenze criminogene che del tutto coerentemente e ragionevolmente si è voluto conseguire, retroagendo ad una fase procedurale in cui, a ben vedere, il dibattito sull’adottando piano si era svolto in pieno contraddittorio con tutte le parti interessate, sulla base di un progetto preliminare legittimamente predisposto in conformità agli indirizzi e agli obiettivi programmatici approvati dal consiglio comunale nel 2014, e che del tutto ragionevolmente la stessa Commissione straordinaria ha inteso salvaguardare e confermare.
Le superiori considerazioni consentono di superare le deduzioni censorie articolate dalla parte ricorrente, essendo al contrario evidente la continuità di indirizzo con gli obiettivi dichiarati negli atti di programmazione posti a monte della procedura, così come ribadito dalla determinazione n. 93/2019, che li ha confermati, pur rilevando la necessità di calare e riproporzionare i medesimi obiettivi con l’attualità di un mutato contesto demografico. In sostanza, in tale contesto la progettista si è limitata ad effettuare una revisione ed adeguamento degli elaborati, sulla scorta sia delle indicazioni pervenute nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti Competenti in materia Ambientale (attività preservata dalla Commissione Straordinaria), che delle prescrizioni contenute nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento Territoriale della Città Metropolitana di Napoli.
A tanto va anche soggiunto che, pur prescindendo dalla natura meramente programmatica della fase preliminare, la configurazione di una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile, secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti; deve infatti “escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484)”; così come deve escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”; Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 17.02.2020, n. 728) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 08.01.2024 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: «… costituisce … principio consolidato che … l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute.
Pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree».

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8. Non può, infine, riscuotere favorevole apprezzamento l’ordine di doglianze incentrato sull’assunto che le integrazioni apportate al PUC adottato, all’indomani dei rilievi di non coerenza rispetto al PTCP di Salerno, formulati dalla Provincia di Salerno con le note del 28.07.2021, prot. n. 67344, e del 21.03.2022, prot. n. 21383, avrebbero rivestito portata tale da richiedere la riadozione del PUC a cura dell’organo giuntale di governo dell’ente locale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.h).
Una ipotetica modifica di carattere sostanziale, tale da innovare profondamente alle linee fondamentali del PUC adottato, da comportarne una rielaborazione complessiva o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione, non risulta, infatti, allegata e dimostrata da parte ricorrente. E trova, anzi, smentita nel rilievo che quelli elargiti dal Comune di Sant’Egidio del Monte Albino con le note del 27.01.2022, prot. n. 1471, e del 20.05.2022, prot. n. 7742, in riscontro alle note provinciali del 28.07.2021, prot. n. 67344, e del 21.03.2022, prot. n. 21383, piuttosto che modifiche sostanziali, sono “chiarimenti”, “precisazioni” e “rettifiche”, insuscettibili, come tali, di incidere sul dimensionamento e/o sulla zonizzazione, e, quindi, sull’assetto complessivo del PUC adottato.
In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 07.12.2022, n. 10731 ha statuito che: «… costituisce … principio consolidato che … l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343; 26.04.2006 n. 2297; 31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; 04.12.2013, n. 5769)
»
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2024 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Pur prescindendo dalla natura meramente programmatica della fase preliminare, la configurazione di una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile, secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti.
Deve infatti “escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”; così come deve escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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6. Va in primo luogo respinta la censura con cui le ricorrenti lamentano una pretesa discontinuità tra le linee programmatiche indicate nella determinazione, più volte citata, n. 46/2014 oggetto della consultazione pubblica del 2017, e il PUC oggetto di adozione.
Al contrario, infatti, è stata evidenziata, con riscontro documentale ed argomentazione logica immune da censure di irragionevolezza, nella relazione al piano predisposta dalla professionista incaricata, nella quale si rappresenta che la fase di predisposizione delle nuove tavole del PUC da trasmettere all’Ente per la nuova adozione è stata preceduta dalle necessarie attività di revisione ed adeguamento degli elaborati, tenuto conto sia delle indicazioni pervenute nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti Competenti in materia ambientale (attività preservata dalla Commissione Straordinaria), sia delle prescrizioni contenute nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento Territoriale della Città Metropolitana di Napoli adottato, ferma restando invece tutta l’attività propedeutica, comprendente gli indirizzi programmatici, il preliminare di piano, la fase di ascolto e di raccolta contributi, nonché i pareri preventivi dei soggetti competenti in materia ambientale; atti, questi ultimi, che, come ribadito dalla determinazione n. 93/2019, restavano confermati (cfr. in termini Tar Campania, Napoli, Sez. II, n. 7923/2021).
Ciò in coerenza con l’obiettivo della Commissione straordinaria di restituire alla cittadinanza un piano urbanistico di piena legalità, epurato da quegli aspetti patologici conseguenti a ingerenze distorsive in grado di inficiare le decisioni pianificatorie, le quali, come emerge dal D.P.R. di scioglimento, erano state circoscritte ad una fase procedurale ben determinata, culminata con le delibere di adozione del piano del 2017 da parte del disciolto Consiglio comunale.
E invero, è in tale fase che, il precedente progettista, a seguito di pressioni da parte di diversi consiglieri comunali, mutando indirizzo, aveva accolto numerose osservazioni di privati, stravolgendo di fatto il piano adottato e determinando un incremento di volumetria e di alloggi incoerente con le indicazioni degli enti sovracomunali.
In tale prospettiva è evidente l’effetto di elisione delle interferenze criminogene che del tutto coerentemente e ragionevolmente si è voluto conseguire, retroagendo ad una fase procedurale in cui, a ben vedere, il dibattito sull’adottando piano si era svolto in pieno contraddittorio con tutte le parti interessate, sulla base di un progetto preliminare legittimamente predisposto in conformità agli indirizzi e agli obiettivi programmatici approvati dal consiglio comunale nel 2014, e che del tutto ragionevolmente la stessa Commissione straordinaria ha inteso salvaguardare e confermare.
Le superiori considerazioni consentono di superare le deduzioni censorie articolate dalla parte ricorrente, essendo al contrario evidente la continuità di indirizzo con gli obiettivi dichiarati negli atti di programmazione posti a monte della procedura, così come ribadito dalla determinazione n. 93/2019, che li ha confermati, pur rilevando la necessità di calare e riproporzionare i medesimi obiettivi con l’attualità di un mutato contesto demografico.
In sostanza, in tale contesto la progettista si è limitata ad effettuare una revisione ed adeguamento degli elaborati, sulla scorta sia delle indicazioni pervenute nella fase di ascolto preliminare da parte dei Soggetti Competenti in materia Ambientale (attività preservata dalla Commissione Straordinaria), che delle prescrizioni contenute nei Piani sovraordinati, compreso il Piano di Coordinamento Territoriale della Città Metropolitana di Napoli.
A tanto va anche soggiunto che, pur prescindendo dalla natura meramente programmatica della fase preliminare, la configurazione di una vera e propria rinnovazione di un piano urbanistico -persino nella fase più avanzata intercorrente tra adozione ed approvazione, il cui procedimento è fisiologicamente articolato ad un sempre maggiore livello di dettaglio, anche sulla base del contraddittorio con le parti interessate- è riscontrabile, secondo la giurisprudenza, entro limiti molto ristretti; deve infatti “escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484)”; così come deve escludersi che si tratti di una rielaborazione ex novo, “nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)”; Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 17.02.2020, n. 728) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 27.12.2023 n. 7279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E' stato chiarito in giurisprudenza che “il parere regionale, lungi dal costituire espressione delle facoltà partecipative dei privati, destinati a subire gli effetti autoritativi e conformativi della programmazione urbanistica, rappresenta la manifestazione del rapporto di cooperazione tra Enti titolari di competenze distinte e concorrenti nel procedimento di formazione degli strumenti urbanistici.
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame, la competenza consultiva regionale risulta orientata, nel suo concreto esercizio, a garantire la coerenza delle previsioni del P.U.C. in itinere con le prescrizioni inderogabili del P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza di una idonea disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e paesistico, potesse pregiudicare le esigenze di conservazione dei tratti paesaggistici delle aree interessate, così come recepite dal piano sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a salvaguardare le previsioni del P.T.C.P. in punto di caratterizzazione delle aree de quibus che (…) esulano dal potere di valutazione discrezionale comunale, afferente alla disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui definizione è funzionale la partecipazione dei privati”.
È stato infatti precisato che “occorre distinguere tra
   - modifiche "obbligatorie", in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi;
   - modifiche "facoltative", in quanto consistenti in innovazioni non sostanziali; e
   - modifiche "concordate", in quanto conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune.
Mentre per le modifiche "
facoltative" e "concordate", ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie" tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale (o di altra autorità preposta) rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale (…)”.
Tanto rende inapplicabile, al caso di specie, il consolidato indirizzo giurisprudenziale che riconosce la necessità di ripubblicazione del piano “a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione dello strumento urbanistico”, atteso che “è proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle scelte pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto nel procedimento, senza necessità di un azzeramento della procedura con conseguente nuova pubblicazione del Piano".
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12. Venendo ora allo scrutinio del merito, non ha pregio la doglianza dedotta con il primo mezzo, con la quale la ricorrente si duole del fatto che la variante, a seguito delle integrazioni e modifiche d’ufficio introdotte dalla Regione in sede consultiva, non sia stata nuovamente soggetta a pubblicazione, in violazione delle previsioni della l. n. 1150/1942.
Le citate modifiche d’ufficio, infatti, conseguono alla valutazione di compatibilità paesaggistica delle nuove destinazioni operata dal Comitato regionale alla luce delle previsioni dell’allora vigente P.T.P. n. 9, sicché soccorre il disposto del comma 2 dell’art. 10 della legge urbanistica, che esclude dall’obbligo di ripubblicazione “le modifiche (…) che siano riconosciute indispensabili per assicurare: (…) c) la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici”.
Sul punto è stato chiarito in giurisprudenza, con riferimento a fattispecie analoga alla presente, che “il parere regionale, lungi dal costituire espressione delle facoltà partecipative dei privati, destinati a subire gli effetti autoritativi e conformativi della programmazione urbanistica, rappresenta la manifestazione del rapporto di cooperazione tra Enti titolari di competenze distinte e concorrenti nel procedimento di formazione degli strumenti urbanistici. Con particolare riferimento alla fattispecie in esame, la competenza consultiva regionale risulta orientata, nel suo concreto esercizio, a garantire la coerenza delle previsioni del P.U.C. in itinere con le prescrizioni inderogabili del P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza di una idonea disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e paesistico, potesse pregiudicare le esigenze di conservazione dei tratti paesaggistici delle aree interessate, così come recepite dal piano sovraordinato. Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a salvaguardare le previsioni del P.T.C.P. in punto di caratterizzazione delle aree de quibus che (…) esulano dal potere di valutazione discrezionale comunale, afferente alla disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui definizione è funzionale la partecipazione dei privati” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027, che esclude appunto l’obbligo di ripubblicazione del piano alla luce del “carattere necessitato delle modifiche introdotte dal Comune”).
È stato infatti precisato che “occorre distinguere tra modifiche "obbligatorie", in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi; modifiche "facoltative", in quanto consistenti in innovazioni non sostanziali; e modifiche "concordate", in quanto conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune. Mentre per le modifiche "facoltative" e "concordate", ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie" tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale (o di altra autorità preposta) rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale (…) (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944)” (Cons. Stato Sez. IV, 07.12.2022, n. 10731).
Tanto rende inapplicabile, al caso di specie, il consolidato indirizzo giurisprudenziale che riconosce la necessità di ripubblicazione del piano “a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione dello strumento urbanistico” (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 10.07.2023, n. 6754), atteso che “è proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle scelte pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto nel procedimento, senza necessità di un azzeramento della procedura con conseguente nuova pubblicazione del Piano” (cfr. Cons. Stato, n. 7027/2020, cit.).
Si aggiunge poi che, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, la delibera CC n. 25/2004 non risulta aver apportato ulteriori modifiche di grande impatto alla variante, come anche si desume dalle valutazioni conclusive formulate dal C.R.p.T. nella seduta n. 72-bis del 21.10.2004, in cui si legge che “la delibera comunale n. 25 contiene una elencazione di intenti, costituisce (…) atto di indirizzo per la rivisitazione del Piano, attraverso l’elaborazione di una variante di salvaguardia con l’intento di attivare procedure già segnalate nel Voto regionale a cui l’A.C. stessa non ha dato corso nei termini previsti. L’A.C. si è quindi limitata ad elencare un programma di lavori (…) evitando di controdedurre, se non in maniera generica, alle modifiche d’ufficio intervenute con il Voto regionale”.
Peraltro, con particolare riguardo alla posizione della ricorrente si osserva che le modifiche d’ufficio non hanno sortito, quale effetto, quello di “introdurreex novo una destinazione urbanistica (agricola) di cui il lotto di proprietà era privo ab origine, come sembrerebbe adombrare la Società nella propria memoria di replica (in cui si legge che “la destinazione agricola è stata introdotta in modo illogico” e che “in sede di approvazione della Variante l’area è «divenuta» agricola”), quanto piuttosto quello di mantenere immutata la destinazione (agricola) originariamente impressa dal previgente P.R.G., senza dunque apportare a detrimento della parte alcuno “stravolgimento” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 09.11.2023 n. 16654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Giusta il consolidato orientamento interpretativo formatosi con riferimento alla pianificazione territoriale, la necessità di ripubblicazione del piano
   - “viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono […]”; in altri termini,
   - “[…] la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione […] Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree […] in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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3. Con il secondo motivo sono stati dedotti i vizi di Violazione e falsa applicazione degli artt. 133 e 134 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 e s.m.i.; Violazione e falsa applicazione del 1357/40 - Violazione degli articoli 1, 3 e 7 della legge 241/1990 - Violazione del giusto procedimento e del diritto alla partecipazione - Conseguente difetto di istruttoria e di motivazione, carenza di presupposti.
Per la parte ricorrente, in sintesi, tra il piano paesaggistico adottato e quello approvato, esiste una sostanziale e rilevante differenza, determinata dall'inserimento delle aree “boscate” presenti nell'Inventario Forestale Regionale all'interno del piano medesimo e soggette al massimo livello di tutela; tale sostanziale e rilevante novazione, è avvenuta allorquando la fase di pubblicazione e raccolta delle osservazioni al piano adottato si era già conclusa, ai sensi dell'art. 144 del d.lgs. n. 42/2004.
L'Amministrazione procedente, secondo la deducente, avrebbe dovuto sottoporre a nuova pubblicazione il progetto di piano paesaggistico ai sensi della richiamata disposizione, dando modo ai soggetti (pubblici e privati) titolati ad avanzare nuove osservazioni; ciò avrebbe consentito alla ricorrente di evidenziare l'assenza di boschi all'interno della lottizzazione, che l'Amministrazione procedente avrebbe potuto accertare, mediante rilievo puntuale sui luoghi.
Per la parte ricorrente i provvedimenti impugnati sono illegittimi per violazione del cit. art. 144 e più in generale della legge n. 241/1990, posto che la pubblicazione e le osservazioni hanno interessato un progetto di piano differente; inoltre, la lesione del diritto alla partecipazione ha comportato un chiaro difetto d'istruttoria.
3.1. Il motivo è infondato.
3.1.1. Il Collegio ritiene applicabile alla fattispecie in esame, mutatis mutandis, il consolidato orientamento interpretativo formatosi con riferimento alla pianificazione territoriale, secondo cui la necessità di ripubblicazione del piano “viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono […]”; in altri termini, “[…] la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione […] Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree […] in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 06.12.2022, n. 10662).
Nel caso in esame va escluso che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, essendo state contestate modifiche che riguardano la disciplina di una singola area.
3.1.2. E comunque, in relazione al contestato difetto istruttorio, va osservato che nella sede processuale la parte ricorrente non ha introdotto elementi significativi idonei a far emergere l’erroneità o l’inadeguatezza dell’attività istruttoria posta in essere dall’Amministrazione resistente (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 02.11.2023 n. 3263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo consolidata giurisprudenza, "la necessità di ripubblicazione del piano viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato come “debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree".
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6. Con il terzo motivo il ricorrente sostiene che, per effetto delle modifiche introdotte in accoglimento dell’osservazione “c 14”, il PATI avrebbe dovuto essere oggetto di una rinnovata pubblicazione.
6.1. La censura è infondata.
L’osservazione approvata attiene ad una modifica puntuale, concernente una singola area, inidonea ad alterare i criteri ispiratori del PATI e tale quindi da non comportare alcun obbligo di ripubblicazione del piano.
Secondo consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale (cfr. ex multis, TAR Veneto, sez. II, 19.09.2022, n. 1406; id., 08.08.2022, n. 182), "la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677)
” (cfr. Cons. St, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato come “debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)" (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 7027/2020 cit.) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.10.2023 n. 1392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento giurisprudenziale, in caso di modifiche sostanziali da parte della regione, il comune interessato, con apposita deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale, il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, che pertanto possono mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del piano.
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che, modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150, ha ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a certe condizioni, di introdurre direttamente talune modifiche con lo stesso atto di approvazione— va riconosciuta la legittimità dell’approvazione «a stralcio con raccomandazioni».
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale».
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione del piano».
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte».
Sulle orme di tale indirizzo interpretativo, il Consiglio di Stato ha chiarito che “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri precedenti, “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono".

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Con ulteriore sub-censura, Or. assumeva in primo grado la violazione dell’art. 10, legge n. 1150/1942 (c.d. legge urbanistica fondamentale), in quanto la delibera della Giunta regionale n. 913/2011 avrebbe impropriamente utilizzato lo strumento delle prescrizioni e delle modifiche d’ufficio previste dall’art. 5, l.reg. n. 9/1980, in violazione del citato art. 10, l. n. 1150/1942.
In particolare, l’utilizzo delle prescrizioni avrebbe dovuto comportare, ad avviso di Or., l’instaurazione del sub procedimento contenzioso con il comune di Genova previsto dal menzionato art. 10 della c.d. legge urbanistica fondamentale.
Il motivo è infondato.
In via preliminare, appare utile ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Ai sensi dell’art. 10, 2° comma, legge n. 1150/1942, le modifiche che possono essere apportate dalla Regione, in sede di approvazione del Piano, sono:
   - quelle che non comportano innovazione sostanziali (tali, cioè, da snaturare le caratteristiche essenziali del piano e i criteri di impostazione di esso);
   - quelle conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano e accettate con deliberazione del Consiglio comunale;
   - quelle che siano riconosciute indispensabili per assicurare:
     
il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento;
     
la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato e della Regione;
     
la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici;
     
l’osservanza degli standards urbanistici (art. 41-quinquies, commi 6 e 8, legge n. 1150/1942).
Le proposte di modifica —ad eccezione di quelle riguardanti le osservazioni presentate al piano— devono essere comunicate al comune, il quale (entro 90 giorni) dovrà adottare le proprie controdeduzioni con delibera del Consiglio, che verrà pubblicata nel primo giorno festivo nell'albo pretorio e trasmessa alla Regione nei successivi 15 giorni.
Tale delibera consiliare non ha effetti esterni e non è impugnabile autonomamente. Le modifiche proposte sono quindi decise e introdotte nel piano con l’atto regionale di approvazione.
Ad avviso di un risalente, e ancora attuale, insegnamento giurisprudenziale (cfr. Suprema Corte di Cassazione, Sez. II, 09.06.1993, n. 6442), in caso di modifiche sostanziali da parte della regione, il comune interessato, con apposita deliberazione consiliare, sostitutiva di quella di adozione del piano nella sua originaria formulazione, può esprimere una volontà conforme al suggerimento dell’organo regionale, il quale dovrà poi approvare la nuova delibera.
Il limite per le modifiche sostanziali che possono essere introdotte dalla regione d’ufficio in sede di approvazione del piano regolatore generale, tuttavia, non riguarda le modifiche attinenti alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, che pertanto possono mutare le caratteristiche essenziali e i criteri di impostazione del piano (C. Stato, sez. IV, 30.09.2002, n. 4984).
Secondo un costante orientamento interpretativo, anche dopo l’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 —che, modificando l'art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150, ha ampliato i poteri dell'autorità competente all'approvazione dei piani regolatori consentendole, entro certi limiti e a certe condizioni, di introdurre direttamente talune modifiche con lo stesso atto di approvazione— va riconosciuta la legittimità dell’approvazione «a stralcio con raccomandazioni» (cfr. C. Stato, sez. IV, 06.04.1999, n. 524).
Ai sensi dell'art. 10, l. 17.08.1942, n. 1150, inoltre,
«alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, modifiche che si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale» (cfr. C. Stato, sez. IV: 17.09.2013, n. 4614).
«Le modifiche introdotte d’ufficio dalla regione in sede di approvazione del piano regolatore, ove non riguardanti innovazioni sostanziali, non richiedono la rinnovazione degli adempimenti procedimentali relativi alla pubblicazione del piano» (C. Stato, sez. III, 24.03.2009, n. 617/09).
«A differenza dell’ipotesi delle modifiche d’ufficio, in relazione alle quali la regione, in sede di approvazione di piano regolatore comunale, può sovrapporre definitivamente la propria volontà a quella del comune, nell’ipotesi del c.d. stralcio con raccomandazioni, la regione si limita a restituire l’iniziativa all’ente locale, invitandolo a rinnovare l’esame della situazione delle aree stralciate e a formulare nuove proposte» (cfr. C. Stato, sez. IV, 06.09.2005, n. 4563).
Sulle orme di tale indirizzo interpretativo, Consiglio di Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839 del 14.11.2019 ha chiarito che “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
La giurisprudenza di questa Sezione (sez. IV, 19.11.2018, n. 6484) ha, infine, evidenziato, in continuità con i propri precedenti, “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782)"
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.09.2023 n. 8324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Giusta il consolidato orientamento, “la riapertura della fase istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e della conseguente riattivazione dell’interlocuzione coi soggetti interessati, si rende necessaria soltanto allorché le modifiche apportate al progetto iniziale nel corso del procedimento finalizzato alla sua approvazione importino un sostanziale cambiamento nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto essenziale, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione, determinando una rielaborazione complessiva del piano stesso, il che certamente non è avvenuto nel caso in esame, nel quale la contestata modificazione è consistita nella sola soppressione dell’iniziativa privata nella formazione del piano di recupero”.
“Anche di recente la giurisprudenza di questo Consiglio è tornata a ribadire che una ripubblicazione del piano è necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree".
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5. Con il quarto motivo di appello (rubricato: Ancora sulla violazione dell'art. 12 della l.p. 13/1997: la sentenza di primo grado ha ritenuto legittima la ripetuta modifica del progetto del piano, nonostante tali modifiche non siano state né pubblicate, né approvate dalla Giunta provinciale), gli appellanti sostengono:
   - che l'Amministrazione -dopo la presentazione delle diverse proposte di modifica, delle osservazioni nonché dei pareri obbligatori dei Comuni- avrebbe ripetutamente modificato ampie parti del piano senza darne avviso agli interessati (o almeno a chi aveva presentato osservazioni o proposte) e senza pubblicare tale nuova bozza, pesantemente modificata, così come richiesto dall'art. 12 l.p. 13/1997.
Dal verbale della Commissione del 06.11.2014 emergerebbe che sia le norme di attuazione (volume 1), quanto il rapporto ambientale (volume 2), contenente le prescrizioni ecologico -paesaggistiche, sono state modificate dopo la pubblicazione del progetto del piano e dopo che all'Amministrazione provinciale erano pervenuti i pareri dei Comuni, nonché le proposte di modifica e le diverse osservazione; sarebbe stato inserito ex novo l'art. 9 delle norme di attuazione, estremamente controverso e bocciato dallo stesso presidente della Commissione per la natura, il paesaggio e lo sviluppo del territorio, che vieta tout court, senza la possibilità di valutazione concreta caso per caso, la realizzazione di piste da sci ed impianti di risalita sia nelle zone Unesco, che nelle zone adiacenti (zone "buffer");
   - che nel territorio del Comune di Castelrotto si trovano sia Zone Unesco vere e proprie che le cosiddette zone "buffer";
   - che la Giunta provinciale non avrebbe mai esaminato, né deliberato tali modifiche;
   - che contrariamente a quanto la sentenza di primo grado erroneamente ritiene, non si tratterebbe di una circostanza irrilevante e pertanto trascurabile, ma di un diritto espressamente garantito dall'art. 12. L.p. 13/1997, alla cui violazione consegue l'illegittimità dei provvedimenti adottati;
   - che sarebbe infondata l’affermazione del TRGA in riferimento all'omessa approvazione di tali modifiche da parte la Giunta provinciale, laddove rileva che la loro approvazione sarebbe avvenuta implicitamente ed "in via indiretta" mediante l’approvazione sic et simpliciter dell'intero piano, così come dapprima elaborato dai propri uffici e poi modificato dalla Commissione, per cui tali modifiche sarebbero comunque entrate a far parte del piano.
5.1. Le doglianze non hanno pregio.
La sentenza impugnata si esprime in maniera chiara ed inequivoca sul punto, laddove statuisce che nella impugnata delibera di approvazione n. 1545/2014 della Giunta provinciale “tali modifiche al progetto di piano di settore apportate in seguito sono state citate soltanto in forma generica, sottolineando però che esse non vanno a modificare le indicazioni strategiche del piano stesso”. “Altrettanto infondata è la censura secondo cui il progetto di piano di settore a seguito delle modifiche apportate avrebbe dovuto essere nuovamente pubblicato e che il pubblico, in particolare i Comuni, non sarebbero stati informati delle modifiche. Quest'ultima argomentazione non corrisponde al vero. Dal verbale n. 29 del 06.11.2014 della Commissione natura, ambiente e sviluppo del territorio citato in precedenza e dalla delibera di approvazione della Giunta provinciale n. 1545/2014 emerge infatti il contrario, ovvero che tutti i Comuni interessati erano stati informati. Per quanto riguarda l’asserito obbligo di pubblicazione, dal procedimento amministrativo descritto all'art. 12 della l.p. n. 13/1997 si evince chiaramente che la versione definitiva e approvata del piano di settore può contenere delle modifiche rispetto al progetto di piano”.
5.2. Il Collegio osserva che, a prescindere dalla circostanza che gli appellanti non hanno dedotto già nel ricorso di primo grado che nel territorio del Comune di Castelrotto si trovano sia Zone Unesco vere e proprie che le cosiddette zone "buffer", dalle censure mosse non emerge specificatamente quali modifiche introdotte nel piano di settore approvato rispetto al progetto di piano avrebbero rappresentato un tale cambiamento sostanziale del piano, nei suoi criteri ispiratori, da costituire un mutamento delle sue caratteristiche essenziali, in grado di alterarne l’impianto originario.
Ad ogni modo si ritiene corretta e priva di vizi logici la valutazione effettuata dal Giudice di prime cure, per cui non vi sono elementi ai fini dell’accoglimento del quarto motivo di appello, tenuto conto anche del consolidato orientamento, dal quale il Collegio non vede ragioni di discostarsi, secondo il quale “la riapertura della fase istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e della conseguente riattivazione dell’interlocuzione coi soggetti interessati, si rende necessaria soltanto allorché le modifiche apportate al progetto iniziale nel corso del procedimento finalizzato alla sua approvazione importino un sostanziale cambiamento nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto essenziale, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione, determinando una rielaborazione complessiva del piano stesso (ex aliis, C.d.S., sez. IV, 10.08.2004, n. 5492), il che certamente non è avvenuto nel caso in esame, nel quale la contestata modificazione è consistita nella sola soppressione dell’iniziativa privata nella formazione del piano di recupero” (Consiglio di Stato, Sez. II, 05.06.2019 n. 3806).
Anche di recente la giurisprudenza di questo Consiglio è tornata a ribadire che una ripubblicazione del piano è necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.04.2018, n. 2513)" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.08.2023 n. 7483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La condivisibile giurisprudenza, anche di questo Tribunale, e dalla quale il Collegio non vede ragione di discostarsi, ha evidenziato che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la mancata ripubblicazione del Piano a seguito delle modifiche intervenute per effetto delle osservazioni presentate.
Il motivo è infondato.
La condivisibile giurisprudenza, anche di questo Tribunale (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 15.11.2021, n. 2248), e dalla quale il Collegio non vede ragione di discostarsi, ha evidenziato che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677)
” (Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880) (Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027 cit.)” (TAR Veneto, Sez. II, 08.08.2022, n. 1282).
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, risulta all’evidenza che il P.U.C. impugnato, a seguito delle osservazioni, non necessitava di ripubblicazione alcuna, dal momento che non è ravvisabile una “rielaborazione complessiva” dello stesso.
A maggior ragione ove si consideri che, come emerge dalla relazione depositata dal Comune, la rielaborazione non ha comportato alcun mutamento rilevante per il ricorrente, al quale era stata attribuita una quota di edificazione pari al 0,35 mq/mq rispetto alla superficie di terreno di sua proprietà ricadente nell’adottato comparto V1.6, pari a quella che gli è stata riconosciuta per il terreno inserito nell’approvato lotto “d” del comparto V1.4, con la conseguenza che gli si è creato alcun pregiudizio, rimanendo legittimato a sfruttare tutta la relativa potenzialità edificatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. III, sentenza 29.06.2023 n. 1587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: «… costituisce … principio consolidato che … l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree».

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6. Non può, infine, riscuotere favorevole apprezzamento l’ordine di doglianze incentrato sull’assunto che le modifiche introdotte al PUC adottato, all’indomani dei rilievi di non coerenza rispetto al PTCP di Salerno, formulati col DPP di Salerno n. 156 del 16.12.2019, avrebbero rivestito portata tale, segnatamente sotto il profilo della riduzione delle aree edificabili, da richiedere la rielaborazione complessiva del PUC a cura dell’organo giuntale di governo dell’ente locale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.f).
Una ipotetica modifica di carattere sostanziale, tale da innovare profondamente alle linee fondamentali del PUC adottato, da comportarne una rielaborazione complessiva o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione non risulta, infatti, allegata e dimostrata da parte ricorrente. E trova, anzi, smentita nell’espressa attestazione, contenuta nella DCC n. 86 del 28.12.2020, che «il recepimento integrale delle suddette prescrizioni e condizioni dei vari Enti non configura una rielaborazione complessiva del Piano, ossia un mutamento delle caratteristiche essenziali e dei criteri che hanno determinato la sua elaborazione e che pertanto è da escludere l’obbligo di ripubblicazione del Piano».
In questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 07.12.2022, n. 10731 ha statuito che: «… costituisce … principio consolidato che … l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso. Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma … equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343; 26.04.2006 n. 2297; 31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; 04.12.2013, n. 5769)»
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.06.2023 n. 1580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che essi risultano strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione, salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione complessiva analoga a una nuova adozione.
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre distinguere tra
   - modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche ‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”.
Applicando le coordinate giurisprudenziali sin qui delineate, si può affermare che se non si deve procedere alla ripubblicazione allorché le modifiche siano derivate dal momento di confronto con il pubblico oppure siano da attribuire all’esercizio del controllo da parte dell’Ente regionale, a maggior ragione non si deve dare luogo a ripubblicazione allorché le modifiche o integrazioni al piano strutturale comunale siano effetto di un obbligo di conformazione (nella specie al PEE approvato dal Prefetto di Vibo Valentia).
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18. – Con il ventitreesimo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 27, comma 7-quater, l.r. n. 19 del 2002 e dei principi generali in materia di ripubblicazione del PSC, adottato a seguito del Piano Comunale di Emergenza (PCE), dell’atto di zonizzazione acustica e di zonizzazione sismica.
In sostanza, secondo la ricorrente avrebbe dovuto procedersi a una nuova pubblicazione del PSC, in quanto modificato per integrarvi il PCE, la zonizzazione acustica e la zonizzazione sismica.
18.1. – In proposito, si rinvia alla sentenza di questo Tribunale, Sez. II, del 06.12.2021, n. 2241, che, pronunciata proprio con riferimento al PSC di Vibo Valentia, ha negato che si dovesse provvedere alla ripubblicazione.
Si è, infatti, precisato che «non era necessario promuovere nuovamente la partecipazione all’elaborazione del piano strutturale comunale.
Infatti, con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011 n. 3497) ha avuto già modo di chiarire che essi risultano strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione, salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione complessiva analoga a una nuova adozione (Cons. Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503; Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2014, n. 1241; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 04.10.2016, n. 1803).
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche ‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale” (Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; cfr., altresì, TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 10.02.2021, n. 374).
Applicando le coordinate giurisprudenziali sin qui delineate, si può affermare che se non si deve procedere alla ripubblicazione allorché le modifiche siano derivate dal momento di confronto con il pubblico oppure siano da attribuire all’esercizio del controllo da parte dell’Ente regionale, a maggior ragione non si deve dare luogo a ripubblicazione allorché le modifiche o integrazioni al piano strutturale comunale siano effetto di un obbligo di conformazione, nella specie al PEE approvato dal Prefetto di Vibo Valentia
» (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza II, sentenza 08.05.2023 n. 712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo un risalente e non superato insegnamento giurisprudenziale, ribadito anche di recente dalla Sezione, “l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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42. Con un secondo motivo deduce: Illegittimità per violazione delle norme sul procedimento amministrativo – difetto di istruttoria e di motivazione, violazione dell’articolo 3 della legge n. 241/90 (6° motivo del ricorso introduttivo).
42.1. Legambiente lamenta che tra la data di adozione e quella di approvazione del programma integrato sarebbero intervenute delle modifiche sostanziali alla documentazione istruttoria di supporto, alterandone la percezione ed impedendo ai potenziali interessati di presentare osservazioni sul testo finale, così vanificando le regole sulla partecipazione al procedimento di approvazione del piano urbanistico. Le modifiche sarebbero particolarmente rilevanti per quanto concerne l’impatto
viabilistico dove la rielaborazione dello studio del traffico evidenzierebbe un incremento significativo dei flussi (cfr. p. 22 e 23 della memoria del 12.09.2022 di Legambiente). L’effetto di questi aumenti di traffico (non noti e resi pubblici in ritardo), sommato all’effetto della modifica degli spazi di sosta breve, determinerebbe una alterazione radicale della situazione viabilistica esistente nei pressi della Stazione ferroviaria e rappresenterebbe un elemento del tutto nuovo rispetto allo schema viabilistico delineato in modo carente e lacunoso in fase di adozione.
42.2 Il motivo è infondato.
Il fatto che successivamente alla delibera di adozione del piano siano stati condotti approfondimenti istruttori per assicurare un miglior livello di conoscenza delle analisi di impatto effettivo dell’intervento sui flussi di traffico, applicando parametri maggiormente cautelativi e considerando anche la componente dei pedoni e dei ciclisti, non comporta una violazione dei diritti partecipativi della cittadinanza atteso che questi approfondimenti non hanno alterato le linee essenziali dell’intervento, con particolare riferimento alle opere di viabilità ma anche rispetto agli ulteriori temi di approfondimento sicché, gli interessati, già sulla scorta della proposta e dei documenti istruttori disponibili al momento della formale adozione del piano, erano nelle condizioni di presentare memorie e documenti su una proposta ben definita nei suoi caratteri essenziali.
Del resto, il fatto che gli approfondimenti successivi abbiano evidenziato maggiori percentuali di incremento dei flussi veicolari trova ampia compensazione nelle prescrizioni imposte, già in sede di screening sulla VAS, che prevedevano un monitoraggio ex post finalizzato anche alla adozione di “eventuali misure correttive” sicché eventuali osservazioni critiche sul punto sarebbero comunque state superate dalle prescrizioni a tal fine già previste.
42.3 Del resto, Legambiente non ha evidenziato come una tempestiva conoscenza del più approfondito studio del traffico indotto avrebbe potuto incidere sull’esercizio dei diritti partecipativi, a fronte di un intervento che già dalla fase di adozione presentava caratteristiche tali da determinare oggettivamente un incremento del traffico veicolare, sebbene sulla base di ipotesi in quella fase maggiormente prudenziali.
42.3 In via generale occorre poi rilevare che secondo un risalente e non superato insegnamento giurisprudenziale ribadito anche di recente dalla Sezione (cfr. Cons. Stato, IV, 02.01.2023, n. 21) “l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343, 26.04.2006 n. 2297, 31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769)
”.
42.4 Applicando i suesposti principi (ribaditi di recente dalla sezione, con la sentenza del 11.04.2022 n. 2700) al caso di specie, il Collegio evidenzia che le modifiche apportate dopo la adozione del PII non possono considerarsi alla stregua di un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla … impostazione”, né un suo “stravolgimento” o un suo “profondo mutamento”, tale da comportare l’obbligo di ripubblicazione del piano ai fini della sua legittimità
(Consiglio di Stato, IV, sentenza 28.03.2023 n. 3168 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va osservato che in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Può parlarsi, in quest’ottica, di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
La giurisprudenza, invece, con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
In altri termini, “l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria sull’intero territorio, l’Amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del PGT prima di procedere alla sua approvazione.
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2.4. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico, assumendo che la variante abbia modificato in maniera talmente sostanziale le aree dei ricorrenti da rendere necessaria una nuova pubblicazione.
Il motivo è infondato.
2.4.1. In linea generale, va osservato che in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Può parlarsi, in quest’ottica, di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
La giurisprudenza, invece, con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In altri termini, “l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria sull’intero territorio, l’Amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del PGT prima di procedere alla sua approvazione.
2.4.2. Inoltre, nel caso di specie, deve rilevarsi che:
   - nelle more dell’approvazione della variante (avvenuta il 13.07.2017), è stata depositata la sentenza del Consiglio di Stato n. 2921 del 28.06.2016 di definitivo annullamento delle disposizioni del Documento di Piano incidenti sull’ambito di cui è causa;
   - la Città Metropolitana di Milano, nell’esprimere il parere di compatibilità sulla variante, aveva chiesto lo stralcio dell’ambito TR “Golfo Agricolo” e la riclassificazione dell’area;
   - il Comune, nel rispetto del parere della Città Metropolitana, ha proceduto allo stralcio del comparto dal Documento di Piano per collocarlo nel Piano dei Servizi, con la creazione contestuale di una apposita scheda con il relativo indice edificatorio.
Orbene, l’art. 13 comma 9, della l.r. n. 12/2005 esclude una nuova pubblicazione del piano in caso di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali.
La modifica in questione, peraltro, oltre ad essere imposta dall’intervento dell’Autorità Provinciale (ora denominata Città Metropolitana), riguarda un solo ambito e non ha certamente una valenza sostanziale, in quanto resta immutata la destinazione agricola dell’area, che non subisce quindi alcun mutamento essenziale.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se lo strumento urbanistico impugnato abbia -o meno- subito una rilevante modifica dopo la sua adozione e, perciò, avrebbe dovuto essere nuovamente pubblicato per consentire la presentazione delle osservazioni.
Secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza del Consiglio di Stato:
   a) occorre distinguere tra
      - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni della pianificazione sovraordinata, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi),
      - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali), e
      - modifiche “
concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal comune).
Mentre per le modifiche “
facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale (o dell’ente competente in materia) rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale;
   b) l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui
   - si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”,
   - mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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7.5. Con il secondo motivo (sostanzialmente ripreso con il secondo motivo di appello), gli interessati deducono che solo in sede di approvazione del regolamento è stata prevista una fascia di inedificabilità assoluta nell’area comprendente i terreni di loro proprietà. Lo strumento urbanistico impugnato avrebbe quindi subito una rilevante modifica dopo la sua adozione e, perciò, avrebbe dovuto essere nuovamente pubblicato per consentire la presentazione delle osservazioni.
7.5.1. Il motivo in esame è infondato.
7.5.2. Secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza del Consiglio di Stato:
   a) occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni della pianificazione sovraordinata, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali), e modifiche “concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal comune). Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale (o dell’ente competente in materia) rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale (cfr. Cons. Stato, sez. iv, 13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 11.11.2020, n. 6944);
   b) l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale (o di altro strumento urbanistico) subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano (o nello strumento) adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso. Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; 21.09.2011, n. 5343, 26.04.2006 n. 2297, 31.01.2005, n. 259; 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
7.5.3. Applicando i suesposti principi (ribaditi di recente dalla sezione, con la sentenza del 11.04.2022 n. 2700) al caso di specie, il Collegio evidenzia che la modifica dedotta dall’appellante non può considerarsi un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla … impostazione” del regolamento adottato, né un suo “stravolgimento” o un suo “profondo mutamento”, tale da comportare l’obbligo di ripubblicazione del piano ai fini della sua legittimità (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.01.2023 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per consolidata giurisprudenza, occorre distinguere tra
   - modifiche “obbligatorie”, in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi;
   - modifiche “facoltative”, in quanto consistenti in innovazioni non sostanziali; e
   - modifiche “concordate”, in quanto conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune.
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale (o di altra autorità preposta) rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
Del resto costituisce altresì un principio consolidato che, in materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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Con particolare riferimento al vincolo cimiteriale, pur prevedendo l’art. 338 del r.d. del 24.07.1934 n. 1265, come modificato dall’art. 28 della legge n. 166 del 01.08.2002, la possibilità del comune di perimetrare, a determinate condizioni, diversamente la fascia di rispetto cimiteriale, va evidenziato che ciò costituisce espressione di una scelta ampiamente discrezionale del Comune, che evidentemente nel caso di specie non è stata compiuta, quantomeno con riferimento alle proprietà degli interessati, né, peraltro, dalla astratta possibilità di una diversa demarcazione della fascia di rispetto in questione deriverebbe l’obbligo di ripubblicazione dell’intero piano.
Le censure sviluppate al riguardo, sull’opportunità di applicare questa diversa perimetrazione, travalicano il merito delle scelte discrezionali dell’Amministrazione comunale; pertanto, vanno richiamati i noti e consolidati orientamenti in ordine all’impossibilità di un sindacato giurisdizionale nel merito delle scelte urbanistiche, salvi i soli casi di macroscopica erroneità o irragionevolezza, che nella specie non ricorrono.

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8. Con il secondo motivo, i proprietari evidenziano l’erroneità della sentenza di primo grado rilevando la necessità di una nuova pubblicazione del piano anche in caso di mero recepimento della fascia di rispetto cimiteriale previsto dalla legge.
Si rafforza la censura rilevando, poi, che la fascia di rispetto sarebbe stata tracciata in maniera più ampia in una determinata direzione e rispetto ad alcuni fondi, mentre per altre aree sarebbe meno ampia senza che sia possibile comprenderne il motivo. Parimenti, sarebbe incomprensibile il motivo per il quale ad alcuni fondi posti in prossimità del cimitero sarebbe stata assegnata una destinazione più favorevole, in quanto implicanti maggiori facoltà per il proprietario, mentre i fondi di proprietà degli interessati posti ad una maggiore distanza avrebbero ricevuto una destinazione implicante minori facoltà (ossia, “zona per servizi collettivi” in luogo di “zona a verde pubblico”): questa scelta, secondo gli appellanti, “avrebbe meritato la presentazione di una apposita osservazione”.
Si censura poi l’affermazione della sentenza secondo cui la fascia di rispetto sarebbe immodificabile, evidenziandosi che, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 166/2002, sarebbe possibile per l’amministrazione prevedere la riduzione della fascia di rispetto. Si evidenzia, in proposito, che nel caso di specie ricorrerebbe una delle fattispecie in base alle quali sarebbe possibile la riduzione della fascia di rispetto, perché tra la proprietà degli interessati (particella n. 43) e il cimitero è ubicata una strada a scorrimento veloce e, perciò, ben avrebbe potuto e dovuto, secondo gli interessati, essere consentita quantomeno un’interlocuzione in merito.
Gli appellanti censurano, inoltre, il punto della motivazione relativo all’area, di un chilometro quadrato, destinata con la proposta a zona “D1 zona P.I.P. di progetto” e poi trasformata, a seguito delle osservazioni, in zona “E verde agricolo”, sostenendo che la verifica sulla sussistenza di differenze che implichino la ripubblicazione del piano vada effettuata con esclusivo riferimento al raffronto fra piano adottato e piano da approvare, senza tenere conto della precedente strumentazione urbanistica.
Si deduce, infine, l’omessa pronuncia del TAR sulle altre modifiche (consistenti nella fissazione della distanza dai confini degli edifici pari al 50% dell’altezza dell’edificio in questione; nella destinazione a “verde pubblico” delle aree che nel progetto di PUC presentavano la campitura di “zona omogenea G” con destinazione a “servizi ed impianti di uso collettivo” e l’indicazione “IC” ad eccezione delle aree già edificate) intercorse fra l’adozione del Piano e la sua approvazione.
8.1. Il secondo motivo di appello è infondato.
8.2. In punto di diritto, il Collegio evidenzia che, per consolidata giurisprudenza, occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie”, in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi; modifiche “facoltative”, in quanto consistenti in innovazioni non sostanziali; e modifiche “concordate”, in quanto conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune. Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale (o di altra autorità preposta) rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944).
8.2.1. Del resto costituisce altresì un principio consolidato che, in materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano stesso.
8.2.2. Questo principio è stato variamente declinato in giurisprudenza, giungendosi ad affermare con espressioni diverse, ma sostanzialmente equivalenti nella sostanza, che la ripubblicazione del piano è necessaria per la legittimità del procedimento solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id., 31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
8.3. Applicando i suesposti principi al caso di specie, il Collegio evidenzia che non risulta allegata e dimostrata una modifica di carattere sostanziale, tale da innovare profondamente alle linee fondamentali della variante generale del Comune, da comportarne “una rielaborazione complessiva” o un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
8.3.1. Con particolare riferimento al vincolo cimiteriale, pur prevedendo l’art. 338 del r.d. del 24.07.1934 n. 1265, come modificato dall’art. 28 della legge n. 166 del 01.08.2002, la possibilità del comune di perimetrare, a determinate condizioni, diversamente la fascia di rispetto cimiteriale, va evidenziato che ciò costituisce espressione di una scelta ampiamente discrezionale del Comune, che evidentemente nel caso di specie non è stata compiuta, quantomeno con riferimento alle proprietà degli interessati, né, peraltro, dalla astratta possibilità di una diversa demarcazione della fascia di rispetto in questione deriverebbe l’obbligo di ripubblicazione dell’intero piano.
8.3.1.1. Le censure sviluppate al riguardo, sull’opportunità di applicare questa diversa perimetrazione, travalicano il merito delle scelte discrezionali dell’Amministrazione comunale; pertanto, vanno richiamati i noti e consolidati orientamenti in ordine all’impossibilità di un sindacato giurisdizionale nel merito delle scelte urbanistiche, salvi i soli casi di macroscopica erroneità o irragionevolezza, che nella specie non ricorrono (Cons. Stato, Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II, 04.09.2019, n. 6086; Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; Sez. IV, 09.05.2018 n. 2780; sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014, n. 1871).
8.3.2. Con riferimento alle altre modifiche, non risulta dedotta la ragione per la quale le aree di proprietà degli appellanti verrebbero ad essere incise o pregiudicate da queste ulteriori modifiche, sicché non risulta dedotto l’interesse (direttamente riferibile alla parte che agisce in giudizio) ad una ripubblicazione della variante di piano in relazione a tali modifiche
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2022 n. 10731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E’ consolidato l’orientamento giurisprudenziale proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione.
Invero, “si è puntualizzato che occorre distinguere tra
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, va richiamato il suddetto orientamento anche laddove afferma che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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Quanto alle osservazioni presentate dalla Regione Toscana e dalla Provincia di -OMISSIS- e alla pretesa violazione dell’art. 13 della legge regionale Toscana n. 1/2005, che avrebbe imposto, in presenza di modifiche facoltative e sostanziali, la ripubblicazione della variante, vale la pena sottolineare che, nel caso di specie, le osservazioni della Regione evidenziavano il contrasto delle previsioni del PN5 (e quindi anche del piano attuativo adottato con delibera del Commissario Straordinario n. 56/2007) con i valori paesaggistici dell’area tutelati dal P.I.T. (in particolare con l’art. 36) e con la scheda relativa all’ambito paesaggistico n. 14 allegata al P.I.T. medesimo, tanto da portare la Regione a rappresentare che non sussistevano elementi a sostegno della riconferma del piano. L’osservazione regionale è stata accolta dal Comune.
E’ consolidato l’orientamento giurisprudenziale in argomento (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7839 del 14.11.2019), proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione: “si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame. Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, va richiamato il suddetto orientamento anche laddove afferma che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; sez., 25.11.2003, n. 7782; sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
” (Cons. Stato, sez. IV, n. 7029 del 2020).
Una situazione del genere corrisponde a quella verificatasi nella specie, senza contare che avverso la conferma delle previsioni del piano attuativo in questione aveva formulato alcune osservazioni di natura critica anche la Provincia, sulla contrapposizione tra quantità insediabili e dotazione di spazi pubblici, sulla carenza di standard urbanistici accompagnata anche dalla previsione di delocalizzazione di porzione degli stessi, su un eccessivo carico urbanistico in relazione al sistema infrastrutturale esistente.
Ne deriva che, dinanzi a simili osservazioni, la revisione delle previsioni del PN5 costituiva una scelta obbligata per il Comune che non comportava il dovere di riadozione della variante in quanto, secondo quanto già indicato nella relazione illustrativa allegata alla delibera di approvazione “le modifiche apportate al piano adottato a seguito dell’accoglimento delle osservazioni pervenute ed in particolare modo quella della Regione Toscana e della Provincia di -OMISSIS- non hanno alterato né comportato una deviazione alle linee guida e ai contenuti dell’atto precedentemente adottato, che era (ed è) finalizzato a riallineare il RU al PS impedendo la realizzazione di nuovi interventi edilizi in contrasto con i dimensionamenti massimi per UTOE fissati dal PS”.
Come già annotato sopra, è escluso che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2022 n. 10662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza del Consiglio di Stato, occorre distinguere tra
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni della pianificazione sovraordinata, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali), e
   - modifiche “
concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.
Muovendo dall’implicito assunto di parte, secondo cui non si verterebbe, nel caso di specie, in tema di modifiche “
obbligatorie”, il Collegio evidenzia che, in materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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7.2. Con il secondo motivo di appello, si grava la sentenza rilevandosi che l’osservazione presentata dall’ufficio urbanistica ha interessato l’intero territorio comunale e non, specificamente, l’area della società, sicché il Comune non poteva decidere sull’area di proprietà della stessa, in assenza di un’osservazione specificamente presentata dalla società.
7.2.1. Con il terzo motivo di appello, la società impugna il capo della sentenza che ha respinto il terzo motivo di ricorso di primo grado, rilevando che il Tar avrebbe errato nel non ritenere sostanziale la modifica apportata dal Comune in sede di approvazione, allorché, modificando le Tavole di zonizzazione, ne ha ridotto la potenzialità edificatoria, e dunque necessaria (ai fini della sua legittimità) la ripubblicazione della variante di piano.
7.3. I motivi di appello sono infondati e, per la loro disamina, giova esaminare, per prima, la censura articolata nel terzo motivo.
7.3.1. Il Collegio evidenzia che, secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza del Consiglio di Stato, occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni della pianificazione sovraordinata, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali), e modifiche “concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944).
7.3.2. Muovendo dall’implicito assunto di parte, secondo cui non si verterebbe, nel caso di specie, in tema di modifiche “obbligatorie”, il Collegio evidenzia che, in materia urbanistica, l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che, per l’appunto, contempla, all’atto dell’approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove chi ha interesse dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l’impostazione di Piano stesso.
Costituisce, perciò, principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11.11.2020, n. 6944; Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id., 31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492), mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027; Sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
7.3.3. Applicando i suesposti principi al caso di specie, il Collegio evidenzia che la rettifica operata dal Comune, sulla base di un rilievo del suo stesso ufficio tecnico, non può considerarsi un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla … impostazione” del Piano, né un suo “stravolgimento” o un suo “profondo mutamento”, tale da comportare l’obbligo di ripubblicazione del piano ai fini della sua legittimità.
7.3.4. I principi richiamati inducono, altresì, a respingere la diversa ma connessa censura articolata con il secondo motivo di appello.
7.3.5. Dai precedenti che hanno approfondito funditus la problematica della fase partecipativa della presentazione delle osservazioni agli strumenti urbanistici adottati, si evince l’infondatezza in diritto della tesi sostenuta dall’appellante, in quanto in tali pronunce non è mai stata affermata la sussistenza di un vincolo di corrispondenza biunivoca ed esclusiva fra la titolarità della proprietà dell’area e la legittimazione a presentare osservazioni su quell’area.
7.3.6. La disamina degli articoli 9 e 10 della legge del 17.08.1942 n. 1150 smentisce la tesi sostenuta dall’interessata, ossia che il Comune non avrebbe potuto procedere ad una modifica del Piano riguardante il terreno di sua proprietà sulla base di un’osservazione non proposta dalla ditta proprietaria (bensì dal servizio tecnico dello stesso Comune che aveva riscontrato un errore nella redazione della parte cartografica del Piano), non contenendo alcun elemento di carattere testuale o, tanto meno, sistematico che corrobori questa interpretazione della normativa, de facto sminuente la potestà pianificatoria dell’Ente, in contrasto con la ratio della normativa stessa.
7.3.7. Il secondo e il terzo motivo di appello vanno pertanto respinti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2022 n. 10661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio, costituiscono modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni poste –tra gli altri casi, per quanto qui d’interesse- a tutela del paesaggio) “in conformità a quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c) della legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980- nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio”.
Del resto, il potere dell’Autorità regionale di intervento è, peraltro, riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza in materia, che afferma che: “Alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici”.
Ed ancora: “l'intervento della Regione nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della tutela "puntiforme" del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del territorio, non comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati.
Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d'ufficio dall'Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio”.
È stato, altresì, riconosciuto che: “le modifiche d'ufficio al Piano Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e), della L. n. 1150/1942, sono sempre ammesse ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente in coerenza con l'interesse pubblico, sancito dalla legge, della salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio e tale potere della Regione non soggiace al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte della norma citata”.
Ancora, in via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della L. n. 1150 del 1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede di approvazione del piano regolatore generale, è autorizzata a introdurre direttamente le modifiche e prescrizioni inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici; al rispetto delle ipotesi in cui è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché ai rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi, senza necessità di porre in essere una procedura ad hoc di adeguamento”.
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II – L’appello è infondato.
III - Il Collegio ritiene che la doglianza sia da disattendere dovendosi confermare il principio affermato più volte dal Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d’ufficio dall’Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio, costituiscono modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni poste –tra gli altri casi, per quanto qui d’interesse- a tutela del paesaggio) “in conformità a quanto stabilito dall’art. 10, secondo comma, lettera c) della legge n. 1150/1942 e dell’art. 16, decimo comma, della legge regionale n. 56/1980- nell’ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e 4984)” (Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013, n. 1182).
Del resto, il potere dell’Autorità regionale di intervento è, peraltro, riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza in materia, che afferma che: “Alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2013, n. 4614).
Ed ancora: “l'intervento della Regione nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della tutela "puntiforme" del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del territorio, non comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati. Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d'ufficio dall'Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio” (Cons. Stato Sez. II, 14.11.2019, n. 7839).
È stato, altresì, riconosciuto che: “le modifiche d'ufficio al Piano Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e), della L. n. 1150/1942, sono sempre ammesse ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente in coerenza con l'interesse pubblico, sancito dalla legge, della salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio e tale potere della Regione non soggiace al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte della norma citata” (TAR Sicilia Palermo Sez. II, 04.11.2019, n. 2535; cfr. conf. Cons. giust. amm. Sicilia, 18.11.2009, n. 1098).
Ancora, in via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della L. n. 1150 del 1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede di approvazione del piano regolatore generale, è autorizzata a introdurre direttamente le modifiche e prescrizioni inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici; al rispetto delle ipotesi in cui è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché ai rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi, senza necessità di porre in essere una procedura ad hoc di adeguamento” (Cons. Stato Sez. IV, 01.12.2011, n. 6349) (CGARS, sentenza 02.12.2022 n. 1244 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano urbanistico, niente ripubblicazione se il Comune modifica d'ufficio lo strumento adottato. L'obbligo di ripubblicazione del piano, afferma il Tar Lombardia, sorge solo a fronte di modifiche che comportano una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale.
La modifica d'ufficio della destinazione urbanistica sul Pgt adottato non obbliga l'ente alla ripubblicazione del piano prima della sua approvazione definitiva.

Non ha dubbi il TAR Lombardia-Milano -Sez. II nella recente sentenza 26.09.2022 n. 2053- nel respingere il ricorso di alcuni proprietari fondiari che hanno impugnato al Tar la delibera del consiglio del comune di Milano con cui nel 2019 è stato approvato il nuovo Pgt.
Il motivo della contestazione sta nella diversa decisione del Comune di classificare nel Pgt approvato le aree dei ricorrenti come "verde urbano di nuova previsione – pertinenza indiretta", mentre nel Pgt adottato le stesse aree erano state classificate come "Ambito di rinnovamento urbano (ARU)" e di "Rigenerazione urbana".
La conseguenza concreta della decisione -come lamentano i ricorrenti- è stata la perdita «di una certa vocazione edificatoria alle aree medesime». La decisione è stata presa dal Comune "ex officio", senza cioè alcuna osservazione pervenuta. Pertanto, i ricorrenti lamentano di non avere avuto la possibilità di conoscere in alcun modo il cambiamento di orientamento dell'ente. Contestano pertanto al Comune di aver introdotto la modifica al Pgt adottato senza aver ripubblicato il piano, impedendo di fatto il contraddittorio. Nel caso della Lombardia, le varie fasi della "costruzione" del piano sono definite nell'articolo 13 della legge regionale 12/2005.
Preliminarmente, i giudici della seconda Sezione del Tar Lombardia escludono che possa «essere rinvenuto un rapporto di rigida correlazione tra le osservazioni recepite e i pareri acquisiti, da un lato, e la possibilità di modificare il piano di governo adottato, dall'altro lato, perché questo significherebbe privare il pianificatore della discrezionalità che gli appartiene sino all'esito del procedimento e anteporre –o quantomeno equiparare– l'interesse privato al godimento più lucrativo della propria area con quello pubblico della pianificazione».
Pertanto non può essere accolta la tesi secondo cui, se nessuno ha presentato osservazioni, il pianificatore non può apportare modifiche in sede di approvazione del piano. Infatti, «ne discenderebbe l'impossibilità di apportare modifiche ex officio al piano, oltre che un onere di puntuale motivazione delle scelte urbanistiche e un obbligo di costante ripubblicazione a fronte di qualsiasi modifica al piano adottato, per garantire una costante interlocuzione coi privati». Invece, ricorda il primo giudice, «l'obbligo di ripubblicazione del piano urbanistico sorge solo a fronte di modifiche che comportano una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale, vale a dire in caso di mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione». Modifiche d'ufficio in sede di approvazione sono pertanto «pienamente ammissibili».
Conclusione: «il potere pianificatorio tra l'adozione e l'approvazione dello strumento urbanistico non è vincolato o necessariamente conformato dalle osservazioni dei privati». Inoltre, «le osservazioni non costituiscono delle proposte di provvedimento amministrativo che possano essere solo accettate o respinte, ma non modificate. Esse possono invece costituire –come accaduto nella fattispecie– l'occasione per un ripensamento della disciplina urbanistica di un determinato ambito, che rimane discrezionale, e può quindi assumere anche un contenuto molto diverso da quello adottato inizialmente e da quello auspicato dai privati. Quando questo accade e non si dà il caso di una rielaborazione complessiva dello strumento, non è sempre necessario riaprire l'interlocuzione con i proprietari, in quanto l'interesse pubblico a una pianificazione equilibrata che tenga conto di tutti gli aspetti del piano e al rispetto dei tempi di approvazione dello strumento urbanistico, che non può essere esposto a una serie, potenzialmente molto estesa e ingovernabile, di continui confronti con i privati» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 03.10.2022).

URBANISTICA: Strumenti urbanistici generali – Ripubblicazione – Obbligo – Casi in cui sussiste – Individuazione.
Per giurisprudenza costante, si è affermato che l’obbligo di ripubblicazione del piano urbanistico sorge solo a fronte di modifiche che comportano una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale, vale a dire in caso di mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Tale giurisprudenza muove dal presupposto che siano pienamente ammissibili modifiche d’ufficio al piano in sede di approvazione e, infatti, distingue tra
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
È evidente che, in tale classificazione giurisprudenziale, le modifiche facoltative sono quelle a cui l’amministrazione si determina d’ufficio, al fine di mantenere –anche per l’effetto di ulteriori modifiche apportate al piano– l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra l’altro, il consumo di suolo nei limiti di legge.
In altre parole, deve affermarsi che il potere pianificatorio tra l'adozione e l'approvazione dello strumento urbanistico non è vincolato o necessariamente conformato dalle osservazioni dei privati e che le osservazioni non costituiscono delle proposte di provvedimento amministrativo che possano essere solo accettate o respinte, ma non modificate.
Esse possono invece costituire –come accaduto nella fattispecie– l’occasione per un ripensamento della disciplina urbanistica di un determinato ambito, che rimane discrezionale, e può quindi assumere anche un contenuto molto diverso da quello adottato inizialmente e da quello auspicato dai privati.
Quando questo accade e non si dà il caso di una rielaborazione complessiva dello strumento, non è sempre necessario riaprire l'interlocuzione con i proprietari, in quanto l'interesse pubblico a una pianificazione equilibrata che tenga conto di tutti gli aspetti del piano e al rispetto dei tempi di approvazione dello strumento urbanistico, che non può essere esposto a una serie, potenzialmente molto estesa e ingovernabile, di continui confronti con i privati.
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2.1. Con il primo motivo (rubricato: “eccesso di potere per violazione, falsa, mancata e/o sviata applicazione dell’art. 13, comma 4, della l.r. 11.5.2005, n. 12 – contraddittorietà - travisamento dei fatti – difetto assoluto di istruttoria – illogicità - difetto ed erroneità della motivazione”) i ricorrenti deducono l’illegittimità in parte qua della delibera di approvazione del Pgt poiché la modifica della destinazione solo in sede di approvazione e in conseguenza di un’osservazione altrui non avrebbe consentito agli odierni ricorrenti di contraddire, con conseguente violazione delle garanzie partecipative conferite al privato nel procedimento di adozione e approvazione dello strumento urbanistico.
Inoltre, nemmeno il terzo avrebbe chiesto una modifica in tal senso della destinazione della propria area, per cui il Comune sarebbe andato ultra petitum con la propria determinazione modificativa, senza che ve ne fosse alcuna necessità.
Infine, il Comune avrebbe errato nel fare riferimento a una disparità di trattamento tra le aree, nei fatti non sussistente.
...
3. Il primo motivo è infondato.
3.1. In punto di fatto, va preliminarmente osservato che, per stessa ammissione dei ricorrenti (cfr. memoria di replica, pag. 4), le aree di proprietà non hanno subito una revisione peggiorativa rispetto alla disciplina previgente del 2012 ove, seppur soggette a pianificazione attuativa, erano classificate come aree a pertinenza indiretta ed era alle stesse attribuito il medesimo indice di edificabilità attribuito dal piano in questa sede impugnato. Solo a una residua porzione –di cui non è specificata la consistenza in quanto non specificata dalle parti ricorrente– dei mappali 195 e 201 era invece assegnato un indice di edificabilità superiore.
3.2. Nel merito, i ricorrenti richiamano la sentenza di questo TAR n. 50 dell’11.01.2022, quale precedente in termini che dovrebbe condurre all’accoglimento del ricorso.
Al di là dell’assenza di vincolatività per il giudice di un precedente, il Collegio non ritiene tuttavia applicabile alla fattispecie la sentenza in esame, poiché basata su un caso diverso, nel quale l’area dei ricorrenti aveva subito una modifica peggiorativa rispetto alla disciplina previgente e che si risolve in un difetto di istruttoria che non è parimenti trasponibile nella presente fattispecie.
3.3. La previsione di cui all’art. 13 della L.r. n. 12/2005 delinea un procedimento articolato in varie fasi:
   i) avvio del procedimento con termine per le osservazioni (co. 2);
   ii) acquisizione del parere delle parti sociali ed economiche (co. 3);
   iii) adozione del Piano (co. 4);
   iv) fase di presentazione delle osservazioni (co. 4);
   v) acquisizione dei pareri da parte degli Enti competenti (co. 5, co. 5-bis, co. 6);
   vi) fase di approvazione con inserimento negli atti “modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni” nonché all’adeguamento imposto dai pareri degli Enti (co. 7, co. 7-bis, co. 8, co. 9);
   vii) fase di deposito e pubblicazione nel sito informatico dell’amministrazione comunale;
   viii) fase di pubblicazione dell’avviso sul Burl. (co. 10).
Come ha già osservato questo TAR, anche nella citata sentenza n. 50/2022, “il complesso procedimento delineato dal legislatore regionale non risponde solo ad esigenze di ordinato incedere dell’iter amministrativo ma è, al contrario, funzionale alla realizzazione dei vari interessi involti dalla procedura e sottoposti alla valutazione comunale”.
Nell’ambito di questo complesso procedimento, infatti, vengono acquisiti i pareri delle parti sociali ed economiche –ai fini della “costruzione” del piano e dunque dell’adozione delle scelte di utilizzo del suolo– e, successivamente alla pubblicazione del piano adottato, le osservazioni dei privati e i pareri da parte degli enti competenti. Solo al termine di tale confronto l’amministrazione opera le proprie scelte definitive, eventualmente modificando il “progetto” di governo del territorio delineato nel piano adottato.
Tuttavia, non può essere rinvenuto un rapporto di rigida correlazione tra le osservazioni recepite e i pareri acquisiti, da un lato, e la possibilità di modificare il piano di governo adottato, dall’altro lato, perché questo significherebbe privare il pianificatore della discrezionalità che gli appartiene sino all’esito del procedimento e anteporre –o quantomeno equiparare– l’interesse privato al godimento più lucrativo della propria area con quello pubblico della pianificazione. L’interesse principale nell’esercizio del potere di pianificazione –sia in sede di adozione sia in sede di approvazione– resta quello, pubblico, di garantire la funzionalità complessiva delle scelte di governo del territorio.
A conferma di ciò, si pensi al fatto che le osservazioni dei privati sono ritenute costantemente in giurisprudenza come dei “meri apporti procedimentali”, sulle quali l’amministrazione si può pronunciare anche accorpandole per ambiti omogenei e senza effettuare una controdeduzione puntuale.
Se si accedesse invece alla tesi dei ricorrenti –secondo cui il fatto che nessuno, per le aree di loro proprietà, abbia presentato osservazioni al piano adottato privi per ciò stesso il pianificatore del potere di effettuare modifiche, in sede di approvazione del piano –ne discenderebbe l’impossibilità di apportare modifiche ex officio al piano, oltre che un onere di puntuale motivazione delle scelte urbanistiche e un obbligo di costante ripubblicazione a fronte di qualsiasi modifica al piano adottato, per garantire una costante interlocuzione coi privati.
Invece, per giurisprudenza costante (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.02.2022, n. 220; Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.11.2020, n. 7027), che il Collegio condivide, si è affermato che l’obbligo di ripubblicazione del piano urbanistico sorge solo a fronte di modifiche che comportano una rielaborazione complessiva dello strumento di pianificazione territoriale, vale a dire in caso di mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Tale giurisprudenza muove dal presupposto che siano pienamente ammissibili modifiche d’ufficio al piano in sede di approvazione e, infatti, distingue tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune). È evidente che, in tale classificazione giurisprudenziale, le modifiche facoltative sono quelle a cui l’amministrazione si determina d’ufficio, al fine di mantenere –anche per l’effetto di ulteriori modifiche apportate al piano– l’equilibrio complessivo del medesimo e, tra l’altro, il consumo di suolo nei limiti di legge.
In altre parole, deve affermarsi che il potere pianificatorio tra l'adozione e l'approvazione dello strumento urbanistico non è vincolato o necessariamente conformato dalle osservazioni dei privati e che le osservazioni non costituiscono delle proposte di provvedimento amministrativo che possano essere solo accettate o respinte, ma non modificate. Esse possono invece costituire –come accaduto nella fattispecie– l’occasione per un ripensamento della disciplina urbanistica di un determinato ambito, che rimane discrezionale, e può quindi assumere anche un contenuto molto diverso da quello adottato inizialmente e da quello auspicato dai privati. Quando questo accade e non si dà il caso di una rielaborazione complessiva dello strumento, non è sempre necessario riaprire l'interlocuzione con i proprietari, in quanto l'interesse pubblico a una pianificazione equilibrata che tenga conto di tutti gli aspetti del piano e al rispetto dei tempi di approvazione dello strumento urbanistico, che non può essere esposto a una serie, potenzialmente molto estesa e ingovernabile, di continui confronti con i privati.
3.4. Nel caso di specie, la modifica è giustificata da esigenze del contenimento del consumo di suolo, in relazione alle quali non si può porre un onere di puntuale motivazione in sede di controdeduzioni, dovendosi piuttosto fare rinvio alla relazione del documento di piano.
Peraltro, come osservato dalla difesa comunale, già il Pgt prevedeva negli ambiti di rinnovamento urbano la presenza in attraversamento delle stesse di un arco verde di connessione privilegiata, elemento costitutivo della rete ecologica di livello comunale. In sede di approvazione, il Comune si è limitato a rimodulare –in senso evolutivo al fine del contenimento del consumo di suolo e valorizzando la necessità di mantenere suoli permeabili– tale scelta.
3.5. Alla luce delle suesposte considerazioni, il primo motivo deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2022 n. 2053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ripubblicazione del piano regolatore generale: quando è obbligatoria, quando è esclusa.
Una recente pronuncia (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.09.2022 n. 1406) ci dà l’occasione per parlare della ripubblicazione del piano regolatore generale. Vediamo quindi quando si deve procedere alla ripubblicazione, quando la ripubblicazione è esclusa, la ripubblicazione nel caso di modifiche introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale.
Quando si deve procedere alla ripubblicazione
Secondo un consolidato orientamento
[1], la necessità di ripubblicazione del piano sussiste allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione (ed in particolare quando ciò avvenga a séguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate), vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono; in altri termini, la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione [2].
Quando la ripubblicazione è esclusa La ripubblicazione, viceversa, deve escludersi, per assenza di una rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree
[3]; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree [4].
Ad esempio
[5], non è stata ritenuta necessaria la ripubblicazione nel caso in cui due lotti erano stati, in un primo tempo, inseriti nel perimetro di un’unica “zona di espansione” a destinazione “C2-9”, con prescrizione di previa predisposizione di piano particolareggiato ai fini dell’edificazione per un solo lotto e individuazione degli altri due come aree da cedere al Comune per urbanizzazioni; a seguito di osservazioni ritualmente presentate dalla società titolare dei suoli, l’Amministrazione comunale aveva modificato la predetta destinazione, prevedendo, per i due lotti non destinati all’edificazione, l’inserimento di uno in una zona di completamento “B6” e l’inserimento dell’altro come zona “G6”, comprendente aree da cedere al Comune per la realizzazione di “parco o giardino pubblico di quartiere”.
Parimenti, la ripubblicazione è stata esclusa:
   - in un’ipotesi di modifica riguardante solo le aree a contorno ad alcune ville storiche disseminate nel territorio comunale
[6];
   - nel caso di una modifica consistente nell’accorpamento di due ambiti, con il mantenimento comunque della previsione di specifiche capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti accorpati
[7];
   - nel caso di reinserimento di una singola strada
[8].
La ripubblicazione in caso di modifiche introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale
Per quanto concerne l’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi ed in genere l’osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da quelle facoltative (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle concordate.
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento provinciale o regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed approvazione del P.R.G.
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Ripubblicazione obbligatoria, un caso recente
Nella recente sentenza 19.09.2022 n. 1406, del TAR Veneto - Sez. II, è stata ritenuta necessaria la ripubblicazione di una variante del piano dopo che, in un primo tempo, erano stati stipulati ed inseriti nel piano alcuni accordi pubblico-privati e successivamente una parte di tali piani erano stati stralciati per evitare un eccesso di S.A.U. ed altri ancora venivano sostituiti con nuovi accordi.
Secondo i giudici, la scelta di “salvare” alcuni accordi nonostante il superamento di S.A.U. ed il diverso trattamento riservati ai diversi accordi sono elementi che individuano un nuovo assetto di valutazione alla base della variante, con l’ulteriore elemento critico dell’assenza di adeguata motivazione in merito al suddetto diverso trattamento.
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[1] Ex multis, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 12.03.2009, n. 1477; sent. 25.11.2003, n. 7782; recentemente, cfr. sez. IV, sent. 19.11.2018, n. 6484; TAR Toscana, sez. I, sent. 16.01.2017, n. 38.
[2] Cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 26.11.2018, n. 2677.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 19.11.2018, n. 6484; sent. 30.07.2012, n. 4321; sent. 27.12.2011, n. 6865.
[4] Consiglio di Stato, sez. II, sent. 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, sent. 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880.
[5] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 27.12.2011, n. 6865.
[6] Consiglio di Stato, sez. II, sent. 14.11.2019, n. 7839.
[7] TAR Lombardia, Milano, sez. IV, sent. 30.06.2021, n. 1596.
[8] TAR Emilia Romagna, Parma, sent. 07.04.2021, n. 90.
[9] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 25.11.2003, n. 7782; sez. VI, sent. 23.09.2009, n. 5671; TAR Campania, Napoli, sez. I, sent. 11.03.2015, n. 1510; sez. VIII, sent. 07.03.2013, n. 12879; Salerno, sez. I, sent. 08.05.2017, n. 880
(04.10.2022 - tratto da e link a https://ediltecnico.it).

URBANISTICA: La necessità di ripubblicazione del piano <<viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree>.
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2. Nel merito.
Il Collegio ritiene di esaminare il motivo di più agevole e rapido scrutinio che determina l'accoglimento del ricorso, con assorbimento degli altri motivi, in ossequio ai principi della "ragione più liquida", di economia processuale e di sinteticità della motivazione. (in tal senso, Cons. Stato, sez. III, 06.05.2021, n. 3534; sez. VI, 15.07.2019, n. 4971; sez. IV, 27.08.2019, n. 5891).
In particolare, occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale la necessità di ripubblicazione del piano <<viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880).
Il che è quanto accaduto nel caso di specie, che ha riguardato, come già precisato, le aree a contorno di ville storiche disseminate nel territorio comunale
>> (Consiglio di Stato sez. II, 14/11/2019, n. 7839).
Nel caso di specie, il provvedimento di approvazione, nella misura in cui ha comunque portato alla stipula di alcuni accordi pubblico-privati che determinano consumo di suolo con superamento del limite di S.A.U. valorizzato dal Comune nel provvedimento di adozione, si è posto in sostanziale contrasto con una delle linee giustificative fondamentali che avevano condotto, in sede di adozione, al totale “azzeramento” degli accordi stipulati con i privati, ovvero annullare tutti i suddetti accordi in quanto comportanti un consumo di S.A.U. superiore ai limiti ammessi dagli atti pianificatori.
L’avere, infatti, in sede di approvazione, consentito comunque la stipula e, quindi, di fatto, il “salvataggio”, di alcuni di questi accordi, a discapito di altri, pur comportando i primi un superamento di SAU al di là del limite precedentemente valorizzato dallo stesso Comune, viene a determinare, da un lato, un evidente mutamento strutturale della “variante” così come adottata, e dall’altro lato, un diverso trattamento tra i diversi accordi e, quindi, tra i diversi privati che a seguito della precedente variante avevano maturato un affidamento sulla realizzazione degli stessi, senza che sulle ragioni della scelta in ordine a tale diverso trattamento sia stata fornita adeguata motivazione.
Pertanto, il ricorso deve essere accolto nei limiti e per le ragioni che precedono, con conseguente annullamento dell’atto di approvazione impugnato n. 39 del 11.08.2015, il Comune, per l’effetto, dovendosi rideterminare in conformità a quanto più sopra esposto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.09.2022 n. 1406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo consolidata giurisprudenza, "la necessità di ripubblicazione del piano viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree".
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4. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono i vizi di violazione dell’art. 18 della L.R. n. 11/2004, e di eccesso di potere per motivazione apparente, contraddittoria e perplessa.
Affermano i ricorrenti che il Comune avrebbe dovuto limitarsi all’esame dell’osservazione pervenuta sulla “variazione n. 16” e confrontarsi con le controdeduzioni proposte dagli uffici che ne avevano proposto il rigetto sotto il profilo tecnico, mentre l’osservazione non viene richiamata nel dispositivo e le controdeduzioni non vengono mai formalmente valutate dal consiglio comunale. Da ciò la violazione dell’art. 18 L.R. 11/2004.
Il Consiglio non si sarebbe pronunciato sull’osservazione, ma avrebbe rimeditato le scelte compiute in sede di adozione, riavviando ex novo la discussione sul tema. Ove si ritenesse legittima la rimeditazione delle scelte già compiute in sede di adozione, dovrebbe, altresì, ritenersi necessaria la ripubblicazione della variante, perché sui suoi contenuti possa svilupparsi il contraddittorio.
Il motivo non è fondato.
Contrariamente a quanto affermano le ricorrenti, l’osservazione n. 23 ha costituito oggetto di puntuale disamina, come emerge dalla lettura del verbale della deliberazione del 29.03.2019 (cfr. gli stralci riportati nel punto che precede). Dal suddetto verbale emerge, inoltre, che il Consiglio comunale è stato reso pienamente edotto dell’assenza di ragioni ostative di natura tecnica all’approvazione della variante. La scelta, invece, è maturata per ragioni di opportunità legate alla ritenuta assenza di chiare indicazioni sulle prospettive di sviluppo dell’azienda.
Non emergono elementi per poter affermare la sussistenza di un obbligo di procedere alla ripubblicazione del piano. La parte non approvata attiene ad una modifica puntuale, concernente una singola area, che s’inserisce all’interno di una serie di altri interventi. Non v’è prova, quindi, di quell’alterazione dei criteri ispiratori della variante adottata che sola impone l’obbligo di ripubblicazione.
Secondo consolidata giurisprudenza, infatti, "la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677)
” (Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che “debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)" (Consiglio di Stato sez. IV, 13/11/2020, n. 7027 cit.) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.08.2022 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va osservato che in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria sull’intero territorio, l’amministrazione non è tenuta alla ripubblicazione del Pgt prima di procedere all’approvazione.
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5. Con il terzo motivo, si deduce la violazione dell’obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico, assumendo che la variante abbia modificato in maniera talmente sostanziale le aree dei ricorrenti da necessitare una nuova pubblicazione.
Il motivo è infondato.
5.1. In linea generale, va osservato che in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
Pertanto, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria sull’intero territorio, l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del Pgt prima di procedere all’approvazione.
5.2. Inoltre, nel caso di specie, deve rilevarsi come, nelle more dell’approvazione della variante (avvenuta il 13.07.2017), è stata depositata la sentenza del Consiglio di Stato n. 2921 del 28.06.2016 di definitivo annullamento delle disposizioni del documento di piano incidenti sull’ambito di cui è causa. Inoltre la Città Metropolitana di Milano, nell’esprimere il parere di compatibilità sulla variante, aveva chiesto lo stralcio dell’ambito TR Golfo Agricolo e la riclassificazione dell’area.
Il Comune, nel rispetto del parere della Città Metropolitana, ha proceduto allo stralcio del comparto dal documento di piano per collocarlo nel piano dei servizi, con la creazione contestuale di una apposita scheda con il relativo indice edificatorio. Tale modifica, imposta dall’intervento dell’Autorità Provinciale (ora denominata Città Metropolitana), riguarda peraltro un solo ambito e non ha certamente una valenza sostanziale, in quanto resta immutata la destinazione agricola dell’area, che non subisce quindi alcun mutamento essenziale.
L’art. 13, comma 9, della LR n. 12/2005 esclude una nuova pubblicazione del piano in caso di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
E’ stato osservato che <<… può parlarsi di rielaborazione complessiva quando "fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione".
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, "l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree">>.
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4. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
E’ stato osservato che <<… può parlarsi di rielaborazione complessiva quando "fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione" (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, "l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree" (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568)
>> (TAR Lombardia Milano, sez. II – 10/02/2021 n. 374, che nella vicenda esaminata ha riscontrato l’assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria, e ha pertanto escluso che l'amministrazione fosse tenuta a ripubblicare lo strumento urbanistico prima di procedere all’approvazione) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 09.03.2022 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ripubblicazione del PGT.
Il TAR Milano ricorda che:
<<in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.02.2022 n. 220 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
3.1. Con il primo motivo, si deduce l’illegittimità del Pgt approvato poiché, a seguito dell’accoglimento delle due osservazioni riportate in narrativa, l’impianto del piano sarebbe strato “stravolto” con riferimento alla frazione di San Bovio, nella quale vi sarebbe stato un “cospicuo aumento della volumetria edificabile”.
La censura è infondata.
Anzitutto, sono gli stessi ricorrenti a delimitare gli effetti dell’accoglimento delle osservazioni con riguardo a una sola limitata porzione del territorio (la frazione San Bovio), dal che si deve già dedurre che la modifica in questione non ha comportato una significativa modifica dell’impianto complessivo del piano.
In secondo luogo, i ricorrenti hanno solo genericamente affermato che esso determinerebbe un profondo mutamento dei criteri e obiettivi posti a base del documento di piano, senza tuttavia assolvere all’onere specifico di allegazione dell’effettiva modifica e delle percentuali di aumento della superficie edificabile nel piano approvato rispetto a quello adottato, sicché l’affermazione si risolve in una mera petizione di principio.
In altre parole, l’accoglimento delle osservazioni dei privati non ha determinato alcuna “modifica sostanziale” allo strumento urbanistico e si è risolto, in realtà, in modifiche di dettaglio o puntuali e comunque limitate, non determinando mai una rivisitazione complessiva del piano e degli obiettivi da esso perseguiti.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto, l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del Pgt prima di procedere all’approvazione.

URBANISTICA: Il Tribunale richiama costante giurisprudenza secondo la quale “la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia, è configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Secondo il Tribunale, “nella fattispecie, la modifica che il Comune ha introdotto nel PGT di cui è causa, in seguito all’accoglimento di osservazioni di terzi, non si traduce nella rielaborazione complessiva del piano ma, al contrario, ha una portata limitata, atteso che si risolve nell’accorpamento di due ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito ATA4), al fine di agevolare l’attuazione dell’ambito ARU7, con il mantenimento comunque della previsione di specifiche capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti accorpati”.
Aggiunge, inoltre, il Tribunale che “la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte –come nella fattispecie- modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”.
Nella fattispecie all’attenzione della IV Sezione, “le modifiche al PGT introdotte in fase di approvazione costituiscono il risultato dell’accoglimento parziale di osservazioni presentate da terzi soggetti”, con conseguente applicazione della previsione di cui all’art. 13, co. 9, della L.r. n. 12/2005, a mente della quale: “la deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”. Né, conclude il Tribunale, “alcuna disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni”.
La decisione della IV Sezione riguarda più propriamente, quindi, il tema della ripubblicazione del Piano ed afferma principi consolidati nella giurisprudenza (anche di questa Sezione).
Infatti, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, “in linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione”.
Il principio che il Consiglio di Stato ricava da “tale condivisibile regola giurisprudenziale” è quello “per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale […]) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo”.
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Nel caso di specie non si tratta di verificare un possibile stravolgimento del Piano approvato al fine di affermare la necessità di una nuova pubblicazione quanto, prima ancora, di accertare la legittimità della decisione tanto sotto il profilo dell’adeguatezza dell’istruttoria quanto della violazione delle regole e dei principi che presidiano il procedimento di approvazione dello strumento urbanistico.
La disamina de qua può prendere le mosse da alcuni principi affermati in tema di obbligo di ripubblicazione, utili al fine di comprendere alcuni degli assi portanti dell’elaborazione giurisprudenziale in materia.
Il riferimento è, in particolare, alla giurisprudenza della Sezione che evidenzia come “nessun argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 pianamente prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni” (comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)”.
Dello stesso avviso si mostra il Consiglio di Stato secondo cui “la modifica del P.R.G. adottato in accoglimento delle osservazioni non comporta per il comune l’obbligo di ripubblicazione del progetto di P.R.G. così modificato solo se, da un lato, tutte le modifiche introdotte derivano strettamente dal contenuto delle osservazioni presentate dai privati e favorevolmente vagliate dall’amministrazione e, d’altro lato, se si tratti di modifiche settoriali ed esclusivamente incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti che hanno presentato le corrispondenti osservazioni”.
Il Consiglio di Stato evidenzia la necessità di una stretta derivazione tra il contenuto delle osservazioni e le modifiche apportate in fase di approvazione sottolineando anche l’esigenza che si tratti di interventi incidenti nella sfera giuridica dei soggetti che presentano le osservazioni.
Simile impostazione appare in linea con altro arresto del Consiglio di Stato ove si sottolinea che “la immanenza del potere pianificatorio comunale non può giustificare lo stravolgimento della regola procedimentale secondo la quale la sequenza "ordinata" della approvazione del piano è scandita da una serie di passaggi -adozione, pubblicazione, presentazione delle osservazioni, controdeduzioni, approvazione- che non consente di "inserire" nuove determinazioni modificative del testo sul quale si era instaurato il contraddittorio, ben potendo invece, successivamente, l’amministrazione comunale intervenire con variante nel modificare il testo originario ove non rispondente (o non più rispondente) al pubblico interesse”.
Il Consiglio di Stato enfatizza la differenza tra la “causa” dell’adozione e quella dell’approvazione osservando come la prima sia funzionale “ad esporre una visione innovativa dell’utilizzo del territorio di competenza” mentre la seconda sia “propedeutica ad accompagnare gli elementi acquisiti dai privati in vista dell’iter finale del piano, per favorirne il più corretto apprezzamento da parte dell’autorità regionale all’atto dell’approvazione”; in questa seconda fase non vi è quell’ampia discrezionalità che connota il momento di adozione che rischia di porsi in contrasto “con la tipicità normativamente scansionata per i singoli momenti dell'attività di pianificazione urbanistica (adozione, pubblicazione, presentazione delle osservazioni, controdeduzioni, approvazione), con ogni connessa ulteriore conseguenza in ordine al vulnus degli interessi tutelati dai passaggi procedimentali già intervenuti”.
Né, secondo il Consiglio di Stato, può opporsi il carattere permanente del potere pianificatorio che legittima, piuttosto, lo strumento della variante.
Muovendo dai principi affermati dal Consiglio di Stato il Collegio osserva come la previsione di cui all’art. 13 della L.r. n. 12/2005 delinei un procedimento articolato in varie fasi:
   i) avvio del procedimento con termine per le osservazioni (co. 2);
   ii) acquisizione del parere delle parti sociali ed economiche (co. 3);
   iii) adozione del Piano (co. 4);
   iv) fase di presentazione delle osservazioni (co. 4);
   v) acquisizione dei pareri da parte degli Enti competenti (co. 5, co. 5-bis, co. 6);
   vi) fase di approvazione con inserimento negli atti “modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni” nonché all’adeguamento imposto dai pareri degli Enti (co. 7, co. 7-bis, co. 8, co. 9);
   vii) fase di deposito e pubblicazione nel sito informatico dell’amministrazione comunale;
   viii) fase di pubblicazione dell’avviso sul b.u.r.l. (co. 10).
Il complesso procedimento delineato dal legislatore regionale non risponde solo ad esigenze di ordinato incedere dell’iter amministrativo ma è, al contrario, funzionale alla realizzazione dei vari interessi involti dalla procedura e sottoposti alla valutazione comunale.
Infatti, l’avvio del procedimento è volto a garantire la ricezione di prime osservazioni; del pari, il parere delle parti sociali ed economiche serve ad acquisire contributi necessari nella fase di “costruzione” del Piano. E’ proprio in questa fase, del resto, che l’Amministrazione effettua gli approfondimenti istruttori –ivi compresa la v.a.s.– necessari per la “corretta disamina e verifica della situazione di fatto correlata alle esigenze che l’Amministrazione intende perseguire” che la Sezione definisce il primum movens di ogni valutazione discrezionale.
Solo al termine di questa fase il Comune procede all’adozione del Piano con cui espone le scelte di utilizzo del suolo. Ed è, quindi, solo conosciuti gli assi portarti della decisione e le concrete scelte adottate che si schiude la successiva fase di contributo degli interessati mediante lo strumento delle osservazioni nonché l’acquisizione dei pareri da parte degli Enti.
Una ulteriore fase che, come evidente, risulta, quindi, strumentale alla condivisione delle scelte pianificatorie, all’acquisizione di contributi dei privati titolari delle aree su cui tali scelte incidono nonché alla ricezione degli avvisi degli Enti coinvolti. E’ solo al termine di tale confronto che l’Amministrazione opera le proprie scelte definitive modificando il “progetto” di governo del territorio delineato nel Piano adottato, in ragione delle osservazioni condivise e dei rilievi degli Enti. Si tratta, quindi, di un procedimento articolato in cui ogni fase realizza, come anticipato, precipue esigenze ritenute meritevoli di considerazione da parte del legislatore regionale.
---------------

... per l'annullamento:
   - della Delibera di Consiglio comunale di Milano n. 34 del 14.10.2019, avente ad oggetto “Controdeduzioni alle osservazioni e approvazione definitiva del nuovo Documento di Piano, della variante del Piano dei Servizi, comprensivo del Piano per le Attrezzature Religiose, e della variante del Piano delle Regole, costituenti il Piano di Governo del Territorio, ai sensi dell'art. 13 della l.r. 11.03.2005 n. 12 e s.m.i.”, di approvazione degli atti costituenti il Piano di Governo del Territorio del Comune di Milano, divenuto efficace in data 05.02.2020, a seguito della pubblicazione dell'avviso di approvazione definitiva sul B.U.R.L. Serie Avvisi e Concorsi n. 6;
...
3.1. Con il primo motivo (rubricato: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 l.r. n. 12/2005. Violazione artt. 3 e 97 Cost. Violazione del principio di tipicità. Violazione e falsa 9 applicazione del principio di non discriminazione. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, difetto dei presupposti, illogicità, arbitrarietà. Sviamento di potere”) la ricorrente deduce l’illegittimità in parte qua della scelta urbanistica in quanto non conseguente a rilievi di Enti sovraordinati o all’accoglimento di osservazioni presentate dalla parte proprietaria ma derivante da una nuova decisione conseguente al sostanziale rigetto dell’osservazione di Pe. s.r.l. con conseguente violazione delle regole che governano il procedimento di adozione e approvazione dello strumento urbanistico comunale.
3.2. Con il secondo motivo (rubricato: “
Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 l.r. n. 12/2005. Violazione art. 9 l. n. 1150/1942. Violazione artt. 3, 42 e 97 Cost. Violazione art. 1 l. n. 241/1990 in relazione al principio di non discriminazione. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e per sviamento”) la ricorrente evidenzia come la situazione stigmatizzata nel primo motivo comporti, altresì, la violazione delle garanzie partecipative conferite al privato nel procedimento di adozione ed approvazione dello strumento urbanistico.
...
6. Entrando in medias res il Collegio ritiene di poter esaminare congiuntamente i primi due motivi di ricorso in quanto strettamente connessi avendo ad oggetto le ritenute violazioni delle regole procedimentali e dei principi dettati dalla L.r. n. 12/2005 per l’adozione ed approvazione dello strumento urbanistico comunale.
6.1. Il punto di abbrivo della disamina è costituito dalla sentenza n. 1596/2021 sulla quale si incentra l’attenzione sia del Comune in memoria difensiva che della ricorrente in sede di replica.
6.1.1. La decisione dalla IV Sezione del Tribunale riguarda, invero, una censura con la quale si lamenta l’illegittimità di una “modifica del PGT, introdotta in accoglimento parziale di osservazioni presentate da terzi” senza “ripubblicazione del PGT stesso nella parte modificata”.
Secondo la parte ricorrente di tale giudizio, “il Comune, omettendo tale adempimento, avrebbe leso il diritto dei proprietari di presentare osservazioni allo strumento urbanistico”.
6.1.2. La decisione della IV Sezione è, quindi, calibrata sul tema relativo all’obbligo di ripubblicazione del P.G.T.
Sul punto, il Tribunale richiama costante giurisprudenza secondo la quale “la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia, è configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 2393/2017)”.
Secondo il Tribunale, “nella fattispecie, la modifica che il Comune ha introdotto nel PGT di cui è causa, in seguito all’accoglimento di osservazioni di terzi, non si traduce nella rielaborazione complessiva del piano ma, al contrario, ha una portata limitata, atteso che si risolve nell’accorpamento di due ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito ATA4), al fine di agevolare l’attuazione dell’ambito ARU7, con il mantenimento comunque della previsione di specifiche capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti accorpati”.
Aggiunge, inoltre, il Tribunale che “la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte –come nella fattispecie- modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 5769/2013; C.d.S., Sez. IV, n. 4321/2012; C.d.S., Sez. IV, n. 6865/2011)”.
Nella fattispecie all’attenzione della IV Sezione, “le modifiche al PGT introdotte in fase di approvazione costituiscono il risultato dell’accoglimento parziale di osservazioni presentate da terzi soggetti”, con conseguente applicazione della previsione di cui all’art. 13, co. 9, della L.r. n. 12/2005, a mente della quale: “la deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”. Né, conclude il Tribunale, “alcuna disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (v. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 564/2018; cfr. anche TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 2393/2017; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 1700/2016)”.
6.1.3. La decisione della IV Sezione riguarda più propriamente, quindi, il tema della ripubblicazione del Piano ed afferma principi consolidati nella giurisprudenza (anche di questa Sezione).
Infatti, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, “in linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503).
Il principio che il Consiglio di Stato ricava da “tale condivisibile regola giurisprudenziale” è quello “per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale […]) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1241; nella giurisprudenza della Sezione, cfr.: TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 26.11.2021, n. 2622; Id., 12.11.2020, n. 2139; Id., 16.12.2019, n. 2676).
6.1.4. Nel caso di specie non si tratta, tuttavia, di verificare un possibile stravolgimento del Piano approvato al fine di affermare la necessità di una nuova pubblicazione quanto, prima ancora, di accertare la legittimità della decisione tanto sotto il profilo dell’adeguatezza dell’istruttoria quanto della violazione delle regole e dei principi che presidiano il procedimento di approvazione dello strumento urbanistico. Una verifica che, invero, presenta connotati particolari attesa la peculiarità della vicenda all’attenzione del Collegio con conseguente non sovrapponibilità della presente fattispecie a quella oggetto della sentenza della IV Sezione supra richiamata.
6.2. La disamina appena indicata può, comunque, prendere le mosse da alcuni principi affermati in tema di obbligo di ripubblicazione, utili al fine di comprendere alcuni degli assi portanti dell’elaborazione giurisprudenziale in materia.
Il riferimento è, in particolare, alla giurisprudenza della Sezione che evidenzia come “nessun argomento favorevole alla ripubblicazione è desumibile dalla legge regionale n. 12/2005, la quale all’art. 13 pianamente prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni” (comma 7) e che “la deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (comma 9)” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 07.06.2017, n. 1281; Id., 12.11.2020, n. 2139).
Dello stesso avviso si mostra il Consiglio di Stato secondo cui “la modifica del P.R.G. adottato in accoglimento delle osservazioni non comporta per il comune l’obbligo di ripubblicazione del progetto di P.R.G. così modificato solo se, da un lato, tutte le modifiche introdotte derivano strettamente dal contenuto delle osservazioni presentate dai privati e favorevolmente vagliate dall’amministrazione e, d’altro lato, se si tratti di modifiche settoriali ed esclusivamente incidenti sulla sfera giuridica dei soggetti che hanno presentato le corrispondenti osservazioni” (Consiglio di Stato, Sez. III, 28.04.2009, n. 950; cfr., inoltre, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 12.11.2020, n. 2139).
6.3. La decisione del Consiglio di Stato da ultimo richiamata evidenzia la necessità di una stretta derivazione tra il contenuto delle osservazioni e le modifiche apportate in fase di approvazione sottolineando anche l’esigenza che si tratti di interventi incidenti nella sfera giuridica dei soggetti che presentano le osservazioni.
Simile impostazione appare in linea con altro arresto del Consiglio di Stato ove si sottolinea che “la immanenza del potere pianificatorio comunale non può giustificare lo stravolgimento della regola procedimentale secondo la quale la sequenza "ordinata" della approvazione del piano è scandita da una serie di passaggi -adozione, pubblicazione, presentazione delle osservazioni, controdeduzioni, approvazione- che non consente di "inserire" nuove determinazioni modificative del testo sul quale si era instaurato il contraddittorio, ben potendo invece, successivamente, l’amministrazione comunale intervenire con variante nel modificare il testo originario ove non rispondente (o non più rispondente) al pubblico interesse”.
Il Consiglio di Stato enfatizza la differenza tra la “causa” dell’adozione e quella dell’approvazione osservando come la prima sia funzionale “ad esporre una visione innovativa dell’utilizzo del territorio di competenza” mentre la seconda sia “propedeutica ad accompagnare gli elementi acquisiti dai privati in vista dell’iter finale del piano, per favorirne il più corretto apprezzamento da parte dell’autorità regionale all’atto dell’approvazione”; in questa seconda fase non vi è quell’ampia discrezionalità che connota il momento di adozione che rischia di porsi in contrasto “con la tipicità normativamente scansionata per i singoli momenti dell'attività di pianificazione urbanistica (adozione, pubblicazione, presentazione delle osservazioni, controdeduzioni, approvazione), con ogni connessa ulteriore conseguenza in ordine al vulnus degli interessi tutelati dai passaggi procedimentali già intervenuti”.
Né, secondo il Consiglio di Stato, può opporsi il carattere permanente del potere pianificatorio che legittima, piuttosto, lo strumento della variante (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.03.2013, n. 1740; Id., Sez. IV, 22.12.2014, n. 6337).
6.4. Muovendo dai principi affermati dal Consiglio di Stato il Collegio osserva come la previsione di cui all’art. 13 della L.r. n. 12/2005 delinei un procedimento articolato in varie fasi:
   i) avvio del procedimento con termine per le osservazioni (co. 2);
   ii) acquisizione del parere delle parti sociali ed economiche (co. 3);
   iii) adozione del Piano (co. 4);
   iv) fase di presentazione delle osservazioni (co. 4);
   v) acquisizione dei pareri da parte degli Enti competenti (co. 5, co. 5-bis, co. 6);
   vi) fase di approvazione con inserimento negli atti “modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni” nonché all’adeguamento imposto dai pareri degli Enti (co. 7, co. 7-bis, co. 8, co. 9);
   vii) fase di deposito e pubblicazione nel sito informatico dell’amministrazione comunale;
   viii) fase di pubblicazione dell’avviso sul b.u.r.l. (co. 10).
6.5. Il complesso procedimento delineato dal legislatore regionale non risponde solo ad esigenze di ordinato incedere dell’iter amministrativo ma è, al contrario, funzionale alla realizzazione dei vari interessi involti dalla procedura e sottoposti alla valutazione comunale.
Infatti, l’avvio del procedimento è volto a garantire la ricezione di prime osservazioni; del pari, il parere delle parti sociali ed economiche serve ad acquisire contributi necessari nella fase di “costruzione” del Piano. E’ proprio in questa fase, del resto, che l’Amministrazione effettua gli approfondimenti istruttori –ivi compresa la v.a.s.– necessari per la “corretta disamina e verifica della situazione di fatto correlata alle esigenze che l’Amministrazione intende perseguire” che la Sezione definisce il primum movens di ogni valutazione discrezionale (TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 26.11.2021, n. 2622).
Solo al termine di questa fase il Comune procede all’adozione del Piano con cui espone le scelte di utilizzo del suolo. Ed è, quindi, solo conosciuti gli assi portarti della decisione e le concrete scelte adottate che si schiude la successiva fase di contributo degli interessati mediante lo strumento delle osservazioni nonché l’acquisizione dei pareri da parte degli Enti.
Una ulteriore fase che, come evidente, risulta, quindi, strumentale alla condivisione delle scelte pianificatorie, all’acquisizione di contributi dei privati titolari delle aree su cui tali scelte incidono nonché alla ricezione degli avvisi degli Enti coinvolti. E’ solo al termine di tale confronto che l’Amministrazione opera le proprie scelte definitive modificando il “progetto” di governo del territorio delineato nel Piano adottato, in ragione delle osservazioni condivise e dei rilievi degli Enti. Si tratta, quindi, di un procedimento articolato in cui ogni fase realizza, come anticipato, precipue esigenze ritenute meritevoli di considerazione da parte del legislatore regionale.
6.6. Operate tali premesse il Collegio osserva come la fattispecie alla propria attenzione presenta dei tratti di peculiarità che rendono fondate le censure di parte ricorrente nella parte in cui lamenta la violazione dei principi sottesi alla pianificazione.
Deve, infatti, considerarsi come la scelta operata nel Piano adottato non sia, come spiegato, un mera ipotesi ma, al contrario, sia sorretta da analitiche valutazioni istruttorie (tra cui la v.a.s. che, secondo l’art. 4, co. 2, della L.r. n. 12/2005, è, comunque, effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all'avvio della relativa procedura di approvazione) che servono ad una compiuta disamina della situazione fattuale nella direzione che l’Amministrazione intende imprimere all’uso del proprio territorio.
Nel caso di specie la scelta di inserire gran parte dell’area dalla ricorrente negli a.r.u. non può, quindi, che ritenersi la conseguenza di una valutazione istruttoria mediante la quale si verifica la portata delle scelte che il Comune intende compiere.
Rispetto alla scelta adottata l’Amministrazione opera un evidente riesame in fase di approvazione pur senza che vi sia una specifica osservazione da parte dell’interessata né un rilievo da parte di un Ente sovraordinato. Lo fa esaminando l’osservazione di un soggetto terzo che non si sostanzia, però, nella richiesta di modifica della decisione concernente l’area di Sant’Ilario che costituisce solo il termine di paragone per ottenere una miglior disciplina (omologa a quella di Sant’Ilario) rispetto a quella impressa dal Piano adottato alla propria di area. L’Amministrazione comunale disattende tale richiesta lasciando la destinazione dell’area del terzo immutata ed allineando a questa l’area di Sant’Ilario. In sostanza, il Comune non muta la disciplina relativa all’area di chi presenta le osservazioni ma di un soggetto terzo.
6.7. Ora, pur volendo ipotizzare la correttezza del ragionamento comunale nella parte in cui predica la non necessità di una stretta coincidenza (anche in termini soggettivi) tra osservazioni dei privati e modifiche conseguenti alle stesse deve, comunque, ritenersi che simile ricostruzione abbia senso solo qualora la modificazione indotta dal riesame stimolato dall’osservazione abbia comunque un forte supporto istruttorio e motivazionale.
In sostanza, simili modificazioni potrebbero in astratto predicarsi a condizione che la scelta approvata abbia un sostegno nell’istruttoria condotta nella fase preparatoria del Piano e tale aspetto sia, altresì, chiaramente esplicitato dal Comune. Diversamente opinando, non tanto le scansioni procedimentali ma proprio le esigenze che le stesse realizzano e che sono sopra descritte verrebbero deprivate del rilievo che la legislazione regionale vi conferisce.
6.8. Nel caso di specie, la modifica viene giustificata invocando le certamente legittime esigenze di limitazione del consumo del suolo ma simile affermazione non si confronta in modo puntuale con la diversa scelta operata dal Piano adottato non spiegando, quindi, le ragioni per le quali il perseguimento di tale obiettivo debba passare attraverso una sostanziale rivisitazione di una concreta scelta già effettuata e, comunque, conforme alla storia urbanistica dell’area.
6.9. In secondo luogo, l’Amministrazione invoca l’esigenza di evitare una disparità di trattamento tra l’area di Sant’Ilario e quella del terzo che presenta l’osservazione. Ma, invero, mutuando una efficace definizione del Conseil d’Etat, “Il diritto urbanistico potrebbe essere definito in maniera un po’ provocatoria come il diritto delle violazioni legali alla proprietà fondiaria”.
Lo scopo dell’urbanistica è quello di impedire un uso assoluto del diritto di proprietà che non contemperi le ulteriori esigenze di natura sociale, ambientale o paesaggistica che legittimamente possono ricondursi alla formula dell’art. 42, co. 2, Cost. In sostanza, spetta alle Amministrazioni deputate alla regolazione degli assetti urbanistici operare limitazioni all’uso assoluto del diritto di proprietà al fine di contemperare tale diritto con gli ulteriori interessi involti.
A tali valutazioni possono ricondursi anche le differenziazioni nel trattamento dei vari diritti di proprietà relativi ad un determinato ambito territoriale ove sussistano ragioni di divergente regolamentazione. Non può, quindi, predicarsi la necessità di un trattamento uniforme che, al contrario, priverebbe gli strumenti urbanistici della possibilità di differenziare i regimi in ragione delle divergenze sostanziali tra le aree.
Nel caso di specie, poi, quella esigenza di uniformità non tiene conto della differenza tra le aree interne al PA8 che, come evidenziato in precedenza, non sono tutte soggette al medesimo regime; al contrario, l’edificazione è incentrata sui suoli della ricorrente. Pertanto, il generico riferimento all’intero PA8 non può ritenersi idoneo a legittimare questo diaframma tra la scelta adottata e la scelta approvata in assenza di una osservazione dell’interessata.
6.10. In considerazione di quanto esposto i primi due motivi di ricorso devono accogliersi in quanto fondati per le ragioni sin qui spiegate con conseguente annullamento in parte qua degli atti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.01.2022 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che essi risultano strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione, salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione complessiva analoga a una nuova adozione.
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre distinguere tra
   - modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche ‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”.
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9. – Le varie questioni poste da parte ricorrente con i primi tre motivi di ricorso ruotano intorno alla valenza del Piano di Emergenza Esterno, approvato –con riferimento allo stabilimento di Me.Pe. S.r.l.– dal Prefetto di Vibo Valentia in data 08.02.2018.
Giova, per intanto, premettere che la previsione impugnata non vieta tout court l’esercizio di attività economiche entro le linee di danno, né pone un vincolo di inedificabilità sull’area, ma si limita a prevedere il divieto di “attività configurabili a elevato affollamento o ricettività”.
Si tratta, dunque, di una norma precauzionale, volta, evidentemente, ad agevolare le operazioni di soccorso ed eventuale evacuazione in caso di incidente.
9.1. – Ebbene, l’esame degli artt. 21 e 22 d.lgs. n. 105 del 2015 non lascia dubbi sul fatto che il Comune di Vibo Valentia fosse vincolato a recepire nel Piano Strutturale Comunale le prescrizioni contenute nel PEE.
Il citato art. 21, infatti, attribuisce al PEE lo scopo, tra l’altro, di controllare e circoscrivere gli incidenti in modo da minimizzarne gli effetti e limitarne i danni per la salute umana, per l'ambiente e per i beni; di mettere in atto le misure necessarie per proteggere la salute umana e l'ambiente dalle conseguenze di incidenti rilevanti, in particolare mediante la cooperazione rafforzata negli interventi di soccorso con l'organizzazione di protezione civile.
Il PEE è adottato dal il Prefetto, d'intesa con le regioni e con gli Enti locali interessati, sentito il CTR e previa consultazione della popolazione.
L’art. 22, comma 9, poi, stabilisce che gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica recepiscono gli elementi pertinenti del piano di emergenza esterna. A tal fine, le autorità competenti in materia di pianificazione territoriale e urbanistica acquisiscono tali elementi dal Prefetto.
9.2. – In sostanza, la modifica dell’art. 27 del Regolamento Edilizio e Urbanistico, censurato da parte ricorrente, non rappresenta una reale scelta di pianificazione, ma costituisce il vincolato recepimento, nel piano strutturale comunale, delle prescrizioni contenute nel PEE.
Tale considerazione disinnesca, come è evidente, i primi tre motivi di ricorso.
9.3. – Innanzitutto, non era necessario promuovere nuovamente la partecipazione all’elaborazione del piano strutturale comunale.
Infatti, con riguardo agli oneri di pubblicazione (ed eventuale ripubblicazione) dello strumento urbanistico, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011 n. 3497) ha avuto già modo di chiarire che essi risultano strumentali alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
È stato tuttavia chiarito che la pubblicazione non deve essere ripetuta laddove lo strumento urbanistico riceva modifiche in dipendenza proprio dell'accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale.
La pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovraordinati, dunque, non impone una nuova pubblicazione, salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione complessiva analoga a una nuova adozione (Cons. Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503; Cons. Stato, Sez. IV., 13.03.2014, n. 1241; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 04.10.2016, n. 1803).
Il Consiglio di Stato, inoltre, ha osservato che “occorre distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche ‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale
” (Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; cfr., altresì, TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 10.02.2021, n. 374).
Applicando le coordinate giurisprudenziali sin qui delineate, si può affermare che, se non si deve procedere alla ripubblicazione allorché le modifiche siano derivate dal momento di confronto con il pubblico oppure siano da attribuire all’esercizio del controllo da parte dell’Ente regionale, a maggior ragione non si deve dare luogo a ripubblicazione allorché le modifiche o integrazioni al piano strutturale comunale siano effetto di un obbligo di conformazione, nella specie al PEE approvato dal Prefetto di Vibo Valentia (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.12.2021 n. 2241 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Come già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di approvazione del P.T.C.P. di ..., la scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento delle indicazioni della Giunta regionale.
In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni.
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In ordine, poi, al deteriore trattamento rispetto al Piano adottato, nel caso di specie pare applicabile, a fortiori, l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dai ricorrenti attengano al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede.
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5. Con la quinta censura si assume il peggioramento della disciplina pianificatoria nella fase di approvazione rispetto a quella di adozione, non seguito dalla ripubblicazione del Piano e dalla possibilità per i cittadini di intervenire nuovamente nel procedimento per presentare le proprie osservazioni.
5.1. La doglianza non è fondata.
Come già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di approvazione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza, la scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale (Consiglio di Stato, IV, 19.11.2018, nn. 6483 e 6484; TAR Lombardia, Milano, II, 19.06.2015, n. 1432).
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento delle indicazioni della Giunta regionale. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 23.09.2016, n. 1700).
Peraltro, come già evidenziato nella sentenza di questa Sezione 05.04.2017, n. 798, la Provincia di Monza e della Brianza ha chiarito che la superficie della Rete verde di ricomposizione paesaggistica ha subito nel suo complesso un incremento di circa il 16% (passando da 102 a poco più di 118 Kmq) da considerare assolutamente fisiologico e non in grado di stravolgere le linee portanti del Piano; tale dato non è stato contestato o messo in dubbio dai ricorrenti (TAR Lombardia, Milano, II, 16.03.2020, n. 489).
In ordine, poi, al deteriore trattamento rispetto al Piano adottato, nel caso di specie pare applicabile, a fortiori, l’orientamento della costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 14.12.2020, n. 2492; 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Si deve poi rilevare come le contestazioni formulate dai ricorrenti attengano al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 07.07.2020, n. 1291; 10.12.2019, n. 2636; 20.08.2019, n. 1896).
5.2. Anche tale motivo va dunque respinto (TAR Lombardia-Milano, II, sentenza 06.07.2021 n. 1656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia, è configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Nella fattispecie, la modifica che il Comune ha introdotto nel PGT di cui è causa, in seguito all’accoglimento di osservazioni di terzi, non si traduce nella rielaborazione complessiva del piano ma, al contrario, ha una portata limitata, atteso che si risolve nell’accorpamento di due ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito ATA4), al fine di agevolare l’attuazione dell’ambito ARU7, con il mantenimento comunque della previsione di specifiche capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti accorpati.
La giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte –come nella fattispecie- modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
E del resto, siccome nella vicenda di cui è causa, come rilevato sopra, le modifiche al PGT introdotte in fase di approvazione costituiscono il risultato dell’accoglimento parziale di osservazioni presentate da terzi soggetti, trova applicazione l’art. 13, comma 9, della l.r. n. 12/2005, a tenore del quale “la deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”. Né alcuna disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni.
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2.1. Con il primo motivo la ricorrente deduce che la modifica del PGT, introdotta in accoglimento parziale di osservazioni presentate da terzi (il sig. Str. e la sig.ra Ca.), avrebbe dovuto comportare la ripubblicazione del PGT stesso nella parte modificata. Il Comune, omettendo tale adempimento, avrebbe leso il diritto dei proprietari di presentare osservazioni allo strumento urbanistico.
2.1.1. La censura non persuade.
Secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione; tale ipotesi, tuttavia, è configurabile solo quando tra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 2393/2017).
Nella fattispecie, la modifica che il Comune ha introdotto nel PGT di cui è causa, in seguito all’accoglimento di osservazioni di terzi, non si traduce nella rielaborazione complessiva del piano ma, al contrario, ha una portata limitata, atteso che si risolve nell’accorpamento di due ambiti (l’ambito ARU7 e l’ambito ATA4), al fine di agevolare l’attuazione dell’ambito ARU7, con il mantenimento comunque della previsione di specifiche capacità edificatorie per ciascuno dei due ambiti accorpati.
La giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte –come nella fattispecie- modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 5769/2013; C.d.S., Sez. IV, n. 4321/2012; C.d.S., Sez. IV, n. 6865/2011).
E del resto, siccome nella vicenda di cui è causa, come rilevato sopra, le modifiche al PGT introdotte in fase di approvazione costituiscono il risultato dell’accoglimento parziale di osservazioni presentate da terzi soggetti, trova applicazione l’art. 13, comma 9, della l.r. n. 12/2005, a tenore del quale “la deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”. Né alcuna disposizione di legge impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (v. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 564/2018; cfr. anche TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 2393/2017; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, n. 1700/2016).
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 30.06.2021 n. 1596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla scorta di consolidato orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi che solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione: non è dato ravvisare tale rielaborazione quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla relativa destinazione.
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   Ritenuto che, salvo ogni ulteriore approfondimento nella sede di merito anche in ragione della molteplicità delle questioni in esame, il ricorso, allo stato della cognizione sommaria propria della fase cautelare, non appare sostenuto da apprezzabili prospettive di accoglimento;
   Osservato, in particolare, che sulla scorta di consolidato orientamento giurisprudenziale deve ritenersi che solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione: non è dato ravvisare tale rielaborazione quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla relativa destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 02.02.2021, nr. 374; Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865) (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 28.05.2021 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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Deve essere respinta anche la seconda doglianza, con la quale l’esponente lamenta il difetto di partecipazione e di motivazione dell’atto pianificatorio.
Sotto il primo profilo va evidenziato che “in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione. Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568)
.” (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10.02.2021, n. 374).
Si tratta di un’ipotesi non riscontrabile nel caso di specie, atteso che per quanto riguarda i Tessuti storici l’amministrazione in fase di approvazione della variante ha introdotto previsioni che vanno a specificare e puntualizzare la disciplina già recata dal testo adottato dal Consiglio comunale e non comportano una rivisitazione complessiva del piano o degli obiettivi ivi perseguiti.
Né la censura può essere accolta sotto il profilo del lamentato difetto di motivazione.
Va evidenziato al riguardo, preliminarmente, che la ripartizione degli edifici in cinque classi, secondo le loro specifiche caratteristiche, non risulta –in relazione alle doglianze sollevate- aver arrecato uno specifico pregiudizio all’esponente, atteso che la previsione di cui lo stesso si lamenta, riferita ai limiti del sopralzo degli edifici, trova applicazione per tutti gli immobili del quartiere Chiusure, a prescindere dalla categoria di appartenenza. Sicché in relazione al vizio dedotto il ricorrente difetta di interesse (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.05.2021 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ripubblicazione del piano urbanistico.
Il TAR Milano precisa che la pronuncia sulle osservazioni allo strumento urbanistico adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovraordinati non impone una nuova pubblicazione, salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione complessiva analoga a una nuova adozione; può parlarsi di stravolgimento o rielaborazione complessiva del piano quando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Aggiunge poi il TAR che la ripubblicazione del piano è considerata non necessaria quando il Comune provvede al recepimento di prescrizioni obbligatorie di enti sovraordinati; al riguardo occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie”, modifiche “facoltative” e modifiche “concordate”; mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2021 n. 1267 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
6. Con il primo motivo di ricorso (VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 13 DELLA L.R. 12/2005. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA. VIZIO DI PROCEDURA) la società lamenta l’illegittimità del P.G.T. poiché questo non è stato oggetto di ripubblicazione all’esito dello stralcio dell’ambito ATR1.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. Innanzitutto, come già osservato dalla giurisprudenza della Sezione (TAR Milano, Sez. II, 07.06.2017, n. 1281; Id., 12.11.2020, n. 2139), l’onere di ripubblicazione del P.G.T. non è desumibile dalla l.r. Lombardia 12/2005, la quale all’art. 13 per converso prevede che «entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il Consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni» (comma 7), precisando che «la deliberazione del Consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione» (comma 9).
Più in generale, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la pronuncia sulle osservazioni al piano adottato da parte dell’organo consiliare o l’accoglimento di pareri di enti sovraordinati non impone una nuova pubblicazione, salvo che vengano assunte modifiche tali da stravolgere il piano e da comportare, nella sostanza, una rielaborazione complessiva analoga a una nuova adozione (Cons. Stato, Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503; Id., 13.03.2014, n. 1241; TAR Milano, Sez. II, 04.10.2016, n. 1803).
Va al contempo osservato che può parlarsi di stravolgimento o rielaborazione complessiva del piano quando «fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione» (cfr., ex plurimis, TAR Milano, Sez. II, 23.09.2016, n. 1696; Id., 26.11.2018, n. 2677; Id., 12.08.2020 n. 1568; Id., 10.02.2021, n. 374).
Con specifico riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, tale rielaborazione complessiva non può ravvisarsi in modifiche che «consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree» (Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
A ciò si aggiunga che la ripubblicazione del piano è considerata non necessaria quando il Comune provvede al recepimento di prescrizioni obbligatorie di enti sovraordinati.
In tal senso, il Consiglio di Stato ha osservato che «occorre distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche ‘concordate’ (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale» (Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; cfr., altresì, TAR Milano, Sez. II, 10.02.2021, n. 374).

URBANISTICA: Il Collegio rileva che per quanto concerne l’asserito obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico generale nel presente caso lo stesso non sussiste in quanto tale obbligo nasce solo in caso di modifiche profonde dello stesso strumento urbanistico, come statuito da condivisibile giurisprudenza secondo cui “una ripubblicazione del piano è necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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2.1. - Col primo motivo di ricorso, i ricorrenti deducono l’illegittimità degli atti impugnati in quanto gli stessi sarebbero in contrasto con l’art. 32, comma 5, della Legge regionale n. 20/2000, atteso che tali provvedimenti hanno modificato le scelte originariamente compiute in sede di adozione dello strumento urbanistico e, dunque, il Comune “di questa sua decisione deve dare pubblica notizia, provvedendo alla ripubblicazione del piano modificato. Il che, peraltro, è stato deciso anche con la deliberazione di che trattasi (si veda a pag. 11 della motivazione), con riferimento ad un’area modificata nella sua destinazione con la variante adottata; ma con una decisione censurata da questo Tar, che ha obbligato la Amministrazione Com.le a rimotivare ancora la sua scelta….Stessa scelta, dunque, avrebbe dovuto essere compiuta con riguardo alla nuova ed innovativa previsione viabilistica, alla fine assunta.”.
2.2. - Il motivo è infondato.
Parte ricorrente, in apertura del ricorso, ricostruisce l’iter pianificatorio svolto dal Comune di Parma con riferimento alla strada di che trattasi.
In particolare, viene evidenziato nel ricorso che la strada di nuova progettazione era già prevista nel PSC previgente, risalente al 2006/2007, come strada urbana di collegamento locale di tipologia F1, e, dunque, sempre come strada esistente solo in progetto.
Con l’adozione della variante generale al PSC, la sopra menzionata strada veniva eliminata per poi essere reintrodotta in sede di esame delle osservazioni; in particolare, vista l’osservazione d’ufficio, che ha evidenziato l’opportunità di “valutare con il Servizio Viabilità i tracciati delle viabilità esistenti e apportare, ove necessario, adeguati correttivi”, è stato deciso di modificare e riportare “in coerenza lo stato delle previsioni viabilistiche non effettivamente attuate ad oggi” e, dunque, in sede di approvazione finale della Variante Generale, con la delibera del Consiglio Comunale di Parma n. 53 del 22.07.2019, di cui in epigrafe, è stata introdotta nuovamente la strada di che trattasi, collegante Via Europa con Strada Mezzo Moletolo, con la sua trasformazione da strada urbana locale (tipologia F1) in strada di categoria D.
Preso atto di tale sequenza di atti, i ricorrenti deducono quale primo motivo di illegittimità, come detto sopra, l’avvenuta mancata ripubblicazione del piano modificato secondo le modalità previste dall’art. 32 della Legge regionale n. 20/2000.
A tal riguardo, il Collegio osserva, innanzitutto, in punto di fatto, che la strada di progetto in questione non è mai stata eliminata dagli strumenti urbanistici vigenti, atteso che la stessa risulta eliminata dal PSC adottato, ma non dal PSC vigente e, soprattutto, risulta presente nella variante generale al PSC come approvata, dove la strada viene reintrodotta, e, dunque, in conclusione, la strada di che trattasi risulta essere stata sempre presente negli strumenti pianificatori vigenti.
Ciò premesso, il Collegio rileva che per quanto concerne l’asserito obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico generale nel presente caso lo stesso non sussiste in quanto tale obbligo nasce solo in caso di modifiche profonde dello stesso strumento urbanistico, come statuito da condivisibile giurisprudenza secondo cui “una ripubblicazione del piano è necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 3806/2019).
Atteso il carattere di modifica minima del presente caso (reinserimento di una singola strada) non sussisteva, dunque, l’invocato obbligo di ripubblicazione della Variante Generale al PSC (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 07.04.2021 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICACome già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di approvazione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza, la scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento delle indicazioni della Giunta regionale.
In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, co. 9, della l.r. n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni.
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13. Con la sesta doglianza si assume il peggioramento della disciplina pianificatoria nella fase di approvazione rispetto a quella di adozione, non seguito dalla ripubblicazione del Piano e dalla possibilità per i cittadini di intervenire nuovamente nel procedimento per presentare le proprie osservazioni.
13.1. La doglianza non è fondata.
13.2. Come già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di approvazione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza, la scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale (TAR Lombardia, Milano, II, 19.06.2015, n. 1432).
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento delle indicazioni della Giunta regionale. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, co. 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 23.09.2016, n. 1700).
13.3. Peraltro, come già evidenziato nella sentenza di questa Sezione 05.04.2017, n. 798, la Provincia di Monza e della Brianza chiarisce che la superficie della Rete verde subisce nel suo complesso un incremento di circa il 16% (passando da 102 a poco più di 118 Kmq) da considerare assolutamente fisiologico e non in grado di stravolgere le linee portanti del Piano; tale dato non è stato contestato o messo in dubbio dalla ricorrente (TAR Lombardia, Milano, II, 16.03.2020, n. 489) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.04.2021 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto, l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del PGT, prima di procedere all’approvazione.
A ciò si aggiunga che la ripubblicazione del piano non si rendeva necessaria anche per l’ulteriore considerazione dell’obbligatorietà del recepimento di talune delle indicazioni contenute nei pareri degli enti sovracomunali.
Invero, “proprio con specifico riferimento all'obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell'approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche ‘concordate’ (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”.
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4. Con il secondo motivo, le ricorrenti deducono che, a seguito del recepimento dei pareri degli enti sovracomunali, sarebbe stato necessario provvedere alla ripubblicazione della variante, in ragione della numerosità e varietà degli “aggiustamenti, integrazioni e modifiche” intervenuti, che “finiscono per incidere in modo sostanziale sulla Variante approvata e su alcuni degli obiettivi con la stessa perseguiti”.
Il motivo è infondato.
Tutte le prescrizioni recepite in sede di approvazione della variante che le ricorrenti indicano quali “modifiche sostanziali” allo strumento urbanistico si risolvono, in realtà, in modifiche di dettaglio o puntuali e comunque limitate, non determinando mai una rivisitazione complessiva del piano e degli obiettivi da esso perseguiti: ciò vale con riguardo alla prescrizione (della ATS) che sia richiesto, per l’utilizzo di aree dismesse, di documentare il rispetto delle procedure di caratterizzazione; lo stesso dicasi in riferimento alle prescrizioni di ARPA per minimizzare gli effetti negativi sull’ambiente, tutte puntuali, senza che sia scalfito l’impianto complessivo del piano; allo stesso modo, la Regione Lombardia ha fornito indicazioni di dettaglio per gli ambiti di trasformazione; parimenti, l’ente Parco Lombardo Valle del Ticino ha richiesto l’indicazione nelle tavole di piano di vincoli esistenti ex lege e si è trattato, in sostanza, di un recepimento obbligatorio.
Con riferimento al parere della Città Metropolitana di Milano, poi, le ricorrenti hanno solo genericamente affermato che esso determinerebbe una profonda modificazione dei criteri e obiettivi posti a base della variante, senza tuttavia assolvere all’onere specifico di allegazione dell’effettiva modifica, sicché l’affermazione si risolve in una mera petizione di principio.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020 n. 1568).
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto, l’amministrazione non era tenuta alla ripubblicazione del PGT, prima di procedere all’approvazione.
A ciò si aggiunga che la ripubblicazione del piano non si rendeva necessaria anche per l’ulteriore considerazione dell’obbligatorietà –di cui si è detto sopra– del recepimento di talune delle indicazioni contenute nei pareri (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839: “proprio con specifico riferimento all'obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell'approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche ‘obbligatorie’ (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi), modifiche ‘facoltative’ (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche ‘concordate’ (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre per le modifiche ‘facoltative’ e ‘concordate’, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche ‘obbligatorie’ tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale”) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2021 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICACome già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di approvazione del P.T.C.P. di ..., la scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento delle indicazioni della Giunta regionale.
In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni.
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7. Con la sesta doglianza si assume il peggioramento della disciplina pianificatoria nella fase di approvazione rispetto a quella di adozione, non seguito dalla ripubblicazione del Piano e dalla possibilità per i cittadini di intervenire nuovamente nel procedimento per presentare le proprie osservazioni.
7.1. La doglianza non è fondata.
Come già osservato da questa Sezione con riguardo al mancato rinnovato coinvolgimento degli interessati in seguito alle modifiche introdotte tra la fase di adozione e quella di approvazione del P.T.C.P. di Monza e della Brianza, la scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale (TAR Lombardia, Milano, II, 19.06.2015, n. 1432).
Inoltre, va evidenziato come le innovazioni introdotte nella fase di approvazione sono il risultato dell’accoglimento di osservazioni presentate da altri soggetti e del recepimento delle indicazioni della Giunta regionale. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del P.G.T., vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al P.T.C.P., quale atto di pianificazione generale in ambito però sovracomunale. La ridetta norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Va, infine, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (TAR Lombardia, Milano, II, 23.07.2020, n. 1433; 23.09.2016, n. 1700).
Peraltro, come già evidenziato nella sentenza di questa Sezione 05.04.2017, n. 798, la Provincia di Monza e della Brianza ha chiarito che la superficie della Rete verde ha subito nel suo complesso un incremento di circa il 16% (passando da 102 a poco più di 118 Kmq) da considerare assolutamente fisiologico e non in grado di stravolgere le linee portanti del Piano; tale dato non è stato contestato o messo in dubbio dalla ricorrente (TAR Lombardia, Milano, II, 16.03.2020, n. 489).
7.2. Anche tale doglianza va dunque respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.12.2020 n. 2492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale, solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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5. Con il terzo motivo (rubricato sub 4 dalla ricorrente), da un lato si afferma che la destinazione finale dell’area della ricorrente dovrebbe essere intesa come “attrezzatura turistica”, sulla base di alcune tavole del PGT (già meglio indicate in narrativa) che colliderebbero con il documento di Piano, nonché con il certificato di destinazione urbanistica e ulteriori tavole del PGT; dall’altro lato, si lamenta che sia stata omessa una ripubblicazione del PGT adottato dopo che è stata assunta la nuova decisione di azzonamento dell’area.
Quanto alle tavole di PGT da cui risulterebbe una diversa destinazione, al di là del fatto che non è formulata una specifica censura sotto questo profilo, ritiene il Collegio che non sussista alcuna incertezza in ordine alla destinazione boschiva impressa all’area, avuto riguardo al certificato di destinazione urbanistica e al fatto che le tavole indicate dalla ricorrente non riportano i confini catastali delle aree, sicché l’ambiguità ipotizzata non è nemmeno riscontrabile.
Quanto alla necessità di ripubblicazione del piano, il Collegio richiama, condividendolo, il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui solo la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione. Va osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 26.11.2018, n. 2677; id., 23.09.2016, n. 1696).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; id., 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865); in altri termini, “l'obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 14.11.2019, n. 7839).
Nella fattispecie in esame, in assenza di variazioni diffuse e radicali rispetto alla versione originaria, pertanto, l’ente non era tenuto alla ripubblicazione del PGT, prima di procedere all’approvazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2020 n. 2470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: “Proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra
   - modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono. Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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Ebbene, deve osservarsi in primo luogo che assume carattere dirimente il disposto dell’art. 40, comma 4, lett. a), l.r. n. 36/1997.
Secondo la norma menzionata, infatti, "acquisite le osservazioni in ordine all’adottato progetto definitivo di P.U.C. “limitatamente agli aspetti che costituiscono sviluppo e completamento del progetto preliminare”, il P.U.C. si intende approvato con la deliberazione con la quale: a) il Consiglio comunale, entro sessanta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 2, decide sulle osservazioni presentate, fermo restando che le modifiche apportate al P.U.C. in conseguenza del loro accoglimento non comportano la necessità di procedere alla ripubblicazione degli atti”.
La disposizione richiamata, infatti, è univoca nel disporre che le modifiche eventualmente apportate al P.U.C. dal Comune, a seguito del recepimento delle osservazioni sul progetto definitivo (cui il TAR assimila il parere regionale di cui alla d.G.R. n. 179/2008), non impongono la nuova pubblicazione del Piano: ciò, evidentemente, in ossequio ad evidenti esigenze di economia procedimentale, determinandosi altrimenti, per effetto della presentazione “a catena” di osservazioni e del loro accoglimento, la rinnovata e ripetuta esigenza di riaprire la fase partecipativa.
Inoltre, come si è visto, il TAR propone una equiparazione del parere regionale alle osservazioni dei privati, affermando che, quando l’osservazione accolta non promani dal suo promotore, si renda necessario attivare un nuovo segmento partecipativo nei confronti dei proprietari interessati.
Deve tuttavia osservarsi che il parere regionale, lungi dal costituire espressione delle facoltà partecipative dei privati, destinati a subire gli effetti autoritativi e conformativi della programmazione urbanistica, rappresenta la manifestazione del rapporto di cooperazione tra Enti titolari di competenze distinte e concorrenti nel procedimento di formazione degli strumenti urbanistici.
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame, la competenza consultiva regionale risulta orientata, nel suo concreto esercizio, a garantire la coerenza delle previsioni del P.U.C. in itinere con le prescrizioni inderogabili del P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza di una idonea disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e paesistico potesse pregiudicare le esigenze di conservazione dei tratti paesaggistici delle aree interessate, così come recepite dal piano sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a salvaguardare le previsioni dettate dal P.T.C.P. in punto di caratterizzazione delle aree de quibus che, indipendentemente dalla loro riconducibilità –sostenuta dalla Regione– alla richiamata previsione di cui all’art. 39, comma 7, l.r. n. 36/1997, esulano dal potere di valutazione discrezionale comunale, afferente alla disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui definizione è funzionale la partecipazione dei privati.
Il carattere necessitato delle modifiche introdotte dal Comune, in sede di recepimento delle prescrizioni di cui alla d.G.R. n. 179/2008, induce quindi a fare applicazione alla fattispecie in esame del principio giurisprudenziale secondo cui (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7839 del 14.11.2019) “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame
”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, va richiamato il suddetto orientamento anche laddove afferma che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; sez., 25.11.2003, n. 7782; sez. IV, 19.11.2018, n. 6484). Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.11.2020 n. 7029 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il carattere necessitato delle modifiche introdotte dal Comune, in sede di recepimento delle prescrizioni di cui alla d.G.R. ..., induce quindi a fare applicazione alla fattispecie in esame del principio giurisprudenziale secondo cui “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra
   - modifiche “
obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi),
   - modifiche “
facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e
   - modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “
facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, merita richiamare il suddetto orientamento anche laddove afferma che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Infatti, la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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Deve adesso esaminarsi il motivo di appello inteso a censurare la sentenza appellata nella parte in cui ha accolto la doglianza avente ad oggetto la lamentata mancanza della fase partecipativa (mediante la ripubblicazione del progetto definitivo di P.U.C. e la raccolta delle relative eventuali osservazioni) susseguente all’adeguamento del progetto definitivo di P.U.C. ai rilievi regionali, formulati con la d.G.R. n. 179/2008.
La censura è stata accolta dal giudice di primo grado, dopo aver argomentato la tempestività, sulla base delle seguenti considerazioni:
si è chiarito come –in linea di principio– nulla osti a che la Regione, prima dell’approvazione del puc, si esprima definitivamente in un unico provvedimento sia in relazione alle varianti al ptcp ex art. 69, sia in relazione all’adottato progetto definitivo di puc, con specifico riguardo alla sua compatibilità con i rilievi e le riserve già (genericamente) formulati nel parere sul progetto preliminare ex art. 39.
Sennonché, ove la Regione proceda in tal modo, riservandosi di introdurre ulteriori prescrizioni a completamento del parere sul progetto preliminare ed a scioglimento delle riserve ivi espresse (nel caso di specie, con la D.G.R. 26.02.2008, n. 179), pur dopo l’adozione del progetto definitivo di puc (nel caso di specie, avvenuta con deliberazione C.C. 06.12.2006, n. 71), essa deve nondimeno obbligatoriamente rispettare la fase partecipativa di cui all’art. 40 comma 3, che, per essere “effettiva” e concludente, deve svolgersi sugli elaborati delle norme di conformità e congruenza redatti “in forma completa”, cioè definitiva (art. 40, comma 1, lett. a e b), anche –e, verrebbe da dire, soprattutto- per quanto riguarda le modifiche pregiudizievoli apportate al progetto preliminare sulla base dei pareri regionale e provinciale. (…)
Nel caso di specie, l’accoglimento dei rilievi formulati dalla Regione con la deliberazione 26.02.2008, n. 179 ha comportato la limitazione delle possibilità edificatorie ed il condizionamento ad approvazione di puo regionale, nei termini dedotti e riportati dalla narrativa in fatto. Al riguardo, parte ricorrente, proprietaria direttamente incisa dalle nuove previsioni, non è stata dunque posta in grado di formulare osservazioni –ex art. 39, comma 3- su una disciplina urbanistica introdotta a seguito dei rilievi di un soggetto terzo (la Regione), che ha sicuramente inciso notevolmente, in senso peggiorativo, sulle aree di proprietà.
La disposizione di cui all’art. 40, comma 4, lett. a), laddove prevede che le modifiche apportate al puc in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni “non comportano la necessità di procedere alla ripubblicazione degli atti”, si riferisce con ogni evidenza all’accoglimento delle osservazioni presentate dai soggetti direttamente interessati (per i quali, a seguito dell’accoglimento, viene –per così dire– a cessare la materia del contendere), non certo alle osservazioni presentate da soggetti “terzi” (e, tra questi, quelli istituzionali) rispetto ai proprietari delle aree interessate dalla nuova disciplina. Né vale sostenere l’inutilità della fase partecipativa, in relazione al carattere obbligatorio delle prescrizioni introdotte dalla Regione a tutela del territorio nella sua espressione paesistico-ambientale.
Sia in termini di principio a fronte della natura delle determinazioni in questione, sia in termini di dettaglio in quanto è pacifico che le aree di proprietà delle società ricorrenti non fossero affatto interessate da variante al ptcp, ed inoltre che la disciplina delle zone ammettesse gli interventi paventati. Si tratta di una valutazione di merito circa l’an ed il quantum di nuova edificazione compatibile con il carattere sparso dell’insediamento, di carattere eminentemente discrezionale (e dunque non vincolata, ancorché vincolante per i piani sottordinati), sicché non può trovare applicazione la sanatoria giurisprudenziale ex art. 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990
”.
Osserva la Regione appellante, in vista della riforma in parte qua della sentenza appellata, che le modifiche apportate dal Comune successivamente alla fase di pubblicità-partecipazione non necessitavano, per espressa disposizione dell’art. 40, comma 4, lett. a), di ulteriore pubblicazione in funzione partecipativa.
Deduce altresì che essa, con la d.G.R. n. 179/2008, ha dettato le indicazioni prescrittive per gli aspetti paesistico-ambientali, che ai sensi dell’art. 39, comma 7, l.r. n. 36/1997, così come vigente ratione temporis, hanno carattere vincolante (“Il parere espresso dalla Regione a norma del comma 4 ha carattere vincolante con esclusivo riferimento alle indicazioni prescrittive del P.T.R. di cui all’articolo 13, comma 1, lettere b) e c)”).
Rileva altresì che, con il parere sul progetto preliminare di P.U.C., era stato posto in evidenza che la disciplina urbanistica proposta, per l’assenza di specifiche regole di intervento, potesse comportare concentrazioni insediative tali da superare i limiti posti dal Piano paesistico, determinando un impegno edificatorio di carattere diffuso e uniforme in contrasto con le possibilità di intervento consentite dal regime di mantenimento degli esistenti insediamenti sparsi (ISMA).
Ebbene, deve osservarsi in primo luogo che assume carattere dirimente il disposto dell’art. 40, comma 4, lett. a), l.r. n. 36/1997.
Secondo la disposizione menzionata, infatti, acquisite le osservazioni in ordine all’adottato progetto definitivo di P.U.C. “limitatamente agli aspetti che costituiscono sviluppo e completamento del progetto preliminare”, il P.U.C. si intende approvato con la deliberazione con la quale: "a) il Consiglio comunale, entro sessanta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 2, decide sulle osservazioni presentate, fermo restando che le modifiche apportate al P.U.C. in conseguenza del loro accoglimento non comportano la necessità di procedere alla ripubblicazione degli atti”.
La disposizione richiamata, infatti, è univoca nel disporre che le modifiche eventualmente apportate al P.U.C. dal Comune, a seguito del recepimento delle osservazioni sul progetto definitivo (cui il TAR assimila il parere regionale di cui alla d.G.R. n. 179/2008), non impongono la nuova pubblicazione del Piano: ciò, evidentemente, in ossequio ad evidenti esigenze di economia procedimentale, determinandosi altrimenti, per effetto della presentazione “a catena” di osservazioni e del loro accoglimento, la rinnovata e ripetuta esigenza di riaprire la fase partecipativa.
Inoltre, come si è visto, il TAR propone una equiparazione del parere regionale alle osservazioni dei privati, affermando che, quando l’osservazione accolta non promani dal suo promotore, si renda necessario attivare un nuovo segmento partecipativo nei confronti dei proprietari interessati.
Deve tuttavia osservarsi che il parere regionale, lungi dal costituire espressione delle facoltà partecipative dei privati, destinati a subire gli effetti autoritativi e conformativi della programmazione urbanistica, rappresenta la manifestazione del rapporto di cooperazione tra Enti titolari di competenze distinte e concorrenti nel procedimento di formazione degli strumenti urbanistici.
Con particolare riferimento alla fattispecie in esame, la competenza consultiva regionale risulta orientata, nel suo concreto esercizio, a garantire la coerenza delle previsioni del P.U.C. in itinere con le prescrizioni inderogabili del P.T.C.P., al fine di evitare che la carenza di una idonea disciplina di dettaglio, di tipo urbanistico e paesistico, concernente le aree afferenti al comparto agricolo, potesse pregiudicare le esigenze di conservazione dei tratti paesaggistici delle stesse, così come recepite dal piano sovraordinato.
Trattasi, quindi, di prescrizioni finalizzate a salvaguardare le prescrizioni dettate dal P.T.C.P. in punto di caratterizzazione delle aree de quibus come di insediamento sparso che, indipendentemente dalla loro riconducibilità –sostenuta dalla Regione– alla richiamata previsione di cui all’art. 39, comma 7, l.r. n. 36/1997, esulano dal potere di valutazione discrezionale comunale, afferente alla disciplina di carattere strettamente urbanistico, alla cui definizione è funzionale la partecipazione dei privati.
Il carattere necessitato delle modifiche introdotte dal Comune, in sede di recepimento delle prescrizioni di cui alla d.G.R. n. 179/2008, induce quindi a fare applicazione alla fattispecie in esame del principio giurisprudenziale secondo cui (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7839 del 14.11.2019) “proprio con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, si è altresì puntualizzato che occorre distinguere tra modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standard urbanistici minimi), modifiche “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e modifiche “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre per le modifiche “
facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “obbligatorie” tale obbligo non sorge, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.
Ad ulteriore supporto della conclusione raggiunta, merita richiamare il suddetto orientamento anche laddove afferma che “la necessità di ripubblicazione del piano, dunque, viene ritenuta sussistere allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una sua rielaborazione complessiva, cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Infatti, la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677).
Rileva infine il Collegio che debba escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484, cit. supra); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880)
”.
Ebbene, tale situazione corrisponde proprio a quella verificatasi nella specie, in quanto le prescrizioni limitative censurate incidono appunto sulle aree agricole, senza determinare alcun “cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Né, infine, varrebbe osservare che le prescrizioni regionali hanno contenuto discrezionale, non derivando da un puntuale contrasto dello strumento urbanistico comunale rispetto al P.T.C.P., in quando il citato orientamento evidenzia che “è proprio la doverosità della disciplina, pur discrezionale nei suoi contenuti concreti, che ne implica l’innesto nelle scelte pianificatorie originarie del Comune, ovviamente coinvolto nel procedimento, senza necessità di un azzeramento della procedura con conseguente nuova pubblicazione del Piano” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.11.2020 n. 6944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAGiusta consolidata giurisprudenza in materia, “Alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici”.
Invero, “l'intervento della Regione nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della tutela "puntiforme" del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del territorio, non comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati.
Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d'ufficio dall'Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio”.
È stato altresì riconosciuto che “le modifiche d'ufficio al Piano Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e), della L. n. 1150/1942, sono sempre ammesse ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente in coerenza con l'interesse pubblico, sancito dalla legge, della salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio e tale potere della Regione non soggiace al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte della norma citata”.
Ancora, in via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della L. n. 1150 del 1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede di approvazione del piano regolatore generale, è autorizzata a introdurre direttamente le modifiche e prescrizioni inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici; al rispetto delle ipotesi in cui è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché ai rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi, senza necessità di porre in essere una procedura ad hoc di adeguamento”.
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3. Quanto al ricorso RG n. 767/2014, con il primo ed il secondo motivo, che vengono trattati insieme per ragioni di connessione oggettiva, la ricorrente lamenta la violazione degli art. 15, 17, 29 e 30 della LRP n. 56/1977, nonché dell’art. 96 del RD n. 523/1904 e dell’art. 133 del RD n. 368/1904, degli artt. 142 e ss. del D.Lgs. n. 42/2004 e dell’art. 3 della L. n. 241/1990, oltre che eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione.
In sostanza l’apposizione della fascia di rispetto di 25 m, voluta dalla Regione e recepita dal Comune, non trova fondamento normativo nelle disposizioni che disciplinano la materia.
L’art. 29 della LRP n. 56/1977 (così come modificata nel 2013), nel normare le fasce di rispetto di sponde dei laghi, dei fiumi, dei torrenti, dei canali e dei rii prevede: al comma 1 lett. c), la fascia di 25 m “dal piede esterno degli argini maestri, per fiumi, torrenti e canali arginati, ad esclusione dei canali che costituiscono rete di consorzio irriguo o mera rete funzionale all'irrigazione, i quali non generano la fascia di cui al presente comma, fatta salva la dimostrata presenza di condizioni di pericolosità geomorfologica e idraulica” ed al comma 4 che le imposizioni delle fasce suddette “non si applicano negli abitati esistenti, e comunque nell'ambito della loro perimetrazione, se difesi da adeguate opere di protezione”.
Parte ricorrente, pertanto sostiene che: il Naviglio di Bra, essendo un canale irriguo (gestito da Consorzio irriguo), non poteva soggiacere a tali limiti e in nessun documento istruttorio si fa parola di situazioni di particolare pericolosità geomorfologica ed idraulica; il canale, almeno nella parte di interesse della ricorrente, attraversa il centro abitato del capoluogo e, pertanto, cadrebbe nella previsione di cui al comma 4 dell’art. 29; tale articolo, infine, attiene alla sicurezza geomorfologica, al pari dell’art. 96 del RD n. 523/1904 e dell’art. 133 del RD n. 368/1904 (che prevedono fasce di 10 m. dai corsi d’acqua e che residualmente avrebbero dovuto trovare applicazione).
In ogni caso tale normativa nulla ha a che fare con le motivazioni paesaggistiche che, invece, la Regione (ed il Comune in fase di recepimento) ha addotto per introdurre la fascia di rispetto più rigorosa. Peraltro l’art. 142 del D.Lgs. n. 42/2004, che contiene la disciplina delle aree tutelate ex lege per ragioni paesaggistiche, contempla fasce di rispetto (per 150 m.) ma solo per corsi d’acqua diversi da quelli in argomento (peraltro la documentazione tecnica comunale, in particolare l’elaborato R1 alla Variante di revisione generale, non lo contempla tra le norme applicabili al Naviglio di Bra).
La ricorrente evidenzia, infine, che, nel tratto urbano interessato da tale vincolo, sussistono costruzioni poste a meno di 10 m. (incluse quelle di proprietà della ricorrente). Peraltro le NTA approvate dal Comune, all’art. 61, non recherebbero neanche la motivazione con riferimento alle esigenze di natura paesaggistica (avendo la Regione, in sede di approvazione, stralciato la nota che vi faceva riferimento): da qui la carenza di motivazione.
Le censure non sono condivisibili ed il motivo non è fondato.
La Regione Piemonte, nelle proprie memorie difensive, evidenzia come il Naviglio di Bra:
   a) per il suo tratto cittadino costituisca l’unico ricettore acque di pioggia che scolano dalla collina a Nord di via Brizio-Viale della Costituzione ed il suo regime idraulico abbia un forte impatto sulla capacità di smaltimento delle acque che interessano la zona Nord del centro abitato e la frazione Bandito di Bra;
   b) per il resto evidenzia come lo stesso canale fosse segnalato come zona di interesse storico e paesaggistico sin dalle relazioni preliminari alla variante al PRGC (il Settore Urbanistico Territoriale di Cuneo, esaminando la pratica, segnalava che “[…] Il predetto Naviglio, con le relative aree di relazione visiva tra insediamento e contesto, risultava segnalato dal Piano Paesaggistico Regionale, adottato dalla Giunta regionale nel 2009 (vigente all’epoca dei fatti), come sistema irriguo costituente elemento del patrimonio rurale storico (articoli 25 e 31 delle N.T.A. del P.P.R.). La presenza dei vincoli di inedificabilità, ex art. 29 della LUR, così come definiti e confermati dalla Variante 2006, assumeva un ruolo importante ai fini della tutela del paesaggio agrario, in particolare nelle aree periferiche al capoluogo e nella pianura pollentina (paesaggio fluviale dello Stura e del Tanaro); inoltre, nello stesso capoluogo, il Naviglio esercitava anche una funzione di separazione tra i settori urbani a destinazione residenziale e gli ambiti a destinazione terziario/produttiva che si riteneva necessario preservare”).
Il Piano Paesaggistico Regionale all’epoca vigente (adottato con DGR 53-11975 del 04.08.2009), tra le componenti e le unità di paesaggio, individuava i sistemi irrigui di rilevanza storico culturale inserendoli tra i beni del Patrimonio rurale storico (art. 25) e tra quelli a valenza percettivo–identitaria (relazioni visive tra insediamento e contesto – Art. 31), tra i quali era inserito anche il naviglio di Bra. L’Ufficio regionale, nella propria relazione, proponeva pertanto di “ripristinare, indipendentemente dai disposti degli artt. 29 e 30 della L.R. 56/1977, ma per motivazioni di carattere paesaggistico-ambientale, la previsione di fasce di rispetto spondale con profondità di m. 25 per lato lungo il Naviglio di Bra […] a N/O del capoluogo, nel tratto situato tra Strada del Falchetto e la Tangenziale ovest […]”.
L’azione della Regione, pertanto, non può dirsi affetta né da difetto di istruttoria né da carenza di motivazione. Gli atti citati nella pianificazione e nella deliberazione regionale, infatti, evidenziano da un lato come la decisione di applicare le fasce di rispetto più restrittive prenda le mosse da un’istruttoria compiuta sin dalle fasi preliminari dell’approvazione del PRGC e, dall’altro, prescinda dal ristretto ambito applicativo delle norme in materia di sicurezza idraulica ed operi in coerenza con le previsioni del Piano Paesaggistico Regionale all’epoca vigente (adottando misure di salvaguardia che, peraltro, se sacrificano le possibilità di allineamento delle edificazioni esistenti con quelle che eventualmente dovessero vedere la luce nel rispetto dei nuovi limiti, non minano il complesso degli interessi della ricorrente non riducendone la capacità edificatoria complessiva).
Che la Regione abbia questo tipo di potere di intervento è, peraltro, riconosciuto da consolidata giurisprudenza in materia. “Alla regione è consentito, all'atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche allo stesso per assicurare il rispetto di altri strumenti di pianificazione regionali e per la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (C. Stato, sez. IV, 17.09.2013, n. 4614).
Ed ancora: “l'intervento della Regione nel procedimento di approvazione dello strumento urbanistico o di una sua variante, volto ad ampliare le fasce di rispetto estendendo l'area degli effetti della tutela "puntiforme" del bene vincolato, in quanto espressione di un doveroso presidio del territorio, non comporta l'obbligo dell'ente locale di ripubblicare il Piano regolatore generale modificato in conformità alle indicazioni regionali, né implica altre forme di coinvolgimento nel procedimento dei privati interessati. Va infatti confermato il principio correttamente posto a base di pronunce risalenti del Consiglio di Stato secondo cui le modifiche allo strumento urbanistico introdotte d'ufficio dall'Amministrazione regionale, ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, comma 2, lett. c), Legge n. 1150 del 1942- nell'ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio” (Cons. Stato Sez. II, 14/11/2019, n. 7839).
È stato altresì riconosciuto che “le modifiche d'ufficio al Piano Regolatore Generale ex art. 10, comma 2, lett. e), della L. n. 1150/1942, sono sempre ammesse ai fini specifici della tutela del paesaggio e dell'ambiente in coerenza con l'interesse pubblico, sancito dalla legge, della salvaguardia delle caratteristiche ambientali del territorio e tale potere della Regione non soggiace al limite concernente il divieto di innovazioni sostanziali posto dalla prima parte della norma citata” (TAR Sicilia Palermo Sez. II, 04/11/2019, n. 2535; cfr. conf. Cons. giust. amm. Sicilia, sent. 18/11/2009, n. 1098, TAR Lombardia Milano Sez. II Sent., 24/11/2006, n. 2487, TAR Lombardia Sez. II, 14/09/2005, n. 3630).
Ancora, in via più generale, è stato riconosciuto che “Ai sensi della disciplina di principio contenuta negli artt. 10 e 36 della L. n. 1150 del 1942 (Legge urbanistica), la Regione, in sede di approvazione del piano regolatore generale, è autorizzata a introdurre direttamente le modifiche e prescrizioni inerenti alla razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, alla tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici; al rispetto delle ipotesi in cui è d'obbligo l'introduzione di una disciplina di pianificazione secondaria, ai limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché ai rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, senza alcuna facoltà di controdeduzioni per il Comune e, quindi, senza necessità di porre in essere una procedura ad hoc di adeguamento” (Cons. Stato Sez. IV Sent., 01/12/2011, n. 6349, conforme TAR Puglia Lecce Sez. I, 31/07/2006, n. 4071).
In considerazione, pertanto, del corretto assolvimento degli obblighi istruttori e motivazionali e dell’esercizio di un potere pacificamente riconosciuto, i primi due motivi di ricorso non sono fondati
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 14.09.2020 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che per l'appunto contempla, all'atto dell'approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell'accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione; l’eventuale necessità di “ripubblicazione” del Piano, come la giurisprudenza riconosce, sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano.
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni presentate dopo l'adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato; solo nell'ipotesi in cui vi sia stata una “rielaborazione complessivamente innovativa” del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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I motivi sono infondati.
Lo scrutinio delle censure formulate da parte ricorrente non può prescindere dal preliminare richiamo dei principi elaborati dalla dominante giurisprudenza in materia di pianificazione.
In particolare la condivisibile giurisprudenza ha ritenuto che l’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale subiscano, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto del tutto connaturale al procedimento di formazione del suddetto strumento urbanistico, che per l'appunto contempla, all'atto dell'approvazione definitiva, la possibilità di cambiamenti in conseguenza dell'accoglimento delle osservazioni pervenute; pertanto, soltanto laddove si dimostri che le modifiche introdotte incidono sulle caratteristiche essenziali dello strumento stesso e sui suoi criteri di impostazione, si rende necessario riprendere da capo il relativo procedimento di formazione (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 06.03.2019, n. 375, TAR Sardegna, Sez. II, 22.01.2013, n. 45); l’eventuale necessità di “ripubblicazione” del Piano, come la giurisprudenza riconosce (TAR Valle d'Aosta n. 61 del 27.10.2017, TRGA Trento 05.05.2015, n. 182, Consiglio di Stato, sez. IV, 26.02.2013, n. 1182), sorge solo a seguito di apporto di innovazioni tali da mutare radicalmente l'impostazione di Piano (TAR Sardegna, Cagliari, Sez. II, 24.07.2019, n. 672).
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni presentate dopo l'adozione, vi sia stata una “rielaborazione complessiva” del piano stesso, e cioè un “mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.09.2011, n. 5343, id., 26.04.2006 n. 2297, id., 31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492).
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato; solo nell'ipotesi in cui vi sia stata una “rielaborazione complessivamente innovativa” del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione (TAR Campania, Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510 e sez. VIII, 07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (TAR Valle d'Aosta, Sez. I, 27.10.2017, n. 61, Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame il Collegio osserva che, se è pur vero che l’osservazione contrassegnata con il n. 48 nella nota prot. n. 1967 del 21.02.2017 risulta qualificata quale osservazione espressamente presentata dal servizio tecnico, e in quanto tale deve ritenersi irrituale e atipica, è altrettanto vero che essa, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, non è frutto di una proposta effettuata solo dal RUP, risultando in atti che le 14 osservazioni sono state comunque sottoposte alla valutazione del Responsabile Tecnico del Piano (R.T.P.), cui la nota prot. n. 6435 del 15.07.2016, contenente le medesime osservazioni, è stata inviata a mezzo PEC; R.T.P. che, come espressamente rappresentato nella suddetta nota prot. n. 1967 del 21.02.2017 (punto n. 3 dell’ultimo periodo a pag. 4), ha supportato il RUP nella fase istruttoria, supporto “concretizzatosi nell’elaborazione condivisione della fase istruttoria finalizzata all’analisi e alla valutazione delle osservazioni pervenute.”.
Deve, quindi, ritenersi che il RUP si sia limitato ad una mera proposta, poi oggetto di valutazione ed approvazione, unitamente alle altre osservazioni, da parte della Giunta Comunale con la deliberazione n. 24 del 23.02.2017 poi recepite con la definitiva approvazione PUC dal Consiglio Comunale con la Deliberazione n. 5 del 29.01.2019.
Alla luce di quanto sopra esposto ed alla luce delle sopra richiamata giurisprudenza, deve evidenziarsi che parte ricorrente con il quarto motivo di ricorso si è limitata ad affermare apoditticamente che le 14 osservazioni proposte dall’Ufficio Tecnico di cui all’osservazione contrassegnata con il n. 48 della nota prot. n. 1967 del 21.02.2017, aventi ripercussioni sul suolo di sua proprietà in quanto confinante su un bene confiscato, avrebbero stravolto il Piano adottato.
Pertanto, non ha provato, come era suo onere, che le proposte di modificazione formulate dal RUP (espressione della compagine politica che è succeduta a quella che ha adottato il PUC), che la G.C. e il C.C. hanno poi approvato in via definitiva, abbiano determinato modifiche che attengono all'impostazione generale del PUC e che, in quanto tali, avrebbero richiesto una nuova pubblicazione al fine di garantire la partecipazione dei privati e, pertanto, della stessa ricorrente; quest’ultima si è infatti limitata a contestare nel merito la scelta dell’amministrazione unicamente in riferimento alla modifica della destinazione di zona di parte dei suoli di sua proprietà.
Né dalla documentazione prodotta in giudizio ed in particolare dalla nota contenente le 14 osservazioni proposte dal RUP, il Collegio può evincere che le suddette modifiche incidano sull’impostazione generale del PUC (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.02.2020 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La quaestio iuris va anzitutto esaminata alla luce dell'orientamento giurisprudenziale che è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del Piano allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Al riguardo, “… devesi escludere che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”.

Inoltre,
<<con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell'approvazione, che occorre distinguere le
   - modifiche "obbligatorie" (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standards urbanistici minimi) da
   - quelle "facoltative" (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da
   - quelle "concordate" (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre, infatti, per le modifiche "facoltative" e "concordate", ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie" non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame>>.
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2. Il secondo motivo, con il quale l’esponente si duole dell’omessa ripubblicazione del Piano, non è passibile di positivo scrutinio.
2.1 La quaestio iuris va anzitutto esaminata alla luce dell'orientamento giurisprudenziale che è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del Piano allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. TAR Veneto, sez. I – 08/04/2019 n. 421, che richiama i precedenti dell’organo di appello; Consiglio di Stato, sez. IV – 19/11/2018 n. 6484, che ha richiamato l’indirizzo per il quale si “… esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree”).
2.2 Le modifiche introdotte dal Comune sono consequenziali (e limitate) all’apposizione del vincolo diretto e indiretto, che non ha determinato sensibili alterazioni delle linee fondamentali dello strumento attuativo.
Nello specifico, la superficie lorda di pavimento è rimasta invariata (cfr. controdeduzione all’osservazione n. 1) e come sostenuto dalla stessa ricorrente nell’esposizione in fatto si registra una risistemazione degli standard, con monetizzazione del verde pubblico e riduzione dei parcheggi previsti.
Peraltro, dal raffronto tra la planimetria generale dei 2 progetti, adottato e approvato (doc. 17 e 18 Comune) traspare –quale unica innovazione– il mantenimento della Cascina secondo le indicazioni della Soprintendenza, mentre la restante conformazione del Piano permane sostanzialmente inalterata.
2.3 Non va sottaciuto altresì il consolidato orientamento per cui <<con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell'approvazione, che occorre distinguere le modifiche "obbligatorie" (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l'adozione di standards urbanistici minimi) da quelle "facoltative" (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle "concordate" (conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune). Mentre, infatti, per le modifiche "facoltative" e "concordate", ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche "obbligatorie" non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.>> (TAR Piemonte, sez. I – 13/07/2018 n. 871, che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 15/04/2013 n. 2029).
La fattispecie è sussumibile nell’alveo delle modifiche “obbligatorie”, non soggette a ripubblicazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.12.2019 n. 1027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Rielaborazione di uno strumento urbanistico.
Da un esame testuale dell'art. 34, comma 5, del dlgs 267/2000 si ricava che la mancata ratifica del Consiglio comunale, nei successivi trenta giorni, dell’adesione del Sindaco all’Accordo (di Programma) determina l’inefficacia di quest’ultima (si utilizza l’espressione “a pena di decadenza”), intendendosi sottolineare come nessun effetto –ossia la variazione degli strumenti urbanistici– possa determinarsi in ragione di tale mancata ratifica consiliare. La disposizione, invece, non si occupa affatto della perdurante efficacia o validità degli atti prodromici all’adesione (sottoscrizione) del Sindaco e alla delibera consiliare di ratifica, unici atti che perdono la loro efficacia e non possono più essere “recuperati”.
Il regime giuridico degli atti endoprocedimentali va ricondotto alle regole che riguardano l’attività amministrative in generale, e quella pianificatoria in particolare. Nel caso in cui l’atto finale sia invalido o inefficace per ragioni non riconducibili ad atti presupposti, questi ultimi restano pienamente validi o efficaci e anzi, per ragioni legate all’economicità e alla tempestività dell’azione amministrativa, devono essere, se possibile, conservati al fine di consentire all’Amministrazione di concludere in maniera finalmente corretta il procedimento avviato e non portato a termine legittimamente.
Del resto, diversamente opinando, si imporrebbe, in ipotesi, la riedizione di una serie di attività e di procedimenti che potrebbero rivelarsi quali meri doppioni, puramente ripetitivi, di quelli già effettuati, che riporterebbero gli stessi esiti di quelli in precedenza già svolti.
Nel caso in cui il potere di adottare quel determinato atto permanga in capo ad un determinato organo (o soggetto) sarà quest’ultimo, attraverso una valutazione di opportunità, a stabilire se, intendendo riattivare il procedimento non concluso regolarmente o interrottosi anzitempo, avvalersi dei risultati e degli approdi cui è giunta l’attività istruttoria in precedenza effettuata, al limite aggiornandola e adeguandola rispetto alle esigenze sopravvenute.
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Con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del Piano Urbanistico, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree e quando tali modifiche discendono dall’accoglimento di osservazioni formulate dalle parti intervenute che non incidano in modo intenso sulla destinazione impressa in fase di adozione.

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4. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso non è meritevole di accoglimento.
5. Con la prima censura si assume l’illegittimità dell’Accordo di programma sottoscritto dalle parti resistenti, in quanto il procedimento di approvazione dello stesso, avviato nel luglio del 2007 e riavviato nel novembre del 2016, dopo una prima battuta d’arresto, sarebbe viziato per inefficacia degli atti presupposti, poiché la mancata positiva conclusione dell’originario procedimento, dovuta alla non approvazione dello stesso da parte del Consiglio comunale di Milano, avrebbe reso necessaria una integrale rinnovazione della procedura, con il riconoscimento di una nuova fase partecipativa e di pubblicità, non potendosi tenere ferme le risultanze in precedenza acquisite, siccome travolte e rese inefficaci dalla mancata approvazione dell’accordo originario.
5.1. La doglianza, sebbene ammissibile, è infondata nel merito.
Va premesso, riprendendo quanto già specificato nella parte in fatto, che il Sindaco del Comune di Milano, in data 27.07.2007, ha avviato la procedura per la sottoscrizione di un Accordo di programma con la Regione Lombardia, la Società Ferrovie dello Stato Italiane e i soggetti privati proprietari degli ambiti interessati all’intervento, finalizzato alla trasformazione urbanistica, in variante rispetto alla pianificazione all’epoca in vigore, delle aree ferroviarie dismesse e in dismissione, denominate Scalo Farini, Scalo Romana, Scalo e Stazione di Porta Genova, Scalo Basso di Lambrate, parte degli Scali Greco – Breda e Rogoredo ed aree ferroviarie di San Cristoforo, in correlazione con il potenziamento del sistema ferroviario in ambito comunale.
In esecuzione di tale attività sono stati posti in essere tutti gli adempimenti prodromici e necessari per giungere alla sottoscrizione dell’Accordo e renderlo efficace.
Nel corso della procedura di approvazione dell’Accordo di Programma, il Comune di Milano ha avviato e poi concluso, in data 22.05.2012, il procedimento di approvazione del P.G.T., le cui norme transitorie hanno previsto la prosecuzione del procedimento relativo all’Accordo di Programma, ivi stabilendosi che la trasformazione degli ambiti ferroviari dismessi dovesse avvenire a mezzo di un accordo di programma unitario. Tuttavia, successivamente alla validazione, in data 08.07.2015, da parte della Conferenza dei Rappresentanti, dell’ipotesi di accordo predisposta dalla Segreteria Tecnica, poi sottoscritta da tutte le parti, il Consiglio comunale non ha provveduto alla sua ratifica nei termini previsti dall’art. 34, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000, determinandone la decadenza.
Con le delibere del Consiglio comunale n. 27 del 07.07.2016 e n. 44 del 14.11.2016, sono state dettate delle linee di indirizzo in merito all’Accordo di programma non concluso, confermando l’interesse alla sua approvazione; di conseguenza, la Conferenza dei Rappresentanti ha preso atto di tali indirizzi ed ha dato mandato alla Segreteria Tecnica di avviare un’istruttoria finalizzata alla rivisitazione dell’Accordo di Programma, in linea con gli obiettivi definiti all’atto della sua promozione (all. 14a del Comune).
In data 20.06.2017, dopo la richiesta di adesione da parte del soggetto privato proprietario delle aree interessate dall’Accordo, la Conferenza dei Rappresentanti ha approvato il testo finale dell’Accordo, poi sottoscritto da tutte le parti in data 22-23.06.2017 e ratificato dal Consiglio comunale con la delibera n. 19 del 13.07.2017; da ultimo, l’Accordo è stato approvato con decreto del Presidente della Regione Lombardia n. 754 in data 01.08.2017, a seguito di delibera della Giunta regionale n. 6772 del 22.06.2017.
5.2. Secondo la tesi dell’Associazione ricorrente, la sottoscrizione dell’Accordo da parte del Sindaco di Milano in data 08.07.2015, non ratificata dal Consiglio comunale nei termini previsti dall’art. 34, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000, avrebbe determinato la decadenza degli effetti dell’Accordo, unitamente all’inefficacia di tutti gli atti endoprocedimentali assunti, con la conseguente impossibilità di conservazione degli stessi e la necessità di una integrale riedizione della procedura.
La prospettazione della ricorrente non appare meritevole di accoglimento.
Da un esame testuale del citato art. 34, comma 5, si ricava che la mancata ratifica del Consiglio comunale, nei successivi trenta giorni, dell’adesione del Sindaco all’Accordo determina l’inefficacia di quest’ultima (si utilizza l’espressione “a pena di decadenza”), intendendosi sottolineare come nessun effetto –ossia la variazione degli strumenti urbanistici– possa determinarsi in ragione di tale mancata ratifica consiliare. La disposizione, invece, non si occupa affatto della perdurante efficacia o validità degli atti prodromici all’adesione (sottoscrizione) del Sindaco e alla delibera consiliare di ratifica, unici atti che perdono la loro efficacia e non possono più essere “recuperati”.
Il regime giuridico degli atti endoprocedimentali va ricondotto alle regole che riguardano l’attività amministrative in generale, e quella pianificatoria in particolare. Nel caso in cui l’atto finale sia invalido o inefficace per ragioni non riconducibili ad atti presupposti, questi ultimi restano pienamente validi o efficaci e anzi, per ragioni legate all’economicità e alla tempestività dell’azione amministrativa, devono essere, se possibile, conservati al fine di consentire all’Amministrazione di concludere in maniera finalmente corretta il procedimento avviato e non portato a termine legittimamente (cfr. Consiglio di Stato, IV, 01.07.2013, n. 3542; TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2016, n. 5512).
Del resto, diversamente opinando, si imporrebbe, in ipotesi, la riedizione di una serie di attività e di procedimenti che potrebbero rivelarsi quali meri doppioni, puramente ripetitivi, di quelli già effettuati, che riporterebbero gli stessi esiti di quelli in precedenza già svolti (cfr., con riferimento ad un accordo di programma in materia urbanistica, TRGA, Bolzano, 10.02.2017, n. 59; 24.01.2017, n. 30).
Nel caso in cui il potere di adottare quel determinato atto permanga in capo ad un determinato organo (o soggetto) sarà quest’ultimo, attraverso una valutazione di opportunità, a stabilire se, intendendo riattivare il procedimento non concluso regolarmente o interrottosi anzitempo, avvalersi dei risultati e degli approdi cui è giunta l’attività istruttoria in precedenza effettuata, al limite aggiornandola e adeguandola rispetto alle esigenze sopravvenute.
Nella fattispecie oggetto di scrutinio nessuna delle parti dell’Accordo ha manifestato una volontà contraria alla conservazione delle risultanze emerse nella pregressa fase procedimentale e, in ogni caso, tali esiti sono stati implementati con i dovuti aggiornamenti, anche per adeguarli alle sopravvenute esigenze correlate all’approvazione del P.G.T., avvenuta nel 2012.
In tal senso va sottolineato che se rispetto al P.R.G. del 1980, vigente all’atto della proposta di Accordo di Programma, risalente all’anno 2007, non vi era conformità tra i due strumenti, tanto da risultare necessaria un procedura di variante al Piano regolatore, al momento del riavvio del procedimento finalizzato all’approvazione dell’Accordo, ossia nell’anno 2016, il P.G.T. vigente, all’art. 31.3 delle Norme di Attuazione del Piano delle regole ha stabilito che “agli Accordi di Programma di cui all’art. 34 del D.Lgs. 267/2000 e di cui all’art. 6 della L.R. 2/2003, già vigenti alla data di adozione del PGT o per i quali, alla stessa data, siano stati istituiti rispettivamente, la Conferenza dei rappresentanti, ovvero il Comitato per l’Accordo di Programma, si applicano le previsioni pianificatorie contenute negli Accordi di programma medesimi sino al loro completamento” (cfr. all. 15 del Comune).
Ciò risulta confermato altresì dall’art. 5.1.1.4 delle Norme di Attuazione del Documento di Piano, secondo cui “gli Ambiti di Trasformazione ATU Farini – Lugano, ATU Greco – Breda, ATU Lambrate, ATU Romana, ATU Rogoredo, ATU Porta Genova e ATU San Cristoforo si attuano attraverso un accordo di programma unitario che disciplina la trasformazione di tutte le aree citate, associando l’insieme complessivo degli interventi urbanistici al potenziamento e alla riqualificazione del sistema ferroviario milanese e del trasporto pubblico su ferro, anche mediante il reimpiego delle plusvalenze derivanti dalla valorizzazione delle aree” (all. 16 del Comune).
Trattandosi di Accordo conforme, anzi attuativo, e non in variante rispetto alle previsioni urbanistiche vigenti, nessuna ulteriore fase di partecipazione risultava obbligatoria, essendo tale requisito procedurale già soddisfatto in sede di approvazione dello strumento urbanistico generale. Pur in assenza di alcun obbligo di partecipazione, gli Uffici hanno comunque proceduto a rivalutare le osservazioni esistenti, integrando e aggiornando le controdeduzioni alle medesime già formulate in precedenza (all. 8 al ricorso).
La limitata portata delle modifiche discendenti dalla rivalutazione delle osservazioni, non avendo alterato l’impianto complessivo dell’Accordo, non determina alcun obbligo di ripubblicazione dell’atto di pianificazione: la parte ricorrente, pur assumendo la sussistenza di significative modifiche –quali “l’estensione del mix funzionale di destinazioni in ogni Ambito dove è prevista edificazione (con specifiche percentuali che tengono conto della vocazione dell’area)”, la “previsione di quote minime di edilizia convenzionata e sociale in ogni zona dove è prevista nuova edificazione”, “la prevista semplificazione nella procedura di attuazione degli interventi, anche mediante l’eliminazione dei comparti urbanistici e l’attuazione autonoma per ogni Ambito” e la “mutata perimetrazione di alcune aree”– non ha supportato tale affermazione con elementi in grado di dimostrare l’avvenuto stravolgimento delle linee portanti dell’Accordo come inizialmente concepito.
In ogni caso, con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree e quando tali modifiche discendono dall’accoglimento di osservazioni formulate dalle parti intervenute che non incidano in modo intenso sulla destinazione impressa in fase di adozione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 08.07.2019, n. 4779; 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865; TAR Lombardia, Milano, II, 06.05.2019, n. 1021; 17.04.2019, n. 868).
Da ciò discende l’infondatezza della scrutinata doglianza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.11.2019 n. 2500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che la ripubblicazione del piano urbanistico, comunale o sovracomunale, si impone solo laddove si configuri una rielaborazione complessiva, tale da incidere sui criteri che hanno presieduto all’impostazione del medesimo piano.
Né può parlarsi di rielaborazione, laddove le disposizioni modificative riguardino la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree
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2). Con il motivo sub 2) la ricorrente lamenta la violazione degli obblighi di trasparenza e pubblicità. In proposito, la stessa sostiene che sussisteva un obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico in presenza di modifiche apportate al piano abbiano determinato un mutamento essenziale del suo contenuto.
Anche su questo punto il Collegio non condivide il profilo di doglianza.
Risulta in atti che :
   a). risulta in atti che la delibera di approvazione della IV Variante è stata pubblicata (cfr., BUR n. 121/2015 e all’albo pretorio).
   b). la possibilità di realizzare chioschi sulla spiaggia è già stata prevista dalla variante (III variante).
   c). la delibera ha rinviato a un futuro regolamento per la disciplina delle attività economiche;
   d). in ogni caso, non sussisteva obbligo di ripubblicazione.
La giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che la ripubblicazione del piano urbanistico, comunale o sovracomunale, si impone solo laddove si configuri una rielaborazione complessiva, tale da incidere sui criteri che hanno presieduto all’impostazione del medesimo piano. Né può parlarsi di rielaborazione, laddove le disposizioni modificative riguardino la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Cons. Stato, sez. I, 17.03.2017, n. 671; sez. IV, 12.02.2013, n. 845 e 11.09.2012, n. 4806) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 14.11.2019 n. 874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Necessità della ripubblicazione del PGT.
Il TAR Milano, con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del PGT, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, sottolinea che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o delle sue linee portanti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 868 - massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Con la seconda doglianza si assume che il Piano, attraverso lo stralcio del RCC18, sarebbe stato modificato e ciò avrebbe dovuto condurre ad una ripubblicazione dello stesso, al fine di consentire alla parte interessata di interloquire sul nuovo assetto urbanistico.
3.1. La doglianza è infondata.
In primo luogo, si deve sottolineare come nessuno stravolgimento del Piano risulta essere stato posto in essere, considerato che destinazione a zona agricola della proprietà dei ricorrenti non ha prodotto effetti così rilevanti sull’assetto territoriale complessivo, o almeno ciò non è stato oggetto di inequivoca dimostrazione; in tal modo è stato altresì garantito un minore consumo di suolo complessivo.
In ogni caso, con riguardo alla necessità di una ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito stravolgimento di quest’ultimo in fase di approvazione, va sottolineato che, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 26.11.2018, n. 2677; altresì, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, si esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, come avvenuto nella fattispecie de qua (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Tale disposizione appare del tutto ragionevole alla luce della interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, avendone limitato l’operatività alle situazioni in cui non risulta essersi prodotto uno stravolgimento del piano o delle sue linee portanti (TAR Lombardia, Milano, II, 04.04.2019, n. 751; 26.11.2018, n. 2677).
3.2. Ciò determina il rigetto della predetta censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.04.2019 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La quaestio iuris va esaminata alla luce dell’orientamento giurisprudenziale costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono.
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Ciò posto, ben può escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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2. Con il primo motivo di gravame l’esponente ha lamentato la violazione degli artt. 8 e 9 l. urbanistica, nonché degli artt. 42 e segg. l.r. 27.06.1985 n. 61 ed eccesso di potere.
Parte ricorrente evidenzia che per costante giurisprudenza amministrativa il PRG deve essere “ripubblicato” in presenza di proposte di modifica (d’ufficio o non) per consentire ai privati di formulare le proprie osservazioni. Ancorché la legge urbanistica regionale non preveda esplicitamente la “ripubblicazione” delle proposte di modifica al piano regolatore (prevista specificamente dall’art. 42 l.r. 61/1985 per la “prima adozione”) sarebbe di tutta evidenza che le finalità garantistiche dell’istituto verrebbero vanificate se il principio non dovesse applicarsi anche alle proposte di modifica.
Peraltro, argomenta il ricorrente, nel caso in esame non ci si troverebbe di fronte a modifiche d’ufficio introdotte dalla Regione ai sensi dell’art. 45 bensì all’approvazione del piano con proposte di modifica ai sensi dell’art. 46 l.r. 61/1985. Osserva il ricorrente che le proposte di modifica formulate dalla Regione interesserebbero numerose altre aree del territorio comunale (non solo quella di proprietà del ricorrente), specie nelle frazioni. Inoltre, la stessa Regione ha avuto cura di precisare che la variante del PRG non può essere considerata di carattere generale, ma una serie di varianti parziali: dunque, la necessità di “ripubblicazione” sarebbe, secondo quanto esposto, ancora più pregnante.
La circostanza che il Comune non si sia avvalso dei poteri di controdedurre in ordine alle proposte di modifica non può, in tesi, risolversi in danno dei privati; la pubblicazione sarebbe stata comunque necessaria per il carattere sostanziale delle singole modifiche proposte.
2.1. Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene che la distinzione evocata dal ricorrente, fra modiche d’ufficio introdotte dalla Regione ex art. 45 della legge reg. Veneto n. 61/1985 e proposte di modifica ai sensi del successivo art. 46, risulta inconferente in relazione alla tematica dell’obbligo di ripubblicazione.
La quaestio iuris va invece esaminata alla luce dell’orientamento giurisprudenziale costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione, vi sia stata una rielaborazione complessiva del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; Cons. Stato sez. IV, 25.11.2003, n. 7782; cfr. anche la più recente Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484).
Si tratta di orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di prime cure, secondo la quale la necessità di ripubblicazione si impone allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione: cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.11.2018, n. 2677.
Ciò posto, ben può escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cit. Cons. Stato, sez. IV, 19.11.2018, n. 6484); in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 08.05.2017, n. 614; TAR Campania, Salerno, sez. I, 08.05.2017, n. 880).
Nel caso in esame il ricorrente ha in particolare lamentato (cfr. pag. 8 del ricorso) che le proposte di modifica formulate dalla Regione interesserebbero numerose altre aree del territorio comunale (e non solo quella di proprietà del ricorrente) e (cfr. pag. 8 delle memorie depositate in data 15.06.2018 e 15.02.2019) che le modifiche non sarebbero limitate al rigetto dell’osservazione del ricorrente volta ad ottenere una seppur modesta estensione dell’area residenziale individuata dal Comune, ma hanno comportato la completa eliminazione della destinazione residenziale, riclassificando l’area del ricorrente come “zona A centro storico”.
Non risultando comprovata una rielaborazione complessiva del piano stesso, id est un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione presiedono, il motivo è privo di base
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 08.04.2019 n. 421 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Necessità di ripubblicazione del PGT.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, è necessaria la ripubblicazione del piano solo nell’ipotesi di rielaborazione complessiva, cioè quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione”.
Invero, non si configura una rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengono introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
Nel caso concreto, il cambiamento della destinazione discende dal recepimento del parere della Provincia di compatibilità del PGT con il PTCP, per cui la ripubblicazione è espressamente esclusa dall’invocato art 13 della L.R. 12/2005, che al comma 9, così recita “la deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione”.
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1) Il presente ricorso è stato proposto avverso gli atti di pianificazione, a seguito dei quali alcune delle aree di proprietà del Sig. Da.Si., ubicate nel Comune di Clivio, in via ..., sono state classificate come zona agricola e boschiva, passando dalla pregressa destinazione che le classificava in parte zona residenziale da consolidare con ambiti sottoposti a piano esecutivo.
Come emerge dalla ricostruzione in fatto, la modifica è stata introdotta in sede di approvazione, a seguito del recepimento del parere della provincia di Varese; nel piano adottato l’area era stata invece inserita in ambito AT8 con destinazione residenziale.
2) Nel primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione delle norme in materia di partecipazione, in particolare della disciplina di cui all’art. 13 e segg. L.R. 12/2005 (punto 1.1 del ricorso), nonché il difetto di motivazione e di istruttoria (punto 1.2.).
2.1 Quanto al primo profilo, sostiene il ricorrente che la trasformazione della destinazione delle aree sarebbe avvenuta in maniera unilaterale, senza una nuova pubblicazione del piano, precludendo in tal modo la possibilità di presentare nuove osservazioni.
Il motivo non è fondato.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, è necessaria la ripubblicazione del piano solo nell’ipotesi di rielaborazione complessiva, cioè quando “fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione” (cfr., TAR Milano, (Lombardia), sez. II, 23/09/2016, n. 1696 e TAR Toscana, I, 17.11.2011, n. 1736).
Non si configura una rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengono introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
Nel caso concreto il ricorrente non solo non indica con precisione quali modifiche abbiano determinato uno stravolgimento del Piano, da cui discenderebbe l'obbligo di ripubblicazione, ma si limita a rilevare che la destinazione della propria area è mutata.
Tra l’altro il cambiamento della destinazione discende dal recepimento del parere della Provincia di compatibilità del PGT con il PTCP, per cui la ripubblicazione è espressamente esclusa dall’invocato art 13 della L.R. 12/2005, che al comma 9, così recita “la deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.11.2018 n. 2593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del Piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Va, poi, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni.
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4. Passando all’esame del merito del ricorso R.G. n. 122/2013, lo stesso è infondato.
5. Con le tre doglianze di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittima approvazione del P.G.T. in considerazione delle rilevanti modificazioni intervenute nel corso del procedimento, che avrebbero imposto la ripubblicazione del Piano adottato, unitamente alla penalizzazione riservata all’attività di allevamento suinicolo svolta dai ricorrenti, attraverso una modificazione della destinazione urbanistica che non avrebbe tenuto conto delle preesistenze, legate alla vocazione storica del compendio, denominato “Podere Grande Foreste”, sito in località Triulza.
5.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
Quanto alla necessità di una ripubblicazione del Piano, legata ad un asserito stravolgimento dello stesso in fase di approvazione, va sottolineato, in primo luogo, che i ricorrenti non hanno dimostrato né l’entità (al di là della mera indicazione dei numeri delle osservazioni accolte e respinte), né l’impatto dei mutamenti, tali da richiedere il predetto obbligo di ripubblicazione.
Inoltre, sebbene, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporti la necessità della sua ripubblicazione, va tuttavia osservato che ricorre una tale ipotesi allorquando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del Piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 19.07.2018, n. 1768).
Con riferimento ai piani urbanistici dei Comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; 30.07.2012, n. 4321; 27.12.2011, n. 6865).
In tali casi trova applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”. Va, poi, osservato che nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni (TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 564; 15.12.2017, n. 2393) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.08.2018 n. 1945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Collegio deve rammentare che la possibilità di introdurre d’ufficio modifiche al piano regolatore generale, da parte della Autorità preposta alla approvazione definitiva di esso, era ed è ancor oggi previsto, in via generale, dall’art. 10 della L. 1150/1942.
La ricordata norma, nella interpretazione che ne dà la giurisprudenza, comporta che l’Autorità competente per la approvazione dello strumento urbanistico generale –nel caso di specie ed all’epoca dei fatti: la Regione– può introdurre d’ufficio tutte le modifiche indicate alle lett. a), b), c) e d), dell’art. 10 comma 2, L. 1150/1942, a prescindere dalla portata di esse e dalla loro idoneità ad alterare le caratteristiche generali ed i criteri di impostazione del Piano.
Tali modifiche, tra l’altro, non abbisognano di una particolare e diffusa motivazione.
E’ stato inoltre affermato “con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, che occorre distinguere le modifiche “
obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standards urbanistici minimi) da quelle “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre, infatti, per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “
obbligatorie” non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame”.

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12. Il ricorso non può essere accolto.
13. In via preliminare e di diritto il Collegio deve rammentare che la possibilità di introdurre d’ufficio modifiche al piano regolatore generale, da parte della Autorità preposta alla approvazione definitiva di esso, era ed è ancor oggi previsto, in via generale, dall’art. 10 della L. 1150/1942, il quale, ai comma 2, 3 e 4, stabilisce quanto segue: “Con lo stesso decreto di approvazione possono essere apportate al piano, su parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici e sentito il Comune, le modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, tali cioè da mutare le caratteristiche essenziali del piano stesso ed i criteri di impostazione, le modifiche conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate con deliberazione del Consiglio comunale, nonché quelle che siano riconosciute indispensabili per assicurare:
   a) il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento a norma dell'articolo 6, secondo comma;
   b) la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato;
   c) la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici;
   d) l'osservanza dei limiti di cui agli articoli 41-quinquies, sesto e ottavo comma e 41-sexies della presente legge.
Le modifiche di cui alla lettera c) sono approvate sentito il Ministro per la pubblica istruzione, che può anche dettare prescrizioni particolari per singoli immobili di interesse storico-artistico. Le proposte di modifica, di cui al secondo comma, ad eccezione di quelle riguardanti le osservazioni presentate al piano, sono comunicate al Comune, il quale entro novanta giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale che, previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è trasmessa al Ministero dei lavori pubblici nei successivi quindici giorni
”.
13.1. La ricordata norma nella interpretazione che ne dà la giurisprudenza comporta che l’Autorità competente per la approvazione dello strumento urbanistico generale –nel caso di specie ed all’epoca dei fatti: la Regione– può introdurre d’ufficio tutte le modifiche indicate alle lett. a), b), c) e d), dell’art. 10 comma 2, L. 1150/1942, a prescindere dalla portata di esse e dalla loro idoneità ad alterare le caratteristiche generali ed i criteri di impostazione del Piano (sul punto si vedano, ad esempio, le pronunce del Consiglio di Stato sez. IV, 19/01/2000, n. 245 e sez. IV, 19/07/2004, n. 5207; sez. IV, 30/09/2002, n. 4984).
Tali modifiche, tra l’altro, non abbisognano di una particolare e diffusa motivazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/01/2000, n. 245; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 07/01/2010, n. 80).
E’ stato inoltre affermato “con specifico riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte dalla Regione al momento dell’approvazione, che occorre distinguere le modifiche “obbligatorie” (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali e archeologici, l’adozione di standards urbanistici minimi) da quelle “facoltative” (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle “concordate” (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dal Comune).
Mentre, infatti, per le modifiche “facoltative” e “concordate”, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del Comune, diversamente, per le modifiche “
obbligatorie” non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale, come risulta essersi verificato nella fattispecie in esame.” (C.d.S. Sez. IV n. 2029 del 15.04.2013) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.07.2018 n. 871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Modifiche al PGT in sede di accoglimento delle osservazioni e obblighi di ripubblicazione del PGT.
Pur interpretando restrittivamente il disposto di cui all’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005, che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali, laddove ci si trovi, in sede di approvazione, al cospetto di una rielaborazione complessiva del piano, discendente dall’introduzione di modifiche non riguardanti la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, ma riferibili all’intero territorio comunale, risulta necessario procedere ad una ripubblicazione dello stesso al fine di consentire ai soggetti pregiudicati dalle modifiche e anche agli Enti sovraordinati di poter fornire il loro rinnovato apporto procedimentale.
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Lo stravolgimento delle linee portanti del Piano avrebbe reso necessaria anche la reiterazione del procedimento di V.A.S. (valutazione ambientale strategica).
Difatti, considerato che la finalità della predetta valutazione ambientale è quella di stabilire l’impatto sull’ambiente di piani e programmi, l’obbligo di ripetere la V.A.S. si rende necessario allorquando si prospettano modificazioni, apportate allo strumento adottato, tali da determinare un maggior impatto sull’ambiente delle scelte di Piano, trattandosi di misure destinate a rendere meno efficace la tutela ambientale prevista nel Piano originariamente adottato.
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4. Con la seconda doglianza si assume l’illegittimità del P.G.T., in quanto il numero di osservazioni accolte avrebbe snaturato le originarie linee guida poste alle base dello stesso e avrebbe di conseguenza richiesto la rinnovazione della fase di pubblicazione e l’effettuazione di un nuovo procedimento di valutazione ambientale strategica (V.A.S.).
4.1. La doglianza è fondata.
Le parti ricorrenti hanno affermato –rinviando all’allegato X alla delibera di approvazione del P.G.T. (all. 4 al ricorso)– che in sede di esame delle osservazioni e controdeduzioni sono state accolte numerose osservazioni (63 su 161 totali) che hanno determinato un aumento del consumo di suolo e del carico insediativo, con una sensibile riduzione degli spazi a servizi previsti dal Piano dei Servizi (oltre 9.300 mq). Tale circostanza non è stata efficacemente smentita dalla difesa comunale e quindi, anche ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., la stessa può essere posta a fondamento della decisione.
Tra le osservazioni accolte vi è anche quella che ha stabilito l’equiparazione dell’attività agricola alle altre attività produttive, attraverso una modifica dell’art. 29, comma 1, delle N.t.A. del Piano delle Regole, che tuttavia appare in contrasto con l’art. 59, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 che consente, nelle aree destinate all’agricoltura, esclusivamente la presenza di “opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive necessarie per lo svolgimento delle attività di cui all’articolo 2135 del codice civile” e non anche di interventi costruttivi correlati a funzioni differenti rispetto a quelle legate allo svolgimento di attività di natura agricola. Sempre in sede di esame delle osservazioni è stata accolta anche la richiesta di eliminazione del divieto di insediare i nuovi allevamenti zootecnici a meno di cento metri dagli edifici extra agricoli o dalle strutture agrituristiche (art. 29, comma 6, delle N.t.A. del Piano delle Regole), con gravi ripercussioni sull’igiene e la qualità degli insediamenti di natura residenziale.
Tali penetranti modifiche dei principi ispiratori e delle linee portanti del Piano adottato avrebbero imposto la ripubblicazione dello stesso, atteso che le modifiche introdotte hanno comportato uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, che ne hanno alterato l’impianto originario (cfr. Consiglio di Stato, IV, 14.03.2018, n. 1614); del resto, pur interpretando restrittivamente il disposto di cui all’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005, che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”, laddove ci si trovi, in sede di approvazione, al cospetto di una rielaborazione complessiva del Piano, discendente dall’introduzione di modifiche non riguardanti la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree, ma riferibili all’intero territorio comunale, risulta necessario procedere ad una ripubblicazione dello stesso al fine di consentire ai soggetti pregiudicati dalle modifiche e anche agli Enti sovraordinati di poter fornire il loro rinnovato apporto procedimentale (cfr. Consiglio di Stato, IV, 04.12.2013, n. 5769; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 564).
4.2. Lo stravolgimento delle linee portanti del Piano avrebbe reso necessaria anche la reiterazione del procedimento di V.A.S. (valutazione ambientale strategica).
Difatti, considerato che la finalità della predetta valutazione ambientale è quella di stabilire l’impatto sull’ambiente di piani e programmi, l’obbligo di ripetere la V.A.S. si rende necessario allorquando si prospettano modificazioni, apportate allo strumento adottato, tali da determinare un maggior impatto sull’ambiente delle scelte di Piano, trattandosi di misure destinate a rendere meno efficace la tutela ambientale prevista nel Piano originariamente adottato (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.10.2016, n. 1808; più in generale, sull’obbligo di effettuare la V.A.S. anche in caso di varianti agli strumenti urbanistici, Corte costituzionale, sentenza n. 197 dell’11.07.2014).
Certamente nella fattispecie de qua le osservazioni accolte successivamente all’adozione del Piano hanno incrementato in misura significativa il carico urbanistico e in generale il peso insediativo degli interventi edilizi, determinando un peggioramento delle condizioni ambientali complessive in tutto il territorio comunale, peraltro classificato quale zona di preservazione e salvaguardia ambientale.
4.3. Pertanto, anche la seconda censura di ricorso deve essere accolta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'iter di formazione dei piani regolatori deve essere interpretato alla luce del principio generale del "non aggravamento" che discende dalla legge 07.08.1990, n. 241.
Più specificamente, una ripubblicazione del piano regolatore generale è necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree; ciò che nella specie non è dato riscontrare, perché dall’accoglimento dell’osservazione dell’u.t.c. è discesa una variazione solo marginale del piano.
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6. La C.E.A. ha interposto appello avverso la sentenza n. 493/2017 formulando assieme anche una domanda cautelare, con la quale ne ha chiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva assieme a quella del provvedimento impugnato in primo grado.
7. La società ha denunciato gli asseriti errori della sentenza gravata con sei motivi di doglianza:
   a) l’art. 13 delle N.T.A. al P.R.G., recante la disciplina urbanistica degli immobili ricompresi nella zona di completamento B1, non conterrebbe alcun riferimento a un vincolo di facciata, previsto per la sola zona A2 dall’art. 10, e più specificamente:
         I) la tesi comunale, secondo cui il vincolo discenderebbe dall’accoglimento dell’osservazione n. 79/11, proposta nel corso della procedura di approvazione del P.R.G., non sarebbe sostenibile, in quanto la modifica non sarebbe mai stata trasfusa all’interno delle N.T.A., come approvate e pubblicate;
         II) il P.R.G. modificato non sarebbe stato ripubblicato, laddove, pronunziandosi proprio in tema di normativa urbanistica pugliese, questo Consiglio di Stato avrebbe ricompreso nell’obbligo di ripubblicazione le modifiche concordate (cioè conseguenti a osservazioni presentate al piano adottato e accettate dall’ente) quando superino -come sarebbe nel caso di specie- il limite di rispetto dei canoni guida dello strumento urbanistico in itinere e la stessa Regione Puglia, in sede di approvazione definitiva del P.R.G., avrebbe chiesto l’adozione di testi e planimetrie coordinati con la delibera integrativa, ponendo un obbligo mai ottemperato;
         III) non varrebbe il riferimento al “tratto/striscia continua in neretto” contenuta nella tavola 6 del piano, in quanto, per costante giurisprudenza, le prescrizioni normative, in caso di contrasto, dovrebbero prevalere sulle indicazioni grafiche del piano regolatore;
   b) sull’immobile non sussisterebbe il vincolo che impedirebbe l’intervento a norma dell’art. 6 del piano casa, mancando l’apposizione da parte dell’autorità statale o regionale; lo stesso P.R.G. si limiterebbe a introdurre una prescrizione urbanistico-edilizia, riferita a una sola delle facciate dell’immobile (quella su via Lettieri) e intesa a disciplinare in concreto l’attività di edificazione;
   c) la delibera n. 2 del 27.01.2012 del commissario straordinario, assunta con i poteri del Consiglio comunale, che ha introdotto all’art. 13 delle N.T.A. una deroga alle altezze stabilite dal P.R.G. e consentito interventi di demolizione e ricostruzione ex lege n. 14/2009, sarebbe efficace per tutto il tessuto edilizio della zona B1; ritenendone esclusi gli edifici ricompresi all’interno della striscia continua di cui alla tavola 6 del P.R.G. e interessati al divieto di modifica di facciata, il Tribunale territoriale avrebbe compiuto una sorta di interpretatio abrogans; negando il permesso, il Comune avrebbe arbitrariamente trasformato una prescrizione riguardante la sola facciata, pienamente rispettata dal progettista, in un vincolo panoramico sull’intero immobile, mentre gli artt. 10 e 13 delle N.T.A. -diversamente da quanto detto nel provvedimento impugnato- non imporrebbero nessun vincolo relativo allo skyline;
   d) sarebbe tempestiva la censura del combinato disposto degli artt. 10 e 13 delle N.T.A., prescrizioni di natura regolamentare suscettibili di essere impugnate insieme con l’atto applicativo; la diretta imposizione del c.d. vincolo di facciata esorbiterebbe dai poteri comunali e sarebbe viziata da difetto di istruttoria e di motivazione;
   e) nessuna disposizione delle N.T.A. contemplerebbe la previa redazione di un piano particolareggiato per gli interventi da eseguirsi nel tessuto edilizio delle zone B1;
   f) in mancanza di un vero e proprio vincolo, si sarebbe formato il silenzio-assenso ex art. 20, comma 8, t.u.; questo non potrebbe essere impedito dalla eventuale insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda, fermo restando l’eventuale esercizio, nel rispetto delle condizioni di legge, dei poteri di autotutela dell’Amministrazione.
...
12. Il primo motivo -con cui la C.E.A. contesta la sussistenza in zona B1, in cui si trova l’immobile oggetto dell’intervento, del c.d. vincolo di facciata- costituisce il nucleo essenziale del gravame.
12.1. Il motivo si colloca al limite della inammissibilità per contrasto con il divieto di venire contra factum proprium, posto che l’appello, come prima il ricorso introduttivo del precedente grado di giudizio, omette totalmente di considerare che la relazione tecnica descrittiva, allegata alla richiesta del permesso di costruire, dichiarava che “il prospetto su via M. Lettieri è interessato da vincolo di facciata come attestato dalla ATTESTAZIONE URBANISTICA n. 7393 del 05.03.2013” e che in data 04.09.2015 la società ne aveva chiesto l’eliminazione, riconoscendone con ciò l’esistenza.
12.2. In disparte tale questione, che pure sarebbe dirimente e rilevabile d’ufficio, il motivo è comunque infondato in quanto:
   a) nel corso del procedimento di approvazione del P.R.G., l’ufficio tecnico comunale ha segnalato la discrasia data da ciò, che mentre la tavola n. 6 indicava con una “striscia continua” gli edifici, ricadenti sia nella zona A2 che in quella B1, vincolati al mantenimento delle facciate negli aspetti architettonici e coloristici, salva motivata variazione in sede di piano particolareggiato, la relativa disciplina era poi richiamata solo per le prime dall’art. 10 delle N.T.A., non anche per le seconde dall’art. 13 (osservazione n. 79/11 del 31.03.1990);
   b) l’osservazione è stata accolta dal commissario ad acta con deliberazione n. 1 del 25.01.1991;
   c) il P.R.G., con tale osservazione fra le altre, è stato approvato dalla Regione con le delibere di Giunta n. 250 del 10.03.1993 e, in via definitiva, n. 3515 del 20.06.1994;
   d) tale ultima delibera ha espressamente rinviato alla fase attuativa del piano l’eventuale coordinamento delle planimetrie, del R.E. e delle N.T.A., considerando tale adempimento solo ricognitivo e rappresentativo delle determinazioni regionali e comunque non impeditivo della definitiva approvazione e attuazione del piano;
   e) non vi era alcun obbligo di ripubblicazione del P.R.G. nella sua versione definitiva, perché tale fase non è conosciuta dalla pertinente normativa regionale e non può farsi discendere dall’indirizzo giurisprudenziale, consolidato e del tutto condivisibile, secondo cui l'iter di formazione dei piani regolatori deve essere interpretato alla luce del principio generale del "non aggravamento" che discende dalla legge 07.08.1990, n. 241 (Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010, n. 4546);
   f) più specificamente, una ripubblicazione del piano regolatore generale è necessaria solo in caso di modifiche che comportino uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Cons. Stato, sez. IV, 17.11.1984 n. 865; sez. IV, 05.09.2003 n. 4984; sez. IV, 27.12.2011 n. 6865; sez. IV 30.07.2012, n. 4321; sez. IV, 04.12.2013, n. 5769; va nello stesso senso sez. IV, 10.03.2008, n. 1516, citata dalla società appellante); ciò che nella specie non è dato riscontrare, perché dall’accoglimento dell’osservazione dell’u.t.c. è discesa una variazione solo marginale del piano;
   g) la delibera di Giunta n. 3515/1994 ha avuto peraltro adeguata pubblicità con la pubblicazione sul B.U.R.;
   h) ricostruita la vicenda nei termini sopra esposti, non vi è alcun contrasto, ma semmai corretta integrazione, fra prescrizioni normative e indicazioni grafiche del piano;
   i) in definitiva, operando con le legittime modalità di cui si è detto, l’Amministrazione ha proceduto a una microzonizzazione, cioè all’individuazione di una sottozona con caratteristiche peculiari nell’ambito di quelle previamente individuate, a tal fine uniformemente disciplinata; il che le è consentito (Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 846) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.04.2018 n. 2513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Circa la necessità, o meno, di una ripubblicazione del PUG dopo l’approvazione.
Quanto all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le
   - modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi ed in genere l'osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da
   - quelle facoltative (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da
   - quelle concordate.
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento provinciale o regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed approvazione del P.R.G.".
...
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato.
In altre parole, solo nell'ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.

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5 - Passando, invece, allo scrutinio del primo motivo di ricorso (incentrato sulla violazione del principio di partecipazione ex art. 11 l.r. 20/2001), si osserva in primo luogo che dalla piana lettura del verbale della conferenza di servizi seguita alla attestazione di non compatibilità con il DRAG (doc. 1 prod. Comune del 13/10/2017 e doc. 2 prod. ric. del 05/10/2017), emerge che l’AP.TAP-14 di via Moscatelli è un’area sottoposta a vincolo archeologico la cui specificità giustifica la previsione di una disciplina autonoma rispetto a quella degli altri AP.TAP e segnatamente, tenuto conto dell’accoglimento dell’osservazione n. 57, il riconoscimento di un “ristoro volumetrico” pari a 3mc/mq invece di 0,4 mc/mq (previsto in generale dall’A.C. nel verbale della conferenza di servizi del 02.09.2013 con riferimento ai contesti AP.AS/R).
Dal verbale non si ricava, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, nessuna espressa previsione relativa alla possibilità di edificazione in situ che non risulterebbe “riprodotta” in sede di approvazione. Di conseguenza, non pertinenti rispetto alla fattispecie risultano il contestato complessivo mutamento, ad opera del PUG approvato, della portata delle determinazioni assunte in conferenza di servizi e la dedotta necessità di una ripubblicazione del PUG dopo l’approvazione (cfr. pag. 10 dell’atto introduttivo), considerato che:
   - “quanto all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, l'adozione di standard urbanistici minimi ed in genere l'osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da quelle facoltative (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle concordate.
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell'intervento provinciale o regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed approvazione del P.R.G.
" (Cons. St., sez. IV, 25.11.2003 n. 7782; id., sez. VI, 23.09.2009 n. 5671; TAR Napoli, sez. I, 11.03.2015 n. 1510, id. sez. VIII, 07.03.2013 n. 12879);
   - “un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato (TAR Campania Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510); in altre parole, solo nell'ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, quand'anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769)” (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 29 del 09.01.2017).
Nessuna delle condizioni comportanti l’obbligo di ripubblicazione del piano si è in concreto verificata nel caso di specie
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 07.12.2017 n. 1262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una <rielaborazione complessiva> del piano stesso, e cioè un <mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione>.
In particolare il CdS ha affermato che “la massima partecipazione dei cittadini è assicurata in tutte le fasi procedimentali e costituirebbe un indebito appesantimento della procedura prevedere un nuovo incombente riposante nella ripubblicazione (e conseguente riapertura della fase di presentazione delle osservazioni, etc.) laddove la legge medesima non l’abbia affatto previsto”.
Invero, un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato; solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una <rielaborazione complessivamente innovativa> del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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La tesi non può essere condivisa.
L’iter di formazione dello strumento urbanistico è stato concepito dal legislatore regionale (con la LR 11/1998) in modo “frammentato” e “complesso” fra più enti (Comune e Regione), cioè con la collaborazione ed il coordinamento fra diverse competenze settoriali.
Le norme (in particolare l’articolo 15) hanno assegnato specifiche e diversificate competenze ai due enti. Competenze che implicano l’espletamento di attività istruttorie autonome, di diverso livello specialistico, con l’ausilio di plurime strutture regionali, nonché della generale Conferenza di pianificazione in un contesto di “globale” analisi degli interessi.
Il tutto finalizzato alla redazione di un provvedimento “complesso” e articolato, alla conclusione dello svolgimento di segmenti procedimentali distinti, in modo da consentire la valutazione complessiva degli interessi generali che debbono essere analizzati e valutati “a livello sovracomunale”, in quanto, coinvolgenti una serie di aspetti direttamente connessi alla pianificazione nei suoi diversi aspetti (urbanizzazione, viabilità, valorizzazione,……), necessariamente da coordinare.
La funzione fondamentale, e di base, è stata attribuita al Consiglio comunale, il quale, con la redazione iniziale della “bozza” (nel caso di specie risalente al 2013), manifesta l’impulso e attiva il procedimento regionale di verifica, definendone i contenuti principali.
Alla luce dei (primi) suggerimenti regionali il Comune provvede alla redazione della variante di Piano, che viene pubblicata (questa è pubblicazione obbligatoria) per l’acquisizione delle osservazioni da parte dei cittadini.
Il Comune dopo aver analizzato le osservazioni (con decisioni diversificate), ed apportato eventuali modifiche,“adotta” il testo del piano-variante, testo che non richiede nuova ripubblicazione, salvo che con le modifiche inserite a seguito dalle osservazioni siano state apportate variazioni sostanziali.
Il testo definitivo adottato viene trasmesso alla Regione per l’effettuazione, nel dettaglio, delle analisi di competenza, con l’ausilio della Conferenza di Pianificazione, come prevede espressamente l’articolo 15 della legge regionale 11/1998.
Nel caso di specie la Regione ha svolto il procedimento di propria competenza, approfondendo la verifica delle previsioni comunali, analizzando la pluralità di profili coinvolti, addivenendo alla propria proposta.
Dunque nell’ambito del rapporto Regione-Comune l’articolo 15 della legge regionale 11/1998, al comma 12, offre alla Giunta regionale la triplice possibilità, in quanto:
La Giunta regionale, sulla scorta delle valutazioni conclusive operate dalla Conferenza di pianificazione e sentite le valutazioni del Sindaco del Comune interessato, con propria deliberazione:
   a) approva la variante sostanziale;
   b) non approva la variante sostanziale;
   c) propone al Comune delle modificazioni
.”
E nel caso di specie la Giunta regionale aveva condiviso le richieste formulate dalla Conferenza di pianificazione, stilando le <proposte di modificazione da sottoporre al Comune> ai fini dell’approvazione della variante sostanziale generale al PRG deliberate 18.03.2016 con deliberazione 362.
Per quanto qui interessa (aree di proprietà dei ricorrenti) la proposta di variazione è stata così articolata:
   * lo stralcio dell’area Cc001 (posta a monte della strada,) con soppressione delle relative capacità edificatorie e con attribuzione della destinazione agricola E;
   * la modifica dell’area Cd003 a Ce (posta a valle della strada);
   * l’introduzione di una rotatoria che fraziona i terreni dei ricorrenti (e con previsione di esproprio).
Il Comune, a fronte delle modifiche regionali proposte, era libero di recepirle o meno.
Posto che la norma sul punto, articolo 15, comma 13, dispone che: “Nel caso di proposte di modificazione da parte della Giunta regionale, il Comune può disporne l'accoglimento, che comporta l'approvazione definitiva delle varianti sostanziali, oppure presentare proprie controdeduzioni su cui la Giunta stessa, sentito il parere della conferenza di pianificazione, deve pronunciarsi in via definitiva entro novanta giorni dal loro ricevimento. La variante sostanziale assume efficacia con la pubblicazione.”
In sostanza il Comune poteva valutare se far proprie (o meno) le proposte di modifica indicate dalla Giunta regionale. Essendo ammessa, in alternativa, la facoltà, consentita espressamente dalla legge, di instaurare un nuovo contraddittorio con la Giunta, con la redazione e formulazione di nuove controdeduzioni comunali, motivate, in opposizione alle proposte regionali.
A conclusione dell’articolato procedimento il Consiglio comunale, con deliberazione 82 dell’08.07.2016, <recepiva integralmente> le proposte di modificazione avanzate dalla Giunta regionale, approvando definitivamente la variante di piano.
Dunque nel caso di specie il Comune ha ritenuto di <adeguarsi> alle modifiche regionali, motivate, proposte nel corso dell’articolato procedimento. Nell’ambito del quale il Comune stesso era stato coinvolto, essendo prevista la partecipazione alla Conferenza di pianificazione del Sindaco.
L’ente locale ha aderito alle variazioni suggerite ed apportate dalla Regione, che erano state poste all’attenzione del Comune, decidendo di concludere l’iter procedimentale (senza instaurare ulteriori contraddittorio con la Regione), provvedendo all’<approvazione> finale e definitiva dello strumento urbanistico.
Il Piano-variante che è scaturito, a conclusione del procedimento, rappresenta un provvedimento “complesso” avente, in sostanza, contenuti elaborati, in parte, a livello comunale ed, in parte, delineati dalla Regione e condivisi dall’ente locale. Le norme regionali prevedono, infatti, un peculiare sviluppo dell’iter di formazione dello strumento urbanistico.
E la “pubblicazione” è stata prevista, con l’articolo 15, 8° comma, LR 11/1998, solo per la versione del piano “adottata”: “La variante sostanziale <adottata è pubblicata> mediante deposito in pubblica visione dei relativi atti presso il Comune interessato per quarantacinque giorni consecutivi; dell'avvenuta adozione è data tempestiva informazione tramite comunicato inviato agli organi di informazione a carattere regionale o locale. Chiunque ha facoltà di produrre osservazioni, nel pubblico interesse, fino allo scadere del termine predetto”.
Non è stata stabilita, invece, la necessità di analoga “ripubblicazione” della versione che risulta “integrata” con le proposte di modifica regionali (e neppure, peraltro, di quella adottata a seguito di modifiche apportate per l’accoglimento di osservazioni dei cittadini). Al fine di evitare un appesantimento procedimentale ed una “navetta” persistente e cronicizzata. Salvo un limite di <peso qualitativo>: solo qualora le indicazioni regionali implichino una modifica sostanziale nelle “impostazioni di piano”, allora sussiste la necessità di “ripubblicare” lo strumento, al fine di consentire la formulazione di nuove osservazioni da parte dei privati interessati e coinvolti e dello stesso ente locale.
Si tenga conto che, analogamente, l’articolo 15, comma 9, della LR 11/1998 non prevede la “ripubblicazione” in caso di accoglimento di singole osservazioni dei cittadini che non determinino modifiche all’impostazione generale del piano. Così come l’implementazione nelle previsioni, con modifiche “ordinarie” e limitate, compiuta dalla Regione non impone la “ripubblicazione” dello strumento urbanistico, salvo che queste non rivestano carattere di varianti sostanziali.
Il comma 10 dell’articolo 15 prevede l’efficacia della variante con la pubblicazione della dichiarazione del segretario comunale che attesta l’avvenuto “accoglimento” da parte del Consiglio comunale delle <proposte di modificazione> della Giunta regionale. Dunque l’impianto legislativo valdostano non ha previsto l’obbligo di espletamento di una ulteriore, peculiare ed autonoma fase intra-procedimentale, con “ripubblicazione” tra adozione e recepimento delle modifiche stimolate dalla giunta regionale.
L’approvazione-adesione comunale non implicava, dunque, il previo dovere di procedere ad un ulteriore segmento partecipativo diretto ad acquisire nuove osservazioni da parte dei soggetti interessati incisi (dalle variazioni regionali). Essenzialmente solo in caso di intervento sostanziale sul piano-variante è necessaria la ripubblicazione da parte del Comune del deciso “adeguamento”.
Nel caso di specie le modifiche delle destinazioni impresse dalla Regione non erano tali da determinare uno stravolgimento generale del contenuto e dei principi fondamentali dello strumento urbanistico locale. Nel caso di specie le modifiche contestate non hanno determinato un impatto sostanziale e globale sullo strumento pianificatorio.
In materia si richiamano i precedenti giurisprudenziali Tar Valle d’Aosta 34 dell’11/07/2016; TRGA – Trento n. 182 del 05/05/2015; Consiglio di Stato sezione IV n. 1241 del 13/03/2014; Tar Lombardia, Brescia, 29 del 09/01/2017, ove si afferma che "costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui si rende necessaria la ripubblicazione del piano solo quando, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dopo l’adozione, vi sia stata una <rielaborazione complessiva> del piano stesso, e cioè un <mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedono alla sua impostazione> (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21.09.2011, n. 5343; id., 26.04.2006 n. 2297; id., 31.01.2005, n. 259; id., 10.08.2004, n. 5492)”.
In particolare il CdS ha affermato che “la massima partecipazione dei cittadini è assicurata in tutte le fasi procedimentali e costituirebbe un indebito appesantimento della procedura prevedere un nuovo incombente riposante nella ripubblicazione (e conseguente riapertura della fase di presentazione delle osservazioni, etc.) laddove la legge medesima non l’abbia affatto previsto” (così n. 1241/2014).
In quel caso (LR Puglia) è stato ritenuto che “la Conferenza di Servizi era destinata a <sanare> il disaccordo tra Regione e Comune e ad evitare la <navetta> discendente della possibilità che il Comune a propria volta controdeduca alla Regione: con detta fase si conclude l’iter formativo, e non v’è luogo ad ulteriori interventi dei privati”.
Dunque il preteso obbligo di ripubblicazione non sussiste.
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato; solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una <rielaborazione complessivamente innovativa> del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri di impostazione (TAR Campania, Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510 e sez. VIII, 07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
In conclusione la censura va respinta in quanto le proposte di modificazione formulate dalla Giunta regionale, recepite dal Comune, non hanno determinato modifiche che attengono all’impostazione generale del PRG.
L’accoglimento delle osservazioni (del privato o le modifiche introdotte in sede di approvazione regionale) non determinavano la necessità di ripubblicazione. Oltretutto le proposte della Giunta regionale, recepite con la deliberazione del Consiglio comunale 82/2016 riaffermano i contenuti già in precedenza proposti in relazione alla “bozza” della variante. E le proposte di modifica non sono qualificabili come varianti rilevanti, per oggetto il contenuto, e qualificabili come rientranti nelle ipotesi previste all’articolo 14, comma 2.
Le variazioni introdotte mirano a conservare la zona territoriale di tipo E (cioè la destinazione originaria previgente) al fine di evitare nuove edificazioni, ritenute incompatibili ad una lettura complessiva degli interessi sottesi da tutelare (TRGA Valle d'Aosta, sentenza 27.10.2017 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L’obbligo di ripubblicazione del piano riguarda non la modifica, anche sostanziale, riferita alla singola norma di attuazione o alla disciplina settoriale di aspetti del territorio, ma i casi in cui vi sia un sovvertimento dei criteri di impostazione dello strumento pianificatorio, ovvero delle sue fondamentali linee di indirizzo.
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E’ ben noto che la giurisprudenza amministrativa ha più volte precisato che l’obbligo di rinnovare la pubblicazione ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento di pianificazione territoriale comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni che ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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1. Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
Il Collegio ha già avuto modo di pronunciarsi con plurime sentenze su analoghi ricorsi dalle cui conclusioni non si ravvisano motivi per discostarsi (cfr. sentenze n. 945/2017; n. 1018/2017; n. 1019/2017).
2. Con il primo motivo la ricorrente lamenta che le modifiche apportate al PIT (Piano di Indirizzo Territoriale) successivamente alla sua adozione ne avrebbero resa necessaria la ripubblicazione, quantomeno in parte qua, onde consentire agli interessati la riproposizione di osservazioni.
Le modifiche –non obbligatorie, e peggiorative– riguarderebbero fra l’altro la riscrittura della disciplina dei beni paesaggistici di cui all’elaborato 8B del PIT con riferimento alle cave poste al di sopra dei 1.200 metri s.l.m. per le quali sarebbe prevista la dismissione al termine del progetto di coltivazione, cui potrebbe seguire al più la proposta di un piano di recupero e riqualificazione paesaggistica da realizzarsi in sei anni.
Anche la disciplina dei piani di bacino sarebbe stata pesantemente rimodulata in sede di approvazione del PIT, il cui Allegato n. 5 ora prevede che, in assenza dei piani attuativi di bacino, e comunque entro tre anni, siano consentiti per una sola volta interventi di ampliamento non superiori al 30% del volume consentito dalle autorizzazioni in essere.
I significativi cambiamenti introdotti con la delibera di approvazione del PIT neppure potrebbero dirsi correlati all’accoglimento di osservazioni, stante il loro contenuto deteriore rispetto alla disciplina adottata.
2.1. La censura è infondata.
L’obbligo di ripubblicazione del piano riguarda non la modifica, anche sostanziale, riferita alla singola norma di attuazione o alla disciplina settoriale di aspetti del territorio, ma i casi in cui vi sia un sovvertimento dei criteri di impostazione dello strumento pianificatorio, ovvero delle sue fondamentali linee di indirizzo.
Nella fattispecie in esame, i canoni guida del PIT deliberati in sede di adozione non sono mutati: rilevano, sia in fase di adozione che in fase di approvazione, l’originario disegno di tutela paesaggistica e ambientale delle Alpi Apuane, la finalità di contemperare le esigenze privatistiche dell’attività di cava con la salvaguardia ambientale, il riferimento al principio dello sviluppo sostenibile, un rigido regime di prescrizioni d’uso e limitazioni.
In fase di approvazione sono stati introdotti nuovi passaggi procedurali a controllo della compatibilità paesaggistica, sono state introdotte integrazioni che non modificano i criteri di impostazione del piano, all’esito di osservazioni delle imprese interessate o dei Comuni, sono stati introdotti aspetti innovativi di dettaglio (ad esempio, la limitazione dei depositi provvisori e il divieto di realizzare nuove discariche di cava di cui all’Allegato n. 5, co. 1, lett. b), e co. 6), riconducibili comunque alle finalità di tutela già perseguite in fase di adozione, sono state approvate specificazioni di elementi già presenti nel testo adottato; ma non per questo è venuta meno, nel passaggio dal momento dell’adozione a quello dell’approvazione, la continuità dei criteri di fondo del piano, che sola avrebbe imposto la ripubblicazione (TAR Toscana, sez. I, n. 944/2017).
2.2. E’ del resto ben noto che la giurisprudenza amministrativa ha più volte precisato che l’obbligo di rinnovare la pubblicazione ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento di pianificazione territoriale comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni che ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 847; id., 04.12.2013, n. 5769, e gli altri precedenti ivi richiamati) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.10.2017 n. 1157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo l’indirizzo ormai prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la ripubblicazione del piano risulta essere necessaria solo nel caso vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
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3. Con il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, riproposto con il ricorso per motivi aggiunti, viene dedotta violazione dell’art. 9 della Legge n. 1150/1942, poiché il Comune non si è limitato a respingere l’osservazione del ricorrente, ma ha impresso all’area una nuova e definitiva destinazione (zona TRP) rispetto a quella impressa in sede di adozione (zona V) e che riproponeva il vincolo preesistente da quasi vent’anni per la realizzazione di un parco urbano. Di conseguenza il PRG avrebbe dovuto essere ripubblicato affinché il ricorrente potesse presentare osservazioni contro la nuova destinazione urbanistica.
La censura è infondata.
Sul punto va ricordato che, secondo l’indirizzo ormai prevalente nella giurisprudenza amministrativa, la ripubblicazione del piano risulta essere necessaria solo nel caso vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14.04.2016 n. 1516; Sez. IV, 12.03.2009 n. 1477; id. 05.11.2003 n. 7782; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13.04.2017 n. 856; id. 25.05.2012 n. 1440; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.01.2017 n. 29; TAR Toscana, Sez. I, 22.12.2016 n. 1839; id. 12.12.2016 n. 1768; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 11.11.2014 nn. 2771-2275; TAR Veneto, Sez. II, 22.05.2013 n. 728; TAR Marche, 16.07.2010 n. 3114; id. 30.06.2010 n. 2818; id. 04.05.2010 n. 212) (TAR Marche, sentenza 17.05.2017 n. 368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nella interpretazione dell’art. 10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il giusto procedimento di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
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Quanto al primo motivo, è persuasiva la difesa del Comune di Codogno, il quale ha richiamato la piana disciplina di cui all’art. 10, comma 4, della legge 1150/1942 (“le proposte di modifica, di cui al secondo comma, ad eccezione di quelle riguardanti le osservazioni presentate al piano, sono comunicate al Comune, il quale entro novanta giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale, che previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è trasmessa al Ministero dei lavori pubblici nei successivi quindici giorni”).
Sul punto, va ricordato che “nella interpretazione dell’art. 10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il giusto procedimento di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono” (cfr., fra le tante, Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; id., sez. IV, 25.11.2003, n. 7782; TAR Lombardia–Milano, 25.05.2012, n. 1440).
Un mutamento che, nella specie, non può ritenersi sostanziato per effetto della mera presentazione di osservazioni, essendo rimaste ferme le linee generali della pianificazione (soprattutto, per quel che più interessa, per l’area controversa) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.04.2017 n. 856 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l’asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di dettaglio che ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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Con il primo motivo si deduce la violazione del principio del contraddittorio e del giusto procedimento giacché, avendo l’amministrazione accolto un’osservazione comportante la modifica della destinazione urbanistica di un’area di proprietà di soggetti terzi, la stessa sarebbe tenuta a fornire idonea comunicazione ai soggetti proprietari dell'area incisa in maniera diretta dalla modificazione, mediante ripubblicazione del P.R.G. nella parte risultata modificata o a darne quanto meno comunicazione agli interessati, per consentire loro di presentare memorie e osservazioni di merito.
III.1 L’assunto non può essere condiviso.
Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l’asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02. 2016, n. 847; id., 04.12.2013, n. 5769).
D’altro canto il terreno di proprietà delle ricorrenti era privo di vocazione edificatoria e, dunque, le interessate non potevano vantare alcuna aspettativa qualificata in ordine alla conservazione, in sede di definitiva approvazione del RU, di una destinazione assunta in via meramente interinale (e dietro loro espressa richiesta) al momento dell’adozione dell’atto di pianificazione.
Peraltro, la difesa del Comune ha cura di precisare che l’osservazione del proprietario confinante ha costituito solo l’occasione per riesaminare, con completezza di istruttoria, la situazione idrogeologica dell’area risultata, all’esito di tali ulteriori indagini, inidonea, per la sua pericolosità molto elevata, ad ospitare l’insediamento cui le ricorrenti aspiravano e, quindi, eventuali memorie e osservazioni di parte non avrebbero potuto incidere sulla scelta finale compiuta (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato.
In altre parole, solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.

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Anche il secondo motivo di ricorso, riconducibile ad un preteso obbligo di ripubblicazione, non è fondato.
Invero, si osserva che un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato (TAR Campania Napoli, sez. I, 11.03.2015, n. 1510); in altre parole, solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 07.03.2013, n. 1287) è necessario rinnovare la procedura con la ripubblicazione, mentre tale obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769).
Ebbene, nel caso in esame, non pare che lo stralcio dell’ATR PII 7 abbia integrato quella rielaborazione complessiva del Piano che avrebbe imposto la ripubblicazione dello stesso, atteso che –come evidenziato dalla stessa difesa del Comune– tale modifica si colloca comunque in continuità con i principi informatori del P.G.T. adottato in relazione al contenimento del consumo del suolo.
Quanto alla specifica censura relativa alla comunicazione di cui agli artt. 7 e seguenti della legge n. 241/1990, non può che ribadirsi quanto già esposto in relazione al primo motivo di ricorso, considerato che la ricorrente ha potuto produrre memorie difensive e, quindi, interloquire attivamente con l’Amministrazione comunale, non assumendo specifico rilievo che la partecipazione procedimentale sia avvenuta in base alle disposizione di cui alla legge sul procedimento amministrativo piuttosto che in forza delle previsioni di cui alla legge regionale n. 12/2005. La censura, pertanto, oltre che infondata, appare anche strumentale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2017 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nella interpretazione dell'art. 10, l. n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il “giusto procedimento” di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
Non è tale il caso di una modifica della destinazione impressa a singole aree, comunque rispondente a finalità già evincibili in sede di adozione dello strumento urbanistico e che perciò non appare idonea ad alterare i criteri d'impostazione dell’atto di governo del territorio, ovvero di una modifica che, come nella vicenda in esame, non appare di entità tale da configurare una nuova adozione dello strumento in formazione: “ne consegue, per giurisprudenza assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante, che ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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Il ricorso è infondato.
In sede di approvazione del regolamento urbanistico il Consiglio Comunale ha ridotto l’utilizzabilità dell’area della ricorrente, recependo le osservazioni del Genio Civile, secondo cui il Comune avrebbe dovuto estendere gli studi idraulici ai corsi d’acqua minori. L’approfondimento istruttorio relativo a quest’ultimi ha portato ad una variazione delle delimitazioni delle aree allagabili.
Infatti il regolamento urbanistico adottato non recava, come allegato, la carta di pericolosità idraulica prescritta dal regolamento regionale n. 26R del 27.04.2007, ma uno studio circoscritto ai corsi d’acqua principali (Ombrone, Bure, Brana e Stella).
La diminuita utilizzabilità dei terreni della società istante è frutto dell’accoglimento delle osservazioni del Genio Civile e di una più approfondita attività istruttoria, ad esito della quale, in sede di approvazione del regolamento urbanistico, il Comune è pervenuto ad una riduzione della destinazione TP6 in relazione al rischio di allagamento per Tr 20 e, in minor misura, in relazione al rischio di allagamento Tr30 (si vedano il documento n. 5 depositato in giudizio dal Comune e la relazione tecnica commissionata dalla società istante, costituente il documento n. 4 da essa prodotto in giudizio).
Il provvedimento finale, scaturente da una più rigorosa istruttoria, risponde quindi ad esigenze di tutela della sicurezza idrica e di cautela, particolarmente sentite anche nelle zone pianeggianti del pistoiese, stante la notoria frequenza di allagamenti causati dall’innalzamento del livello dei corsi d’acqua conseguente alla concentrazione delle precipitazioni piovose in ristretti archi temporali.
L’atto impugnato appare quindi giustificato alla luce delle recepite argomentazioni del Genio Civile ed appare espressione di valutazioni discrezionali immuni da profili sintomatici di eccesso di potere in quanto correttamente ispirate al perseguimento dell’interesse pubblico alla salvaguardia del territorio dal rischio idraulico.
Tali considerazioni si attagliano anche alla censura, dedotta nell’unico, articolato motivo di ricorso, riferita alla violazione della parte del regolamento regionale n. 26 del 2007 che non prevede l’inedificabilità per le aree classificate come Tr uguale o inferiore a 200 anni. Tale censura fa seguito alla pagina della relazione tecnica (allegato n. 4 al ricorso) in cui si sostiene che “la destinazione TP6 è stata ridotta oltre il limite di edificabilità dovuto alla situazione idraulica”, limite coincidente con l’area TR30.
A dimostrazione dell’infondatezza anche di tale rilievo il Collegio osserva quanto segue.
Il predetto regolamento regionale, nell’allegato A, qualifica a “pericolosità idraulica elevata” le aree interessate da allagamenti per eventi compresi tra 30 e 200 anni di tempi di ritorno; tale qualificazione trova conferma nel decreto del Presidente della Giunta regionale n. 53 del 25.10.2011. Orbene, per tali zone i suddetti regolamenti escludono l’edificabilità qualora non sia prevista la realizzazione di interventi di messa in sicurezza.
In tale contesto rientra nella discrezionalità dell’Ente introdurre un regime di inedificabilità o di restrizione dell’attività edilizia anche per gli spazi Tr200, quale alternativa alla previsione di opere di messa in sicurezza e facendo leva sul principio di precauzione.
Peraltro, la relazione tecnica prodotta dalla società istante (documento n. 4) non appare univocamente calibrata rispetto al rilievo mosso con il ricorso: da un lato la suddetta relazione, in base alle cartografie del regolamento urbanistico approvato, evidenzia che l’utilizzabilità effettiva della proprietà SPAR è diminuita, rispetto all’adottato, di una quota pari a circa il 23% (di cui il 18% per rischio di allagamento Tr20 ed il restante 5% per Tr30), dall’altro evidenzia, richiamando gli estratti delle cartografie, che la destinazione TP6 (“aree per attrezzature logistiche”) è stata ridotta oltre il limite di inedificabilità dovuto alla situazione idraulica (cioè oltre il limite Tr30).
Per quanto riguarda la restante parte del motivo di gravame, occorre considerare che l’intercorsa modifica non ha alterato i criteri direttivi o l’impostazione dell’atto di governo del territorio, in quanto la finalità di tutela dagli allagamenti era insita già nella zonizzazione del compendio di interesse della ricorrente introdotta in sede di adozione, talché non v’è discontinuità tra l’obiettivo del regolamento urbanistico nella stesura adottata e l’obiettivo della stesura approvata.
Pertanto non sussisteva, in capo all’Amministrazione, alcun obbligo di procedere alla ripubblicazione del regolamento urbanistico, in parte qua, successivamente al recepimento delle osservazioni del Genio Civile.
Invero, nella interpretazione dell'art. 10, l. n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il “giusto procedimento” di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
Non è tale il caso di una modifica della destinazione impressa a singole aree, comunque rispondente a finalità già evincibili in sede di adozione dello strumento urbanistico e che perciò non appare idonea ad alterare i criteri d'impostazione dell’atto di governo del territorio, ovvero di una modifica che, come nella vicenda in esame, non appare di entità tale da configurare una nuova adozione dello strumento in formazione (TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2012, n. 1440; TAR Toscana, I, 03.10.2005, n. 4614): “ne consegue, per giurisprudenza assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante, che ricorre unicamente qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (TAR Toscana, I, 22.09.2016, n. 1381).
Peraltro, già in sede di adozione emergevano ragguardevoli limitazioni all’edificabilità e all’utilizzabilità delle aree intestate alla società istante, per le stesse ragioni di tutela dal rischio di allagamenti valorizzate, più compiutamente, in fase di approvazione: tutta la zona era destinata ad area permeabile e tutto il terreno identificato dalle particelle 417 e 419 era destinato a vasche di laminazione (si vedano le osservazioni presentate dalla ricorrente in riferimento al regolamento urbanistico adottato –documento n. 3 depositato in giudizio dal Comune-).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 22.12.2016 n. 1839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La ripubblicazione del piano regolatore adottato dal Comune è necessaria, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano alla sua impostazione, e d’altro canto le modificazioni introdotte dalla Regione, a mente dell'art. 10, comma 2, l. n. 1150 del 1942, o, per quanto riguarda il procedimento urbanistico comunale disciplinato dalla legislazione regionale toscana, presentate dalla Regione Toscana nella forma di autorevoli osservazioni riconosciute indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del PIT, ai sensi della disciplina introdotta dagli artt. 17 e seguenti della L.R. n. 1/2005, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento urbanistico, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n. 1150/1942- nell'ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio.
In ogni caso, la ripubblicazione della variante adottata si rende necessaria solo se le osservazioni accolte superano il limite del rispetto dei canoni guida del piano adottato. Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante ricorre qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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La circostanza che la proposta di piano attuativo presentata dai ricorrenti non sia mai stata approvata impedisce di ritenere perfezionata, in capo ai ricorrenti medesimi, una situazione di affidamento qualificato, tale da imporre al Comune oneri motivazionali particolarmente stringenti, che possono quindi reputarsi soddisfatti dalla palesata esigenza di evitare difformità tra il PIT e il regolamento urbanistico: solo lo strumento attuativo approvato e convenzionato fonda un affidamento qualificato in capo al suo titolare.
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Con il primo motivo gli istanti deducono che il Comune, avendo modificato radicalmente il regolamento urbanistico adottato, avrebbe dovuto provvedere ad una nuova adozione, con conseguente ripubblicazione e possibilità di presentare nuove osservazioni.
La censura non è condivisibile.
Gli obiettivi della contestata variante straordinaria erano, fin dall’inizio, molteplici: rilevava infatti l’esigenza di allineare le previsioni del regolamento urbanistico, nelle singole UTOE, al piano strutturale, ma anche la finalità di assicurare il rispetto dei limiti di compatibilità prefissati dal P.I.T. e dal P.T.C. e di minimizzare e contenere gli effetti negativi derivanti dall’attuazione delle previsioni urbanistiche contenute nel regolamento urbanistico rimaste ancora inattuate (pagina 11 della relazione illustrativa annessa alla variante adottata: documento n. 5-bis depositato in giudizio dal Comune).
La principale declinazione di tali obiettivi era costituita dalla prevista limitazione dell’attività edificatoria, in quanto era emerso, per quasi tutte le UTOE, soprattutto per le funzioni residenziali, un livello di urbanizzazione superiore alle previsioni di piano strutturale: dalla pagina 13 della relazione allegata alla delibera di adozione della variante risulta, ai fini del rispetto delle previsioni delle capacità insediative stabilite dal piano strutturale, l’introduzione di un divieto di nuova edificazione con destinazione residenziale, commerciale e artigianale in molte UTOE, ma non nell’UTOE n. 4, inclusiva della proprietà dei ricorrenti, anche se la verifica della capacità edificatoria effettuata nel primo semestre del 2008 aveva evidenziato “lo sforamento delle quantità edificatorie con particolare riferimento alle UTOE 3a, 3b, 4, 6b, 7b e 8d” (pagina 3 della relazione descrittiva annessa alla delibera di approvazione, costituente il documento n. 15-ter depositato in giudizio dal Comune), e quindi anche in relazione all’UTOE di interesse degli esponenti (UTOE n. 4).
Ad avviso del Collegio il più rigoroso limite di edificabilità introdotto in sede di approvazione della variante da un lato non appare dissonante rispetto alle già palesate esigenze di contenimento dell’attività edilizia, dall’altro è conseguente all’accoglimento delle osservazioni della Regione e della Provincia (documenti n. 8 e 10 depositati in giudizio dal Comune di Lucca). Ciò in quanto già al momento dell’adozione della variante si rendeva necessario tenere conto, in particolare, dell’art. 36 del PIT approvato dal Consiglio Regionale in data 24.07.2007, il quale tutela le porzioni di territorio rurale che segnano discontinuità all’interno del tessuto urbano della piana o che sono connotate da elementi strutturali del paesaggio storico della piana (pagina 2 dell’osservazione regionale), cosicché occorreva valutare i limiti di sostenibilità degli interventi di trasformazione urbanistica decaduti e conformare ciascuna UTOE alla disciplina paesaggistica del PIT (pagina 6 dell’osservazione della Provincia), limiti che del resto erano già stati prefigurati dall’Ente in fase di adozione, essendosi assunto come criterio guida non solo il piano strutturale ma anche il PIT.
Occorre precisare che la ripubblicazione del piano regolatore adottato dal Comune è necessaria, a seguito dell'accoglimento delle osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano alla sua impostazione (Cons. Stato, IV, 12.03.2009, n. 1477), e d’altro canto le modificazioni introdotte dalla Regione, a mente dell'art. 10, comma 2, l. n. 1150 del 1942, o, per quanto riguarda il procedimento urbanistico comunale disciplinato dalla legislazione regionale toscana, presentate dalla Regione Toscana nella forma di autorevoli osservazioni riconosciute indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del PIT, ai sensi della disciplina introdotta dagli artt. 17 e seguenti della L.R. n. 1/2005, non comportano la necessità per il Comune interessato di riavviare il procedimento di approvazione dello strumento urbanistico, con conseguente ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito dall'art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n. 1150/1942- nell'ambito di un unico procedimento di formazione progressiva del disegno relativo alla programmazione generale del territorio (Cons. Stato, IV, 15.04.2013, n. 2029).
In ogni caso, la ripubblicazione della variante adottata si rende necessaria solo se le osservazioni accolte superano il limite del rispetto dei canoni guida del piano adottato (Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2005, n. 259). Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l'assenza dell'asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della variante ricorre qualora le modifiche facoltative o concordate dello strumento urbanistico comportino lo stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie, ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (TAR Toscana, I, 22.09.2016, n. 1381).
Tale impostazione non è superata o modificata dalla legislazione urbanistica regionale toscana (L.R. n. 1/2005, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame).
5. Sotto altro profilo, la circostanza che la proposta di piano attuativo presentata dai ricorrenti non sia mai stata approvata impedisce di ritenere perfezionata, in capo ai ricorrenti medesimi, una situazione di affidamento qualificato, tale da imporre al Comune oneri motivazionali particolarmente stringenti, che possono quindi reputarsi soddisfatti dalla palesata esigenza di evitare difformità tra il PIT e il regolamento urbanistico: solo lo strumento attuativo approvato e convenzionato fonda un affidamento qualificato in capo al suo titolare (TAR Toscana, I, 29.02.2016, n. 369; idem, 01.03.2010, n. 575) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ripubblicazione di un Piano Regolatore Generale in caso di accoglimento delle osservazioni.
In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150) lo strumento urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato affermato che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni".
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato.
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che necessita di pubblicazione.
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In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le proprie osservazioni.
Invero, le osservazioni presentate dai privati nei confronti di un piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo che l'amministrazione si determini correttamente e compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a consentire ai soggetti interessati di concorrere e di collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza. Che il mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica sostanziale non può essere messo in dubbio.
Invero, “se importante è senza dubbio la destinazione di zona (non oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico.”.

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Con il secondo motivo si lamenta la mancata ripubblicazione della variante a seguito dell’accoglimento dell’osservazione n. 535, che ha comportato la modifica di destinazione dell'area, così eliminando la fase di partecipazione dei cittadini interessati. Inoltre i ricorrenti stigmatizzano la prassi di introdurre –mediante la proposizione delle osservazioni- vere e proprie richieste/proposte del privato, che non abbiano attinenza con le scelte effettuate dall'amministrazione in sede di adozione del piano, che produce l'effetto di eliminare completamente ogni trasparenza nella assunzione delle decisioni di pianificazione.
La censura è fondata.
La resistente e la controintereessata richiamano il consolidato orientamento giurisprudenziale in forza del quale “sono ammissibili modifiche di strumenti adottati a seguito della presentazione di osservazioni, senza bisogno di procedere alla nuova pubblicazione del progetto, purché le modifiche apportate non comportino sostanziali innovazioni o deviazioni dei criteri connotanti il piano adottato", sostenendo che la modifica di classificazione di un'area di dimensioni assai modeste, con la restante parte conservata alla destinazione originaria (e con la cessione al Comune di tale restante parte, ad ulteriore garanzia che l'area rimarrà verde pubblico attrezzato) non configura affatto una sostanziale innovazione o deviazione dai criteri che connotano il piano.
La fattispecie in esame non è però configurabile in detti termini.
In via generale va –con un maggiore approfondimento rispetto alla stringata massima di cui sopra– va rilevato quanto segue.
In base alla originaria legislazione nazionale (art. 10 della legge 17.08.1942, n. 1150), lo strumento urbanistico deve essere ripubblicato solo laddove tra la fase dell'adozione e quella dell'approvazione siano state introdotte modifiche sostanziali.
Va ricordato che in detta l. n. 1150/1942 lo schema procedimentale era il seguente: adozione del piano da parte del Comune, presentazione delle osservazioni da parte dei privati, controdeduzioni del Comune alle osservazioni presentate mediante delibera del Consiglio, trasmissione degli atti per approvazione alla Regione.
Con riguardo al suddetto schema procedimentale è stato affermato (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.04.2006, n. 2297) che “In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni" (cfr. ex plurimis, Consiglio di stato, sez. IV, n. 4980 del 05.04.2003; sez. IV, 20.11.2000, n. 6178).
In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla regione; per cui non occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia, sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 20.02.1998, n. 301).
Viceversa, se il comune, controdeducendo alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che necessita di pubblicazione (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, n. 4980 del 05.09.2003; sez. IV, 20.11.2000, n. 6178; sez. IV, 20.02.1998, n. 301 cit.; 27.03.1995, n. 206).
Va posto in luce che, per effetto della legislazione regionale concorrente, il suddetto schema in molte Regioni è stato modificato prevedendosi l’approvazione del piano regolatore da parte dello stesso Comune con delibera del Consiglio comunale. Tale è la situazione nella Regione Emilia Romagna per effetto della disciplina introdotta con la legge regionale 24.03.2000 n. 20 (per il RUE si veda l’art. 33 ).
E’ evidente che in tale differente quadro, in cui tutte le scelte sono ricondotte al solo livello comunale la suddetta impostazione giurisprudenziale deve essere letta ed applicata con maggiore rigore, soprattutto nella tutela delle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari di consistenti modifiche della posizione della loro proprietà per l’effetto di accoglimento di osservazioni di soggetti terzi.
In tale contesto, appare condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale (cfr. TRGA Trento 24.07.2008 n. 191, 28.02.2008, n. 53, 05.03.2004, n. 91 e 12.07.2005, n. 204, TAR Sicilia, Catania, sez. I, 06.12.2007, n. 1395, TAR Toscana, sez. I, 03.10.2005, n. 4614, TAR Lombardia-Brescia 03.06.2003, n. 826; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.12.2000, n. 6178; Sez. IV, 26.09.2001, n. 5038; Sez. IV, 04.03.2002, n. 1197; Sez. IV, 05.09.2003, n. 4977) secondo il quale l'accoglimento di un'osservazione ad un P.R.G. in itinere che sia stata presentata da un soggetto diverso dal proprietario dell'area interessata e che possa arrecare a questo un nocumento esige la ripubblicazione del piano stesso, onde consentire alla proprietà di formulare le proprie osservazioni.
Invero, (cfr. TAR Catania, I, 30.01.2007, n. 179), le osservazioni presentate dai privati nei confronti di un piano regolatore in itinere sono finalizzate a consentire che il punto di vista del soggetto potenzialmente leso assuma rilevanza e venga adeguatamente considerato, in modo che l'amministrazione si determini correttamente e compiutamente in omaggio ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.) che devono presiedere all'esercizio dell'azione amministrativa.
Sulla base della valorizzazione della finalità partecipativa assicurata dalla ripubblicazione, che serve proprio a consentire ai soggetti interessati di concorrere e di collaborare, con le loro proposte od osservazioni, alla formazione del piano, si deve, infatti, ritenere che, nelle ipotesi in cui il progetto iniziale risulti sostanzialmente modificato, nei suoi criteri ispiratori e nel suo assetto essenziale, nel corso del procedimento finalizzato alla sua approvazione, si renda necessaria la riapertura della fase istruttoria, per mezzo della ripubblicazione del documento e della conseguente riattivazione dell'interlocuzione con i soggetti interessati.
Il Collegio ritiene che -ampliando ulteriormente detto principio, portandolo alle sue massime conseguenze- debba riconoscersi la necessità della ripubblicazione anche nell’ipotesi all’esame, nella quale è pur vero che l’osservazione risulta proposta dai formali proprietari delle aree, ma gli effetti della radicale trasformazione della destinazione d’uso, da verde ad uso pubblico ad edificabile, riversano indiscutibili effetti sulla posizione giuridica di soggetti terzi (sia i confinanti sia gli abitanti del quartiere che usufruivano dello spazio a verde), che altrimenti non ne avrebbero contezza. Che il mutamento di destinazione d’uso costituisca modifica sostanziale non può essere messo in dubbio (cfr. al riguardo Cons St., Sez. IV, 08.06.2011 n. 3497, ove si osserva: “se importante è senza dubbio la destinazione di zona (non oggetto di modifica), altrettanto non può dirsi delle singole prescrizioni previste dalle NTA per la specifica utilizzazione dell’area, costituendo esse, senza alcun dubbio, una disciplina di dettaglio, nell’ambito di una più generale precisione di zonizzazione, la cui eventuale modifica non può certo comportare obbligo di ripubblicazione dello strumento urbanistico.”).
Nella memoria di replica la difesa comunale sostiene che la riclassificazione di una modesta porzione di terreno in una zona determina una modifica puntuale e del tutto marginale che non può integrare una stravolgimento delle previsioni del PSC (che classifica un vasto ambito nella quale la stessa è ricompresa come Parco urbano e suburbano).
L’argomentazione non convince.
Infatti, se si tiene conto che uno strumento urbanistico (o una sua variante) contiene una serie di previsioni, per ogni singola proprietà, che risultano unite in un disegno programmatorio armonico e funzionale al raggiungimento di determinati obiettivi, va rilevato che non è alla grandezza o piccolezza dell’area che deve farsi riferimento ma alla congruenza o meno della modificazione della disciplina del singolo ambito proprietario rispetto ai criteri generali.
In altri termini, se il piano persegue l’obiettivo della riduzione del consumo di suolo o di mantenimento delle aree a verde il mutamento radicale (da inedificabile ad edificabile) costituisce una modifica radicale, sovvertendo completamente il tipo di utilizzo dell’area.
L’accoglimento delle prime due doglianze riveste carattere assorbente sicché il Collegio è dispensato dalla disamina delle ulteriori censure (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 26.08.2016 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La ripubblicazione del piano regolatore adottato dal Comune è necessaria, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano alla sua impostazione.
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11. Con il quarto motivo è stata dedotta l’omessa ripubblicazione del piano e l’omessa acquisizione dei prescritti pareri.
Alla luce della giurisprudenza richiamata dal Comune appellante (Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009, n. 1477) il motivo è infondato.
La ripubblicazione del piano regolatore adottato dal Comune è necessaria, a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano alla sua impostazione”.
Nel caso di specie non si è trattato di una rielaborazione del piano, ma solo dello spostamento di un’unità (il “Li.Ku.”) nella categoria delle unità speciali (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.04.2016 n. 1516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree.
E’ ovvio che i principi appena illustrati devono essere adattati quando oggetto di sindacato giurisdizionale non sia lo strumento urbanistico del comune ma un PTCP della provincia.
La scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.

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28. Con il terzo motivo i ricorrenti sostengono che le rilevanti modifiche apportate al piano in sede di approvazione definitiva, rispetto al contenuto che esso aveva in sede di adozione, avrebbero reso necessaria la sua ripubblicazione.
29. La censura è strettamente connessa a quella contenuta nel quarto motivo, nel quale gli interessati sostengono che le rilevanti modifiche introdotte avrebbero dovuto comportare la rinnovazione del procedimento di valutazione di impatto ambientale (VAS).
I ricorrenti aggiungono, con riguardo a questo particolare profilo, che la Provincia non avrebbe potuto disattendere i pareri favorevoli rilasciati dalla Regione in sede di VAS; pareri espressi su un’ipotesi di PTCP che non assoggettava le loro aree alla disciplina qui contestata e che, peraltro, erano del tutto conformi a quelli rilasciati dalla stessa Regione sul piano di governo del territorio (PGT) del Comune di Lesmo (il quale, del pari, non introduceva vincoli di inedificabilità sulle aree dei ricorrenti).
Infine, sempre con riferimento alla VAS, viene dedotta la violazione dell’art. 5 della direttiva comunitaria 2001/42/CE, giacché non sarebbero state prospettate, nell’ambito del procedimento, ipotesi alternative all’unica formulata.
30. I motivi sono infondati per le ragioni di seguito esposte.
31. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
32. Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr. fra le tante, TAR Toscana, sez. 17.11.2011, n. 1736).
33. Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769; id. 30.07.2012, n. 4321; id. 27.12.2011 n. 6865).
34. E’ ovvio che i principi appena illustrati devono essere adattati quando oggetto di sindacato giurisdizionale non sia lo strumento urbanistico del comune ma un PTCP della provincia.
35. La scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.
36. Nel caso concreto gli interessati riferiscono di modifiche, intervenute in sede di approvazione del PTCP della Provincia di Monza e Brianza, che riguardano esclusivamente le loro aree e che, in particolare, ne hanno sancito l’inclusione nella rete verde di ricomposizione paesaggistica.
37. Si tratta dunque di interventi che, in sé considerati, non incidono sull’impostazione complessiva del piano e che, quindi, in applicazione dei principi sopra illustrati, non impongono l’obbligo di ripubblicazione.
38. Si può peraltro aggiungere che le innovazioni sono il risultato delle controdeduzioni e del parere espresso sul PTCP adottato dalla Giunta Regionale, ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.
39. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della stessa legge-regionale n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del PGT, vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al PTCP, quale atto di pianificazione generale in ambito sovra comunale.
40. La norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “…controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni (…) regionali…”.
41. Le argomentazioni sin qui svolte valgono ovviamente anche per ciò che concerne la procedura VAS.
Come rilevato dalla giurisprudenza, tale procedura costituisce non già un procedimento o sub-procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell'espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (cfr. fra le tante TAR Liguria, sez. I, 26.02.2014, n. 359).
42. E’ dunque del tutto naturale che essa segua le sorti del procedimento urbanistico.
43. Va poi osservato che la decisone assunta dal Consiglio Provinciale di ampliare la superficie della rete verde di ricomposizione paesaggistica non si pone in contrasto con le valutazioni espresse in sede di VAS, posto che con tale decisione viene ampliata e non compressa la tutela dei valori ambientali cui la stessa VAS è funzionale.
44. Per quanto riguarda invece la censura che deduce la mancata prospettazione di soluzioni alternative, il Collegio deve osservare che non si vede quale interesse abbiano le parti a rilevare tale omissione, posto che, come visto, le stesse parti lamentano proprio il mancato recepimento, in sede di approvazione del PTCP, dell’unica soluzione esaminata in sede di VAS.
In proposito va richiamato l’orientamento che considera inammissibili le censure che attengono al procedimento VAS qualora il ricorrente ometta di indicare in che modo i vizi dedotti abbiano inciso sulle determinazioni pianificatorie (cfr. TAR Umbria, sez. I, 09.03.2015, 95; TAR Lombardia Milano, sez. II, 27.02.2015, n. 576).
45. Per queste ragioni va ribadita l’infondatezza dei motivi in esame
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.06.2015 n. 1431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Con riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le
   - modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, l’adozione di standards urbanistici minimi ed in genere l’osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da
   - quelle facoltative (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da
   - quelle concordate (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dall’amministrazione comunale).
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento provinciale o regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed approvazione del PRG.
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In sede di approvazione di uno strumento urbanistico, l’approvazione parziale può dar luogo sia alla modifica d’ufficio di previsioni urbanistiche sia allo stralcio, strumento privo di tipicità legale ma diffuso nella prassi amministrativa, cioè a due diverse evenienze che si distinguono per il fatto che con la prima l’ente approvante sovrappone definitivamente la propria volontà a quella del comune, mentre con il secondo restituisce al comune l’iniziativa, beninteso nei limiti della parte stralciata.

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2.12 Con riferimento all’obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle modificazioni che possono essere introdotte in sede di approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici, l’adozione di standards urbanistici minimi ed in genere l’osservanza della normativa urbanistico-edilizia) da quelle facoltative (consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle concordate (conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate dall’amministrazione comunale).
Mentre, infatti, per le modifiche facoltative e concordate, ove superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato, sussiste l’obbligo della ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto dell’intervento provinciale o regionale rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed approvazione del PRG (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2013 n. 1182).
Ebbene, nel caso specifico si ricade proprio in tale ultima ipotesi, essendo le modificazioni apportate con la delibera del Consiglio Provinciale di Napoli n. 103/2006 tutte di carattere obbligatorio, attinenti ora all’adeguamento agli standard urbanistici minimi, ora al rispetto della normativa urbanistica nazionale e regionale vigente, ora al recepimento di prescrizioni volte alla tutela della salute pubblica (cfr. pagg. 22 e ss. della relazione tecnica cit.).
Ne discende la non esigibilità della ripubblicazione del piano regolatore approvato.
2.13 Infine, vale osservare che, in sede di approvazione di uno strumento urbanistico, l’approvazione parziale (intervenuta nel caso di specie) può dar luogo sia alla modifica d’ufficio di previsioni urbanistiche sia allo stralcio, strumento privo di tipicità legale ma diffuso nella prassi amministrativa, cioè a due diverse evenienze che si distinguono per il fatto che con la prima l’ente approvante sovrappone definitivamente la propria volontà a quella del comune, mentre con il secondo restituisce al comune l’iniziativa, beninteso nei limiti della parte stralciata (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.03.2015 n. 1510 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Rielaborazione complessiva del Piano territoriale di coordinamento provinciale.
Può considerarsi rielaborazione complessiva del Piano territoriale di coordinamento provinciale quando fra la fase di adozione e quella di approvazione, siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree
(massima tratta da e link a www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.09.2014 n. 2405).
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7. Con il primo motivo, le ricorrenti sostengono che le rilevanti modifiche apportate al piano in sede di approvazione definitiva, rispetto al contenuto che esso aveva in sede di adozione, avrebbero reso necessaria la sua ripubblicazione. L’omessa ripubblicazione, oltre ad essere in contrasto con i principi elaborati in materia dalla giurisprudenza, sarebbe anche contraria all’art. 17, comma 3, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto lesiva delle prerogative attribuite da tale norma ai comuni.
8. La censura è strettamente connessa a quella contenuta nel terzo motivo, nel quale la parte sostiene che le rilevanti modifiche introdotte avrebbero dovuto comportare la rinnovazione del procedimento di valutazione di impatto ambientale (VAS).
9. I motivi sono infondati per le ragioni di seguito esposte.
10. In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la rielaborazione complessiva di uno strumento di pianificazione territoriale, avvenuta in sede di approvazione definitiva dello stesso, comporta la necessità della sua ripubblicazione.
11. Va però osservato che può parlarsi di rielaborazione complessiva quando fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr. fra le tante, TAR Toscana, sez. 17.11.2011, n. 1736).
12. Con riferimento ai piani urbanistici dei comuni, la giurisprudenza esclude che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano quando in sede di approvazione vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.12.2013, n. 5769; id. 30.07.2012, n. 4321; id. 27.12.2011 n. 6865).
13. E’ ovvio che i principi appena illustrati devono essere adattati quando oggetto di sindacato giurisdizionale non sia lo strumento urbanistico del comune ma un PTCP della provincia.
14. La scala provinciale impone di considerare irrilevanti, ai fini della ripubblicazione, non solo le modifiche che riguardino singole aree o gruppi di aree ma anche tutte quelle modifiche, intervenute in sede di approvazione, che investano settori circoscritti del territorio provinciale.
15. Nel caso concreto le interessate riferiscono di modifiche, intervenute in sede di approvazione del PTCP della Provincia di Monza e della Brianza, che interessano alcune aree del territorio del Comune di Camparada o, comunque, porzioni circoscritte del territorio provinciale (cfr. docc. Nn. 5 e 6 delle ricorrenti).
16. Si tratta dunque di interventi che, in sé considerati, non incidono sull’impostazione complessiva del piano e che, quindi, in applicazione dei principi sopra illustrati, non impongono l’obbligo di ripubblicazione.
17. Si può peraltro aggiungere che le innovazioni sono il risultato delle controdeduzioni e del parere espresso sul PTCP adottato dalla Giunta Regionale, ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.
18. In tali casi può trovare applicazione la norma dell’art. 13, comma 9, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 che, seppure dettata per il procedimento di approvazione del PGT, vale a dire lo strumento urbanistico generale comunale, può essere analogicamente applicata anche al PTCP, quale atto di pianificazione generale in ambito però sovra comunale.
19. La norma esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di <<…controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali…>>.
20. Le argomentazioni sin qui svolte valgono ovviamente anche per ciò che concerne la procedura VAS.
Come rilevato dalla giurisprudenza, tale procedura costituisce non già un procedimento o sub-procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell'espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima (cfr. fra le tante TAR Liguria, sez. I, 26.02.2014, n, 359).
21. E’ dunque del tutto naturale che essa segua le sorti del procedimento urbanistico.
22. Va poi osservato che la decisone assunta dal Consiglio Provinciale di ampliare la superficie della rete verdi di ricomposizione paesaggistica non si pone ovviamente in contrasto con le valutazioni espresse in sede di VAS, posto che con essa viene ampliata e non compressa la tutela dei valori ambientali cui la stessa VAS è funzionale.
23. Né si può ritenere che l’iter seguito abbia in qualche modo leso le prerogative procedimentali dei comuni, giacché questi hanno comunque potuto far valere le loro ragioni attraverso la proposizione di osservazioni al PTCP adottato.
24. Per queste ragioni va ribadita l’infondatezza del motivo in esame.

URBANISTICA: Approvazione del P.U.G., accoglimento osservazioni soggetti interessati e ripubblicazione.
In linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione.
Il principio che da tale condivisibile regola giurisprudenziale può trarsi, infatti, è quello per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo.
La legge regionale non introduce simili obblighi, né gli stessi possono desumersi induttivamente: comportando gli stessi un enorme aggravio procedimentale, collidente con i principi generali in tema di agere amministrativo, una simile opzione eremeneutica dovrebbe essere corroborata da un referente letterale granitico (nel caso di specie insussistente), salvo a doversi interrogare della logicità e razionalità di una simile previsione e sulla rispondenza della medesima al canone di cui all’art. 97 della Costituzione.
La giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato tale principio “quantitativo” per cui, salve le ipotesi di stravolgimento, non è necessario il sostanziale riavvio della procedura ab imis (“nel procedimento di formazione dei piani regolatori generali, la pubblicazione prevista dall'art. 9, legge 17.08.1942, n. 1150 (e dalle corrispondenti norme regionali), è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano adottato dal Comune, ma non è richiesta, di regola, per le successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o di modifiche introdotte in sede di approvazione regionale. Vi sono, però, alcune eccezioni.
In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni. In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla Regione; per cui non occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato. Al contrario, se il Comune, controdeducendo alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che necessita di pubblicazione.”).
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4.2.1. Alla stregua (anche) delle superiori prescrizioni, oltre che dei principi generali in tema di approvazione dello strumento urbanistico, il primo versante delle proposte censure appare certamente privo di consistenza.
Espletati i lavori della conferenza di servizi può affermarsi, al Consiglio Comunale residua il compito di “adeguare” il PUG.
La disposizione predetta, non pare al Collegio introduca elementi devianti rispetto alla consolidata regola giurisprudenziale secondo la quale (Cons. Stato Sez. IV, 09.03.2011, n. 1503) “in linea di principio, se la pubblicazione del progetto di piano regolatore generale prevista dalle diverse e concordanti leggi regionali è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano quale adottato dal Comune, essa non è richiesta di regola per le successive fasi del procedimento, anche se il piano risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o modifiche introdotte in sede di approvazione regionale, salvo che si tratti di modifiche tali da stravolgere il piano e comportare nella sostanza una nuova adozione”.
Il principio che da tale condivisibile regola giurisprudenziale può trarsi, infatti, è quello per cui, salve (marginali sotto il profilo statistico e della concreta esperienza giurisprudenziale, oltre che certamente non ricorrenti nel caso di specie) ipotesi di stravolgimento del piano, l’accoglimento dell’osservazione proposta dal privato avviene con atto modificativo che non determina ex se l’obbligo che il piano faccia “navetta” e necessitino nuovi incombenti di pubblicizzazione del medesimo.
La legge regionale non introduce simili obblighi, né gli stessi possono desumersi induttivamente: comportando gli stessi un enorme aggravio procedimentale, collidente con i principi generali in tema di agere amministrativo, una simile opzione eremeneutica dovrebbe essere corroborata da un referente letterale granitico (nel caso di specie insussistente), salvo a doversi interrogare della logicità e razionalità di una simile previsione e sulla rispondenza della medesima al canone di cui all’art. 97 della Costituzione.
La giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato Sez. IV, 26.04.2006, n. 2297) ha costantemente affermato tale principio “quantitativo” per cui, salve le ipotesi di stravolgimento, non è necessario il sostanziale riavvio della procedura ab imis (“nel procedimento di formazione dei piani regolatori generali, la pubblicazione prevista dall'art. 9, legge 17.08.1942, n. 1150 (e dalle corrispondenti norme regionali), è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano adottato dal Comune, ma non è richiesta, di regola, per le successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o di modifiche introdotte in sede di approvazione regionale. Vi sono, però, alcune eccezioni. In una prima ipotesi, dall'accoglimento delle osservazioni formulate dai privati, comportanti una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano adottato, si fa discendere una modifica immediata del testo del piano stesso; nel qual caso si dovrà fare luogo a nuova pubblicazione ed alla conseguente raccolta delle ulteriori osservazioni. In altre ipotesi, la delibera comunale di controdeduzioni può non implicare volontà di modifica immediata del piano regolatore, ma solo accettazione delle richieste e proposta di modifiche d'ufficio rivolta alla Regione; per cui non occorrerà nuova pubblicazione, con la conseguenza che il testo del piano agli effetti di salvaguardia sarà quello adottato con la prima deliberazione, ancorché destinato ad essere modificato. Al contrario, se il Comune, controdeducendo alle proposte di modifica regionali, introduce variazioni rilevanti al piano adottato, la delibera si presenta come una sostanziale nuova adozione che necessita di pubblicazione.”).
La doglianza va pertanto disattesa: la circostanza che non vi fossero gli strumenti sovraordinati in relazione ai quali esercitare il controllo di compatibilità non appare affatto decisiva: le affermazioni di parte appellante circa un concreto “stravolgimento” del piano nei termini in cui lo stesso era stato adottato dal Comune forzano in parte la realtà, ma ciò che più rileva è che la stessa legge richiamata dall’appellante non prevede alcun onere di ripubblicazione all’esito della chiusura dei lavori della Conferenza di servizi e tale obbligo procedimentale non può discendere dalla disposizione della legge regionale che prevede la “massima partecipazione” dei cittadini.
Quest’ultima è assicurata in tutte le fasi procedimentali e costituirebbe un indebito appesantimento della procedura prevedere un nuovo incombente riposante nella ripubblicazione (e conseguente riapertura della fase di presentazione delle osservazioni, etc.) laddove la legge medesima non l’abbia affatto previsto.
La Conferenza di Servizi è destinata a “sanare” il disaccordo tra Regione e Comune, ma anche ad evitare la “navetta” discendente (come efficacemente illustrato dalla decisione del Consiglio di Stato prima richiamata) della possibilità che il comune a propria volta “controdeduca” alla Regione: con detta fase si conclude l’iter formativo, e non v’è luogo ad ulteriori interventi dei privati.
Pretendere che il controllo della Regione possa liberamente dispiegarsi laddove vi fossero strumenti preordinati tesi a limitare il controllo regionale, e non anche laddove tali strumenti non vi fossero, implica una interpretatio abrogans dell’ultima parte del citato comma 7 dell’art. 20 della legge regionale pugliese a più riprese richiamata che consente di espletare il detto controllo avendo come parametro gli (“indirizzi regionali della programmazione socio-economica e territoriale di cui all'articolo 5 del D.Lgs. n. 267/2000”).
E ciò senza introdurre differenze rispetto alla ipotesi –prevista nell’incipit del comma medesimo- in cui il controllo si fosse svolto in relazione al parametro rappresentato dal “il D.R.A.G. e con il P.T.C.P., ove approvati” ovvero “rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale ove esistente”.
Nella unicità del procedimento ivi delineato, in ciascuna delle dette eventualità, trova condivisione da parte del Collegio, la incontestabile –ed incontestata per il vero– affermazione del primo giudice secondo la quale non poteva dubitarsi che il controllo regionale avesse investito parametri di stretto interesse della regione medesima: né vizio di straripamento v’era, quindi, ma neppure ragione per ipotizzare, ultra (e probabilmente contra) legem, un ulteriore incombente procedimentale che, di fatto, avrebbe riportato indietro in modo drastico l’iter approvativo.
Il principio di pubblicità e partecipazione è un cardine dell’azione amministrativa; ed è espressamente consacrato nella lex generalis del procedimento amministrativo, ex lege n. 241/1990: non meno di questi, però, costituisce modo di agire corretto quello che assicuri la celere definizione dei procedimenti ed il non appesantimento della fase istruttoria.
La Legge regionale pugliese pare al Collegio abbia sapientemente contemperato i suddetti –all’apparenza potenzialmente configgenti- principi; l’azione amministrativa concreta non li ha vulnerati e, peraltro, il tempestivo deposito dei verbali della conferenza di servizi presso l’Ufficio tecnico comunale ha consentito (pur senza riaprire la fase procedimentale né la presentazione di ulteriori osservazioni) di soddisfare l’onere di tempestiva pubblicità (così consentendo ai privati di tempestivamente valutare la possibile proposizione di azioni impugnatorie).
Il controllo va espletato rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale: ma –per espresso dettato di legge- ove esistente: laddove questo non esista, tuttavia, ciò non può certo significare che la Regione debba astenervisi, e neppure può comportare l’incremento di obblighi infraprocedimentali (nuova pubblicazione, etc.) non previsti ex lege.
Anche detta doglianza, incidentalmente riproposta, va pertanto disattesa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.03.2014 n. 1241 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ripubblicazione dei PRG solo in caso di stravolgimento dello strumento adottato.
In linea di principio, l'iter di formazione dei piani regolatori deve essere interpretato alla luce del principio generale del “non aggravamento” di cui alla L. n. 241 del 1990.
La Sezione, al riguardo, è infatti da tempo orientata nel senso che una ripubblicazione del piano regolatore generale, è necessaria solo in caso di modifiche che comportano uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste sono numerose sul piano quantitativo ovvero incidono in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.12.2013 n. 5769).

URBANISTICA: Ancorché si sia verificato un elevato numero di osservazioni pervenute e accolte, anche in considerazione delle rilevanti modifiche inserite su diretta iniziativa degli uffici comunali, non sussite(va) -ai sensi degli art. 9 e 10, comma 2, della legge 1150/1942- la necessaria ripubblicazione del PRG adottato.
In sintesi, è vero che le modifiche sono state numerose e importanti, ma non è stata stravolta l’impostazione sostanziale del PRG adottato, che è la condizione necessaria perché vi sia l’obbligo di ripubblicazione.
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Sulla procedura di approvazione del PRG
19. Il ricorrente sostiene che a causa dell’elevato numero di osservazioni pervenute e accolte, e in considerazione delle rilevanti modifiche inserite su diretta iniziativa degli uffici comunali, sarebbe stata necessaria ai sensi degli art. 9 e 10, comma 2, della legge 1150/1942 la ripubblicazione del PRG adottato.
20. Sul punto devono essere richiamate le conclusioni di segno opposto a cui è giunto questo TAR in relazione a controversie che riguardavano i medesimi provvedimenti impugnati nel presente giudizio (v. TAR Brescia Sez. I 15.02.2007 n. 170; TAR Brescia Sez. I 19.07.2008 n. 833; TAR Brescia Sez. II 08.06.2011 n. 836). In sintesi, è vero che le modifiche sono state numerose e importanti, ma non è stata stravolta l’impostazione sostanziale del PRG adottato, che è la condizione necessaria perché vi sia l’obbligo di ripubblicazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Quanto alla presunta necessità di ripubblicazione del piano, va ricordato che, nella interpretazione dell'art. 10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il "giusto procedimento" di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
Questo non è, tuttavia, il caso di specie, ove si tratta della modifica della destinazione impressa ad una singola area (P2), che non appare idonea ad alterare i criteri d’impostazione del Piano (cfr. TAR Lombardia, sez. II, sent. 197/2009, per cui: <<…La modifica apportata dal Comune, in ottemperanza a tale indicazione, non richiedeva una nuova pubblicazione della variante: è stata, difatti, dettata dalla necessità di assicurare il rispetto delle finalità di tutela paesaggistiche oggetto del piano territoriale di coordinamento provinciale>>).
L’art. 13, co. 9 della legge reg. 12/2005, d’altro canto, espressamente esclude l’assoggettamento a ripubblicazione della deliberazione comunale di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali, senza ulteriori specificazioni.
Anche laddove la modifica fosse da intendersi quale mera raccomandazione ed avesse, dunque, carattere facoltativo, non sussisterebbe, comunque, un obbligo di ripubblicazione del piano, in quanto l’ampliamento dell’ambito boschivo della rete ecologica in relazione all’area dell’esponente non comporta una rielaborazione complessiva del piano stesso o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali, nei sensi poc’anzi precisati.
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XVII. Con il quarto motivo si deduce la violazione di legge e l’eccesso di potere, poiché, stante la rilevante modifica introdotta in sede di controdeduzioni, il piano doveva essere nuovamente assoggettato a pubblicazione.
XVIII. Il motivo è infondato.
XIX. Quanto alla presunta necessità di ripubblicazione del piano, va ricordato che, nella interpretazione dell'art. 10 della legge n. 1150 del 1942 (nel testo modificato dall'art. 3 della legge n. 765 del 1967) e nello sforzo di delineare il "giusto procedimento" di perfezionamento di un piano urbanistico, la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono (cfr., fra le tante: Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1477; Consiglio Stato, sez. IV, 25.11.2003, n. 7782).
Questo non è, tuttavia, il caso di specie, ove si tratta della modifica della destinazione impressa ad una singola area (P2), che non appare idonea ad alterare i criteri d’impostazione del Piano (cfr. TAR Lombardia, sez. II, sent. 197/2009, per cui: <<…La modifica apportata dal Comune, in ottemperanza a tale indicazione, non richiedeva una nuova pubblicazione della variante: è stata, difatti, dettata dalla necessità di assicurare il rispetto delle finalità di tutela paesaggistiche oggetto del piano territoriale di coordinamento provinciale>>).
L’art. 13, co. 9 della legge reg. 12/2005, d’altro canto, espressamente esclude l’assoggettamento a ripubblicazione della deliberazione comunale di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali, senza ulteriori specificazioni (cfr. Cons. Stato, IV, 09.03.2011 n. 1503; TAR Lombardia, Milano, II, n. 742/2006).
Anche laddove la modifica fosse da intendersi quale mera raccomandazione ed avesse, dunque, carattere facoltativo, non sussisterebbe, comunque, un obbligo di ripubblicazione del piano, in quanto l’ampliamento dell’ambito boschivo della rete ecologica in relazione all’area dell’esponente non comporta una rielaborazione complessiva del piano stesso o un mutamento delle sue caratteristiche essenziali, nei sensi poc’anzi precisati (cfr. Cons. Stato, IV, 15.07.2008, n. 3518; id. 05.03.2008 n. 925; id. 31.01.2005 n. 259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2012 n. 1440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 28.02.2024

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 13.12.2023, "Aggiornamento dei criteri attuativi «Modalità per la pianificazione comunale» (art. 7 della l.r. 12/2005 «Legge per il governo del territorio»)" (deliberazione G.R. 04.12.2023 n. 1504).
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Si leggano anche i correlati:
  
allegato 1 (AGGIORNAMENTO DEI CRITERI ATTUATIVI DELLA LR 12/2005 “MODALITÀ PER LA PIANIFICAZIONE COMUNALE”)
   ● allegato 2 (Atto di indirizzo e coordinamento tecnico per l’attuazione dell’articolo 3 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" - MODALITÀ DI COORDINAMENTO ED INTEGRAZIONE DELLE INFORMAZIONI PER LO SVILUPPO DEL SISTEMA INFORMATIVO TERRITORIALE INTEGRATO - S.I.T.)
   ● allegato 3 [Determinazioni in merito al Piano di Governo del Territorio dei comuni con popolazione compresa tra 2.001 e 15.000 abitanti (art. 7, c. 3, LR n. 12/2005) - deliberazione C.R. 01.10.2008 n. 8138)]
   ● allegato 4 (CRITERI ED INDIRIZZI PER LA DEFINIZIONE DELLA COMPONENTE GEOLOGICA, IDROGEOLOGICA E SISMICA DEL PIANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO, IN ATTUAZIONE DELL’ART. 57 DELLA L.R. 11.03.2005, N. 12 – TESTO INTEGRALE)
   ● allegato 5 [Indirizzi generali per la valutazione di piani e programmi (art. 4, comma 1, l.r. 11.03.2005, n. 12) - deliberazione C.R. 13.03.2007 n. 351]
   ● allegato 6 (CRITERI E PROCEDURE PER L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE IN MATERIA DI TUTELA DEI BENI PAESAGGISTICI IN ATTUAZIONE DELLA LEGGE REGIONALE 11.03.2005 N. 12)
         - allegato 6-1 (ALLEGATO A - SCHEMA DI DOMANDA PER AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA - ELABORATI PER LA PRESENTAZIONE DEI PROGETTI)
         - allegato 6-2 (ALLEGATO B - SCHEDE DEGLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL PAESAGGIO)
         - allegato 6-3 (ALLEGATO C - MODELLI PER PROVVEDIMENTI PAESAGGISTICI (AUTORIZZATIVI E SANZIONATORI))
         - allegato 6-4 (ALLEGATO D - RAPPORTO ANNUALE SULLO STATO DEL PAESAGGIO)

   ● allegato 7 (Atti di indirizzo e coordinamento tecnico della legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" - INDIRIZZI E CRITERI URBANISTICI PER LA PIANIFICAZIONE DEGLI ENTI LOCALI IN MATERIA COMMERCIALE)

GIURISPRUDENZA

URBANISTICAGiusta il costante orientamento giurisprudenziale, in materia di pianificazione urbanistica deve essere riconosciuta al Comune un’ampia discrezionalità, con la conseguenza che la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Invero, deve rilevarsi che, «con riferimento all’esercizio dei poteri pianificatori urbanistici, la tutela dell’affidamento è riservata ai seguenti casi eccezionali:
   I) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona;
   II) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;
   III) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di silenzio-rifiuto su domande di rilascio di titoli edilizi), recanti il riconoscimento del diritto di edificare;
   IV) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo».
Quindi, in assenza di un affidamento qualificato, giuridicamente tutelato, in capo all’Azienda ricorrente, la potestà pianificatoria non è soggetta al principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse degli amministrati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina a interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
Oltretutto, è ormai condiviso in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale «“… l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio”.
Sino al punto di ritenere legittima la scelta pianificatoria della c.d. “opzione zero” a seguito della quale lo strumento urbanistico non consente più, de futuro, l’ulteriore consumo di suolo».
Peraltro, può accadere che la destinazione di un’area a verde agricolo con divieto di edificazione non implichi necessariamente che si debbano soddisfare in modo diretto e immediato interessi agricoli, ma piuttosto può essere finalizzata al perseguimento di esigenze di ordinato governo del territorio, legate alla necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a preservare tale equilibrio, come accade nella fattispecie de qua.
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... per l’annullamento
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del 14.12.2019, n. 52, pubblicata in data 22.04.2020, nelle sole parti in cui,
   (i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio, ha assoggettato l’area di proprietà delle parti ricorrenti al regime di cui al neo introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A. del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse paesaggistico”, nelle quali è esclusa la possibilità di nuova edificazione, e
   (ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del P.d.R., a mente del quale nelle “aree agricole di tipo produttivo” “la nuova edificazione a destinazione agricola potrà intervenire qualora (…) l’avente titolo disponga di una superficie di proprietà, contermine all’edificio di prevista realizzazione, non inferiore a 10.000 mq”.
...
3. Con il secondo motivo di ricorso si assume che l’azzonamento del comparto di proprietà della ricorrente quale “area agricola di interesse paesaggistico”, oltre a essere del tutto immotivato e in contrasto con lo stato di fatto, non essendo la zona interessata da alcun cono vedutistico, né da vincoli paesaggistici sovraordinati, sarebbe altresì stato assunto in violazione del procedimento di formazione dello strumento pianificatorio, poiché sarebbe stato introdotto soltanto in fase di approvazione dello strumento urbanistico, in seguito all’accoglimento delle osservazioni proposte da un soggetto terzo, impedendo in tal modo agli interessati di presentare le proprie osservazioni a margine di una tale scelta.
3.1. La doglianza è complessivamente infondata.
Attraverso l’impugnata Variante al P.G.T. di Lurate Caccivio, il comparto di proprietà dell’Azienda agricola ricorrente, di cui al foglio 9, mappale 1188, è stato classificato tra gli “ambiti agricoli di interesse paesaggistico”, con previsione di inedificabilità assoluta, confermando per tale ultimo aspetto quanto già stabilito con i pregressi strumenti pianificatori (cfr. all. 9 e 10 del Comune).
Tale collocazione trova la propria giustificazione nella circostanza che il comparto è inserito nella classe più alta di sensibilità paesaggistica (classe 5 - “molto elevata” - all. 6 del Comune) ed è altresì ricompreso nella “Rete ecologica provinciale - CAS - Aree sorgenti di biodiversità di secondo livello” secondo il Piano territoriale di coordinamento provinciale (P.T.C.P.) di Como (all. 5 del Comune), nonché incluso nel perimetro del Piano locale di interesse sovracomunale (P.L.I.S.) “Sorgenti del Torrente Lura” (all. 11 del Comune, pag. 45; cfr. anche certificato di destinazione urbanistica del 06.05.2015, all. 7 al ricorso).
In tal modo risulta confermato che la zona è inserita in un corridoio ecologico di una certa rilevanza, trattandosi di area caratterizzata da “fondamentali relazioni a livello di rete ecologica alla scala comunale e sovracomunale”, come ulteriormente dimostrato anche dalla aerofotogrammetria dell’area in questione, che ne attesta la collocazione in un contesto paesaggistico ancora inedificato posto al centro di un’area completamente boscata (cfr. Relazione tecnica, pag. 8: all. 8 al ricorso).
In presenza di tali presupposti, assolutamente coerenti con lo stato di fatto e per nulla travisati, risulta certamente giustificato l’azzonamento riservato all’area di proprietà dell’Azienda agricola ricorrente attraverso la Variante impugnata, avendo l’Amministrazione comunale inteso preservare il contesto da ulteriore edificazione, ivi compresa quella correlata allo svolgimento dell’attività agricola. Quindi, non risulta illogico che in sede di esame delle osservazioni, sia stato deciso che, «per le condizioni oggettive dell’area, si propone classificarla come ‘area agricola di interesse paesaggistico’» (osservazione n. 11.8, lett. c), proposta dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio: all. 8 del Comune, pag. 23).
La legittimità di tale modus procedendi risulta avvalorata dal costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, in materia di pianificazione urbanistica, deve essere riconosciuta al Comune un’ampia discrezionalità, con la conseguenza che la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato dei privati a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 14.11.2023, n. 9758; IV, 21.08.2023, n. 7881; TAR Lombardia, Milano, II, 11.07.2022, n. 1662; 25.01.2022, n. 165; 12.03.2021, n. 653; 28.12.2020, n. 2613).
Sempre in linea con la consolidata giurisprudenza, deve rilevarsi che, «con riferimento all’esercizio dei poteri pianificatori urbanistici, la tutela dell’affidamento è riservata ai seguenti casi eccezionali:
   I) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l’avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona;
   II) pregresse convenzioni edificatorie già stipulate;
   III) giudicati (di annullamento di dinieghi edilizi o di silenzio-rifiuto su domande di rilascio di titoli edilizi), recanti il riconoscimento del diritto di edificare;
   IV) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
» (Consiglio di Stato, IV, 02.01.2023, n. 21; anche, IV, 24.01.2023, n. 765; II, 08.09.2021, n. 6234; TAR Lombardia, Milano, IV, 05.12.2023, n. 2951; altresì, Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019).
Quindi, in assenza di un affidamento qualificato, giuridicamente tutelato, in capo all’Azienda ricorrente, la potestà pianificatoria non è soggetta al principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse degli amministrati alla conferma (o al miglioramento) della previgente disciplina a interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 05.06.2023, n. 5464; IV, 20.04.2023, n. 4015; TAR Lombardia, Milano, II, 25.01.2022, n. 165; 14.12.2020, n. 2492; 07.07.2020, n. 1291; 14.02.2020, n. 309; II, 17.04.2019, n. 868; 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
Oltretutto, è ormai condiviso in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale «“… l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio” (così, Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, §. 6.).
Sino al punto di ritenere legittima la scelta pianificatoria della c.d. “opzione zero” a seguito della quale lo strumento urbanistico non consente più, de futuro, l’ulteriore consumo di suolo
» (Consiglio di Stato, IV, 24.01.2023, n. 765; anche, IV, 14.09.2023, n. 8325; IV, 19.07.2023, n. 7070; TAR Lombardia, Milano, II, 28.12.2020, n. 2613; II, 17.04.2019, n. 868).
Peraltro, può accadere che la destinazione di un’area a verde agricolo con divieto di edificazione non implichi necessariamente che si debbano soddisfare in modo diretto e immediato interessi agricoli, ma piuttosto può essere finalizzata al perseguimento di esigenze di ordinato governo del territorio, legate alla necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a preservare tale equilibrio, come accade nella fattispecie de qua (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, II, 31.07.2023, n. 7407; VI, 02.11.2021, n. 7308; IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 423; IV, 05.12.2023, n. 2951; II, 14.02.2020, n. 309; 03.12.2018, n. 2723; 18.06.2018, n. 1534; 20.06.2017, n. 1371).
Alla stregua di quanto sottolineato, risulta evidente che le contestazioni formulate nella censura oggetto di scrutinio afferiscono al merito delle scelte dell’Amministrazione, palesando un differente punto di vista rispetto a quest’ultima, assolutamente soggettivo, che non può trovare ingresso in questa sede (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 13.12.2023, n. 3029; IV, 11.07.2022, n. 1662; II, 12.03.2021, n. 653; II, 28.12.2020, n. 2613; II, 07.07.2020, n. 1291; II, 10.12.2019, n. 2636; II, 20.08.2019, n. 1896; anche, Consiglio di Stato, IV, 12.09.2023, n. 8275) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.02.2024 n. 492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Quanto alla dedotta assenza di vincoli discendenti dai Piani degli Enti sovraordinati (ossia il P.T.R. e il P.T.C.P.), va precisato che il modello delineato dall’art. 2, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 “prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio”.
Ciò sta a significare che soltanto con riguardo ad alcuni specifici e limitati ambiti i Piani sovraordinati hanno efficacia prescrittiva e prevalente rispetto a quelli adottati dal livello di governo inferiore, solitamente recando una disciplina avente una efficacia di indirizzo e di coordinamento.
Del resto, le prerogative in ambito pianificatorio dei Comuni non possono essere affatto conculcate, essendo precluso alle Regioni e alle Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive.
Difatti, la funzione di pianificazione urbanistica nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni e in tal senso il legislatore statale ha qualificato come funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lett. d), del d.l. n. 78/2010), sottraendo allo specifico potere regionale di allocazione, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione e stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’Ente più vicino al cittadino (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179/2019; i Comuni non possono essere “meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale” per Corte costituzionale, sentenza n. 202/2021).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e dal P.T.C.P. a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.G.T. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a meglio precisare o ad ampliare siffatta tutela.
Sicché, anche ove si fosse al cospetto di previsioni prescrittive e prevalenti, le stesse opererebbero solo nel verso di impedire al Comune, o all’Ente territoriale minore, la compromissione del bene oggetto di tutela (paesaggio, rete ecologica, ambito agricolo strategico, ambiti di interesse provinciale, ecc.), mentre nessun limite può essere posto laddove tale ultimo Ente volesse garantire maggiore tutela a tali beni o volesse estenderne l’ambito, pena l’intrinseca contraddittorietà di siffatta conclusione.
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... per l’annullamento
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Lurate Caccivio del 14.12.2019, n. 52, pubblicata in data 22.04.2020, nelle sole parti in cui,
   (i) in accoglimento delle osservazioni n. 11.8, lett. c), proposte dal Gruppo Consiliare Vivere Lurate Caccivio, ha assoggettato l’area di proprietà delle parti ricorrenti al regime di cui al neo introdotto art. 30, commi 5-7, delle N.T.A. del P.d.R.: Ambito “agricolo di interesse paesaggistico”, nelle quali è esclusa la possibilità di nuova edificazione, e
   (ii) ha introdotto l’art. 30, comma 3, lett. d), delle N.T.A. del P.d.R., a mente del quale nelle “aree agricole di tipo produttivo” “la nuova edificazione a destinazione agricola potrà intervenire qualora (…) l’avente titolo disponga di una superficie di proprietà, contermine all’edificio di prevista realizzazione, non inferiore a 10.000 mq”.
...
3.2. Quanto poi alla dedotta assenza di vincoli discendenti dai Piani degli Enti sovraordinati (ossia il P.T.R. e il P.T.C.P.), va precisato che il modello delineato dall’art. 2, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005 “prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio” (TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451; II, 23.09.2016, n. 1700).
Ciò sta a significare che soltanto con riguardo ad alcuni specifici e limitati ambiti i Piani sovraordinati hanno efficacia prescrittiva e prevalente rispetto a quelli adottati dal livello di governo inferiore, solitamente recando una disciplina avente una efficacia di indirizzo e di coordinamento (cfr., per alcuni esempi, TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 423; II, 06.07.2021, n. 1656; II, 23.03.2021, n. 763).
Del resto, le prerogative in ambito pianificatorio dei Comuni non possono essere affatto conculcate, essendo precluso alle Regioni e alle Province trasformare i poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive (Consiglio di Stato, IV, 15.01.2020, n. 379).
Difatti, la funzione di pianificazione urbanistica nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni e in tal senso il legislatore statale ha qualificato come funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 78 del 2010), sottraendo allo specifico potere regionale di allocazione, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione e stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’Ente più vicino al cittadino (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019; i Comuni non possono essere “meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale” per Corte costituzionale, sentenza n. 202 del 2021).
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal P.T.R. e dal P.T.C.P. a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben possa il P.G.T. introdurre ulteriori disposizioni, destinate a meglio precisare o ad ampliare siffatta tutela.
In applicazioni di tali coordinate ermeneutiche, può rilevarsi che, anche ove si fosse al cospetto di previsioni prescrittive e prevalenti, le stesse opererebbero solo nel verso di impedire al Comune, o all’Ente territoriale minore, la compromissione del bene oggetto di tutela (paesaggio, rete ecologica, ambito agricolo strategico, ambiti di interesse provinciale, ecc.), mentre nessun limite può essere posto laddove tale ultimo Ente volesse garantire maggiore tutela a tali beni o volesse estenderne l’ambito, pena l’intrinseca contraddittorietà di siffatta conclusione (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019; anche, TAR Lombardia, Milano, IV, 19.02.2024, n. 424; IV, 05.12.2023, n. 2951) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.02.2024 n. 492 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività”.
L’ordinanza di demolizione non necessitava di previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, in quanto, secondo giurisprudenza consolidata di questo Consiglio.
“L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”.
“Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento” .
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“La presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.
Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001”.
“La giustificazione di questo orientamento sta nell'evitare che l'ente locale, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, sia tenuto ad adottare un nuovo provvedimento di demolizione delle opere abusive, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento”.
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Il Collegio condivide la statuizione del Giudice di prime cure, laddove conclude che “nel caso di specie, non si evince dagli atti che l’amministrazione si sia mai espressa sull’istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti con la conseguenza che, essendo ormai decorso il termine di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi pacificamente formato sulla stessa il silenzio–diniego”, in quanto tale conclusione rispecchia la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato sul punto. Invero:
   - “La presentazione di una istanza di accertamento di conformità, infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi è pertanto alcuna automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. Essa determina soltanto un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, che opera in termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell'istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l'ordine di demolizione riacquista la sua piena efficacia”.
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Con il primo motivo di gravame (rubricato: Error in judicando. Violazione dei principi in materia di giusto procedimento amministrativo e di giusta amministrazione), gli appellanti sostengono l’erroneità della sentenza (punto 7.1) laddove -ai fini del rigetto del ricorso sulla base della considerazione che l'ordine di demolizione di una costruzione abusiva rappresenta un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico- ritiene inconferente il richiamo alla delibera del Consiglio Comunale di Sorrento n. 14 del 20.03.2012 in considerazione del carattere recessivo della delibera stessa rispetto alle disposizioni di rango primario e afferma l'inderogabilità della legge ad opera dell'atto consiliare.
Tale interpretazione del TAR sarebbe errata e basata su una superficiale lettura dei motivi di ricorso, in quanto il richiamo all'atto consiliare non avrebbe avuto lo scopo di affermare che lo stesso fosse derogatorio rispetto alle disposizioni legislative, bensì di criticare il modus procedendi dell'Amministrazione, invocando il vizio di eccesso di potere laddove la p.a. ha adottato il provvedimento demolitorio senza tenere in alcun conto la deliberazione del Consiglio Comunale.
L'errore di giudizio sarebbe confermato nelle ragioni esposte nella decisione appellata al punto 7.4, dalla lettura del quale sembrerebbe che il Giudice abbia ritenuto che, al momento della presentazione del ricorso di primo grado, i sessanta giorni previsti per dall'art. 36 T.U.E. per la formazione del silenzio-rigetto, sarebbero già trascorsi, il che non risponderebbe al vero in quanto la domanda di accertamento di conformità reca la data del 27.11.2012, mentre il ricorso al TAR è stato notificato all'Amministrazione il 13.11.2012, per cui sarebbe evidente che i termini dell'accertamento di conformità fossero ancora in corso.
La doglianza non ha pregio.
Va premesso, come emerge dalla parte in fatto, che per le opere de quibus -non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni urbanistiche vigenti nel territorio comunale, realizzate dopo l’imposizione del vincolo paesaggistico ambientale ex d.lgs. n. 42/2004 (vincolo apposto per la Città di Sorrento con D.M. del 26.01.1962 ex l. n. 1497/1939) e oggetto della qui impugnata ordinanza di demolizione- è stata presentata dalle parti il 19.11.2004 domanda di condono ex l. n. 326/2003; tale domanda di condono è stata respinta dal Comune nel 2012 in quanto, per la dimensione e la consistenza dell’opera realizzata (consistente in una sopraelevazione di un ulteriore livello di mq. 90 ad uso abitativo in blocchi di lapillo e lamiere coibentate di coperture, il tutto completamente rifinito, nonché in una scala di collegamento tra il piano di campagna ed il solaio di copertura, su di un immobile preesistente), è stata inquadrata dal Comune di Sorrento quale nuova costruzione ed in quanto, stante la preesistenza di vincolo paesaggistico ed idrogeologico, è stata ritenuta non riconducibile nella fattispecie del c.d. terzo condono.
Inoltre emerge dall’ultimo capoverso del punto 6 della sentenza qui impugnata che il ricorso avverso il diniego del condono è stato respinto con sentenza del TAR n. 1837/2019.
3.1.1. Nel caso concreto l’ordine di demolizione impugnato è legittimo in quanto è stato adottato dopo la pronuncia di rigetto del Comune di Sorrento sulla domanda di condono.
Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività” (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 07.06.2021, n. 4319).
L’ordinanza di demolizione non necessitava di previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, in quanto, secondo giurisprudenza consolidata di questo Consiglio (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 11.05.2022, n. 3707).
L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”.
Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento” (Consiglio di Stato sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
Stante l’attività vincolata della p.a. in presenza di abusi edilizi, contrariamente all’assunto delle parti appellanti, nel caso concreto non ha alcun rilievo -nemmeno sotto l’aspetto dell’eccesso di potere- l’asserita violazione del contenuto della delibera del Consiglio comunale di Sorrento n. 14 del 20.3.2012, qualificata dagli appellanti quale atto di indirizzo, in quanto in presenza di un atto comunale di rigetto dell’istanza di condono ex art. 36 del TUE, non è necessario alcun ulteriore esame o interpretazione della situazione alla luce del contenuto della delibera del consiglio comunale n. 14/2012.
3.1.2. Per quanto concerne l’ulteriore profilo del primo motivo d’appello che si incentra sulla valutazione, da parte del Giudice di prime cure, della sorte dell’ordinanza di demolizione dopo la presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, il Collegio rileva che al riguardo deve trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale “la presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2018, n. 3417; Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5669; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.09.2022, n. 8320).
Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001
” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.10.2022, n. 9070).
La giustificazione di questo orientamento sta nell'evitare che l'ente locale, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, sia tenuto ad adottare un nuovo provvedimento di demolizione delle opere abusive, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento (CdS, VI, sentenza n. 446/2015)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.11.2018, n. 6233).
3.1.3. Nel caso concreto, come si ricava dai documenti depositati dalle parti, l’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è stata depositata in data 27.11.2012 (doc. 2 dei ricorrenti in primo grado, depositato il 28.11.2012); l’odierna appellante, nel corso del giudizio di primo grado non ha depositato ulteriore documento concernente la sorte della domanda presentata ex art. 36 DPR n. 380/2001.
Il Collegio condivide la statuizione del Giudice di prime cure, laddove conclude che “nel caso di specie, non si evince dagli atti che l’amministrazione si sia mai espressa sull’istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti con la conseguenza che, essendo ormai decorso il termine di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi pacificamente formato sulla stessa il silenzio–diniego”, in quanto tale conclusione rispecchia la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato sul punto (ex multis: Sez. II, 06.05.2021, n. 3545: “La presentazione di una istanza di accertamento di conformità, infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi è pertanto alcuna automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. Essa determina soltanto un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione, che opera in termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell'istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l'ordine di demolizione riacquista la sua piena efficacia (cfr. ancora, Consiglio di Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669)”.
Contrariamente all’assunto degli appellanti, il Giudice di prime cure non si riferisce ai 60 giorni trascorsi dalla presentazione del ricorso al TAR, bensì al decorso dei 60 giorni dalla presentazione dell’istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001, e quindi dal 27.11.2012 (cfr. timbro di entrata sul doc. 2 dei ricorrenti in primo grado), per cui la statuizione del Giudice di prime cure è corretta e logicamente ripercorribile, con conseguente rigetto del primo motivo di appello in quanto infondato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2024 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Circolazione stradale, l’ente locale non può impugnare l’archiviazione del prefetto. Lo ha affermato il Cons. Stato con sentenza priva di precedenti.
La regione non è legittimata ad impugnare gli atti adottati dalla prefettura in sede di controllo delle sanzioni in materia di circolazione stradale
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Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 19.02.2024 n. 1592 (Pres. Greco, Est. Marra) priva di precedenti. La disciplina della “circolazione stradale” e delle relative sanzioni, infatti, appartiene alla competenza dello Stato. Al Prefetto è stato attribuito un controllo sull’operato degli apparati amministrativi degli enti locali preposti a loro volta a garantire la sicurezza stradale in ambito locale. Non è dunque ammissibile che l’ente territoriale impugni la decisione di un organo –il prefetto- preposti al suo controllo.
Il caso era della Azienda Strade Lazio - Astral S.p.a. società alla quale la Regione Lazio ha delegato le funzioni amministrative con riguardo ai servizi di Polizia stradale. Nel 2017, una signora aveva presentato una domanda per la regolarizzazione e messa in sicurezza di un accesso carrabile, realizzato sulla strada regionale. L’Astral aveva respinto la richiesta per la pericolosità dell’accesso per la circolazione stradale notificando un verbale di contestazione contenente una sanzione pecuniaria.
La Prefettura di Frosinone però disponeva l’archiviazione sul ricorso amministrativo presentato dalla signora, sul presupposto che “l’esame della documentazione in atti non consente di formulare un giudizio di sicura responsabilità nei confronti del ricorrente”. A quel punto Astral ha impugnato il provvedimento al Tar Lazio che però ha respinto il ricorso. Contro questa decisione la Spa è ricorsa al Consiglio di Stato che lo ha dichiarato inammissibile rilevando la carenza di legittimazione attiva del ricorrente.
Il Collegio richiama le motivazioni della Cassazione (n. 3038/2005) in relazione ad una vicenda in parte analoga in cui era, tuttavia, in discussione la legittimazione di un Comune a proporre opposizione contro l’ordinanza del Prefetto che aveva accolto il ricorso contro un verbale di infrazione e disposto l’archiviazione. La Suprema corte spiegava che spetta al solo trasgressore la facoltà di insorgere contro il provvedimento con cui il Prefetto respinge il suo ricorso (e nulla si prevede per la contraria ipotesi in cui lo stesso sia accolto e il verbale archiviato).
La disciplina della “circolazione stradale”, spiega il Cds, appartiene alla competenza dello Stato, in quanto strumentale alla tutela di un interesse, qual è quello alla sicurezza delle persone, che trascende l’ambito strettamente locale e postula una regolamentazione unitaria. Spetta dunque allo Stato anche la disciplina delle sanzioni, mentre la natura degli interessi oggetto di tutela giustifica che, in sede locale, sia stato attribuito al Prefetto un ruolo di coordinamento ed anche di controllo sull’esercizio della funzione strumentale a garantire la sicurezza della circolazione stradale da parte degli apparati amministrativi degli enti locali, anche se attivato, in via eventuale, su ricorso della parte.
Pertanto, in capo all’amministrazione locale, sino a quando non si sia esaurito il potere di intervento del Prefetto, non è configurabile una posizione soggettiva –diritto soggettivo o interesse legittimo– tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, risultando applicabile il principio in forza del quale non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla revisione del suo operato, evocandolo in giudizio e ponendosi in opposizione ad esso (articolo NT+Diritto del 26.02.2024).
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Sulla carenza di legittimazione della regione ad impugnare gli atti adottati dalla prefettura in sede di controllo delle sanzioni in materia di circolazione stradale.
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Circolazione stradale – Codice della strada – Sanzioni – Controllo – Impugnativa ente locale - Inammissibilità
La disciplina della “circolazione stradale” appartiene alla competenza dello Stato, in quanto strumentale alla tutela di un interesse, qual è quello alla sicurezza delle persone, che trascende l’ambito strettamente locale e postula una regolamentazione unitaria; spetta dunque allo Stato anche la disciplina delle sanzioni, mentre la natura degli interessi oggetto di tutela giustifica che, in sede locale, sia stato attribuito al Prefetto un ruolo di coordinamento ed anche di controllo sull’esercizio della funzione strumentale a garantire la sicurezza della circolazione stradale da parte degli apparati amministrativi degli enti locali, anche se attivato, in via eventuale, su ricorso della parte.
Pertanto, in capo all’amministrazione locale, sino a quando non si sia esaurito il potere di intervento del Prefetto, non è configurabile una posizione soggettiva –diritto soggettivo o interesse legittimo– tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, risultando applicabile il principio in forza del quale non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla revisione del suo operato, evocandolo in giudizio e ponendosi in opposizione ad esso (1).

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   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 19.02.2024 n. 1592 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul contraddittorio in tema di verifica dell’anomalia dell’offerta e sul calcolo dei minimi salariali in caso di lavoro discontinuo.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Offerta anomala – Contraddittorio.
In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta, se è vero che l’articolo 97, comma 5, del d.lgs. n. 50 del 2016 ha previsto per la verifica di anomalia dell’offerta una struttura “monofasica” del procedimento e non più trifasica, cioè articolata in giustificativi, chiarimenti, contraddittorio -com’era, invece, nel regime disegnato dal previgente articolo 87 del d.lgs. n. 163 del 2006– e dunque non vi è un vincolo assoluto di piena corrispondenza tra giustificazioni richieste e ragioni di anomalia dell’offerta, non si può tuttavia approdare all’estremo opposto in cui l’esternazione delle ragioni dell’anomalia dell’offerta avvenga in definitiva solo col provvedimento di esclusione, amputando ogni forma di confronto sui profili ritenuti critici, in spregio dei canoni di collaborazione e buona fede che devono informare i rapporti tra stazione appaltante e imprese partecipanti alla gara, specie quando vengono in rilievo profili escludenti inderogabili come la violazione dei minimi salariali inderogabili (1).
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Offerta anomala – Minimi salariali – Lavoro discontinuo.
Poiché i minimi salariali stabiliti inderogabilmente dal contratto collettivo sono espressi su base mensile e non già su base oraria, è corretto riproporzionare la paga oraria al monte orario dei lavoratori discontinui pari a 45 ore settimanali, dunque con divisore mensile 195 (2)
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   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
   (2) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.02.2024 n. 1591 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. – Delineato nei termini che precedono il thema disputandum, il Collegio deve primariamente peritarsi di scrutinare il primo motivo di appello, come visto, di indole schiettamente procedimentale.
In buona sostanza il primo giudice ha dato ragione all’operatore estromesso G. che si assumeva leso nelle proprie prerogative partecipative atteso che effettivamente “nel caso di specie, il contraddittorio è mancato, perché l’amministrazione si è limitata ad avanzare una richiesta di giustificazioni connotata da estrema genericità e, a fronte delle giustificazioni fornite, non ha sottoposto all’aggiudicataria i profili dell’offerta ritenuti –per la prima volta– problematici, sicché non le ha consentito di fornire giustificazioni specifiche sui profili che hanno condotto all’esclusione”.
L’appellante contrasta tale affermazione trincerandosi dietro il carattere vincolato ed ineludibile del rimedio espulsivo a fronte di una violazione dei minimi salariali inderogabili che non consentirebbe giustificazione alcuna a mente dell’art. 97, co. 6, d.lgs. n. 50/2016.
2.1. – Il motivo è infondato.
2.2. – Le osservazioni del Pi.Al.Tr. non sono, infatti, persuasive.
A ben vedere, il RUP, con la nota del 19.10.2022, si è limitato a richiedere chiarimenti genericamente riferiti all’offerta nel suo complesso senza far seguire a tale nota di avvio della verifica alcuna richiesta di approfondimento istruttorio o di maggiori delucidazioni con riferimento alla –per vero ben circoscritta– vexata questio dell’individuazione del corretto divisore per il lavoro discontinuo nella disciplina del CCNL Multiservizi: sennonché, sarebbe stato opportuno e conveniente, specie in un’ottica di trasparenza procedimentale e di clare loqui, che il RUP esternasse le proprie perplessità in ordine al calcolo del costo medio orario (questione compendiabile in estrema sintesi nella scelta tra il divisore 195 o 173) prima di addivenire alla definitiva esclusione della prima graduata, giunta a sorpresa dopo un non trascurabile lasso di apparente stasi procedimentale con la nota del 22.12.2022.
2.3. – Se è dunque vero che “il principio del contraddittorio procedimentale non comporta un vincolo assoluto di piena corrispondenza tra giustificazioni richieste e ragioni di anomalia dell’offerta”, come evocato dall’appellante, -anche a mente dell’evoluzione ordinamentale che, con l’articolo 97, comma 5, del d.lgs. n. 50 del 2016, ha previsto per la verifica di anomalia dell’offerta una struttura “monofasica” del procedimento e non più trifasica, cioè articolata in giustificativi, chiarimenti, contraddittorio, com’era, invece, nel regime disegnato dal previgente articolo 87 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163- non si può tuttavia approdare all’estremo opposto in cui l’esternazione delle ragioni dell’anomalia dell’offerta avvenga in definitiva solo col provvedimento di esclusione, amputando ogni forma di confronto sui profili ritenuti critici, in spregio dei canoni di collaborazione e buona fede che devono informare i rapporti tra stazione appaltante e imprese partecipanti alla gara, specie quando vengono in rilievo profili escludenti inderogabili come la violazione dei minimi salariali inderogabili.
2.4. – Deve dunque essere vagliata positivamente la statuizione del primo giudice laddove afferma univocamente che il contraddittorio è mancato nella fattispecie de qua impedendo all’impresa destinataria del provvedimento espulsivo di apportare il proprio fondamentale contributo partecipativo.
3. – Spostando ora il fuoco della disamina sul secondo mezzo di censura, si entra nel vivo della questione di merito giuslavoristica della corretta individuazione del divisore per i lavoratori discontinui del comparto regolato dal CCNL Multiservizi.
3.1. – Ad avviso del Collegio la tesi di parte appellante non coglie nel segno.
3.2. – Dall’esegesi sistematica dell’accordo di contrattazione collettiva non si rinviene alcun indice testuale di impedimento all’individuazione di altri divisori oltre a quello enucleato in via ordinaria dall’art. 19 con riguardo all’orario normale di lavoro di 40 ore settimanali.
Anzi, l’applicazione del divisore 195 rappresenta un corollario logico della ratio stessa sottesa all’istituto della discontinuità, consistente appunto nell’assicurare un monte orario di 45 ore settimanali a parità di base salariale (a fronte di prestazioni di mera attesa o custodia) nel quadro di una cornice di flessibilità dell’organizzazione del lavoro: giova, infatti, soffermarsi sulla circostanza che le ore contemplate dal lavoro discontinuo non corrispondono necessariamente a periodi di svolgimento effettivo della mansione, ma possono tradursi in prestazioni di mera attesa o, a tutto concedere, di custodia.
Indi la contrattazione collettiva, in una prospettiva di competizione più serrata sul costo del lavoro, ha convenuto che tale monte ore maggiorato, ma più rarefatto sul piano delle energie psico-fisiche profuse dal lavoratore, sia remunerato con la stessa paga mensile dell’ordinario lavoratore del comparto multiservizi soggetto alla disciplina base dell’art. 19 CCNL.
Tale ratio efficientista e pro-competitiva sarebbe vanificata se si facesse ricorso indistintamente al divisore 173, come a voler ignorare che il monte ore di cui si discorre è maggiorato e assicura prestazioni orarie più competitive, perlomeno sui servizi di durata come la guardiania e la portineria.
4. – Siffatto argomentare è ulteriormente corroborato dalla decisiva circostanza che i minimi salariali stabiliti inderogabilmente dal contratto collettivo sono espressi su base mensile e non già su base oraria: a mente di tale inconfutabile dato si sfalda l’intero impianto impugnatorio giacché la notoria inderogabilità in peius dei trattamenti fissati dalla contrattazione collettiva opera rispetto a tali valori mensili e non può trovare adesione la rielaborazione di tali valori su base oraria sviluppata dall’Azienda appellante nel tentativo di dimostrare che i prospetti orari di G. conducano a ribassi illeciti.
5. – Se a tali considerazioni si aggiunge, infine, che, nonostante l’applicazione del divisore inferiore per i lavoratori discontinui, l’offerta dell’originaria ricorrente assicura a costoro una retribuzione mensile pari a quella –pacificamente conforme al CCNL– riconosciuta ai lavoratori ordinari si sgretolano definitivamente le fondamenta della doglianza in esame: si veicola, infatti, l’asserto conclusivo che nella fattispecie in esame non vi è luogo a discorrere di violazioni dei minimi salariali inderogabili atteso che tali minimi devono essere esaminati e raffrontati nella valorizzazione globale su base mensile e non su quella su base oraria.
Anzi, ricapitolando i termini della questione mediante l’espediente logico-argomentativo del rasoio di Oc., può dirsi che G. ha sviluppato un’offerta al contempo rispettosa, sul piano economico dei minimi salariali mensili da contrattazione collettiva ed efficiente sul piano tecnico, in virtù del maggior monte ore ritraibile dall’attività dei discontinui: il conseguente minor costo orario della manodopera rappresenta un naturale corollario del quoziente operato col divisore maggiorato pari a 195, espressivo del maggior monte ore assicurato dai discontinui, ma non inficia in alcun modo i minimi inderogabili, essendo questi formulati su base mensile.
6. – Tanto considerato, il motivo deve essere disatteso.
7. – In ultimo, la terza censura, volta a denunciare la decisione del primo giudice in ordine al lamentato difetto istruttorio e motivazionale del verbale del RUP, allegato per relationem al provvedimento di esclusione viene a cadere per la sua stessa intrinseca genericità e vaghezza a fronte della esaustiva relazione giustificativa dell’offerta prodotta da parte appellata in sede di verifica: per vero, rimarca correttamente il primo giudice che l’appellata ha prodotto questa corposa relazione, nella quale “dedica un lungo paragrafo al costo della manodopera, indicando in modo dettagliato e argomentato le diverse voci che conducono ad uno scostamento tabellare; una parte è dedicata espressamente all’analisi dell’“incidenza effettiva a carico dell’azienda degli oneri per carenza malattia, infortunio e maternità”.
7.1. – Le affermazioni del primo giudice meritano piena condivisione avendo specialmente riguardo al fatto che secondo la costante giurisprudenza la difformità dalle tabelle ministeriali non è sufficiente da sola a dimostrare la non congruità del costo del personale dichiarato dall'offerente (v. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 27.11.2023, n. 10164) ed è ammissibile lo scostamento da tali valori purché risulti suffragato da attendibili dati esperienziali e statistiche aziendali.
Orbene, la dettagliata relazione prodotta da G. in sede di giustificativi dava conto, anche sotto forma tabellare, di tali statistiche aziendali ampiamente idonee a giustificare gli scostamenti dalle tabelle ministeriali, cionondimeno il RUP non ne ha inspiegabilmente tenuto conto sminuendone la valenza esplicativa, vieppiù acuita dall’erronea applicazione del divisore 173 di cui al punto precedente, con inevitabili riverberi in punto di monte orario complessivo.
7.2. – Indi, appare fondato il vizio istruttorio e motivazionale lamentato dal primo ricorrente e ravvisato dal TAR lombardo, con conseguente reiezione anche dell’ultimo nucleo censorio (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.02.2024 n. 1591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla impossibilità di monetizzare le ferie non godute per causa imputabile al lavoratore.
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Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Corpo della Guardia di finanza - Ferie – Omessa presentazione istanza - Monetizzazione – Esclusione.
Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta solo quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (1).
Nel caso di specie il finanziere –collocato in aspettativa per infermità e dichiarato inabile al servizio il giorno prima del suo decesso- per sua libera scelta aveva espressamente richiesto di non convertire i giorni di licenza ordinaria maturati in licenza straordinaria, circostanza che ha comprovato la possibilità concreta di fruire delle ferie sebbene rifiutate esplicitamente dall’interessato.

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   (1) Conformi: Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. IV, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580, sez. III, 17.05.2018, n. 2956; sez. V, 12.02.2007, n. 560 in Foro it., 2007, III, 314.
Nel senso che l’indennità sostitutiva per ferie non godute debba essere riconosciuta al personale (militare o delle Forze di polizia) assente dal servizio perché collocato in aspettativa per infermità e successivamente cessato dal servizio, Cons. Stato, sez. VI, 09.05.2011, n. 2736, in Foro it., 2011, III, 304; sez. VI, 07.05.2010, n. 2663, id., 2010, III, 371; sez. VI, 21.04.2008, n. 1765, id., 2008, III, 429.
         Difformi: non risultano precedenti difformi negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.02.2024 n. 148 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
6. Il ricorso è infondato.
7. La censura di violazione della legge, eccesso di potere, irragionevolezza e illogicità è inaccoglibile poiché il provvedimento impugnato contiene l’esplicitazione chiara e univoca della ragione posta a fondamento del diniego di monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma a una libera scelta operata dall’appuntato Za., il quale non ha presentato l’istanza per il loro godimento.
7.1. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –in linea con la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e quella della Corte di giustizia (prima sezione, sentenza 25.06.2020, C-762/18 e C-37/19)– è ormai consolidata nel senso di ritenere che il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. II, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580, sez. III, 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016, n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie medesime (Cons. Stato, sez. I, 03.07.2023, n. 982; sez. II, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 12.10.2020, n. 6047, e 02.03.2020, n. 1490).
7.2. Nel caso di specie, è pacifico che il militare, per sua libera scelta (v. dichiarazione dell’interessato 18.02.2021, versata al fascicolo d’ufficio), abbia espressamente richiesto di non convertire i giorni di licenza ordinaria maturati in licenza straordinaria e che, a fronte di tale chiara dichiarazione, l’odierno ricorrente non possa invocare ex post la monetizzazione dei periodi di ferie maturate e non godute sulla base di cause non imputabili al lavoratore e quindi, come tali, idonee a consentire una deroga al richiamato quadro normativo.
8. A tanto consegue il rigetto del ricorso (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.02.2024 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristorante Pizzeria – Installazione tenda ad apertura variabile – Tenda rettrattile – Ordine di demolizione e ripristino stato dei luoghi – Violazione norme urbanistico edilizie – Corpo estraneo a struttura fabbricato – Idoneità a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico – Unicamente in presenza di caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile immutazione.
Affinché un corpo estraneo alla struttura di un fabbricato sia idoneo a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico e, in definitiva, a vulnerare le caratteristiche esteriori dell’immobile, occorre che l’elemento aggiuntivo abbia caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile immutazione, che postulano a monte la stabilità e fissità della consistenza materiale impattante, nonché, contestualmente, la sua proiezione nello spazio–tempo.
Nel caso di specie, trattandosi di tende di tela con bracci retrattili, appoggiate immediatamente sopra la porta di ingresso dei locali, il materiale assume una consistenza informe e pressoché nulla ovvero di ridottissimo rilievo urbanistico, per tutto il tempo in cui resta involto ovvero arrotolato nelle due bacchette che lo contengono e che sono meramente appoggiate al muro.
Le opere oggetto di contestazione, inoltre, si limitano a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la temporaneità della loro utilizzazione, ritenuto che la funzione delle tende è temporalmente delimitata e consistente in riparo dal sole, con esclusione della funzione di protezione dalla pioggia, poiché consta di mero tessuto permeabile.
Ne consegue che gli elementi aggiunti all’edificio, in presenza delle suddette caratteristiche non arrecano vulnera apprezzabili ai valori architettonici ed artistici.

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   (1) Trattasi, secondo il Collegio, di una tenda solo “in potenza” allorché arrotolata e chiusa, la quale si trasforma in tenda “in atto” quando, per effetto dello sviluppo del materiale avvolto nel quale consiste, lo stesso muta e prende appunto forma di tenda
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 09.02.2024 n. 983 - link a www.ambientediritto.it).
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1.3. Con il terzo motivo è articolata la censura sostanziale, rubricandosi carenza di potere ed abnormità, violazione degli art. 31 TUED e dell’art. 2, comma 1, d.P.R. 31/2017 perché la tenda retrattile non deve essere considerata alla stregua di nuova costruzione.
In particolare, si duole il ricorrente che, nel caso di specie, si tratta di due tende di tela con bracci retrattili, appoggiate immediatamente sopra la porta di ingresso dei locali, dunque non sulla facciata del fabbricato, al di sotto dei vani contenenti i motori dei climatizzatori, ed utilizzate in modo temporaneo, solo per riparare i tavolini ivi presenti.
Le opere oggetto di contestazione, quindi, così come descritte nell’ordinanza impugnata e come risulta dai rilievi fotografici inclusi, si limitano a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la temporaneità di utilizzazione, sicché non si qualificano come manufatti atti a migliorare la fruizione di uno spazio esterno stabile e duraturo.
Data la loro consistenza, le caratteristiche costruttive e la funzione, sotto il profilo normativo rappresentano un’opera che non determina una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” tale da richiedere il preventivo rilascio del permesso di costruire.
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5. Ritiene il Collegio fondato ed assorbente il terzo motivo di ricorso in punto di inidoneità del descritto elemento ad incrementare il carico urbanistico e, soprattutto, a recare un vulnus alla tutela del patrimonio architettonico e delle caratteristiche del centro storico, per le considerazioni che seguono.
Va tuttavia corretta la prospettiva di indagine proposta dal ricorrente in ricorso nella parte iniziale, in cui sostiene l’assenza di autonoma rilevanza dei due manufatti per cui si procede e la conseguente loro non soggezione al previo rilascio del titolo edilizio.
Rimarca il Collegio che non è questa la contestazione elevata nel provvedimento demolitorio e nel presupposto verbale di accertamento.
Invero, come si motiva nell’atto impugnato nel passo sopra riportato, cioè che si contesta non è l’abusività per carenza di titolo abilitativo edilizio, bensì la violazione dell’art. 49, comma 22, della Legge Regionale n. 16 del 22.12.2004, prevedente che “Sulla facciata degli stabili siti nei centri storici” vieta “l’installazione di apparecchi dì condizionamento d’aria, caldaie, tubazioni e antenne, nonché l’inserimento di nuovi elementi che compromettono il decoro architettonico degli stessi”; in sintesi, dunque, si contesta l’avvenuta inflizione al patrimonio storico artistico che caratterizza le zone omogenee “A” – Centro storico, di un vulnus al decoro architettonico.
6. Occorre pertanto indagare se l’elemento aggiunto dal ricorrente all’edifico, possiede siffatta natura ed attitudine impattante.
Osserva al riguardo il Collegio che affinché un corpo estraneo alla struttura di un fabbricato sia idoneo a pregiudicare il pregio e il decoro architettonico e, in definitiva, a vulnerare le caratteristiche esteriori dell’immobile, occorre che l’elemento aggiuntivo abbia caratteristiche ed effetti di perdurante e stabile immutazione, che postulano a monte la stabilità e fissità della consistenza materiale impattante, nonché, contestualmente, la sua proiezione nello spazio–tempo.
Solo un elemento che abbia connotati fisici definiti e che come tale perduri, appare infatti idoneo ad arrecare vulnera apprezzabili ai valori architettonici ed artistici.
6.1. Siffatte note sostanziali, a ben guardare, non emergono tuttavia rispetto al materiale apportato dal ricorrente all’edificio.
Tale materiale assume, infatti, una consistenza informe e pressoché nulla ovvero di ridottissimo rilievo urbanistico, per tutto il tempo in cui resta involto ovvero arrotolato nelle due bacchette che lo contengono e che sono meramente appoggiate al muro; infatti, quando la tenda “in potenza” è avvolta, perché non serve alla sua funzione rimanendo chiusa, laddove quando è aperta non è ancorata all’immobile né al suolo.
Giova anche porre in luce la circostanza che le due bacchette contenitrici, oltretutto, sono poste al di sotto dei condizionatori e quindi anche che il coupe d’oeil è assorbito dalla massa dei condizionatori; verosimilmente, dunque, le due incriminate bacchette possono sembrar dei listelli di sostegno dei condizionatori.
6.2. Il Collegio è pertanto al cospetto, ponendo mano ai canoni della fisica aristotelica, di una tenda solo “in potenza” allorché arrotolata e chiusa, la quale si trasforma in tenda “in atto” quando, per effetto dello sviluppo del materiale avvolto nel quale consiste, lo stesso muta e prende appunto forma di tenda.
6.3. Non sfugge peraltro al Collegio che l’obiezione sollevabile al delineato costrutto è prevedibile e di agevole intuizione: v’è da chiedersi, cioè, se il descritto materiale informe o proteiforme, che quando rimane nello stadio larvale e consiste in due bacchette avvolgenti o contenenti appare di scarsissima consistenza ed impatto anche ottico, nel momento in cui muta a seguito dello svolgimento e conseguente evoluzione in “tenda”, acquisisca altresì una portata e un carattere impattante l’ambiente e il decoro architettonico dell’edificio.
Tale indagine deve giocoforza dipanarsi sotto il profilo temporale, il parametro guida essendo solo siffatta terza dimensione della fisica.
7. Orbene in proposito il ricorrente, già nell’atto introduttivo, ha precisato che le opere oggetto di contestazione, così come descritte nell’ordinanza impugnata e come risulta dai rilievi fotografici inclusi, si limitano a soddisfare esigenze precarie e si connotano per la temporaneità della loro utilizzazione.
L’additata temporaneità è stata meglio spiegata nel corso dell’esposizione camerale, allorché il procuratore di parte ricorrente ha precisato che l’evoluzione in tenda, e quindi la protensione del materiale avvolto, è temporalmente delimitata dalla sua funzione di riparo dal sole, con esclusione della funzione di protezione dalla pioggia, poiché consta di mero tessuto permeabile.
Allegazioni non contestate dalla difesa comunale e pertanto assumibili a fondamento della decisione ai sensi dell’art. 64, comma 2, c.p.a.
Ne consegue la limitatezza temporale dell’uso e dell’impegno e conseguente impatto del materiale svolto e divenuto “tenda in atto”, discendente dalla funzione ombrifera cui essa assolve, circoscritta, quindi, al tempo della radiazione solare.
7.1. A tale specifico riguardo, il patrono del ricorrente ha inoltre puntualizzato che le aree antistanti il locale “ombreggiato”, ove aggettano le due avversate tende, insistono, come emerge anche dalla documentazione fotografica versata in atti ed esaminata attentamente dal Collegio, in un vicoletto angusto, per tale sua natura quindi naturalmente esposto al sole solo per poche ore al giorno.
Parallelamente, come dianzi evidenziato, la “tenda in atto” non rimane tale a lungo, giacché la sua protensione non è temporalmente estesa anche alle giornate o ai momenti di pioggia, in ragione della consistenza del materiale in un tessuto permeabile e, pertanto, inutile a proteggere dalla pioggia.
Se a ciò si aggiunga altresì la notazione –integrante fatto notorio– che a Napoli le giornate piovose non sono frequenti, emerge complessivamente il ridotto lasso di tempo nel quale la tenda “in potenza” (cioè arrotolata e involta nelle due bacchette contenitrici) muta e permane quale “tenda in atto”; lasso temporale, sostanzialmente coincidente con il periodo di irradiazione solare.
8. Da quanto osservato ed accertato deriva che i due elementi che erroneamente il Comune qualifica come tende, non posseggono attitudine ad impattare e vulnerare le caratteristiche architettoniche e il decoro dell’edificio; dal che va esclusa la violazione dell’art. l’art. 49, comma 22, della Legge Regionale n. 16 del 22.12.2004.
La scrutinata fondatezza del terzo motivo di ricorso consente di accogliere il gravame, con annullamento del provvedimento impugnato.

APPALTI SERVIZI: Procedura aperta – Affidamento servizio di raccolta, trasporto, recupero di fanghi disidratati non pericolosi – Suddivisione in lotti – Costi per la manodopera e sicurezza – Impugnazione provvedimento di esclusione – Modifica-correzione del costo della manodopera e del monte ore – Riduzione del monte ore in sede di giustificativi – Rilevanza ai fini dell’esclusione – Principi del risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato – D.lgs. n. 36 del 2023
Secondo pacifica giurisprudenza, la modifica dei costi della manodopera –introdotta nel corso del procedimento di verifica dell’anomalia– comporta un’inammissibile rettifica di un elemento costitutivo ed essenziale dell’offerta economica, che non è suscettivo di essere immutato nell’importo, al pari degli oneri aziendali per la sicurezza, pena l’incisione degli interessi pubblici posti a presidio delle esigenze di tutela delle condizioni di lavoro e di parità di trattamento dei concorrenti, come imposte dall’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 (1).
Tale consolidato orientamento giurisprudenziale, non può ritenersi superato alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici. Infatti, il d.lgs. n. 36 del 2023 si pone del tutto in linea con il d.lgs. n. 50 del 2016 nell’assicurare una tutela rafforzata degli interessi dei lavoratori, richiedendo di indicare in via separata il costo della manodopera e gli oneri di sicurezza, ciò anche al fine di assicurare che gli operatori economici svolgano una seria valutazione preventiva dei predetti costi prima di formulare il proprio “ribasso complessivo” (2).
Inoltre, i principi del raggiungimento dello scopo, di fiducia e di accesso al mercato devono ritenersi rivolti non solo nei confronti dell’Amministrazione, ma anche degli operatori economici privati i quali devono collaborare per il buon esito dell’affidamento: ebbene proprio tali principi non consentono di superare il divieto di modificazione del contenuto dell’offerta, di cui il costo della manodopera costituisce parte integrante.

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   (1) Cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. III, 31.05.2022, n. 4406.
   (2) Si fa riferimento agli articoli 41, comma 13, e 108, comma 9, del d.lgs. n. 36 del 2023
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 09.02.2024 n. 230 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765 ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale.
Per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli appellanti.
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7. L’appello è infondato.
7.1. Giova ricordare in punto di fatto che nella specie le difformità che interessano la proprietà degli appellanti riguardano alcune modifiche alle aperture e la realizzazione della soletta di copertura a quote sensibilmente superiori rispetto alla licenza edilizia (in particolare: - gronda autorizzata a 1,05 mt, ma realizzata 1,75 mt; - gronda autorizzata a 0,45 mt, ma realizzata 1,24 mt; - colmo autorizzato a 2,40 mt, ma realizzato a 3,27 mt); al proposito eloquenti e incontestate sono le risultanze del verbale di sopralluogo dell’Ufficio tecnico comunale (in atti), nonché le indicazioni contenute nel provvedimento impugnato con il quale è stata ordinata “la demolizione della porzione residenziale e opere abusive sopra descritte ed il ripristino della situazione autorizzata con Licenza Edilizia n. 1228 del 18.02.1965 …”, trattandosi di interventi realizzati in parziale difformità rispetto al titolo abilitativo (art. 34, comma 1 del DPR 380/2001).
8. Ciò posto, passando alla disamina del primo motivo di appello, occorre in principalità considerare che:
   - l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale;
   - per il periodo antecedente al 1967 l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati;
   - è pacifico in causa che, all’epoca in cui erano stati realizzati gli abusi de quibus (1965), il Comune di Merate era dotato di un Regolamento Edilizio e di Programma di Fabbricazione (approvato con Decreto Interministeriale del 18.07.1956 n. 1108), il quale inseriva l'area di specie in zona semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di immobili nel territorio comunale;
   - l’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza edilizia (Prat. n. 1228) rilasciata in data 18.02.1965 e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto, previo sopralluogo, in data 01.09.1965, il permesso di abitabilità.
Secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, imposto dal regolamento edilizio adottato anteriormente alla legge urbanistica del 1967 (come è nella specie) è da considerare legittimo, valido e cogente, atteso che la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, come prevista dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, non impediva ai comuni di estendere all'intero territorio comunale il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, trattandosi di una tipica prerogativa degli enti locali, che come tale non poteva e non può integrare alcuna violazione del principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini o di ingiustificata disparità di trattamento dei medesimi, come prospettato dagli appellanti.
Del resto l’accoglimento di una siffatta prospettazione condurrebbe ad una irragionevole ed illogica rimozione di una legittima attribuzione municipale, qual’e è proprio quella della ordinata pianificazione urbanistica, per tutti quei comuni che, per ragioni di sensibilità culturale o per tutelare adeguatamente il particolare pregio dei propri territori, avessero avvertito l’esigenza di subordinare il legittimo esercizio del diritto di edificazione al rilascio della licenza edilizia ancor prima che la legge nazionale la imponesse in via generalizzata; né può ragionevolmente invocarsi una pretesa violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale, che si manifesterebbe -secondo la prospettazione degli appellanti- nella diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi i cittadini del Comune di Merate, obbligati a chiedere la licenza edilizia anche per attività edificatoria da realizzarsi fuori del centro abitato, rispetto ai quelli residenti in altri comuni che non avevano adottato un regolamento edilizio recante un simile obbligo, giacché intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa ingiustificata diversità di trattamento.
In definitiva, non può ragionevolmente dubitarsi del fatto che, in presenza di opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia del 18.02.1965, le stesse debbono qualificarsi come abusive (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A fronte di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale l’ente locale non è titolare di alcun margine di discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che la repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente costituita dalla descrizione delle opere abusive e della loro contrarietà al titolo, come è nella specie.
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo affidamento in capo ai proprietari.
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8.2. Parimenti infondato è il secondo motivo di gravame.
Invero, a fronte di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, l’ordinanza di demolizione costituisce un atto del tutto vincolato, rispetto al quale l’ente locale non è titolare di alcun margine di discrezionalità neppure quanto al suo contenuto.
Esso inoltre non richiede alcuna autonoma comparazione dell’interesse pubblico con quello privato, dal momento che la repressione degli abusi edilizi costituisce attività doverosa e vincolata per l'amministrazione appellata; quanto alla sua motivazione poi la stessa è adeguatamente costituita dalla descrizione delle opere abusive e della loro contrarietà al titolo, come è nella specie
Né il tempo trascorso dall’epoca di realizzazione del manufatto può comportare deviazioni dalla citata doverosità dell’intervento repressivo o fondare alcun legittimo affidamento in capo ai proprietari (cfr., sul punto, sentenza n. 9/2017 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come ribadito più volte dalla giurisprudenza, il rilascio del certificato di abitabilità non può avere efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti, la illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio:
   - il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa
   - il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere un’interferenza reciproca.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio.
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8.3. Non merita favorevole apprezzamento neppure il terzo motivo di gravame, in quanto, come ribadito più volte dalla giurisprudenza, il rilascio del certificato di abitabilità non può avere efficacia sanante rispetto alle opere abusive.
Infatti (ex multis Consiglio di Stato sez. VII, n. 8239/2023; Consiglio di Stato sez. II, n. 3836/2021) la illiceità dell'immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.
Tutto ciò esclude che fra i due atti possa sussistere un’interferenza reciproca, come sostenuto dal motivo in esame.
E’ vero, d’altro canto, che il conseguimento di agibilità di un immobile dovrebbe presupporne la conformità con la disciplina urbanistica, ma è altrettanto vero che l’eventuale illegittimità, in parte qua, di detto certificato, non impedisce l'attivazione dei doverosi poteri di intervento e sanzionatori che il Comune esercita in quanto autorità competente per la vigilanza sul territorio (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 08.02.2024 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Sugli alloggi di edilizia popolare assegnati in virtù del rapporto di servizio.
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Beni pubblici – Alloggi di edilizia popolare – Assegnazione in virtù del rapporto di servizio – Natura giuridica – Beni appartenenti al patrimonio indisponibile – Autotutela esecutiva – Ammissibilità.
Gli immobili assegnati a soggetti in “attività di servizio” sono destinati a realizzare interessi pubblici e pertanto appartengono al patrimonio indisponibile, con la connessa possibilità dell’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2, c.c. (1).
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Beni pubblici – Alloggi di edilizia popolare – Assegnazione in virtù del rapporto di servizio – Cessazione rapporto – Revoca assegnazione – Legittimità.
Nel caso in cui il rapporto di servizio (unitamente ad altri elementi) abbia consentito di beneficiare di alloggi di edilizia popolare, qualora venga meno tale rapporto (e quindi il presupposto in virtù del quale si è potuto beneficiare della predetta assegnazione, prescindendo dalle ordinarie graduatorie per le assegnazioni degli alloggi di edilizia popolare), legittimamente l’amministrazione procede alla revoca della predetta assegnazione (2).

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   (1) Precedenti conformi: non esistono precedenti negli esatti termini. Sulla circostanza secondo la quale la destinazione “pubblica”, oltre a far annoverare i beni tra quelli appartenenti al patrimonio indisponibile, consente all’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela ex art. 823, comma 2, c.c.: Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2023, n. 418.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi.
   (2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. IV, 28.05.1999, n. 883. Sulla disciplina degli alloggi assegnati in virtù del rapporto di servizio: Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1890
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.02.2024 n. 1166 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
5.6. Le censure sono infondate.
5.6.1. I provvedimenti di revoca della assegnazione degli alloggi sono stati adottati con due decreti prefettizi del 25.11.1997; sotto il profilo delle norme vigenti ratione temporis, non emergono elementi che consentano di suffragare la tesi degli odierni appellanti.
5.6.2. Gli appellanti propongono una lettura parcellizzata e decontestualizzata delle norme sopra richiamate, che debbono invece essere lette e interpretate in maniera sistematica.
5.6.3. La tesi della diversa qualificazione del rapporto locativo de quo, in relazione al rapporto di servizio non può essere condivisa, in quanto la legge n. 52/1976, all’art. 3, opera un rinvio al d.P.R. n. 1406/1954, che, all’art. 8, disciplina le ipotesi di revoca, richiamando l’art. 4 della legge 27.12.1953 n. 980, che (a sua volta) prevede la revoca della assegnazione dell’alloggio in caso di cessazione dal servizio.
5.6.4. Costituisce elemento non controverso che il rapporto di servizio (unitamente ad altri elementi) ha consentito agli appellanti di beneficiare di alloggi di edilizia popolare; ne consegue che, venendo meno il rapporto di servizio (e quindi il presupposto in virtù del quale gli odierni appellanti hanno potuto beneficiare della predetta assegnazione, prescindendo dalle ordinarie graduatorie per le assegnazioni degli alloggi di edilizia popolare), legittimamente l’amministrazione ha proceduto alla revoca della predetta assegnazione.
5.6.5. Secondo principi consolidati nella giurisprudenza di questa Sezione, dai quali il Collegio non ritiene di doversi discostare, “...è principio generale che gli alloggi di cui alla legge n. 52 del 1976 ("Interventi straordinari per l'edilizia a favore del personale civile e militare della pubblica sicurezza, dell'Arma dei carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, del Corpo degli agenti di custodia e del Corpo forestale dello Stato") possono essere assegnati al personale in questione solo in quanto sia in servizio, come emerge dalla espressa previsione dell'art. 1, comma 1, che stabilisce l'assegnazione degli alloggi al personale "in attività di servizio", e secondo la ratio della normativa, per cui gli alloggi servono a far fronte alle esigenze abitative connesse con la prestazione del servizio in sedi diverse dal luogo abituale di residenza e hanno pertanto natura di "alloggi di servizio", con la conseguente legittimità della revoca dell'assegnazione quando cessa il presupposto dell'esigenza di servizio” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.05.1999, n. 883).
5.6.6. L’art. 1, comma 1, della l. 24.12.1993 n. 560 (“Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”) dispone quanto segue: “Sono alloggi di edilizia residenziale pubblica, soggetti alle norme della presente legge, quelli acquisiti, realizzati o recuperati, ivi compresi quelli di cui alla legge 06.03.1976, n. 52, a totale carico o con concorso o con contributo dello Stato, della regione o di enti pubblici territoriali, nonché con i fondi derivanti da contributi dei lavoratori ai sensi della legge 14.02.1963, n. 60 , e successive modificazioni, dallo Stato, da enti pubblici territoriali, nonché dagli Istituti autonomi per le case popolari (IACP) e dai loro consorzi comunque denominati e disciplinati con legge regionale”.
Il predetto articolo nel prevedere e disciplinare l’alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica riconosce legittimazione all’acquisto dei predetti alloggi agli assegnatari o ai loro familiari conviventi, i quali conducano un alloggio a titolo di locazione da oltre un quinquennio e non siano in mora con il pagamento dei canoni e delle spese all’atto della presentazione della domanda di acquisto.
Il fatto che la norma abbia espressamente esteso anche agli assegnatari degli alloggi realizzati ai sensi della legge 06.03.1976 n. 52 (come gli odierni appellanti) non implica che abbia fatto venir meno le norme sopra richiamate relative alla revoca della assegnazione dell’alloggio in caso di cessazione del rapporto di servizio.
5.6.7. In altri termini, l’inclusione degli alloggi in questione tra quelli qualificati di edilizia residenziale pubblica, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge n. 560 del 1993 non ha inciso sul loro vincolo di destinazione e sulle conseguenti modalità di assegnazione e revoca, operando al diverso fine della disciplina della loro alienazione, come anche confermato dalla circolare del Ministero delle finanze n. 455 del 21.02.1994 (cfr. Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana 28.05.2019 n. 491; Tar Sicilia, Sez. III, 24.10.2017 n. 2405; Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.03.2011, n. 1890; in senso conforme, Tar Lazio, Sez. I-ter, 14.05.2012, n. 4310; Tar Liguria, Sez. II, 12.06.2008, n. 1403).
Sotto tale profilo, è stata accolta una nozione di “alloggio di servizio” intesa in senso ampio e, pertanto, non circoscritta soltanto agli alloggi strumentali per lo svolgimento del servizio, ma comprensiva di tutti gli alloggi comunque concessi ai dipendenti alla sola condizione che essi espletino “in loco” le mansioni pubbliche alle quali sono preposti (cfr. Cass. Civ., Sezioni unite, 19.12.2003, n. 19548).
6. Con il secondo motivo di appello, gli odierni appellanti deducono erroneità della sentenza nella parte in cui ha respinto il primo, il terzo e il quarto motivo del ricorso introduttivo del giudizio (sotto altro profilo); violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e 3 della l. 06.03.1976 n. 52; difetto di istruttoria; travisamento in fatto e in diritto; eccesso di potere per difetto dei presupposti; difetto di motivazione; ingiustizia manifesta.
6.1. Secondo la prospettazione degli appellanti, il giudice di primo grado, partendo da una qualificazione giuridica errata degli alloggi in questione, sarebbe addivenuto all’erronea conclusione di ritenere che, nel caso di specie, sussisterebbero i presupposti per poter procedere al rilascio in via autoritativa degli immobili in danno degli appellanti e per poter esercitare la c.d. autotutela esecutiva.
6.2. A giudizio degli appellanti, i beni immobili (alloggi) oggetto del presente contenzioso devono essere annoverati tra i beni del patrimonio pubblico disponibile, con tutte le conseguenze di diritto in ordine all’applicazione agli stessi del regime giuridico di diritto comune.
6.3. A questo riguardo, fanno rilevare che la c.d. “autotutela esecutiva” della pubblica amministrazione può essere esercitata esclusivamente nei confronti di beni appartenenti al demanio e al patrimonio pubblico indisponibile, ma non anche con riguardo alla gestione dei beni appartenenti alla categoria del patrimonio disponibile.
6.4. Evidenziano che il demanio e il patrimonio indisponibile identificano i beni pubblici in senso stretto che sono utilizzabili secondo modalità determinate, nelle quali il rispetto del vincolo funzionale della destinazione pubblica impone l’applicazione di regole di matrice pubblicistica e autoritativa; laddove i beni appartenenti al c.d. patrimonio disponibile, al contrario, sono riconducibili invece al regime giuridico di diritto comune.
6.5. Sostengono che gli alloggi per cui è causa non rientrino né nel demanio né nel patrimonio pubblico indisponibile, ma siano ascrivibili al patrimonio disponibile della amministrazione, per le seguenti ragioni:
   - difetterebbe una destinazione del bene a finalità pubbliche e/o a pubblici servizi ad opera di una norma di legge;
   - difetterebbe una destinazione del bene a finalità pubbliche e/o a pubblici servizi ad opera di atti amministrativi generali o di pianificazione;
   - la stessa amministrazione, nel disciplinare il rapporto in questione, ha utilizzato lo schema del contratto di locazione, in luogo della concessione-contratto.
A riprova di quanto dedotto, evidenziano che il godimento dell’alloggio è stato attribuito agli appellanti non per finalità pubblicistiche connesse e funzionali alle necessità del servizio, ma per finalità personali degli interessati e volte a garantire le esigenze abitative del personale dell’amministrazione e dei relativi familiari.
In altri termini, il godimento dell’alloggio sarebbe stato attribuito agli appellanti in forza di un ordinario contratto di locazione e dietro il pagamento di un corrispettivo, instaurandosi con l’amministrazione un rapporto in cui, ad una prima fase prenegoziale pubblicistica, connotata dall’esercizio del potere amministrativo, sarebbe subentrata una fase di disciplina prettamente contrattuale del rapporto, regolata unicamente da strumenti di natura privatistica.
6.6. Le censure sono infondate.
6.6.1. Occorre in primo luogo rilevare che i beni di proprietà di soggetti pubblici appartengono al patrimoni indisponibile se “destinati a un pubblico servizio” (art. 826, comma 3, c.c.) o più in generale se destinati a realizzare un interesse pubblico.
Come già affermato in un recente precedente della Sezione (sentenza 12.01.2023, n. 418), la destinazione “pubblica” oltre a far annoverare i beni tra quella appartenenti al patrimonio indisponibile, consente all’amministrazione di far uso dei poteri di autotutela ex art. 823, comma 2, c.c.
Nel caso di specie, la destinazione del bene alla realizzazione di interessi pubblici emerge con evidenza dalla circostanza che gli immobili in questione erano (e sono) destinati a soggetti in “attività di servizio”, realizzandosi così sin dal momento genetico un collegamento tra il bene e l’interesse pubblico da soddisfare.
6.6.2. Sotto altro aspetto, costituisce ius receptum nella giurisprudenza amministrativa il principio secondo il quale gli atti con i quali la pubblica amministrazione ammette i privati al godimento degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (ossia di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dell’ente) vanno ascritti al genus delle concessioni di beni pubblici (Tar Liguria, Sez. I, 13.12.2016 n. 1233).
6.6.2. La concessione del bene pubblico è uno degli strumenti attraverso i quali l’amministrazione provvede alla gestione dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo pubblicistico, al fine di assicurarne il migliore utilizzo.
Nel caso dell'edilizia residenziale pubblica non viene però in rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni dell'amministrazione; l’assegnazione dell'alloggio non è quindi mero strumento di gestione del bene pubblico, ma tende a soddisfare un generale bisogno della collettività; ne è prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale viene attivata per far fronte alle esigenze abitative della collettività (cfr. Tar Toscana, Sez. II, 30.10.2018 n. 1399).
6.6.5. Nella sentenza impugnata, il giudice di primo grado, dopo una ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ha evidenziato che l’assegnazione dell’alloggio è avvenuta in relazione al rapporto di servizio degli odierni appellanti, con la conseguenza che la cessazione del rapporto di servizio ha legittimato l’amministrazione alla revoca delle precedenti assegnazioni.
Sulla base delle coordinate ermeneutiche sopra richiamate, ritiene il Collegio che le conclusioni del giudice di primo grado debbano essere confermate, in quanto legittimamente l’amministrazione ha proceduto alla revoca della assegnazione dell’alloggio nel momento in cui, con la cessazione del rapporto di servizio, è venuto meno uno dei presupposti legittimanti l’assegnazione dell’alloggio.
L’esercizio del potere di revoca trova il suo espresso fondamento giuridico nelle norme sopra richiamate.
Come sopra evidenziato, il d.P.R. 27.11.1954, n. 1406 (“Norme regolamentari per l'assegnazione e la gestione degli alloggi, costruiti dall'I.N.C.I.S., da assegnare in locazione al personale dipendente dall’amministrazione della pubblica sicurezza”), richiamato anche dalle parti appellanti, all’art. 8, disciplina le ipotesi di revoca, richiamando l’art. 4 della legge 27.12.1953 n. 980, che (a sua volta) prevede la revoca della assegnazione dell’alloggio in caso di cessazione dal servizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.02.2024 n. 1166 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diniego dell'istanza di concessione edilizia.
Invero, il provvedimento in esame -presentando natura vincolata- non necessitava di una particolare motivazione; e proprio il carattere vincolato del provvedimento di diniego rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che nessun apporto utile poteva essere conferito dalla partecipazione del ricorrente all’istruttoria procedimentale.
Giova evidenziare al riguardo che la disposizione dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990 che esclude l'effetto invalidante del vizio dovuto a violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa.
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che il vizio d'incompetenza relativa, che colpisce un provvedimento amministrativo, in quanto lo stesso avrebbe dovuto essere emanato da organo diverso dello stesso ente, costituisce un mero vizio procedimentale, in quanto tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto dispositivo sia palese.
In altri termini, l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, l. n. 241 del 1990 —che ha escluso l'effetto invalidante del vizio dovuto a “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”— trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa.
Ciò posto, andando al caso di specie, e considerata la natura vincolata del provvedimento impugnato, devono ritenersi del tutto irrilevanti i vizi di incompetenza relativa denunciati dalla parte ricorrente (in quanto “sarebbero stati adottati in conflitto di interesse” o “perché adottati dal responsabile dell’Ufficio Urbanistica anziché dal responsabile del SUAP”) e ciò ai sensi del principio enucleato dall'art. 21-octies della Legge n. 241/1990.
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Oggetto di questo contenzioso è la richiesta di rilascio di concessione edilizia (per la realizzazione di un complesso edilizio destinato ad attività commerciale nel comune di Piazza Armerina) dove all’area (in cui ricade il fondo) veniva attribuita dal ricorrente una destinazione urbanistica (ossia “B”) diversa rispetto a quella impressa dal Comune (“F5”).
Il ricorso è infondato.
La richiesta è stata rigettata perché la progettazione risultava essere redatta come se l’area ricadesse in zona B anziché in F5 come risultante dal PRG; in altri termini, il progetto presentato da parte ricorrente presentava specifiche e caratteristiche tipiche di una zona B, di contro, l’area di proprietà del Se. era stata qualificata nel nuovo piano regolatore come zona F5 Parchi urbani e suburbani e addirittura sottoposta al vincolo cimiteriale e boschivo.
Nel provvedimento si legge quanto segue:
   a) “l’area interessata alla realizzazione del complesso edilizio ricade nel vigente PRG per il 90% in zona F5 (parchi urbani e suburbani) e il 10% come viabilità di progetto”;
   b) “il progetto è stato redatto, attribuendo tutti i parametri e destinazione d’uso ammesse alla zona B, in contrasto con quanto previsto dalla zonizzazione del vigente PRG (Tav. Z.5-03) che classifica l’area per il 90% circa in zona F5 dove sono consentiti parchi urbani e suburbani e il 10% come viabilità di progetto”.
Risulta pertanto infondata la censura di difetto di motivazione spiegata in ricorso posto che è possibile comprendere in maniera chiara l’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione locale nell’adozione del provvedimento.
In ogni caso, giova evidenziare che il provvedimento in esame -presentando natura vincolata- non necessitava di una particolare motivazione; e proprio il carattere vincolato del provvedimento di diniego rende superflua la comunicazione di avvio del procedimento, dal momento che nessun apporto utile poteva essere conferito dalla partecipazione del Se. all’istruttoria procedimentale.
Giova evidenziare al riguardo che la disposizione dell'art. 21-octies, l. n. 241/1990 che esclude l'effetto invalidante del vizio dovuto a violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa (cfr. TAR Campania-Napoli, sez. VII, 10/03/2022, n. 1614; Cons. St., sez. III, 04.09.2020 n. 5355; id., sez. V, 07.02.2020 n. 971; id., sez. III, 22.01.2019 n. 253; id., 03.08.2015 n. 3791; id., sez. V, 14.05.2013 n. 2602; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.03.2019 n. 1212; id., 28.03.2017 n. 1710; TAR Toscana, 30.01.2012 n. 197; TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 03.05.2021 n. 5096).
In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che il vizio d'incompetenza relativa, che colpisce un provvedimento amministrativo, in quanto lo stesso avrebbe dovuto essere emanato da organo diverso dello stesso ente, costituisce un mero vizio procedimentale, in quanto tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto dispositivo sia palese (vedi Consiglio di Stato sez. VI, 20/01/2022, n. 359).
In altri termini, l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, l. n. 241 del 1990 —che ha escluso l'effetto invalidante del vizio dovuto a “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”— trova applicazione anche in relazione ai provvedimenti viziati per incompetenza relativa (vedi Consiglio di Stato sez. III, 13/05/2020, n. 3046).
Ciò posto, andando al caso di specie, e considerata la natura vincolata del provvedimento impugnato, devono ritenersi del tutto irrilevanti i vizi di incompetenza relativa denunciati dalla parte ricorrente (in quanto “sarebbero stati adottati in conflitto di interesse” o “perché adottati dal responsabile dell’Ufficio Urbanistica anziché dal responsabile del SUAP”) e ciò ai sensi del principio enucleato dall'art. 21-octies della Legge n. 241/1990 (TAR Sicilia-Palermo, sez. II, 10/01/2022, n. 37; Consiglio di Stato sez. III, 04/09/2020, n. 5355) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 31.01.2024 n. 388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’indennità risarcitoria per abusi paesaggistici minori.
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Edilizia e urbanistica – Abuso – Mancanza autorizzazione paesaggistica – Indennità risarcitoria per abusi paesaggistici minori – Doverosità.
La circostanza che la l. n. 1497 del 1939 sia stata abrogata definitivamente nel 2008 non ha alcun rilievo quanto all’esistenza dell’illecito da sanare poiché la norma all’epoca vigente è stata riprodotta nel d.lgs. n. 42 del 2004, che ha raccolto le norme esistenti in precedenti testi legislativi, cosicché possono considerarsi abrogate solo le fattispecie non contenute nel nuovo testo unico, trattandosi, negli altri casi, di mera modifica del nomen iuris. Pertanto, l’indennità risarcitoria, oggi disciplinata dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, in caso di abusi paesaggistici cd. minori, che era già prevista dall’art. 15 l. 1497/1939, è dovuta (1).
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   (1) Precedenti conformi: non risultano precedenti negli specifici termini.
         Precedenti difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 30.01.2024 n. 945 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. La signora -OMISSIS- ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe che ha respinto il suo ricorso avverso l’atto dirigenziale regionale n. 44 del 12.03.2014, avente ad oggetto l’applicazione delle indennità risarcitorie di cui all’art. 167 d.lgs. 42/2004 e art. 1, comma 37, lett. B2. L. 308/2004.
2. In effetti l’appellante aveva realizzato, previa comunicazione asseverata del 06.09.1995, un volume tecnico di mq. 37 sul terrazzo della sua casa sita in Brindisi all’epoca ricadente in zona non vincolata.
Successivamente aveva trasformava quel vano tecnico in volume abitativo e con istanza del 10.12.2004 chiedeva la sanatoria per quella trasformazione del volume tecnico in volume abitativo ai sensi del decreto legge n. 269/2003, convertito con modificazioni nella l. n. 326/2003.
La Soprintendenza con nota del 29.01.2009 aveva assentito al mantenimento dell’opera sotto il profilo paesaggistico con conseguente rilascio del provvedimento che autorizzava il cambiamento di destinazione d’uso.
Il 12.05.2014 veniva notificato alla ricorrente l’atto dirigenziale del Servizio Regionale Urbanistica n. 44 del 17.03.2014 di applicazione della indennità risarcitoria di cui all’art. 167 D.lgs. 42/2004, avverso il quale l’interessata propone ricorso al TAR per la Puglia.
3. Quest’ultimo ha respinto il ricorso affermando innanzitutto che il vincolo paesaggistico era esistente già all’epoca di realizzazione del volume tecnico e che l’indennità risarcitoria costituiva presupposto imprescindibile per la sanabilità dell’abuso paesaggistico; ha aggiunto che era inoltre priva di rilievo la circostanza che si fosse realizzato un mero cambio di destinazione d’uso senza lavori esterni, così come era irrilevante, ai fini della legittimità del provvedimento impugnato, il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento.
4. L’appello è affidato a tre motivi, sostanzialmente reiterativi di cui proposti in primo grado, ma secondo l’interessata malamente apprezzati e ingiustamente respinti.
4.1. Con il primo motivo si ribadisce che l’autorizzazione paesaggistica non era necessaria e che comunque era stata rilasciata con la sanatoria dal Comune di Brindisi in data 24.06.2010 relativamente alle opere edilizie consistenti in una mera ristrutturazione con cambio di destinazione d’uso di un volume tecnico in civile abitazione sul terrazzo, sanatoria peraltro preceduta dai pareri di compatibilità ambientale favorevole emessi dal Nucleo di Valutazione Paesaggistica del Comune in data 09.12.2008 e dalla Soprintendenza in data 29.01.2009.
E’ stato anche sottolineato che la sanzione prevista all’epoca dalla L. 1497/1939 era stata definitivamente abrogata nel 2008; che la modifica della destinazione d’uso non aveva comportato alcun danno sul piano paesistico e infine che, trattandosi di un intervento minore ai sensi del d.P.R. 31/2017, non era necessaria l’autorizzazione paesaggistica.
...6. L’appello è infondato, il che consente di prescindere dall’esame della questione, pur rilevabile d’ufficio, dell’inammissibilità del gravame a causa del mancato deposito della sentenza impugnata ex art. 94 c.p.a..
6.1. Relativamente al primo motivo di gravame, va premesso che la circostanza che la L. 1497/1939 sia stata abrogata definitivamente nel 2008 non ha alcun rilievo quanto all’esistenza dell’illecito da sanare poiché la norma all’epoca vigente è stata riprodotta nel d.lgs. 42/2004, che ha raccolto le norme esistenti in precedenti testi legislativi cosicché possono considerarsi abrogate solo le fattispecie non contenute nel nuovo testo unico, trattandosi negli altri casi di mera modifica del nomen iuris.
Pertanto l’indennità risarcitoria, oggi disciplinata dall’art. 167 del d.lgs. 42/2004 in caso di abusi paesaggistici cd. minori, era già prevista dall’art. 15 l. 1497/1939.
L’autorizzazione paesaggistica era necessaria anche all’epoca della realizzazione del volume tecnico in base alla L. 310/1995, mentre le successive autorizzazioni rilasciate dalla Soprintendenza e dal Comune di Brindisi, invocate dall’appellante a sostegno della non necessità dell’autorizzazione, devono considerarsi autorizzazioni in sanatoria dal momento che, all’epoca in cui fu chiesta la modifica della destinazione d’uso del manufatto, era emerso che l’autorizzazione paesistica non era stata richiesta; se l’autorizzazione fosse stata a suo tempo richiesta quando furono effettuate le modifiche interne era evidente che non vi sarebbe stato il pagamento di alcuna sanzione.
E’ inconferente il richiamo al d.P.R. 31/2017 che non era vigente all’epoca dei fatti.
In conclusione l’ottenimento di una autorizzazione paesaggistica in sanatoria comporta il pagamento della sanzione prevista dall’art. 167 d.lgs. 42/2004, come già correttamente affermato il primo giudice (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 30.01.2024 n. 945 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La distinzione tra atti di conferma in senso proprio e meramente confermativi deve individuarsi nella circostanza che l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi, escludendosi che possa considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo, non impugnabile, allorché l'Amministrazione si limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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1. Con il ricorso in esame si espone che la Co.Ca. S.r.l.s. è proprietaria di un immobile sito in Via ... n. 17/b - frazione Casatico di Giussago, edificato in forza di permesso di costruire n. 60/2006 e di successive varianti, nonché di autorizzazione paesaggistica del 22.12.2006, rilasciati dal Comune di Giussago alla precedente proprietaria Xe.Im. S.r.l.
Quest’ultima subiva un’esecuzione immobiliare con redazione di una perizia che riscontrava difformità e conseguenti contestazioni di irregolarità, oggetto di ordinanza di demolizione che ingiungeva di provvedere alla demolizione e/o alla riduzione in pristino delle opere abusive eseguite entro e non oltre 90 giorni.
Parte ricorrente che aveva acquisito il bene, dubitando dell’effettiva possibilità di ridurre in pristino senza compromettere le parti dell’edificio realizzate in conformità, affidava ad un tecnico di fiducia la redazione di una perizia strutturale, che effettivamente rappresentava che le operazioni di demolizione e ricostruzione degli elementi portanti di copertura avrebbero potuto pregiudicare il comportamento strutturale dell’opera; veniva dunque con atto del 03.06.2019 presentata istanza di fiscalizzazione degli abusi ex art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, anche se poi si rinunciava a detta procedura per richiedere l’indicazione delle prescrizioni che avrebbero dovuto consentire la compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 17 del DPR n. 31/2017.
Tuttavia il Comune, a seguito di parere negativo della Soprintendenza, con atto del 15.06.2020 dichiarava improcedibile quest’ultimo procedimento e disponeva “la riapertura dei termini per l’ottemperanza all’Ordinanza di demolizione notificata in data 04.04.2019 …, termini precedentemente sospesi a decorrere dal 03.06.2019”; il 10.07.2020, in piena emergenza COVID-19, parte ricorrente richiedeva una proroga dei termini di esecuzione, accolta dal Comune con successiva nota del 17.07.2020 purché fossero eseguiti alcuni adempimenti.
Da ultimo, con il provvedimento impugnato, il Comune comunicava la riapertura dei termini per l’ottemperanza all’ordinanza di demolizione, anche se parte ricorrente contestava le modalità di conteggio del termine per l’adempimento, in previsione della presentazione di progetto di demolizione parziale del sottotetto, poi effettivamente trasmesso il 31.12.2020.
Avverso il provvedimento in epigrafe sono insorte le ricorrenti rassegnando le seguenti censure:
...
4. Il Collegio ritiene di prescindere dalle eccezioni in rito, anche quanto all’asserita improcedibilità, attesa l’infondatezza nel merito del ricorso.
4.1 Quanto alla presunta lesività dell’atto impugnato per come qualificabile quale conferma in senso proprio, in disparte la successiva valutazione nel merito del gravame, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, V, 27.07.2023, n. 7343; 09.05.2023, n. 4642; TAR Lombardia, Milano, IV, 25.07.2023, n. 1959) secondo cui la distinzione tra atti di conferma in senso proprio e meramente confermativi deve individuarsi nella circostanza che l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi, escludendosi che possa considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata; ricorre invece l'atto meramente confermativo, non impugnabile, allorché l'Amministrazione si limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza.
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Il provvedimento demolitorio è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
Invero, è orientamento pacifico in giurisprudenza che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".

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Nel caso di specie, la parte ricorrente aveva la disponibilità materiale dell’opera abusiva, ragion per cui legittimamente la notifica del provvedimento demolitorio si è perfezionata nei confronti di chi, in quel momento, deteneva l’immobile indipendentemente dall’aver contribuito a realizzare l’abuso.
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata, come nella specie, nei confronti della proprietaria del manufatto, sebbene non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Sul punto questa stessa Sezione (06.06.2022, n. 1309) ha avuto modo di affermare che “l’acquisizione dei beni al patrimonio comunale, correlata all’inottemperanza all’ordine di demolizione di opere abusive, grava sia sul proprietario che sul detentore del bene, anche se non autori materiali dell’abuso e non aventi causa dal trasgressore, poiché una volta venuti a conoscenza, tramite la notifica dell’ordinanza di rimessione in pristino, dell’attività illecita svolta da terzi, devono attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e laddove abbiano la disponibilità del manufatto devono provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subiscono certamente l’acquisizione del bene".
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4.2 In disparte se nella fattispecie si possa ricondurre ad una nuova istruttoria/motivazione –con conseguente riapertura dei termini per l’ottemperanza- la mera descrizione degli eventi intercorsi medio tempore dall’ultima sospensione concessa, preliminarmente la Sezione esprime l’avviso che, con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza.
Con tali premesse le censure in termini di violazione di legge non meritano positiva valutazione in quanto il provvedimento demolitorio, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Campania, Salerno, II, 29.01.2019, n. 203; Napoli, IV, 10.01.2019, n. 137; Cons. Stato, VI, 05.11.2018, n. 6233).
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
Non troverebbero ingresso neanche le censure di natura procedimentale, essendo orientamento pacifico in giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, II, 13.06.2019, n. 3971; TAR Campania, Napoli, IV, 10.1.2019, n. 137) che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
4.3 In ogni caso parte ricorrente aveva la disponibilità materiale dell’opera abusiva, ragion per cui legittimamente la notifica del provvedimento demolitorio si è perfezionata nei confronti di chi, in quel momento, deteneva l’immobile indipendentemente dall’aver contribuito a realizzare l’abuso.
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata, come nella specie, nei confronti della proprietaria del manufatto, sebbene non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Sul punto questa stessa Sezione (06.06.2022, n. 1309) ha avuto modo di affermare che “l’acquisizione dei beni al patrimonio comunale, correlata all’inottemperanza all’ordine di demolizione di opere abusive, grava sia sul proprietario che sul detentore del bene, anche se non autori materiali dell’abuso e non aventi causa dal trasgressore, poiché una volta venuti a conoscenza, tramite la notifica dell’ordinanza di rimessione in pristino, dell’attività illecita svolta da terzi, devono attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e laddove abbiano la disponibilità del manufatto devono provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subiscono certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 13.10.2020, n. 1889; 04.07.2019, n. 1528; 21.01.2019, n. 112; 03.11.2016, n. 2014; 16.03.2015, n. 728)" (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rileva il Collegio che l'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 (secondo cui "Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale") è interpretato dalla giurisprudenza nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti la costante giurisprudenza ritiene che la norma ha valore eccezionale e derogatorio, ragion per cui non è l'Amministrazione a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l'obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme.
Va ancora chiarito in questa sede che l’art. 34, co. 2, del T.U. edilizia introduce una sanzione alternativa rispetto a quella demolitivo-restitutoria nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza incidere sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso.
La statuizione che prevede una sanzione pecuniaria non configura un'ipotesi di sanatoria dell'abuso edilizio perpetrato, ma semplicemente contempera l'esigenza di ristabilire lo status quo ante con quella di assicurare la sicurezza pubblica; la sanzione pecuniaria si applica soltanto quando sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione, risultando in maniera inequivoca che la demolizione inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
In altri termini, l'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione".
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione; in quella sede, infatti, le parti ben potranno dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità dell’immobile derivante dall'esecuzione della demolizione.

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4.4 Contrariamente a quanto asserito in sede ricorsuale in relazione all'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 -secondo cui "Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale"- rileva il Collegio che la citata disposizione è interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria posta da tale normativa debba essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione, fase esecutiva nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti la costante giurisprudenza ritiene che la norma ha valore eccezionale e derogatorio, ragion per cui non è l'Amministrazione a dover valutare, prima di emettere l'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, ma è il privato interessato a dover dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, l'obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (cfr. TAR Sicilia, Palermo, II, 26.02.2020, n. 439; Cons. Stato, II, 12.09.2019, n. 6147; VI, 15.07.2019, n. 4939; 21.05.2019, n. 3280; 09.07.2018, n. 4169; 19.11.2018, n. 6497; 29.11.2017, n. 5585).
La Sezione ritiene dunque, in conformità al suesposto consolidato orientamento, che nel caso di specie il Comune di Giussago non potesse che ordinare la demolizione delle opere abusivamente realizzate, salva la facoltà per parte ricorrente di dedurre, al momento della concreta esecuzione del provvedimento di demolizione, in ordine all'eventuale situazione di pericolo di stabilità del fabbricato derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere abusive e per le opere realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio.
Va ancora chiarito in questa sede che l’art. 34, co. 2, del T.U. edilizia introduce una sanzione alternativa rispetto a quella demolitivo-restitutoria nel caso in cui la demolizione non possa avvenire senza incidere sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso.
La statuizione che prevede una sanzione pecuniaria non configura un'ipotesi di sanatoria dell'abuso edilizio perpetrato, ma semplicemente contempera l'esigenza di ristabilire lo status quo ante con quella di assicurare la sicurezza pubblica; la sanzione pecuniaria si applica soltanto quando sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione, risultando in maniera inequivoca che la demolizione inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
In altri termini, l'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione".
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione (ex plurimis Cons. Stato, VI, 20/07/2018, n. 4418; 29/11/2017, n. 5585; 12/04/2013, n. 2001); in quella sede, infatti, le parti ben potranno dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità dell’immobile derivante dall'esecuzione della demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di volume utile ai fini urbanistici non è coincidente con quella applicabile in sede paesistica, dal momento che
   - nelle valutazioni di natura urbanistica mediante il volume utile viene misurata la consistenza dei diritti edificatori, mentre
   - nei giudizi paesistici viene considerata la percepibilità dell'opera come volume collocato in uno scenario e viene pertanto valutato il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico.
Invero, “se nelle valutazioni di natura urbanistica, attraverso il volume utile, viene misurata la consistenza dei diritti edificatori (che sono consumati da alcune tipologie costruttive, ad esempio l’edificazione fuori terra, e non da altre, ad esempio la realizzazione di locali tecnici), nei giudizi paesistici assume rilievo solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell’insieme paesistico".

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4.5 Nella fattispecie è fuori discussione, per come deducibile dalla proposta progettuale successivamente presentata, che anche l’ipotizzata realizzazione di tasche a tetto, mediante la rimozione di parti di copertura per la formazione di terrazzi e spazi senza permanenza di persone, pur determinando una significativa riduzione quantitativa dell’abuso, non andrebbe a modificare il volume per quanto attiene all'aspetto della tutela paesaggistica, lasciando immutata la percepibilità dell'opera ai fini paesistici soprattutto in ragione dell'invarianza della sagoma di copertura.
Occorre sottolineare che la nozione di volume utile ai fini urbanistici non è coincidente con quella applicabile in sede paesistica, dal momento che nelle valutazioni di natura urbanistica mediante il volume utile viene misurata la consistenza dei diritti edificatori, mentre nei giudizi paesistici viene considerata la percepibilità dell'opera come volume collocato in uno scenario e viene pertanto valutato il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell'insieme paesistico.
In coerenza con quanto esposto, la Sezione (n. 1788/2023) ha ritenuto che “se nelle valutazioni di natura urbanistica, attraverso il volume utile, viene misurata la consistenza dei diritti edificatori (che sono consumati da alcune tipologie costruttive, ad esempio l’edificazione fuori terra, e non da altre, ad esempio la realizzazione di locali tecnici), nei giudizi paesistici assume rilievo solo il volume percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell’insieme paesistico (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 24.06.2020, n. 1172; 11.06.2019, n. 1319; altresì, TAR Campania, Napoli, VII, 01.02.2018, n. 712)” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In giurisprudenza è opinione consolidata
   - che "l'esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell'interesse pubblico affidato all'una od all'altra branca dell'Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all'art. 97, Cost." e
   - che "nella specifica materia dell'attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001), non sussistendo l'obbligo di comparazione degli interessi e non essendo rinvenibile un affidamento tutelabile del privato".
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
Poi, il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus..
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare.

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4.6 Sotto ulteriore profilo le censure in termini di eccesso di potere e di difetto di motivazione sono ancor più destituite di fondamento se si considera che in giurisprudenza è opinione consolidata (ad es., Cons. Stato, IV, 25.11.2008, n. 5811) che "l'esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell'interesse pubblico affidato all'una od all'altra branca dell'Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all'art. 97, Cost." e che "nella specifica materia dell'attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001), non sussistendo l'obbligo di comparazione degli interessi e non essendo rinvenibile un affidamento tutelabile del privato".
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime.
4.7 Per il resto il Collegio ritiene di far proprio quanto argomentato dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; IV, 12.10.2016, n. 4205; 31.08.2016, n. 3750) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2024 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Consorzi stabili fuori gara anche per sanzioni a imprese non designate per l’esecuzione. Lo precisa il Tar Lazio chiarendo che l’esclusione deve però essere sorretta da adeguata motivazione da parte della stazione appaltante come prescrive anche il nuovo codice.
In caso di partecipazione alla gara di un consorzio stabile, le carenze nell’esecuzione di precedenti contratti di appalto che abbiano portato alla risoluzione per inadempimento o ad altre misure sanzionatorie rilevano ai fini dell’esclusione anche se sono intervenute nei confronti di un’impresa consorziata diversa da quella designata come esecutrice nella gara stessa.
Nel contempo, l'esclusione deve essere sorretta da adeguata motivazione, che implica lo svolgimento da parte della stazione appaltante di una compiuta istruttoria che consenta alla stessa di compiere le sue valutazioni discrezionali in merito all'effettiva rilevanza dei fatti contestati al fine di procedere all'eventuale esclusione.
Si è espresso in questi termini il TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 11.01.2024 n. 560, che affronta il tema di come deve essere inteso il possesso dei requisiti generali in capo al consorzio stabile e come opera la causa di esclusione delle inadempienze in precedenti contratti, da valutare anche alla luce delle novità introdotte dal Dlgs 36/2023.
Il fatto
Il Ministero della Difesa aveva bandito una gara per l'affidamento di un appalto di lavori. L'aggiudicazione veniva in un primo momento operata a favore di un raggruppamento temporaneo di imprese in cui il mandatario era un consorzio stabile. Successivamente, anche a seguito di un'istanza presentata dal secondo classificato, la stazione appaltante procedeva all'annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione.
Tale annullamento veniva motivato con riferimento alla previsione dell'allora vigente articolo 80, comma 5, lettera c-ter), del Dlgs 50/2016, che prevedeva l'esclusione dalla gara del concorrente che fosse incorso in significative o persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto, che avessero portato alla risoluzione per inadempimento o ad altre sanzioni comparabili.
La stessa disposizione prevedeva peraltro che su tali circostanze la stazione appaltante fosse chiamata a motivare, anche in relazione al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa. Nello specifico, a carico del consorzio stabile (mandatario del raggruppamento originariamente aggiudicatario) risultava una risoluzione per inadempimento di un precedente contratto di appalto, nonché altri quattro provvedimenti di rescissione in danno, sempre a carico del consorzio in relazione a precedenti appalti.
La stessa stazione appaltante precisava che non assumeva alcun rilievo la circostanza che le imprese consorziate esecutrici dei precedenti contratti di appalto che avevano dato luogo agli atti di risoluzione e rescissione fossero diverse dall'impresa designata come esecutrice nella gara bandita.
Ciò in quanto gli eventi da considerare pregiudizievoli in capo al consorzio ai fini della sua partecipazione alla gara andavano valutati a prescindere da quale fosse la consorziata esecutrice nei contratti rispetto ai quali si erano manifestati gli inadempimenti, e quindi anche se tale consorziata non coincideva con quella designata in sede di gara.
Il provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione è stato impugnato dal consorzio stabile davanti al giudice amministrativo. Secondo il ricorrente erroneamente la stazione appaltante avrebbe fatto conseguire in maniera automatica l'annullamento dell'aggiudicazione dagli atti di risoluzione e rescissione dei precedenti contratti di appalto.
Ciò senza considerare da un lato la necessità di operare una valutazione in concreto in merito alla gravità e rilevanza degli inadempimenti e al grado di responsabilità dell'impresa consorziata; dall'altro, che in tali contratti le consorziate esecutrici erano diverse da quella indicata in sede di gara.
In relazione a tale ultimo profilo, il ricorrente evidenziava che qualora gli eventi contestati riguardavano contratti in cui l'impresa consorziata esecutrice era diversa da quella indicata in sede di gara non sussisterebbe neanche un onere dichiarativo in capo al consorzio stabile, in quanto tali eventi non sarebbero direttamente imputabili al consorzio stesso.
I requisiti generali in capo al consorzio e alle consorziate
Il giudice amministrativo ha proceduto in primo luogo all'esame di questo secondo profilo.
La censura avanzata dal ricorrente è stata respinta, ritenendosi corretto il comportamento della stazione appaltante. Ricorda infatti il giudice amministrativo che la struttura giuridica del consorzio stabile considerato come un soggetto autonomo dotato di personalità giuridica, distinta da quella delle consorziate comporta che l'evento ritenuto pregiudizievole vada considerato e valutato in capo al consorzio a prescindere dal fatto che lo stesso abbia materialmente riguardato un'impresa consorziata diversa da quella designata in sede di gara.
Tale evento si riferisce infatti a un requisito di ordine generale (di idoneità morale) che come tale deve essere posseduto in primo luogo dall'impresa consorziata indicata come esecutrice in sede di offerta relativa alla specifica gara, non potendosi ammettere che un'impresa consorziata priva dei requisiti generali possa essere avvantaggiata dallo schermo di copertura costituito dal consorzio.
Ma lo stesso requisito di ordine generale deve essere posseduto anche dal consorzio in quanto tale, e a tal fine è irrilevante che l'evento che viene in considerazione per ritenere insussistente il suddetto requisito abbia riguardato contratti in cui era impresa esecutrice una consorziata diversa da quella designata in sede di gara.
In sostanza, il giudice amministrativo evidenzia che i requisiti generali per la partecipazione alla gara devono essere posseduti sia dal consorzio in quanto tale che dall'impresa consorziata indicata come esecutrice.
Ma in relazione al consorzio, la carenza del requisito generale rileva anche se il fatto produttivo della stessa sia imputabile a una consorziata diversa da quella designata in sede di gara. In realtà la necessità che i requisiti generali siano posseduti direttamente anche dal consorzio non è esplicitamente prevista dalla disciplina legislativa, ma è il frutto di una elaborazione giurisprudenziale sul punto.
Infatti sia il Dlgs 50 che il Dlgs 36 si occupano esclusivamente dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi in capo alle imprese consorziate, ma nulla dicono in merito ai requisiti di carattere generale. Tuttavia la conclusione accolta dal giudice amministrativo appare condivisibile.
Il soggetto che partecipa alla gara e che risulta titolare del relativo contratto in caso di aggiudicazione è il consorzio stabile in quanto tale. E poiché esso si configura come una stabile struttura di impresa con una propria soggettività giuridica e con distinta autonomia anche patrimoniale, appare corretto che il consorzio in sé sia in possesso dei requisiti generali per la partecipazione alla gara. E risulta altrettanto logico che la sussistenza di tali requisiti sia accertata con riferimento ai comportamenti di tutte indistintamente le imprese consorziate, senza che rilevi la circostanza che gli stessi comportamenti siano stati posti in essere da una consorziata diversa da quella designata in sede di partecipazione alla gara.
In sostanza, l'idoneità morale del consorzio stabile è anche la risultanza dell'idoneità morale di tutte le imprese consorziate, proprio perché la struttura consortile unitaria implica che qualunque comportamento di ognuna di tali imprese si rifletta immediatamente sulla idoneità del consorzio in relazione al possesso di requisiti generali.
Nel caso di specie ha quindi correttamente operato la stazione appaltante, che ha ritenuto rilevanti ai fini dell'annullamento dell'aggiudicazione le vicende contrattuali (risoluzione e rescissioni) che hanno riguardato un'impresa consorziata, ancorché diversa da quella indicata in sede di gara.
Affermato questo principio di carattere generale, il giudice amministrativo ne introduce tuttavia un temperamento. Viene infatti specificato che resta in capo alla stazione appaltante un ambito di valutazione discrezionale volto ad accertare se il comportamento pregiudizievole dell'impresa consorziata sia idoneo a incidere sull'idoneità morale del consorzio, argomento che si collega in parte alla seconda censura del ricorrente in merito al ritenuto difetto di motivazione del provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione.
L'obbligo di motivazione
Secondo il ricorrente la stazione appaltante nel disporre l'annullamento in autotutela dell'aggiudicazione sarebbe incorsa nei vizi di carenza di motivazione e difetto di istruttoria. Il giudice amministrativo ha accolto questa censura. Ha infatti ritenuto che la stazione appaltante, nel valutare la causa di esclusione che nel caso di specie è stata posta alla base dell'annullamento dell'aggiudicazione consistente nell'intervenuta risoluzione di precedenti contratti per inadempimento, debba motivare specificamente anche in relazione al tempo trascorso e alla gravità dell'inadempimento.
Questa valutazione e la contestuale puntuale motivazione nel caso di specie è mancata del tutto. La stazione appaltante non ha infatti in alcun modo preso in considerazione la pluralità di elementi fattuali prospettati dal ricorrente e che avrebbero potuto incidere sulla valutazione degli eventi intervenuti nei precedenti rapporti contrattuali.
In sostanza, tali elementi, se opportunamente vagliati, avrebbero potuto portare a un più adeguato apprezzamento delle vicende pregresse, così da motivare in maniera appropriata sulla sussistenza o meno della mancanza del requisito generale oggetto di considerazione. Da qui l'illegittimità del provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione per carenza di motivazione e difetto di istruttoria.
Le novità del Dlgs 36
Le considerazioni relative al rispetto puntuale dell'obbligo di motivazione escono rafforzate dalle novità introdotte dal Dlgs 36. 
Quest'ultimo, nell'ambito della rivisitazione complessiva della disciplina sulle cause di esclusione, considera le carenze nell'esecuzione di precedenti contratti che abbiano dato luogo alla risoluzione per inadempimento o a sanzioni equivalenti non più in maniera autonoma, ma come una delle ipotesi che integra l'illecito professionale grave.
Ai sensi dell'articolo 98, comma 2, l'illecito professionale deve essere valutato in base alla sussistenza degli elementi che potenzialmente lo integrano, all'idoneità dello stesso ad incidere sull'affidabilità e integrità dell'operatore e tenendo conto degli adeguati mezzi di prova. E il mezzo di prova relativo a questa specifica ipotesi di illecito professionale si sostanzia nell'intervenuta risoluzione per inadempimento o nella condanna al risarcimento del danno o in altre conseguenze comparabili.
In quest'ambito, l'illecito professionale grave rientra tra le cause di esclusione non automatica, che implicano quindi un ambito di valutazione discrezionale della stazione appaltante in merito alla sussistenza dei relativi elementi costitutivi. Con la conseguenza che viene consolidato anche a livello legislativo l'orientamento giurisprudenziale in merito alla necessità che tale valutazione si estrinsechi in una adeguata motivazione (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024).
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SENTENZA
10. La censura non è fondata.
In effetti le diverse fattispecie “critiche” dichiarate dal Co.Bu. nel DGUE (potenzialmente rilevanti e quindi da dichiarare ai sensi dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50/2016) sono tutte relative a commesse nelle quali non erano coinvolte, come ditte esecutrici, le imprese consorziate indicate dal RTI concorrente nella specie.
In effetti il DGUE si riferisce: alle commesse affidate dal Comune di Selvazzano, dal Comune di Cava de’ Tirreni e dal Comune di Alghero, nelle quali l’esecutrice designata era la consorziata El.Si. Srl; all’appalto affidato dal Comune di Palermo, dove la consorziata designata era la Di. S.r.l.; all’appalto affidato dalla Città di Peschiera Borromeo, dove la consorziata designata era la Be.In. S.r.l.
Quindi nessuna delle fattispecie pregresse concerne le due imprese designate nell’ambito dell’affidamento in oggetto.
Tuttavia, alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali, il Collegio ritiene che la struttura giuridica del Consorzio stabile comporta, quale corollario, che il pregiudizio a carico dello stesso vada valutato e apprezzato dalla S.A. a prescindere dal fatto che la consorziata esecutrice coinvolta nella pregressa commessa sia diversa da quella designata nella nuova procedura (Cons. Stato sez. V, 03.05.2022, n. 3543; id. 25.03.2021, n. 2352; TAR Sicilia, Catania, 31.05.2023, n. 1763).
Più precisamente occorre, in primo luogo che le imprese indicate come esecutrici siano esse stesse in possesso dei requisiti generali, non potendosi esse avvantaggiare dello “schermo di copertura” ritraibile dal consorzio (cfr. Cons. Stato, V, n. 3543/2022 cit.; id. 09.10.2020, n. 6008; 30.09.2020, n. 5742; 05.05.2020, n. 2849; 05.06.2018, n. 3384 e 3385; 26.04.2018, n. 2537).
Ciò implica, in effetti, che il pregiudizio a carico di una data consorziata (anche laddove maturato quale esecutrice di precedente affidamento a beneficio del consorzio) non rilevi di per sé ai fini dei requisiti partecipativi a una diversa gara in cui sia designata dal consorzio stabile una distinta consorziata esecutrice (Cons. Stato, n. 2387 del 2020, cit.).
Ma ciò non vuol dire (anche) che il pregiudizio maturato (e risultante) a carico dello stesso consorzio stabile su un precedente affidamento non rilevi ai fini di una successiva procedura solo perché risultava ivi designata una diversa consorziata esecutrice.
I requisiti generali vanno infatti accertati sì in capo alle consorziate esecutrici, ma anche nei confronti del consorzio in sé (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 8, relativa a un consorzio di produzione e lavoro, con principio ben riferibile anche ai consorzi stabili: “il possesso dei requisiti generali e morali […] deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate”; Cons. Stato, V, 25.03.2021, n. 2532).
Per questo, “la circostanza che il fatto della consorziata esecutrice in un pregresso affidamento non valga a comprovare la carenza dei requisiti nell’ambito di una gara con altra esecutrice designata non consente sic et simpliciter di obliterare o ritenere superato un pregiudizio che risulti a carico (anche) del consorzio stesso.
Una siffatta valutazione attiene infatti, eventualmente, all’apprezzamento di merito circa l’affidabilità e integrità dell’operatore, a seconda del tipo di illecito pregresso e delle sue connotazioni materiali (cfr. Cons. Stato, n. 2532 del 2021, cit.), nonché del giudizio discrezionale rimesso alla stazione appaltante in caso di illeciti non comportanti l’automatica esclusione dell’impresa.
Come correttamente dedotto dall’appellante, infatti, il concorrente in gara è il consorzio stabile, così come lo stesso consorzio è il titolare del contratto con l’amministrazione (cfr. Cons. Stato, V, 02.02.2021, n. 964; cfr. peraltro anche, in termini generali, Cons. Stato, Ad. plen., 13.03.2021, n. 5, in ordine alla configurazione strutturale propria dei consorzi stabili -diversa da quella dei consorzi ordinari- caratterizzati da una “stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio”).
Alla luce di ciò, se personalmente a carico del consorzio stabile risulta un pregiudizio, lo stesso va valutato e apprezzato dalla stazione appaltante a prescindere dal fatto che la consorziata esecutrice ivi coinvolta (ed eventualmente colpita, insieme al consorzio, dai provvedimenti pregiudizievoli dell’amministrazione) sia diversa da quella designata nella nuova procedura di gara
.” (Cons. Stato n. 3453/2022).
Ne consegue che le pregresse vicende in esame, poiché hanno riguardato (oltre alle consorziate “diverse” da quelle designate nelle specie) lo stesso Co.Bu. -nei confronti del quale le rescissioni e le contestazioni sono state formalmente dichiarate (e il Consorzio ha assunto altresì veste attorea nei conseguenti contenziosi instaurati)- sono state giustamente considerate dalla S.A., ai fini del loro apprezzamento in funzione della verifica di affidabilità del RTI concorrente.

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di demolizione e ricostruzione: attenzione a Google Earth. Le foto prese dalla rete possono essere determinanti ai fini della dimostrazione della commissione di abusi edilizi.
Si può parlare di intervento di demolizione e ricostruzione solamente laddove il privato dia prova dell’assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma dell'edificio preesistente
: è quanto chiarito dal TAR Campania, sede di Napoli, sez. II, con la sentenza 10.01.2024, n. 286.
1. I fatti di causa
Oggetto del giudizio era l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione di un corpo di fabbrica realizzato abusivamente all’esito di un intervento di demolizione e ricostruzione.
Determinante per valutare la reale consistenza dell’immobile è stata la valutazione delle risultanze fotografiche ottenute dall’applicazione Google Earth con le quali si è potuto dimostrare che, almeno fino al 2016, la consistenza dell’immobile.
Il TAR, dunque, qualificato l’intervento come nuova costruzione e riscontrata l’assenza dei titoli abilitativi, non ha potuto far altro che respingere il ricorso confermando la legittimità dell’ordinanza impugnata.
2. Interventi di demolizione e ricostruzione. Quali limiti?
La motivazione della sentenza in commento si sofferma sulla qualificazione degli interventi edilizi di demolizione e ricostruzione e sulla possibilità di ricondurli nella fattispecie delineata quale “nuova costruzione”.
Richiamiamo, prima di procedere oltre, le definizioni rilevanti:
   - Nuova costruzione: intervento che determinano una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni latu sensu intese, le quali, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, manifestano un carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (art. 3, comma 1, lett. e) e art. 10, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380/2001);
   - Intervento di demolizione e ricostruzione: tipologia afferente alla categoria degli interventi di ristrutturazione edilizia caratterizzati dalla demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche; in ipotesi tassative si possono prevedere incrementi di volumetria [art. 3, comma 1, lett. d), e art. 10, comma 1, lett. c), nonché art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001];
Tali brevi richiami appaiono utili in quanto il ricorrente, nella fattispecie in commento, invocava –al fine di vedersi comminata una sanzione più lieve– la qualificazione dell’intervento eseguito quale ristrutturazione di una preesistenza edilizia e non già quale nuova costruzione.
Le differenze sono tutt’altro che lessicali: la ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire, o in difformità al titolo abilitativo, determina l’applicazione dell’art. 33, d.P.R. n. 380/2001 e non la più afflittiva sanzione demolitoria prevista dall’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.
3. Nel dubbio, l’intervento si presume di “nuova costruzione”
A fronte delle difese del ricorrente, il TAR è stato chiamato a pronunciarsi sul criterio discretivo tra l'intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione.
Si può parlare di intervento di demolizione e ricostruzione in assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma dell'edificio preesistente. Diversamente, si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione quanto ai titoli edilizi necessari ed al regime sanzionatorio
La prova delle richiamate indefettibili e precise condizioni grava unicamente sul privato e, nella sentenza in commento, tale prova è mancata, anche alla luce delle risultanze fotografiche ottenute dall’applicazione Google Earth prodotte dall’amministrazione (31.01.2024 - tratto da www.altalex.com).
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SENTENZA
1. Gli odierni ricorrenti hanno impugnato l’ordinanza n. 2 del 21.02.2020, con la quale il Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Giugliano in Campania ha ingiunto la demolizione di un corpo di fabbrica presso l’immobile ubicato alla via ... n. 33, in Giugliano in Campania, distinto in catasto al foglio 82, particella 1207 ex art. 31 del d.P.R. 380/2001.
2. Il provvedimento è stato adottato sulla base del verbale di sequestro redatto dal Comando di Polizia Municipale prot. n. 3847/P.G./2019 P.V.52/S/19 del 28/11/2019 nel quale l’intervento viene dettagliatamente descritto come “una struttura in muratura di circa 80 mq, poggiante su una pedana in c.a. con altezza di circa 0,50 cm ed una superficie di circa 200 mq, …provvista di una porta in ferro, n. 3 finestre ed una finestra, l'interno è composto da un unico ambiente allo stato grezzo”.
3. Si tratterebbe, come rappresentato nel provvedimento qui impugnato, di interventi volti alla realizzazione di un organismo edilizio nuovo e con specifica e autonoma rilevanza e destinazione, eseguiti, tuttavia, in assenza di titolo abilitativi.
4. Parte ricorrente contesta l’illegittimità e chiede, quindi, l’annullamento del provvedimento gravato alla luce dei seguenti motivi così riportati:
...
7. Il ricorso è infondato.
8. Possono essere unitariamente trattate le censure di merito, che contestano la corretta qualificazione giuridica dell’intervento realizzato senza titolo ai sensi dei procedimenti sanzionatori di cui al d.P.R. 380/2001 (primo e quarto motivo).
9. Dagli atti istruttori emerge una chiara descrizione del fabbricato, costituito da un edificio ad un solo piano di circa 80 mq, dotato anche di aperture laterali (sia di porta che di finestre) e realizzato su una piattaforma in cemento armato. Non è peraltro in contestazione che per la sua realizzazione non sia stato chiesto alcun permesso di costruire.
Non vi è pertanto dubbio che tale intervento edilizio rientri nella fattispecie delineata dal legislatore quale “nuova costruzione” ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.P.R. 380/2001 (“Per nuova costruzione si intende qualsiasi intervento che consista in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni latu sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo” TAR Campania Salerno, Sez. II, 12/04/2023, n. 8199.
Quanto alla sua epoca di realizzazione, a fronte dell’onere probatorio imposto al privato che ha la disponibilità dell’immobile e quindi la conoscenza dei fatti anche storici che lo riguardano, l’amministrazione ha fornito documentata prova contraria, poiché dalle immagini tratte dall’applicazione “Google Earth” del 2016 (documento allegato al verbale di sequestro) emerge che a tale data l’immobile come configurato nel verbale di accertamento non sussisteva.
Peraltro, sul criterio discretivo tra l'intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione, soccorre l’orientamento consolidato secondo cui ricorre la prima ipotesi, dalla assenza di variazioni del volume, dell'altezza o della sagoma dell'edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia, sia quanto a regime autorizzatorio che ad eventuale sanzione (TAR Napoli, sez. II, 21.06.2022, n. 4223; “in ambito edilizio, anche se l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 consente di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività finalizzate a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che implicano modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, tuttavia è necessario conservare sempre una linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma abbiano una portata limitata e siano in ogni caso riconducibili all'organismo preesistente” (TAR Napoli, sez. VI, 02.03.2023, n. 1344).
Nel caso di specie non vi è dubbio che si tratti di una unità nuova, realizzata su fondamento di cemento armato, dotata di finestre perimetrali, autonomamente utilizzabile, non essendo stato neanche provato l’impatto effettivo dell’intervento su un presunto preesistente organismo edilizio.
La mancanza del permesso di costruire che avrebbe dovuto essere rilasciato prima della costruzione dell’immobile giustifica pertanto l’adozione dell’ordinanza di demolizione ex art. 31 del d.P.R. 380/2001 citato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.01.2024 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Considerato che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce, notoriamente, manifestazione di attività amministrativa doverosa, non risultano rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un effettiva partecipazione degli interessati al procedimento, dovendosi ribadire che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione, con la conseguenza che, ai fini dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies, L. 07.08.1990, n. 241.
Analogamente, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, poiché “l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare e, di conseguenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto vincolato, non richiede in nessun caso una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti”.
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Rispetto alla preannunciata presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 e/o 37, d.p.r. 380/2001, il Comune sottolinea che non è rinvenibile alcuna disposizione normativa né arresti giurisprudenziali da cui evincere che il deposito, intenzionale o anche effettivo, della predetta domanda in sanatoria determini l’illegittimità del provvedimento demolitorio, che, pertanto, sarà solo sospeso nella sua efficacia.
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1. Gli odierni ricorrenti hanno impugnato l’ordinanza n. 2 del 21.02.2020, con la quale il Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Giugliano in Campania ha ingiunto la demolizione di un corpo di fabbrica presso l’immobile ubicato alla via ... n. 33, in Giugliano in Campania, distinto in catasto al foglio 82, particella 1207 ex art. 31 del d.P.R. 380/2001.
2. Il provvedimento è stato adottato sulla base del verbale di sequestro redatto dal Comando di Polizia Municipale prot. n. 3847/P.G./2019 P.V.52/S/19 del 28/11/2019 nel quale l’intervento viene dettagliatamente descritto come “una struttura in muratura di circa 80 mq, poggiante su una pedana in c.a. con altezza di circa 0,50 cm ed una superficie di circa 200 mq, …provvista di una porta in ferro, n. 3 finestre ed una finestra, l'interno è composto da un unico ambiente allo stato grezzo”.
3. Si tratterebbe, come rappresentato nel provvedimento qui impugnato, di interventi volti alla realizzazione di un organismo edilizio nuovo e con specifica e autonoma rilevanza e destinazione, eseguiti, tuttavia, in assenza di titolo abilitativi.
4. Parte ricorrente contesta l’illegittimità e chiede, quindi, l’annullamento del provvedimento gravato alla luce dei seguenti motivi così riportati:
...
10. Quanto alla presunta violazione dell'art. 7, L. 241/1990, secondo un consolidato orientamento “considerato che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce, notoriamente, manifestazione di attività amministrativa doverosa, non risultano rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un effettiva partecipazione degli interessati al procedimento, dovendosi ribadire anche a questo proposito che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della pubblica amministrazione, con la conseguenza che, ai fini dell'adozione dell'ordinanza di demolizione, non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies, L. 07.08.1990, n. 241 (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 07.11.2022 n. 9715)" (Cons. Stato, sez. VII, 27.02.2023, n. 1958).
11. Analogamente, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, poiché “l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare e, di conseguenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto vincolato, non richiede in nessun caso una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti” (Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2020, n. 1427).
12. Infine, rispetto alla preannunciata presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 e/o 37, d.p.r. 380/2001, il Comune sottolinea che non è rinvenibile alcuna disposizione normativa né arresti giurisprudenziali da cui evincere che il deposito, intenzionale o anche effettivo, della predetta domanda in sanatoria determini l’illegittimità del provvedimento demolitorio, che, pertanto, sarà solo sospeso nella sua efficacia.
Ed in effetti, parte ricorrente non ha dimostrato l’inoltro dell’istanza ex art. 36 del d.P.R. 380/2001 che in ogni caso avvia un procedimento che si conclude, in caso di mancato riscontro espresso, con il “silenzio-rifiuto” ex art. 36, comma 3 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.01.2024 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata, perciò configura una nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001 e non una pertinenza urbanistica del fabbricato residenziale.
Per condivisibile giurisprudenza tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio cui accede.
La piscina, infatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, poiché, sul piano funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di svago. Né può essere considerata pertinenza la realizzazione della piscina, considerato che la stessa comporta una "durevole trasformazione del territorio" la quale, sotto il profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a quella propria dell'edificio cui accede e per tale ragione non può coincidere con la relativa nozione civilistica.
Al riguardo può richiamarsi quella giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla nozione di pertinenza urbanistica secondo cui tale nozione "è invocabile per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia. Viceversa, tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e specifica utilizzazione".
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2. Con il secondo motivo di appello l’appellante deduce erronea motivazione. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, contraddittorietà.
Evidenzia che la seconda doglianza era stata respinta dall’adito Tribunale in ragione del fatto che le piscine “sono assoggettate a contribuzione dall’art. 7 del D.M. 801/1977 e non sono sempre pertinenziali dal punto di vista urbanistico, ma solo a certe condizioni, di cui occorre dare la prova”, mentre la piscina privata, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza, è sempre una pertinenza, ed in quanto tale non è soggetta a titolo abilitativo oneroso.
Il motivo non è fondato.
La piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata, perciò configura una nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001 e non, come sostenuto dall'appellante, una pertinenza urbanistica del fabbricato residenziale.
Per condivisibile giurisprudenza tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio cui accede.
La piscina, infatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, poiché, sul piano funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di svago. Né può essere considerata pertinenza la realizzazione della piscina, considerato che la stessa comporta una "durevole trasformazione del territorio" la quale, sotto il profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a quella propria dell'edificio cui accede e per tale ragione non può coincidere con la relativa nozione civilistica.
Al riguardo può richiamarsi quella giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 29.11.2019, n. 8192; id., 04.01.2016, n. 19; 24.07.2014, n. 3952; sez. V, 12.02.2013, n. 817; sez. VI, n. 100/2020) sulla nozione di pertinenza urbanistica, che questo Collegio condivide, secondo cui tale nozione "è invocabile per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia. Viceversa, tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e specifica utilizzazione".
L’art. 7 del D.M. 10.05.1977, n. 801, in materia di determinazione del costo di costruzione di nuovi edifici prevede che, in seguito alla realizzazione di una piscina coperta o scoperta quando sia a servizio di uno o più edifici comprendenti meno di 15 unità immobiliari, è previsto un incremento del costo di costruzione del 10%, pertanto il provvedimento impugnato si sottrae alla censura.
L’appello deve essere, conseguentemente, respinto (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 02.01.2024 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul valore delle FAQ.
Occorre in primo luogo ribadire ben noti concetti in ordine al valore della FAQ, sulla base anche dell’evoluzione giurisprudenziale.
È infatti indubbio che si tratta della manifestazione di un nuovo, peraltro in linea teorica condivisibile, modo di atteggiarsi dell’Amministrazione che si pone in posizione di collaborazione con l’interessato sfruttando le tecnologie più moderne al fine di raggiungere il maggior numero di destinatari; ma proprio per le notevoli potenzialità (si veda per tutti l’esperienza COVID) è necessario delimitare i vincoli ed i limiti, onde evitare che questa possa poi costituire fonte di incertezza ulteriore quando la stessa Amministrazione ne modifichi successivamente il contenuto, o addirittura la espunga, come nel caso che ci occupa.
La questione riguarda, quindi, principalmente il valore da attribuire alla FAQ, ossia se essa possa essere considerata una vera interpretazione autentica, vincolante per l'interprete nell'individuazione del significato e nell'applicazione; ovvero sia qualcosa di meno una “sorta” di interpretazione collaborativa, i cui margini di applicazione e vincolatività sono però da decifrare con cura impingendo essi nell’affidamento dei terzi.
Al riguardo nelle gare pubbliche le FAQ, ovvero i chiarimenti in ordine alla valenza delle clausole della lex di gara fornite dalla stazione appaltante anteriormente alla presentazione delle offerte, “non costituiscono un’indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica, con cui l'Amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis”, sicché esse, per quanto non vincolanti, possono orientare i comportamenti degli interessati e non possono essere considerate tamquam non essent.
Più in particolare, pur non avendo esse -come detto- carattere vincolante, le risposte date dall'Amministrazione contribuiscono a fornire utili indicazioni di carattere applicativo in ordine alla ratio sottesa alle procedure e agli atti in corso di esame, e, una volta suggerita, attraverso le FAQ, la ratio propria dell'avviso pubblico, all'Amministrazione è consentito discostarsene solo in presenza di elementi decisivi, che il giudice deve sottoporre a uno scrutinio particolarmente severo, per evitare il rischio che la discrezionalità amministrativa si converta, con il diverso orientamento amministrativo sopravvenuto, in arbitrio o comunque leda l’affidamento creato nei destinatari delle disposizioni.
Quindi si tratta, in realtà, non di una interpretazione autentica nel senso stretto e formale del termine, che come tale sarebbe inequivocabilmente vincolante, ma di una “sorta” di supporto che l’Amministrazione offre alla platea degli interessati ma che in quanto tale presenta limiti sul contenuto e sulle modalità di esternazione; ossia ci troviamo nell’ambito dei meri chiarimenti interpretativi, delle opinioni, delle prassi applicative ai fini della migliore lettura della questione controversa, che non possono però modificare o integrare il senso delle disposizioni interpretate, anche se gli effetti in termini di affidamento dei partecipanti non possono essere del tutto e preventivamente esclusi.
In tal senso, sempre in materia di FAQ, la Sezione ha avuto modo comunque di pronunziarsi su un caso analogo vertente sul medesimo bando in esame, rilevando, in sede di delibazione dell’appello cautelare di altra associazione culturale, che esse “lungi dal poter assurgere al rango di fonte, pur se subordinata, del diritto oggettivo, integrano invece esclusivamente l’esternazione (in forma di “risposte” a “domande” asseritamene ricorrenti degli utenti) di una mera prassi amministrativa (ossia, in altri termini, di un’interpretazione amministrativa della normativa della cui applicazione si tratta) che, pur potendo eventualmente valere a formare la c.d. buona fede soggettiva degli utenti, non è certamente idonea a prevalere rispetto al dato normativo che sia difforme (nel caso della c.d. “risposta sbagliata” alla FAQ), né a modificare o integrare il bando di selezione (potendo semmai unicamente rilevare sotto il distinto profilo dell’eventuale vulnus recato all’affidamento del privato)…”.
Una FAQ quindi deve essere in primo luogo chiara nella “domanda” e nella “risposta” avendo il primario fine di dare chiarezza evitando di ingenerare ulteriore confusione; una FAQ poi modificata nel contenuto –o addirittura cancellata– può essere piuttosto indice di perplessità e comunque di un agire frettoloso dell’amministrazione, tale da poter ingenerare anche un affidamento nel privato.
Ecco perché l’Amministrazione deve svolgere -nell’ottica della massima trasparenza- già prima della pubblicazione un attento esame proprio al fine di non ingenerare inutilmente l’affidamento nei soggetti interessati, i quali peraltro non possono essere onerati di un continuo controllo delle FAQ medesime sino alla data di scadenza del termine di presentazione dell’istanza di partecipazione.
Come anche un limite di particolare pregnanza va individuato nel contenuto della FAQ.
Si ribadisce che le FAQ redatte dall'Amministrazione in sede di gara possono solo chiarire, precisare e meglio esprimere le previsioni della lex specialis, ma non di certo modificarne od integrarne il contenuto.
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4. Con il secondo motivo (rubricato: Sull’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto vincolante l’interpretazione del bando fornita dall’Amministrazione nelle FAQ) l’appellante richiama il contenuto della FAQ B 3; detta FAQ è stata poi repentinamente cancellata dall’Amministrazione e recava il seguente contenuto:
   "- B 3: Un’associazione culturale può partecipare al Bando?
SI. Nelle more dell’istituzione del Registro unico nazionale del Terzo settore, trovano applicazione le previgenti normative ai fini e per gli effetti derivanti dall’iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di volontariato, Associazione di promozione sociale; registri che non riguardano le associazioni culturali.
In attesa di conoscere se a queste associazioni sarà data la possibilità di iscrizione al Registro, si ritiene di riconoscere, per favorire la maggiore partecipazione possibile, anche a tali enti la possibilità di presentare domanda. Una volta operativo il Registro unico nazionale del Terzo settore, l’associazione culturale è tenuta a presentare domanda di iscrizione al predetto Registro, secondo le modalità previste dalla normativa di riferimento e, solo nel caso in cui la domanda fosse rifiutata, verrebbe meno il requisito richiesto, con conseguente dichiarazione di inammissibilità della domanda di partecipazione al presente Bando
.”
A tal riguardo sostiene l’appellante che considerato il ritardo nell’attivazione del Registro unico, l’Amministrazione, con la FAQ B 3, è intervenuta per dirimere alcuni dubbi chiarendo che un’ATS potesse ricomprendere all’interno della sua compagine anche un’associazione culturale (quale Voice Art), senza dover dimostrare l’iscrizione di quest’ultima in uno dei registri previsti dalla normativa previgente.
Afferma inoltre che con la risposta contenuta nella FAQ l’Amministrazione ha chiarito la propria volontà provvedimentale, precisando il contenuto della lex specialis.
4.1 Il motivo, pur in fatto apprezzabile, non può portare all’accoglimento dell’appello.
Occorre in primo luogo ribadire ben noti concetti in ordine al valore della FAQ, sulla base anche dell’evoluzione giurisprudenziale.
È infatti indubbio che si tratta della manifestazione di un nuovo, peraltro in linea teorica condivisibile, modo di atteggiarsi dell’Amministrazione che si pone in posizione di collaborazione con l’interessato sfruttando le tecnologie più moderne al fine di raggiungere il maggior numero di destinatari; ma proprio per le notevoli potenzialità (si veda per tutti l’esperienza COVID) è necessario delimitare i vincoli ed i limiti, onde evitare che questa possa poi costituire fonte di incertezza ulteriore quando la stessa Amministrazione ne modifichi successivamente il contenuto, o addirittura la espunga, come nel caso che ci occupa.
La questione riguarda, quindi, principalmente il valore da attribuire alla FAQ, ossia se essa possa essere considerata una vera interpretazione autentica, vincolante per l'interprete nell'individuazione del significato e nell'applicazione; ovvero sia qualcosa di meno una “sorta” di interpretazione collaborativa, i cui margini di applicazione e vincolatività sono però da decifrare con cura impingendo essi nell’affidamento dei terzi.
Al riguardo nelle gare pubbliche le FAQ, ovvero i chiarimenti in ordine alla valenza delle clausole della lex di gara fornite dalla stazione appaltante anteriormente alla presentazione delle offerte, “non costituiscono un’indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica, con cui l'Amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis” (Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2013, n. 341; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2014, n. 290), sicché esse, per quanto non vincolanti, possono orientare i comportamenti degli interessati e non possono essere considerate tamquam non essent.
Più in particolare, pur non avendo esse -come detto- carattere vincolante, le risposte date dall'Amministrazione contribuiscono a fornire utili indicazioni di carattere applicativo in ordine alla ratio sottesa alle procedure e agli atti in corso di esame (Cons. Stato, Sez. I, parere 6812/2020), e, una volta suggerita, attraverso le FAQ, la ratio propria dell'avviso pubblico, all'Amministrazione è consentito discostarsene solo in presenza di elementi decisivi, che il giudice deve sottoporre a uno scrutinio particolarmente severo, per evitare il rischio che la discrezionalità amministrativa si converta, con il diverso orientamento amministrativo sopravvenuto, in arbitrio o comunque leda l’affidamento creato nei destinatari delle disposizioni (Cons. Stato, I, parere 1275/2021; cfr. anche sez. V 02.03.2022, n. 1486).
Quindi si tratta, in realtà, non di una interpretazione autentica nel senso stretto e formale del termine, che come tale sarebbe inequivocabilmente vincolante, ma di una “sorta” di supporto che l’Amministrazione offre alla platea degli interessati ma che in quanto tale presenta limiti sul contenuto e sulle modalità di esternazione; ossia ci troviamo nell’ambito dei meri chiarimenti interpretativi, delle opinioni, delle prassi applicative ai fini della migliore lettura della questione controversa, che non possono però modificare o integrare il senso delle disposizioni interpretate, anche se gli effetti in termini di affidamento dei partecipanti non possono essere del tutto e preventivamente esclusi.
In tal senso, sempre in materia di FAQ, la Sezione ha avuto modo comunque di pronunziarsi su un caso analogo vertente sul medesimo bando in esame, rilevando, in sede di delibazione dell’appello cautelare di altra associazione culturale, che esse “lungi dal poter assurgere al rango di fonte, pur se subordinata, del diritto oggettivo, integrano invece esclusivamente l’esternazione (in forma di “risposte” a “domande” asseritamene ricorrenti degli utenti) di una mera prassi amministrativa (ossia, in altri termini, di un’interpretazione amministrativa della normativa della cui applicazione si tratta) che, pur potendo eventualmente valere a formare la c.d. buona fede soggettiva degli utenti, non è certamente idonea a prevalere rispetto al dato normativo che sia difforme (nel caso della c.d. “risposta sbagliata” alla FAQ), né a modificare o integrare il bando di selezione (potendo semmai unicamente rilevare sotto il distinto profilo dell’eventuale vulnus recato all’affidamento del privato)…” (Sez. IV ord. n. 2845/2022 del 20.06.2022).
Una FAQ quindi deve essere in primo luogo chiara nella “domanda” e nella “risposta” avendo il primario fine di dare chiarezza evitando di ingenerare ulteriore confusione; una FAQ poi modificata nel contenuto –o addirittura cancellata– può essere piuttosto indice di perplessità e comunque di un agire frettoloso dell’amministrazione, tale da poter ingenerare anche un affidamento nel privato.
Ecco perché l’Amministrazione deve svolgere -nell’ottica della massima trasparenza- già prima della pubblicazione un attento esame proprio al fine di non ingenerare inutilmente l’affidamento nei soggetti interessati, i quali peraltro non possono essere onerati di un continuo controllo delle FAQ medesime sino alla data di scadenza del termine di presentazione dell’istanza di partecipazione.
Come anche un limite di particolare pregnanza va individuato nel contenuto della FAQ.
Si ribadisce che le FAQ redatte dall'Amministrazione in sede di gara possono solo chiarire, precisare e meglio esprimere le previsioni della lex specialis, ma non di certo modificarne od integrarne il contenuto (Consiglio di Stato, sez. V, 04.05.2022, n. 3492).
Nel caso specifico, la FAQ era obiettivamente erronea, e peraltro veniva successivamente cancellata dalla stessa Amministrazione, ma non poteva rendere legittima da sola l’erogazione del finanziamento, né creare un affidamento rilevante, vista la chiarezza del quadro normativo, sulla base di quanto sopra evidenziato, e dimostrata altresì (seppur ex post) la possibilità di iscrizione al Registro regionale dell’associazionismo della Regione Lazio di cui all’art. 9 della l.r. 22/1999.
Ad avviso del Collegio pertanto il motivo, pur degno di considerazione, non può portare all’accoglimento dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.12.2023 n. 11198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAScala a chiocciola abusiva se non è prevista nella relazione asseverata.
La decisione del Consiglio di Stato: bocciato il ricorso dei proprietari intenzionati a ricavare un locale abitabile nel sottotetto.
La sentenza 21.08.2023 n. 7832 emessa dal supremo Tribunale amministrativo (Sez. VII), ci consente di cogliere due aspetti per nulla scontati in tema di abusi edilizi. Difatti, come vedremo, un intervento edilizio può risultare abusivo perché in qualche misura “collegato” ad altra opera del tutto irregolare; ma anche perché, seppur presente nel progetto grafico, non è espressamente menzionato nella correlata relazione asseverata prodotta alle amministrazioni.
Il fatto
I privati proprietari di un immobile strutturato su più livelli, decidevano di realizzare alcuni interventi edilizi, e più precisamente: l’abbassamento del solaio dell’ultimo piano con conseguente installazione di una scala a chiocciola, necessaria ad accedere al piano mansarda (così ricavato), nonché al terrazzo soprastante. Facile intuire come l’abbassamento del solaio avesse consentito di ricavare dei vani abitabili, con un inevitabile aumento di superficie.
Gli interventi edilizi in parola, richiamavano l’attenzione tanto del Comune quanto della Soprintendenza (attesa l’esistenza di un vincolo), che ritenevano del tutto abusiva l’attività posta in essere dai privati, in quanto le opere, per tipologia e per come realizzate, non erano di fatto mai state autorizzate. Conseguentemente, il Comune emetteva ordinanza di demolizione e reintegrazione, mentre la Soprintendenza esigeva la predisposizione di un progetto finalizzato al ripristino dello stato dei luoghi.
I privati, del tutto convinti di non essersi resi colpevoli di alcun abuso, decidevano di rivolgersi al Tar, che tuttavia rigettava il loro ricorso.
I giudici amministrativi, infatti, ritenevano che l’intervento complessivo fosse qualificabile come ristrutturazione edilizia; solo così può definirsi la realizzazione di più opere coordinate, da cui è derivato un organismo edilizio caratterizzato da una diversa distribuzione dei volumi sul piano verticale, tanto da rendere abitabili degli spazi che in precedenza non lo erano. Per un siffatto intervento, le autorizzazioni erano ineludibili; mancando le stesse, l’abuso è incontestabile.
La decisione del Consiglio di Stato
Investiti della vicenda, i giudici di Palazzo Spada non hanno alcun dubbio in merito alla piena correttezza di quanto statuito nel provvedimento del Tar. Quanto all’ampliamento del sottotetto, non è contestabile la sua abusività, essendo senz’altro un’opera mai assentita dalla Soprintendenza. L’attenzione ai concentra poi sulla scala a chiocciola ritenuta abusiva per due ordini di ragioni.
Anzitutto, in virtù della sua funzione di collegamento agli ambienti abusivamente ricavati (sottotetto abitabile), essa si inserisce in un contesto di opere non autorizzate, da ciò conseguendo anche la sua abusività. Ma vi è un ulteriore aspetto di non scarsa rilevanza: la scala a chiocciola, non era prevista nella relazione asseverata che ha consentito la realizzazione dell’intervento, ma risultava soltanto dai correlati progetti grafici.
Ebbene, per il Consiglio di Stato ciò non è affatto sufficiente; il manufatto doveva anche essere menzionato testualmente nella relazione asseverata, che nel caso di specie recava invece la sola menzione di opere interne del tutto differenti da quelle poi realmente eseguite
 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.10.2023).
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SENTENZA
1. Con il primo motivo le appellanti ripropongono, anche ai sensi dell’art. 36 c.p.c., le medesime censure di illegittimità per violazione del giusto procedimento con riferimento ad ogni atto impugnato e, in particolare, deducono che il Giudice riunendo i due giudizi (R.G. 2365/2002 ed R.G. 2374/2002) avverso la ordinanza di demolizione del Comune di Napoli e il provvedimento di ripristino della Soprintendenza, aveva esaminato solo la censura di violazione del giusto procedimento con riferimento al ricorso (R.G. 2365//02) avverso la ordinanza di demolizione omettendo ogni censura parimenti avverso il provvedimento di ripristino emesso dalla Soprintendenza.
2. Con il secondo motivo deducono che il Tar erroneamente aveva ritenuto che le opere oggetto di contestazione non risultavano autorizzate ed avrebbero comportato un aumento di superficie utile. In particolare il Giudice aveva erroneamente ritenuto che alcune delle opere in questione non risultavano inserite nella autorizzazione soprintendizia n. 25014 del 21.08.1993 rilasciata ai sig.ri Ce.Bo. e Ma.Te.Cu., loro danti causa.
3. Con il terzo motivo deducono che la sentenza appellata era erronea anche nella parte in cui il Giudice aveva ritenuto che le opere contestate risultavano configurare un intervento di “ristrutturazione edilizia”.
Le censure, da esaminare congiuntamente per la loro stretta connessione, non sono fondate.
Il Tar ha disposto una istruttoria dalla quale è emerso che le opere oggetto della residua impugnazione avevano comportato un aumento delle superfici utili; esse sono, infatti, consistite nell’abbassamento del solaio dell’ultimo piano (immediatamente sottostante il “soppegno” al di sotto del tetto) e nella installazione di una scala a chiocciola per l’accesso al piano mansarda, così ricavato, nonché al terrazzo soprastante.
L’abbassamento del solaio dell’ultimo piano ha consentito di ricavare dei vani abitabili in luogo del descritto soppegno (cfr. verbale di P.G. del 23.02.2002, di cui alla produzione erariale del 30.09.2016 nel fascicolo riunito R.G. 2374/2002 nonché comunicazione di notizia di reato del 02.11.1999, del 07.05.2002).
Il Tar ha quindi condivisibilmente concluso che l’intervento fosse qualificabile (quanto meno) come ristrutturazione in quanto erano state realizzate più opere coordinate che aveva portato a un organismo edilizio caratterizzato da una diversa distribuzione dei volumi sul piano verticale tanto da rendere abitabili degli spazi che non lo erano in precedenza.
Gli interventi hanno, infatti, comportato un aumento delle superfici utili con l’abbassamento del solaio dell’ultimo piano, con la realizzazione di vani abitabili in luogo del soppegno, con la installazione della scala per l’accesso al piano mansarda e alla terrazza.
Quanto alle violazioni del procedimento, l'indirizzo condiviso della giurisprudenza amministrativa ritiene che i provvedimenti aventi natura di atto vincolato, come l'ordinanza di demolizione o l’ordine di ripristino, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, non essendo prevista la possibilità per l'Amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve assicurare le garanzie partecipative, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Cons. Stato n. 6490 del 2021; Cons. Stato n. 4389 del 2019; Cons. Stato n. 2681 del 2017).
In sostanza, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, non risultando pertanto rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un'effettiva partecipazione degli interessati al procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all'annullamento dell'atto alla stregua dell'art. 21-octies l. 07.08.1990, n. 241 (Cons. Stato, n. 1958 del 2023).
Quanto all’ampliamento del sottotetto, non è contestabile la sua abusività essendo senz’altro opera non prevista dall’autorizzazione soprintendentizia n. 25014 del 21.08.1993.
Sono condivisibili le affermazioni del primo Giudice il quale ha evidenziato che la scala a chiocciola, è da qualificarsi abusiva per due ragioni. Innanzitutto, la scala si inserisce in un contesto di opere non autorizzate per la sua funzione di collegamento anche agli ambienti abusivamente ricavati (sottotetto abitabile); inoltre, essa non era prevista nella relazione asseverata che ha consentito la realizzazione dell’intervento ma solo nei relativi grafici.
Sebbene sia già dirimente la prima considerazione, va osservato, rispetto a quest’ultima circostanza, che non è sufficiente l’indicazione dell’opera nel grafico di progetto, dovendo essere la stessa anche menzionata testualmente nella relazione asseverata che reca la sola menzione di opere interne.
Trattandosi, quindi, di opere non autorizzate da effettuarsi su un immobile sottoposto a vincolo individuo, non v’è dubbio che l’ordine di reintegrazione (art. 131 d.lgs. 490/1999, vigente ratione temporis) acquisisca natura vincolata con la conseguente infondatezza di tutte le censure mosse avverso il provvedimento della Soprintendenza.
Nulla può essere disposto in relazione alla richiesta dell’interveniente di dichiarare la propria estraneità dagli abusi realizzati, avendo lo stesso spiegato un intervento ad adiunvandum e non un intervento autonomo. L’autonomo ricorso proposto dall’interveniente è stato, inoltre, dichiarato perento, sicché nessun elemento è stato fornito a sostegno della propria estraneità agli abusi.
L’appello deve essere, pertanto, respinto.

EDILIZIA PRIVATA - VARILa sanatoria riduce le carte. Niente certificato di agibilità? Venditore non inadempiente. La compravendita di un immobile al centro di una sentenza della Corte di cassazione.
Il rilascio della agibilità richiede la sussistenza dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, ragion per cui può essere ottenuta soltanto per gli immobili regolari anche sotto tale ultimo profilo ovvero, in caso di immobili abusivi, previa concessione o autorizzazione in sanatoria. Il certificato di agibilità non può essere, quindi, rilasciato nel caso in cui l'immobile sia abusivo. In caso di compravendita di immobile in corso di sanatoria non può configurarsi un inadempimento del venditore per mancata consegna del suddetto certificato.
E' quanto ha stabilito la Suprema Corte, Sez. II civile, con la sentenza 01.08.2023 n. 23370.
Il caso di specie origina dall'impugnazione della sentenza con la quale la Corte d'appello di Catania, in riforma delle decisioni emesse in primo grado, aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto preliminare di compravendita di un immobile per asserito inadempimento di parte venditrice.
Il rifiuto del promissario acquirente del bene di addivenire alla stipulazione del contratto definitivo era giustificato dalla mancata consegna del certificato di abitabilità dell'immobile, tuttora mancante, essendo specifico obbligo del venditore, ai sensi dell'art. 1477 cc, consegnare tale documento all'acquirente, quale requisito della fruibilità e commerciabilità dell'immobile.
Secondo il Collegio non rilevava il fatto che nel contratto preliminare le parti avessero previsto la necessità di presentare domanda per la concessione in sanatoria dell'immobile, ponendo a carico della promittente venditrice il relativo onere e tutte le somme dovute a saldo della oblazione e dei contributi urbanistici ai fini del rilascio della concessione in sanatoria e certificato di agibilità, “atteso che solo una espressa rinuncia da parte del promissario acquirente avrebbe potuto esonerare l'altra parte dall'obbligo di provvedere alla consegna del suddetto certificato”.
Interposta impugnazione, la Suprema Corte ha ritenuto i due motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro connessione obiettiva, ammissibili e fondati.
In particolare, la ricorrente ha censurato la pronuncia dei giudici collegiali che avrebbero trascurato di considerare che l'oggetto del preliminare di vendita era un immobile abusivo, non in regola con la normativa edilizia, tanto che le parti avevano previsto che il promittente venditore dovesse presentare domanda di concessione in sanatoria, adempimento regolarmente posto in essere anche con il pagamento della relativa oblazione e degli oneri concessori.
Per quanto di interesse in questa sede, secondo gli Ermellini la Corte di appello ha errato nel ritenere non sufficiente, a tal fine, il richiamo contenuto nel preliminare al procedimento in sanatoria, bensì necessaria un'espressa rinuncia alla consegna del certificato da parte dell'acquirente: “la promessa di acquisto di un immobile che le parti consapevolmente sanno essere oggetto di procedimento di sanatoria edilizia comporta, quale conseguenza implicita e necessaria, la rinuncia al suddetto certificato, in deroga alla disposizione di cui all'art. 1477 cc”.
La previsione del procedimento di sanatoria edilizia risponde non solo all'interesse della parte acquirente, ma anche della parte venditrice, in quanto la normativa in materia “sanziona con la nullità l'atto di trasferimento tra ivi di immobili abusivi, consentendo l'atto solo nei casi di abusi sanabili e previa allegazione di copia della domanda di sanatoria e della menzione degli estremi dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione”.
Infatti, l'art. 40 della legge 47/1985 consente la trasferibilità degli immobili abusivi, previa allegazione della domanda in sanatoria e degli estremi del pagamento delle prime due rate dell'oblazione, senza pertanto richiedere l'intervenuto rilascio del provvedimento in sanatoria: quindi, “il trasferimento non implica anche la consegna del certificato di abitabilità o agibilità dell'immobile, che necessariamente sarà posteriore al nuovo titolo edilizio, non potendo essere rilasciato prima”.
In base alla giurisprudenza di legittimità, proseguono i giudici di piazza Cavour, “la mancata consegna del certificato di abitabilità non determina in via automatica la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto la gravità dell'omissione in relazione alla godimento ed alla commerciabilità del bene e che, nel caso di immobili soggetti a sanatoria, l'interesse dell'acquirente all'ottenimento del certificato appare attenuato, atteso che l'art. 35 legge n. 47/1985 prevede espressamente che esso, a conclusione del procedimento in sanatoria, venga rilasciato anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con la sicurezza statica“.
Il Collegio è incorso in un ulteriore errore non avendo comunque valutato, in relazione al caso concreto, l'incidenza della mancanza del certificato suddetto sulla possibilità di godimento e commerciabilità del bene.
Nella valutazione delle prove, la Corte di appello ha ritenuto il venditore inadempiente all'obbligo di consegnare il certificato di agibilità omettendo tuttavia di valutare, sottolineano gli Ermellini, che in ispeciele parti, nella consapevolezza del carattere abusivo dell'immobile, avevano espressamente previsto di dar corso al procedimento di sanatoria, senza posticipare alla sua definizione la conclusione del contratto definitivo, e che il suddetto certificato presuppone il rilascio della autorizzazione o concessione in sanatoria. Sconta di conseguenza tale errore anche l'affermazione che tale mancata consegna avrebbe potuto essere giustificata solo da una espressa rinuncia della parte promissaria acquirente, dovendo essa confrontarsi con il contenuto e gli effetti derivanti dalla clausola contrattuale più volte menzionata”.
In altri termini la Corte di appello aveva dato atto che le parti, in sede di contratto preliminare, “nella evidente consapevolezza della presenza di difformità sull'immobile, avevano previsto la necessità di attivare il procedimento di sanatoria edilizia, ponendo a carico della parte promittente l'onere di presentare la relativa domanda e di sopportare le conseguenti spese per l'oblazione ed ogni altro contributo ed onere. Non risulta, invece, che le parti avessero stabilito che la stipulazione del contratto definitivo sarebbe stata rimandata alla definizione del procedimento di sanatoria. La clausola negoziale che prevedeva l'attivazione del suddetto procedimento stava quindi a significare la disponibilità da parte del promissario acquirente di stipulare l'atto definitivo di acquisto una volta presentata la domanda di sanatoria ed assolti i relativi oneri di spesa, senza attendere la sua definizione”.
La Cassazione approda così al rigetto del ricorso.
La decisione impugnata non è corretta: i giudici territoriali, nell'interpretare il contratto preliminare, non si sono attenuti “al dato testuale che le parti avevano convenuto solo la presentazione della domanda in sanatoria e quindi di voler stipulare il contratto definitivo anche in assenza della concessione, con ciò implicitamente ritenendo non necessario il rilascio del certificato di abitabilità, la cui mancanza era stata opposta dalla controparte solo in corso di giudizio, quale mero pretesto per giustificare il proprio inadempimento”.
Sicché, chiosa la Corte, “il giudice del rinvio, nel valutare, conformemente ai principi esposti, il comportamento delle parti e le reciproche contestazioni di inadempienza, dovrà altresì verificare la reale portata della clausola contrattuale citata anche sotto altro profilo, se vale a dire con essa il promittente venditore garantiva la effettiva possibilità di sanatoria degli abusi presenti nell'immobile ed accertare, altresì, se essi erano suscettibili di sanatoria o, come dedotto dalla odierna ricorrente nella memoria depositata, sono stati effettivamente sanati ed il certificato di agibilità è stato rilasciato
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2023).
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SENTENZA
Il primo motivo del ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1477 cod. civ. e degli artt. 40 e 35 legge n. 47 del 1985, censura la decisione impugnata per avere ritenuto fondata l’eccezione di inadempimento sollevata dalla controparte per la mancata consegna del certificato di agibilità dell’immobile.
Sostiene al riguardo la ricorrente l’erroneità di tale soluzione, per avere la Corte di appello trascurato di considerare che oggetto del preliminare di vendita era un immobile abusivo, non in regola con la normativa edilizia, tanto che le parti avevano previsto che il promittente venditore dovesse presentare domanda di concessione in sanatoria, adempimento questo regolarmente posto in essere anche con il pagamento della relativa oblazione e degli oneri concessori.
Ora, poiché l’art. 40 legge n. 47 del 1985 consente la trasferibilità degli immobili abusivi, previa allegazione della domanda in sanatoria e degli estremi del pagamento delle prime due rate dell’oblazione, senza pertanto richiedere l’intervenuto rilascio del provvedimento in sanatoria, ne discende che, in tale ipotesi, il trasferimento non implica anche la consegna del certificato di abitabilità o agibilità dell’immobile, che necessariamente sarà posteriore al nuovo titolo edilizio, non potendo essere rilasciato prima.
La promessa di acquisto di un immobile che le parti consapevolmente sanno essere oggetto di procedimento di sanatoria edilizia comporta quindi, quale conseguenza implicita e necessaria, la rinuncia al suddetto certificato, in deroga alla disposizione di cui all’art. 1477 cod. civ.
Ha errato pertanto la Corte di appello laddove ha ritenuto che non fosse sufficiente, a tal fine, il richiamo contenuto nel preliminare al procedimento in sanatoria, ma fosse necessaria un espressa rinuncia alla consegna del certificato da parte dell’acquirente.
Si aggiunge che, in base alla giurisprudenza di legittimità, la mancata consegna del certificato di abitabilità non determina in via automatica la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto la gravità dell’omissione in relazione alla godimento ed alla commerciabilità del bene e che, nel caso di immobili soggetti a sanatoria, l’interesse dell’acquirente all’ottenimento del certificato appare attenuato, atteso che l’art. 35 legge n. 47 del 1985 prevede espressamente che esso, a conclusione del procedimento in sanatoria, venga rilasciato “anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con la sicurezza statica ...“. In tale contesto, il giudice territoriale avrebbe dovuto comunque valutare, in relazione al caso concreto, l’incidenza della mancanza del certificato suddetto sulla possibilità di godimento e commerciabilità del bene.
Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 1460 cod. civ. e degli artt. 1362, 1366 e 1375 stesso codice, lamentando che la Corte, nell’interpretare il contratto preliminare, non si sia attenuta al dato testuale che le parti avevano convenuto solo la presentazione della domanda in sanatoria e quindi di voler stipulare il contratto definitivo anche in assenza della concessione, con ciò implicitamente ritenendo non necessario il rilascio del certificato di abitabilità, la cui mancanza era stata opposta dalla controparte solo in corso di giudizio, quale mero pretesto per giustificare il proprio inadempimento.
I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente per la loro connessione obiettiva, sono ammissibili e fondati.
Sotto il primo profilo, non hanno fondamento le eccezioni sollevate dal controricorrente di inammissibilità dei motivi per difetto di specificità e perché fondati su circostanze nuove, mai dedotte nei giudizi di merito.
Le censure sollevate dal ricorso investono direttamente le ragioni della decisione e risultano argomentate sulle medesime risultanze e dati di fatto su cui la Corte di appello ha motivato la conclusione accolta, che viene contrastata per erronea applicazione di norme di diritto.
La fondatezza del ricorso emerge invece dalla considerazione che la stessa Corte di appello ha dato atto che le parti, in sede di contratto preliminare, nella evidente consapevolezza della presenza di difformità sull’immobile, avevano previsto la necessità di attivare il procedimento di sanatoria edilizia, ponendo a carico della parte promittente l’onere di presentare la relativa domanda e di sopportare le conseguenti spese per l’oblazione ed ogni altro contributo ed onere.
Non risulta, invece, che le parti avessero stabilito che la stipulazione del contratto definitivo sarebbe stata rimandata alla definizione del procedimento di sanatoria. La clausola negoziale che prevedeva l’attivazione del suddetto procedimento stava quindi a significare la disponibilità da parte del promissario acquirente di stipulare l’atto definitivo di acquisto una volta presentata la domanda di sanatoria ed assolti i relativi oneri di spesa, senza attendere la sua definizione. Nella premessa, merita aggiungere, che tale adempimento fosse idoneo a produrre l’effetto sperato, che vale a dire gli abusi esistenti potessero essere sanati e fosse ristabilita la regolarità del bene dal punto di vista edilizio e urbanistico.
La previsione del procedimento di sanatoria edilizia rispondeva, del resto, non solo all’interesse della parte acquirente, ma anche della parte venditrice, in quanto la normativa in materia, com’è noto, sanziona con la nullità l’atto di trasferimento tra vivi di immobili abusivi, consentendo l’atto solo nei casi di abusi sanabili e previa allegazione di copia della domanda di sanatoria e della menzione degli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione (art. 40 legge n. 47 del 1985).
Tanto precisato, appare condivisibile la critica svolta nel ricorso per avere la Corte di appello ritenuto che, nonostante la clausola contrattuale sopra menzionata, la parte promittente avesse altresì l’obbligo di consegnare il certificato di agibilità dell’immobile, per non avervi la controparte espressamente rinunciato, non potendo altrimenti considerarsi non inadempiente.
Tale affermazione mal si concilia con la citata previsione contrattuale sulla necessità del procedimento di sanatoria dell’immobile, che implicava, da un lato, la mancanza del suddetto certificato e la sua conoscenza da parte dell’acquirente e, dall’altro, la sua ottenibilità solo in un momento successivo.
Ciò per la ragione che
il rilascio del certificato di agibilità presuppone, anche, la conformità urbanistica dell’immobile e non può essere quindi rilasciato nel caso in cui esso sia abusivo (Cons. Stato, sez. II, 17.05.2021, n. 3836).
In questo senso depone la normativa in materia urbanistico edilizia introdotta dal d.p.r. n. 380 del 2001, che ha eliminato, com’è noto, ogni differenza tra agibilità ed abitalità, assorbendo la seconda nella prima.
In particolare, mentre l’art. 24, nella sua stesura originaria, vigente al momento contratto per cui è causa, prevedeva che il certificato di agibilità attestasse la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici, il successivo art. 25, nel disciplinare il procedimento di rilascio, menzionava espressamente tra le dichiarazioni a corredo della domanda l’attestazione relativa alla “conformità dell’opera rispetto al progetto presentato“ (comma 1, lett. b), ossia la sua regolarità edilizia ed urbanistica.
Con il d.lgs. n. 222 del 2016, che ha ricondotto la certificazione al regime della s.c.i.a., tale requisito di conformità, con l’abrogazione del citato art. 25, è stato riportato nella norma definitoria dell’art. 24, come modificato, che include espressamente “la conformità dell’opera al progetto presentato“ tra i fatti che il tecnico deve asseverare all’atto della presentazione della segnalazione certificata per l’agibilità degli edifici.
Il rilascio della agibilità richiede, pertanto, la sussistenza dei requisiti sia igienico sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, ragion per cui può essere ottenuta soltanto per gli immobili regolari anche sotto tale ultimo profilo ovvero, in caso di immobili abusivi, previa concessione o autorizzazione in sanatoria. Lo stesso art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001, che regola il relativo procedimento in sanatoria, prevede espressamente del resto che a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria venga rilasciato il certificato di agibilità, anche in deroga relativamente a determinati requisiti dell’immobile.

La sentenza impugnata è quindi errata per avere ritenuto l’odierna ricorrente inadempiente all’obbligo di consegnare il certificato di agibilità, omettendo di valutare che le parti, nella consapevolezza del carattere abusivo dell’immobile, avevano espressamente previsto di dar corso al procedimento di sanatoria, senza posticipare alla sua definizione la conclusione del contratto definitivo, e che il suddetto certificato presuppone il rilascio della autorizzazione o concessione in sanatoria.
Sconta di conseguenza tale errore anche l’affermazione che tale mancata consegna avrebbe potuto essere giustificata solo da una espressa rinuncia della parte promissaria acquirente, dovendo essa confrontarsi con il contenuto e gli effetti derivanti dalla clausola contrattuale più volte menzionata.
Non è qui in discussione
il principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui il venditore ha, in generale, l’obbligo di reperire e consegnare il certificato di agibilità, quale requisito per la usufruibilità e commercializzazione futura del bene, non potendo altrimenti considerarsi adempiente rispetto alle obbligazioni nascenti dal contratto.
Proprio la riconducibilità di tale omissione nella categoria dell’inadempimento, porta a ritenere che l’oggetto sia disponibile e che quindi l’acquirente possa rinunciarvi ovvero non possa contestare la sua mancanza tutte le volte in cui abbia manifestato l’intenzione di non considerare la sua consegna decisiva per l’acquisto dell’immobile
(Cass. n. 10665 del 2020).
Merita aggiungere che il giudice del rinvio, nel valutare, conformemente ai principi esposti, il comportamento delle parti e le reciproche contestazioni di inadempienza, dovrà altresì verificare la reale portata della clausola contrattuale citata anche sotto altro profilo, se vale a dire con essa il promittente venditore garantiva la effettiva possibilità di sanatoria degli abusi presenti nell’immobile ed accertare, altresì, se essi erano suscettibili di sanatoria o, come dedotto dalla odierna ricorrente nella memoria depositata, sono stati effettivamente sanati ed il certificato di agibilità è stato rilasciato.
Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

EDILIZIA PRIVATA: Invero, il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia.
Sicché
   - sia il soggetto che ha la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio -ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario-
   - che il responsabile dell'abuso
sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi, posto che l'acquirente dell'immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo stato l'abuso commesso prima del passaggio di proprietà, restando ovviamente salva la possibilità per il terzo acquirente che sia in buona fede di rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
L'accertamento della natura abusiva rende dovuto (nel caso di specie) il ripristino, non potendo applicarsi l'art. 34, relativo agli interventi realizzati in parziale difformità rispetto al permesso di costruire.
L’asserito potenziale pregiudizio alla parte conforme non incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione e può rilevare, semmai, solo nella fase successiva e su impulso della parte, sempre che la demolizione sia ingiunta ai sensi degli artt. 33 o 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, recanti la previsione alternativa della sanzione pecuniaria e la cui applicazione è esclusa allorquando la demolizione è ingiunta, come nella specie, in base agli artt. 27 e 31 del citato decreto.
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L’appello è infondato.
Infatti il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che ha la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio -ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario- che il responsabile dell'abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi, posto che l'acquirente dell'immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo stato l'abuso commesso prima del passaggio di proprietà (così Cons. Stato II n. 2830 del 04.05.2020, VI, 11.12.2018, n. 6893; nello stesso senso Cons. Stato, A.P. 17.10.2017, n. 9), restando ovviamente salva la possibilità per il terzo acquirente che sia in buona fede di rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 14.08.2015, n. 3933).
L'accertamento della natura abusiva rendeva, infatti, dovuto il ripristino, non potendo applicarsi l'art. 34, relativo agli interventi realizzati in parziale difformità rispetto al permesso di costruire.
L’asserito potenziale pregiudizio alla parte conforme non incide sulla legittimità dell'ordine di demolizione e può rilevare, semmai, solo nella fase successiva e su impulso della parte, sempre che la demolizione sia ingiunta ai sensi degli artt. 33 o 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, recanti la previsione alternativa della sanzione pecuniaria e la cui applicazione è esclusa allorquando la demolizione è ingiunta, come nella specie, in base agli artt. 27 e 31 del citato decreto (così Consiglio di Stato II n. 4851 del 15.05.2023).
L’appello deve pertanto essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 17.07.2023 n. 6969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili abusivi, il trasferimento della proprietà al Comune non impedisce la demolizione.
L'acquisizione del bene deve rendere più agevole l'abbattimento e non incrementare il patrimonio dell'ente. L'effetto traslativo dell'opera edilizia abusiva al patrimonio comunale, previsto dall'art. 31 del Dpr 380/2001, consegue ope legis in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire e non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, «in quanto il trasferimento dell'opera nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato a una sua più agevole demolizione e non, invece, a incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio».

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 23.03.2021 n. 11133, che ha respinto il ricorso contro la pronuncia con cui la Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo, aveva dichiarato il costruttore di un immobile responsabile dei reati previsti dagli articoli 44, lettera c), 64 e 71, 65 e 95, 93 e 95, del Dpr 380/2001 e all'articolo 181 del Dlgs 42/2004 e concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, subordinatamente alla demolizione delle opere abusive.
Cornice normativa
L'articolo 31 del Dpr 380/2001, omologo alla precedente disposizione prevista dall'articolo 7 della legge 47/1987 «Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia» prevede che:
   • il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso edilizio la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere;
   • decorso inutilmente questo termine il bene e l'area di sedime sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune;
   • l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire «costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari»;
   • l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare «non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali»;
   • il giudice, con la sentenza di condanna, «ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita», salvo che non sia intervenuta la suindicata delibera.
La sentenza della Cassazione
I difensori dell'imputato avevano sostenuto che la Corte d'appello, «in maniera acritica e illogica, aveva confermato la subordinazione della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, senza considerare [che] l'imputato non aveva la disponibilità dei beni perché acquisiti al patrimonio del Comune». Tesi che non ha colto nel segno.
La Cassazione ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, salvo che il comune abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato, la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio comunale a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione (sentenza Cassazione n. 41051/2015).
Sicché, a prescindere dall'acquisizione del bene al patrimonio comunale, «il soggetto condannato resta comunque il destinatario dell'ordine di demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di dare esecuzione, nelle forme di rito, all'ordine di demolizione a propria cure e spese» (sentenza Cassazione, n. 45703/2011).
Profili costituzionali
Nel senso indicato dalla Cassazione si è espressa anche la Corte costituzionale. Basta citare la sentenza n. 140/2018, che, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 2, della legge della Regione Campania 22.06.2017, n. 19 (Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai Comuni in materia di governo del territorio) che attribuiva alla giunta regionale la potestà di adottare linee guida per supportare gli enti locali nell'attuazione di misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi, ha stabilito che «la demolizione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio del Comune […] costituisce un principio fondamentale della legislazione statale».
Principio che i giudici costituzionali hanno riaffermato con la sentenza n. 86/2019: «la scelta operata dal legislatore statale di sanzionare le violazioni più gravi della normativa urbanistico-edilizia [impone] la rimozione dell'opera abusiva e, con essa, il ripristino dell'ordinato assetto del territorio» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.05.2021).
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SENTENZA
1. Va osservato, in premessa, che è pacificamente riconosciuta la possibilità, per il giudice penale, di subordinare l'applicazione della sospensione condizionale alla demolizione delle opere abusive.
Tale possibilità, secondo un primo orientamento, confermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1 del 10/10/1987 (dep. 1988), Bruni, Rv. 177318), non era originariamente ammessa.
Tuttavia una successiva pronuncia delle medesime Sezioni Unite (Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo, Rv. 206659) ha fornito un condivisibile indirizzo interpretativo, ammettendo la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (cfr. Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466; Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 18304 del 17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000), Pagano, Rv. 216444).
2. Va, poi, ricordato che l'effetto traslativo dell'opera edilizia realizzata abusivamente al patrimonio comunale, previsto dall'art. 31, comma quarto, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (ed in precedenza dall'omologa disposizione di cui all'art. 7 della Legge 28.02.1985, n. 47), consegue ope legis in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire e non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 49397 del 16/11/200, Rv. 230652).
Il soggetto condannato resta, quindi, il destinatario dell'ordine di demolizione, con conseguente onere da parte del medesimo di dare esecuzione, nelle forme di rito, al predetto ordine di demolizione a propria cure e spese (cfr. ex multis, Sez. 3, n. 45703 del 26/10/2011, Rv. 251319; Sez. 3 n. 43294 del 29.09.2005, Rv. 232646; Sez. 3 n. 37120 dell'11.05.2005 Rv. 232174).
L'ordine di demolizione opera, pertanto, anche in caso di intervenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale posto che, sino a quando non sia intervenuta una delibera dell'ente locale che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive -ipotesi nella specie non verificatasi-, è sempre possibile per il condannato chiedere al Comune stesso l'autorizzazione a procedere alla demolizione a propria cura e spese (Sez. 3 n. 7399 del 13/11/2019, dep. 25/02/2020, Rv. 278090 - 01; Sez. 3, n. 39471 del 18/07/2017, Rv. 272502 - 01; Sez. 3, n. 26149 del 09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321).

URBANISTICA: Il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria.
La disposizione di legge regionale sopra richiamata va necessariamente interpretata in senso costituzionalmente orientato, in guisa da garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica Amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché da assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della l.r. n. 12 del 2005 e ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori.
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2.2. Passando al primo motivo, con il quale si assume la tardività dell’adozione della variante, osserva il Collegio che, come evidenziato dalla costante giurisprudenza della Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 28.12.2020, n. 2613), “il termine e i presupposti per l’approvazione del P.G.T. stabiliti dall’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005 [hanno] carattere ordinatorio e non perentorio e […], conseguentemente, il superamento delle scadenze previste non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 20.08.2019, n. 1895; 22.01.2019, n. 122; 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508)”.
La disposizione di legge regionale sopra richiamata va necessariamente interpretata in senso costituzionalmente orientato, in guisa da garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica Amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché da assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione aderisce evidenzia che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della l.r. n. 12 del 2005 e ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia non all’inosservanza del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni, sempre in termini non perentori (cfr.: TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 22.01.2019, n. 122; Id., 10.12.2018, n. 2761; Id., 30.3.2017, n. 761; Id., 26.5.2016, n. 1097; cfr., da ultimo, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 10.2.2021, 374; Id., 26.11.2021, n. 2622).
Le assorbenti considerazioni esposte conducono, quindi, alla reiezione del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse.
L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le ‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà”.
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2.3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che, nonostante l’adozione di modifiche sostanziali anche al Piano delle Regole e al Piano dei Servizi, l’aggiornamento sarebbe stato svolto senza alcuna verifica ambientale strategica.
Come eccepito dal Comune resistente, il motivo è inammissibile e infondato.
2.3.1. Anzitutto, non è stato allegato né dimostrato dal ricorrente se e in quale misura le doglianze relative alla fase di VAS incidano sul “regime” riservato ai suoli di loro proprietà.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che “chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse. L’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può infatti esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le ‘determinazioni lesive’ fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente ‘condizionate’, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà” (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 15.11.2016 n. 2140).
2.3.2. In ogni caso, il motivo è anche infondato per assenza di vizi di illogicità o di travisamento nella decisione di esclusione.
Il Documento di Piano sottoposto a VAS contemplava l’area del ricorrente (denominata “Golfo Agricolo”); a fronte di tale VAS sono stati necessari adeguamenti al Piano dei Servizi ed a quello delle Regole, per i quali però l’Amministrazione ha deciso di chiedere un parere motivato circa l’assoggettamento a VAS anche delle citate modifiche al PdS e al PdR, e l’Autorità Competente per la VAS, con parere del marzo 2017, ha escluso l’assoggettamento alla stessa VAS delle modifiche ai due citati Piani, in quanto gli elementi di novità non erano tali da determinare la necessità di una nuova procedura di verifica.
Si tratta di un parere estremamente articolato ed analitico, fra l’altro espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa delle Autorità preposte alla VAS, parere nel quale non si ravvisano evidenti errori o palesi illogicità.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, la destinazione agricola non implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive di edificazione.
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2.5. Con il quarto motivo il ricorrente deduce che il Comune, nell’assegnazione della destinazione all’area, non avrebbe considerato lo stato effettivo dei luoghi, essendo stata a suo dire irrimediabilmente compromessa la possibilità di uno sfruttamento agricolo del suolo in conseguenza delle opere di piantumazione preventiva effettuate durante la vigenza del previgente PGT.
Il motivo è infondato.
Sul punto è sufficiente osservare che, secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, condiviso anche dalla scrivente Sezione, la destinazione agricola non implica esclusivamente l’esercizio dell’attività agricola ma risponde anche alla necessità di salvaguardare valori ambientali e naturalistici, impedendo l’eccessivo consumo di suolo e favorendo un rapporto equilibrato fra aree urbane edificate ed aree libere prive di edificazione (cfr. la sentenza di questa Sezione n. 62/2022, pronunciata in una causa contro lo stesso Comune di Segrate, nonché TAR Campania-Napoli, Sez. II, 30.05.2018, n. 3563; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 11.06.2013, n. 1502).
Ne consegue che l’avvenuta piantumazione non preclude l’assegnazione di una destinazione prevalentemente agricola al comparto.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze.
Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree.
Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Altresì, “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresent[a]no scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare”.
Con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area il Consiglio di Stato ha osservato che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo”.
Va dunque ribadito che le valutazioni di merito compiute dall’Amministrazione, nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono sindacabili in sede giurisdizionale se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie.
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2.7. Con il sesto motivo si deduce che il Comune non avrebbe valutato in alcun modo la sostenibilità economica delle politiche di intervento e delle scelte pianificatorie concretamente approvate.
Come eccepito dalla difesa comunale, il motivo è inammissibile nella parte in cui è volto a censurare nel merito le valutazioni operate dall’Amministrazione comunale, senza dedurre illogicità o irragionevolezza delle scelte effettuate, unico ambito di sindacabilità delle scelte discrezionali del Comune.
In linea generale, va ricordato che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell'edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. I, 29.01.2015, n. 283).
Negli stessi termini si esprime la giurisprudenza della Sezione, secondo cui “le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale rappresent[a]no scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare” (cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 12.08.2020, n. 1568; id., 29.05.2020, n. 960; id., 09.12.2016, n. 2328; id. 03.12.2018, n. 2715; id., 03.12.2018, n. 2718; id., 21.01. 2019, n. 119; id., 05.07.2019, n. 1557; id., 16.10.2019, n. 2176; id., 21.11.2019, n. 2458; id., 05.03.2020, n. 444; id., 07.05.2020, n. 705).
Con riferimento alla revisione peggiorativa della destinazione urbanistica di un’area –peraltro nemmeno avvenuta nel caso di specie, posto che la previsione precedente è stata annullata in via giurisdizionale- il Consiglio di Stato ha osservato, con la pronuncia della Sezione IV, 09.05.2018, n. 2780, che “le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate” e che “la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell'attitudine edificatoria di un'area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l'amministrazione in ordine ad una diversa ‘zonizzazione’ dell'area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999)”.
Va dunque ribadito che le valutazioni di merito compiute dall’Amministrazione, nell’imprimere una diversa destinazione all’area, non sono sindacabili in sede giurisdizionale se non nei limiti dell’abnormità e dell’irragionevolezza, insussistenti nel caso di specie.
La censura, pertanto, va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.01.2023 n. 215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente strumento urbanistico, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa di fatto alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente.
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10. Con il quarto motivo, gli appellanti evidenziano l’erroneità della motivazione del TAR per non aver considerato che le particelle nn. 103, 104 e 463, destinate a “Zona F – attrezzature pubbliche e ad uso pubblico – V.P. verde pubblico attrezzato”, nella precedente pianificazione presentavano, in parte, una destinazione a “Zona C”. Si insiste, inoltre, sulla natura espropriativa della nuova pianificazione.
10.1. Il quarto motivo di appello è infondato.
10.2. Va ribadito che le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito (fra le più recenti, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. II, 09.01.2020, n. 161; Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; Sez. IV, 17.10.2019, n. 7051; Sez. IV, 29.08.2019, n. 5960; Sez. II, 07.08.2019, n. 5611; Sez. IV, 25.06.2019, n. 4345; Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986) e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente strumento urbanistico, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa di fatto alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2021 n. 2420; Sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 20.01.2020, n. 456; Sez. IV, 24.06.2019, n. 4297; Sez. IV, 26.10.2018, n. 6094; Sez. IV, 24.03.2017, n. 1326; Sez. IV, 11.11.2016, n. 4666).
10.3. Né può convenirsi con la parte odierna appellante laddove lamenta di aver subito un’espropriazione de facto della proprietà, essendo evidente che la destinazione impressa alle aree per cui è causa costituisce applicazione degli ordinari poteri di “zonizzazione” spettanti al Comune
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2022 n. 10731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito, e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G..
A tale proposito, il Collegio rileva che le c.d. zone agricole, oltre a comprendere le aree destinate effettivamente all’attività agricola, possono includere anche aree, solitamente periferiche, le quali, benché non utilizzate, in concreto, all’esercizio dell’agricoltura, non possono secondo le valutazioni del pianificatore avere altra valutazione urbanistica.
Risulta parimenti corretta la statuizione della sentenza di primo grado, che ha rilevato come la previsione di un “lotto minimo” per le zone a destinazione agricola non costituisca un presupposto previsto per poter attribuire la destinazione agricola al fondo, bensì l’unità minima necessaria affinché su quel fondo si possa autorizzare, da parte del comune, l’edificazione degli edifici strumentali all’attività di coltivazione o di carattere residenziale a servizio del fondo, al fine di evitare che le aree a destinazione agricola vengano surrettiziamente trasformate, mediante la loro vendita frazionata e mediante la costruzione di edifici su ciascuna di esse, in lotti a destinazione sostanzialmente residenziale.
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Gli atti di pianificazione non necessitano di motivazione che sia puntuale per ciascuna specifica previsione di piano, riguardante la singola area.
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7.4. Con il quarto motivo di appello, ci si duole della pronuncia impugnata per aver respinto il quarto motivo di ricorso di primo grado, con il quale si era censurata l’insussistenza dei presupposti per ritenere l’area in esame a destinazione “agricola”, anche in considerazione dell’insussistenza del “lotto minimo” per potersi qualificare come “zona agricola”.
7.4.1. Come correttamente statuito dal Tar, le scelte di pianificazione sono espressione di un’amplissima valutazione discrezionale, insindacabile nel merito (fra le più recenti, cfr. da Cons. Stato, Sez. II, 18.05.2020, n. 3163 a Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986) e non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli, essendo sfornita di tutela la generica aspettativa alla non reformatio in peius o alla reformatio in melius delle destinazioni impresse da un previgente P.R.G. (cfr. da Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2021 n. 2420 a Sez. IV, 11.11.2016, n. 4666).
7.4.2. A tale proposito, il Collegio rileva che le c.d. zone agricole, oltre a comprendere le aree destinate effettivamente all’attività agricola, possono includere anche aree, solitamente periferiche, le quali, benché non utilizzate, in concreto, all’esercizio dell’agricoltura, non possono secondo le valutazioni del pianificatore avere altra valutazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. II, 28.02.2020, n. 1461; cfr. anche 22.01.2021, n. 659 e 13.10.2021 n. 6883).
7.4.3. Risulta parimenti corretta la statuizione della sentenza di primo grado, che ha rilevato come la previsione di un “lotto minimo” per le zone a destinazione agricola non costituisca un presupposto previsto per poter attribuire la destinazione agricola al fondo, bensì l’unità minima necessaria affinché su quel fondo si possa autorizzare, da parte del comune, l’edificazione degli edifici strumentali all’attività di coltivazione o di carattere residenziale a servizio del fondo, al fine di evitare che le aree a destinazione agricola vengano surrettiziamente trasformate, mediante la loro vendita frazionata e mediante la costruzione di edifici su ciascuna di esse, in lotti a destinazione sostanzialmente residenziale.
7.4.4. Il quarto motivo di appello va respinto.
7.5. Con il quinto motivo di appello, si grava la sentenza per non aver accolto la censura di difetto di motivazione del provvedimento di approvazione della variante.
7.5.1. In base alla costante e pacifica giurisprudenza di questo Consiglio, della quale il Tar ha fatto applicazione nello scrutinio della doglianza di ricorso, gli atti di pianificazione non necessitano di motivazione che sia puntuale per ciascuna specifica previsione di piano, riguardante la singola area (Cons. Stato, sez. II, 18.05.2020, n. 3163; Sez. II, 04.05.2020, n. 2824; Sez. IV, 03.02.2020, n. 844).
7.5.2. Nel caso di specie, la motivazione contenuta nella relazione generale è pienamente pertinente alla scelta comunale di confermare la pregressa destinazione del suolo di proprietà della società, per evitare il consumo di suolo mediante l’incremento della superficie edificabile.
7.5.3. Il quinto motivo di appello va pertanto respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2022 n. 10661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di pianificazione urbanistica “costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell'amministrazione e le stesse, nell'ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito sconfinamento nel cd. merito amministrativo.
Inoltre, l'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Pertanto, l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata”.
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Sull’amministrazione non grava un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree.
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L
e osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo e in tale contesto vengono valutate dal Comune nell’ottica della corretta pianificazione per il soddisfacimento dell’interesse pubblico, sicché la provenienza delle stesse ha una rilevanza limitata, né si deve ritenere che il Comune sia tenuto a svolgere puntuali verifiche sulla legittimazione a presentare osservazioni, riconosciuta anzi con ampia latitudine.
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3.2. Con il secondo motivo, si deduce l’illegittimità del piano, nella parte in cui ha accolto le osservazioni di Mi., poiché sarebbe stata incrementata la superficie edificabile ed espanso l’ATU9, in contrasto con gli obiettivi fissati nel documenti di piano e, in particolare, quelli di rallentare il consumo di suolo e di frenare lo sviluppo edilizio della città.
Al di là del fatto che, nelle more del ricorso, il documento di piano è scaduto per decorrenza del termine di validità quinquennale ai sensi dell’art. 8 L.R. n. 12/2005 e che dunque lo stesso non costituisca l’attuale parametro di riferimento in ordine alle scelte urbanistiche dell’amministrazione, la censura è comunque infondata nel merito.
Le scelte di pianificazione urbanistica –quale è quella in esame– “costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell'amministrazione e le stesse, nell'ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, sono censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito sconfinamento nel cd. merito amministrativo.
Inoltre, l'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Pertanto, l'onere di motivazione gravante sull'amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le previsioni incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata
” (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 19.11.2018, n. 6484; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 11.12.2020, n. 2473).
Nel caso di specie, alcuna irragionevolezza è rinvenibile nella scelta discrezionale del Comune, avuto riguardo al fatto che le zone a cui è stata attribuita destinazione residenziale sono esterne al Parco agricolo Sud Milano e ai limiti di aree incluse in un piano di lottizzazione; peraltro la previsione di un aumento di superficie edificabile e l’espansione dell’ATU9 trova specifica giustificazione nella funzionalità connessa all’ampliamento dell’oratorio e alla presenza di un’area per servizi già dotata di potenziale edificatorio, sicché l’accoglimento delle osservazioni deve essere giudicato in linea con gli obiettivi complessivi del Pgt, che prevedeva già (anche quello adottato) limitati interventi di completamento di piccoli lotti rimasti inedificati all’interno della città.
Infine, nessuna legittima aspettativa in senso opposto è individuabile in capo ai ricorrenti, che infatti nemmeno l’hanno allegata.
3.3. Parimenti infondata è la terza censura, con cui si lamenta l’illegittimo accoglimento dell’osservazione di Ch.Ed. per carenza di istruttoria, poiché il Comune non avrebbe verificato che le aree della società non avrebbero “i requisiti classici” delle aree di completamento.
Fermo quanto già sopra precisato circa l’ampia discrezionalità delle scelte del pianificatore urbanistico e la non irragionevolezza delle decisioni assunte nella fattispecie, deve essere ribadito, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che sull’amministrazione non grava un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Sez. II, 16.02.2021, n. 879).
Non può quindi fondatamente sostenersi che l’amministrazione dovesse rendere puntuale conto, accogliendo l’osservazione della società, delle caratteristiche dell’area in raffronto a tutte le altre analoghe del territorio, essendo invece sufficiente il raffronto effettuato con quelle limitrofe e la valutazione di omogeneità operata.
3.4. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono che l’amministrazione comunale avrebbe analizzato un’osservazione –quella di Mi.– presentata da un sedicente procuratore speciale del proprietario dell’area, senza che tuttavia venisse prodotta una procura speciale notarile.
Il motivo è inammissibile, poiché i ricorrenti non hanno alcun interesse a contestare il difetto di rappresentanza sostanziale di Miglio, che avrebbe potuto essere fatto valere solo dal proprietario dell’area.
In ogni caso, le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo (cfr. TAR Lombardia, Milano, 11.01.2021, n. 58; id., 03.12.2018, n. 2722; id., 06.08.2018, n. 1945) e in tale contesto vengono valutate dal Comune nell’ottica della corretta pianificazione per il soddisfacimento dell’interesse pubblico, sicché la provenienza delle stesse ha una rilevanza limitata, né si deve ritenere che il Comune sia tenuto a svolgere puntuali verifiche sulla legittimazione a presentare osservazioni, riconosciuta anzi con ampia latitudine (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.02.2022 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn linea generale, le determinazioni di pianificazione urbanistica non necessitano di particolare motivazione, salvo che particolari situazioni abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti privati, nel caso in esame la ragione della modifica è stata esplicitata con la volontà di non ingenerare un contrasto con il P.T.C.P. adottato, dunque in funzione di salvaguardia dello stesso nell’attesa della sua approvazione finale.
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Con riferimento alla posizione della società ricorrente, non risulta che essa potesse nutrire un affidamento qualificato nella collocazione della propria area in un ambito di trasformazione residenziale, giacché una tale posizione è rinvenibile, per costante giurisprudenza, solo nel caso in cui l’aspettativa si sia concretizzata in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato o quantomeno adottato.
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7.1. Anche questo secondo motivo è destituito di fondamento.
7.2. Premesso che, in linea generale, le determinazioni di pianificazione urbanistica non necessitano di particolare motivazione, salvo che particolari situazioni abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti privati (ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 02.12.2020, n. 7636; TAR Milano, Sez. II, 16.09.2020, n. 1668), nel caso in esame la ragione della modifica è stata esplicitata con la volontà di non ingenerare un contrasto con il P.T.C.P. adottato, dunque in funzione di salvaguardia dello stesso nell’attesa della sua approvazione finale.
L’art. 31 delle N.T.A. del P.T.C.P., pur facendo salve le previsioni degli strumenti urbanistici vigenti al momento dell’approvazione del piano provinciale, certamente non suggerisce di addivenire a una pianificazione comunale collidente con il P.T.C.P. in corso di approvazione.
La vicinanza temporale tra l’approvazione del P.G.T. e del P.T.C.P. rende quindi più che ragionevole adeguare sin da subito il primo al secondo, in un’ottica di leale collaborazione tra istituzioni e di buon andamento dell’amministrazione.
7.3. Con riferimento alla posizione della società ricorrente, non risulta –per converso– che essa potesse nutrire un affidamento qualificato nella collocazione della propria area in un ambito di trasformazione residenziale, giacché una tale posizione è rinvenibile, per costante giurisprudenza, solo nel caso in cui l’aspettativa si sia concretizzata in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato o quantomeno adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25.08.2017, n. 4063; Id., 12.04.2018, n. 2204; Id., Sez. II, 06.11.2019, n. 7560; Id., 01.08.2018, n. 4734) o derivi da precedenti giudicati favorevoli (Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2019, n. 4343; Id., 08.06.2020, n. 3632)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.05.2021 n. 1267 - link a www.giustiziamministrativa.it).

URBANISTICA: Non è irragionevole, né in contrasto con l’art. 7 della legge 1150/1942 o con i principi della pianificazione, il metodo pianificatorio seguito dal Comune che, nel ridisegnare integralmente un contesto urbanistico ormai consolidato, si propone di ottenere un mix di destinazioni, alcune principali e altre di complemento.
La ricerca di un bilanciamento tra destinazioni diverse, che eviti la creazione di quartieri monofunzionali, è anzi un indice di qualità urbanistica. Naturalmente, possono essere censurati gli accostamenti di destinazioni incompatibili, che provocano disagi e dannose interferenze, ma nel caso in esame la soluzione individuata, incentrata su due destinazioni principali (terziario e servizi) con alcune destinazioni accessorie (spazi scoperti, residenze, distributori di carburante, attività industriali e artigianali), appare equilibrata, anche in conseguenza dell’esclusione delle infrastrutture più impattanti (grandi strutture di vendita, cimiteri, ospedali, impianti per servizi pubblici locali).
La presenza della destinazione residenziale in un ambito a vocazione commerciale non è un elemento di contraddittorietà, ma ha evidentemente lo scopo di garantire una certa continuità con la situazione preesistente.
La differenziazione degli indici edificatori rispetto ad altre zone del territorio è una diretta conseguenza del mix di destinazioni scelto per i singoli ambiti, e dunque non costituisce in via diretta un sintomo di irragionevolezza. L’illegittimità della scelta urbanistica non si manifesta neppure sotto forma di disparità di trattamento: per arrivare a questa conclusione occorrerebbe dimostrare che due situazioni del tutto identiche ricevono una dotazione di diritti edificatori diversa, ma nello specifico una simile prova non è stata fornita.
Lo strumento urbanistico generale fissa degli obiettivi e dei limiti: in questa cornice la specificazione e l’attribuzione in concreto dei diritti edificatori è correttamente rinviata ai piani attuativi, tramite accordo tra i proprietari se tutti partecipano o secondo le decisioni dei proprietari che dispongono della maggioranza del valore delle aree ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge 166/2002.
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Il fatto che, nelle aree di trasformazione aventi dimensioni superiori a 7.000 mq., l’art. 32 delle NTA preveda una quota di edilizia residenziale convenzionata in una misura che varia dal 10% al 30% delle unità immobiliari, salva diversa previsione dei Progetti Norma, non configura alcuna illegittimità.
La perequazione urbanistica può assumere varie forme, tra cui anche l’imposizione di un limite ai diritti edificatori e la conversione della parte eccedente in iniziative di interesse collettivo (nello specifico, la realizzazione di alloggi da affittare a prezzi convenzionati) o in un obbligo ragionevolmente contenuto di cessione gratuita delle aree. Finché viene garantito l’equilibrio economico della lottizzazione, le distorsioni create da questo metodo pianificatorio rimangono ammissibili e non costituiscono un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo ai danni dei lottizzanti.
In realtà, la misura della capacità edificatoria insediata su una certa area dipende dalle scelte dell’amministrazione, e dunque non vi è espropriazione quando l’amministrazione stabilisce un limite a tale capacità, sia pure sotto forma di vincolo di destinazione su una parte di quanto edificato. Tale vincolo può avere qualsiasi contenuto, purché corrisponda a un interesse pubblico effettivo, e dunque può anche servire a ottenere risultati simili a quelli che in passato erano conseguiti con altri strumenti come i PEEP, disciplinati da apposita normativa di settore.

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Sull’impostazione urbanistica del PRG
14. Passando al merito, con una prima serie di argomenti il ricorrente cerca di dimostrare l’irragionevolezza del metodo pianificatorio seguito dal Comune che, nel ridisegnare integralmente un contesto urbanistico ormai consolidato, si propone di ottenere un mix di destinazioni, alcune principali e altre di complemento.
Le censure non sono però condivisibili.
15. Il metodo non appare né irragionevole né in contrasto con l’art. 7 della legge 1150/1942 o con i principi della pianificazione.
La ricerca di un bilanciamento tra destinazioni diverse, che eviti la creazione di quartieri monofunzionali, è anzi un indice di qualità urbanistica. Naturalmente, possono essere censurati gli accostamenti di destinazioni incompatibili, che provocano disagi e dannose interferenze, ma nel caso in esame la soluzione individuata, incentrata su due destinazioni principali (terziario e servizi) con alcune destinazioni accessorie (spazi scoperti, residenze, distributori di carburante, attività industriali e artigianali), appare equilibrata, anche in conseguenza dell’esclusione delle infrastrutture più impattanti (grandi strutture di vendita, cimiteri, ospedali, impianti per servizi pubblici locali).
La presenza della destinazione residenziale in un ambito a vocazione commerciale non è un elemento di contraddittorietà, ma ha evidentemente lo scopo di garantire una certa continuità con la situazione preesistente.
16. La differenziazione degli indici edificatori rispetto ad altre zone del territorio è una diretta conseguenza del mix di destinazioni scelto per i singoli ambiti, e dunque non costituisce in via diretta un sintomo di irragionevolezza. L’illegittimità della scelta urbanistica non si manifesta neppure sotto forma di disparità di trattamento: per arrivare a questa conclusione occorrerebbe dimostrare che due situazioni del tutto identiche ricevono una dotazione di diritti edificatori diversa, ma nello specifico una simile prova non è stata fornita.
17. Lo strumento urbanistico generale fissa degli obiettivi e dei limiti: in questa cornice la specificazione e l’attribuzione in concreto dei diritti edificatori è correttamente rinviata ai piani attuativi, tramite accordo tra i proprietari se tutti partecipano o secondo le decisioni dei proprietari che dispongono della maggioranza del valore delle aree ai sensi dell’art. 27, comma 5, della legge 166/2002.
Per quanto riguarda la conclusione degli accordi tra i privati, il Comune ha regolato i rapporti di forza secondo un canone che non è solo giuridico ma anche di senso comune: la consistenza delle rispettive quote di proprietà. L’art. 99 delle NTA precisa infatti che i diritti edificatori e gli oneri si ripartiscono in proporzione alla consistenza della proprietà, salvo diversa pattuizione. Tra gli oneri, che devono essere definiti in dettaglio nei piani attuativi, rientra anche l’esatta misura delle aree a standard, che dipende dalle caratteristiche degli edifici progettati.
18. Il fatto che, nelle aree di trasformazione aventi dimensioni superiori a 7.000 mq., l’art. 32 delle NTA preveda una quota di edilizia residenziale convenzionata in una misura che varia dal 10% al 30% delle unità immobiliari, salva diversa previsione dei Progetti Norma, non configura alcuna illegittimità.
La perequazione urbanistica può assumere varie forme, tra cui anche l’imposizione di un limite ai diritti edificatori e la conversione della parte eccedente in iniziative di interesse collettivo (nello specifico, la realizzazione di alloggi da affittare a prezzi convenzionati) o in un obbligo ragionevolmente contenuto di cessione gratuita delle aree. Finché viene garantito l’equilibrio economico della lottizzazione, le distorsioni create da questo metodo pianificatorio rimangono ammissibili e non costituiscono un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo ai danni dei lottizzanti.
In realtà, la misura della capacità edificatoria insediata su una certa area dipende dalle scelte dell’amministrazione, e dunque non vi è espropriazione quando l’amministrazione stabilisce un limite a tale capacità, sia pure sotto forma di vincolo di destinazione su una parte di quanto edificato. Tale vincolo può avere qualsiasi contenuto, purché corrisponda a un interesse pubblico effettivo, e dunque può anche servire a ottenere risultati simili a quelli che in passato erano conseguiti con altri strumenti come i PEEP, disciplinati da apposita normativa di settore (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.05.2013 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 19.02.2024

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAPaesaggio, mai libera l’installazione di pannelli solari in area tutelata. Il Tar Sardegna boccia la posa in opera senza comunicazione di un impianto sul tetto di un condominio.
L’installazione di pannelli solari in aree soggette a vincolo non rientra nella categoria di edilizia libera e necessita di comunicazione di inizio lavori. Inoltre, se è in area vincolata necessita del parere dell’istituto di tutela.

Con questa motivazione il TAR Cagliari, Sez. I, con la sentenza 02.05.2023 n. 323 ha respinto il ricorso presentato da una persona che nella copertura condominiale di una palazzina di sei piani (che ricade in area sottoposta a vincolo urbanistico paesaggistico determinato da delibera del Consiglio comunale) aveva installato, senza autorizzazione, un impianto termico solare per la produzione di acqua calda.
Tutto inizia quando la proprietaria dell’appartamento situato a sesto piano presenta al Comune denuncia di abuso edilizio «al fine di valutare la legittimità dell’opera». Segue sopralluogo dei funzionari comunali nel piano di copertura dell’edificio da cui emerge che era stato «installato un impianto tecnologico “solare termico”, sulla copertura condominiale al piano settimo dell’edificio di uso esclusivo dell’unità immobiliare -sita al terzo piano e destinata ad uso residenziale- di sua proprietà».
Il sopralluogo alla presenza della proprietaria e usufruttuaria dell’appartamento al sesto piano dove è presente l’unico accesso alla copertura piana del fabbricato. Non a caso, nell’esposto la proprietaria lamenta il fatto «di essere costretta a consentire di far entrare in casa mia persone per eseguire le manutenzioni di un pannello solare installato abusivamente nel lastrico solare condominiale che è sopra la mia casa».
L’argomento era stato al centro anche di un’assemblea di condominio «con richiesta di rimozione in quanto l’installazione del pannello non risultava ritualmente consentita dal Condominio». Dagli accertamenti risulta che le opere sono state «realizzate in assenza di titolo abilitativo e in assenza di autorizzazione paesaggistica».
C’è quindi l’ordinanza di demolizione e ripristino dei luoghi. Segue il ricorso al Tar. Tra i motivi del ricorso «l’omessa comunicazione dell’avvio di procedimento», il fatto che «le opere potevano essere dunque eseguite senza alcun titolo abilitativo» e «l’installazione di pannelli solari ricadrebbe nell’attività di edilizia libera ben potendo dunque essere realizzati senza alcun titolo abilitativo».
Un altro elemento sollevato dal ricorrente riguarda «il contesto urbano dell’area in questione, caratterizzata proprio dalla presenza di molteplici pannelli solari e fotovoltaici nelle coperture degli edifici (e dunque la modifica di “lieve entità” sotto il profilo della coerenza urbanistica che caratterizza la zona».
A supporto della tesi secondo cui l’intervento ricade nell’ambito di edilizia libera, il ricorrente, cita la sentenza del Tar del 2020. Tesi che, secondo i giudici, non può essere accolta perché «diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal Tar Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio lavori».
Non solo, i giudici ricordano che «le disposizioni legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)».
Quanto all’autorizzazione paesaggistica, i giudici sottolineano che «i pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio».
Ricorso infondato e respinto. Spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.09.2023).
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SENTENZA
11. Il nucleo centrale del ricorso è, a ben vedere, rinvenibile nel secondo motivo di impugnazione.
12. Lamenta in primo luogo il sig. Fr. che nel caso di specie non si sarebbe considerato che l’intervento in questione ricade nella categoria dell’edilizia libera e pertanto sarebbe realizzabile senza necessità di titolo abilitativo.
12.1 Richiama a supporto la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, n. 11025 del 28.10.2020, per la quale “l’installazione di impianti solari destinati alla produzione di acqua calda è considerata, ex combinato disposto artt. 123, comma 1, 3, comma 1-b, del D.P.R. n. 380 del 2001, estensione dell’impianto idrico-sanitario già in opera e, dunque, intervento di manutenzione straordinaria; che le relative opere possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, ex art. 6, comma 1, lett. e-quater) (all’epoca art. 6, comma 2-d), del D.P.R. n. 380 del 2001; che non era necessario dunque presentare la d.i.a., essendo all’uopo sufficiente l’inoltro all’Amministrazione della comunicazione di avvio dei lavori”.
13. In relazione a tale richiamo giurisprudenziale il Collegio rileva, in primo luogo, che diversamente da quanto avvenuto nel caso deciso dal TAR Lazio, il ricorrente non ha neanche inoltrato la comunicazione di inizio lavori.
14. Tale non può intendersi, invero, quella inoltrata in data 08.04.2013 dall’allora proprietario dell’immobile Fl.Fl. che non ha affatto inserito nell’indicazione delle opere da eseguire l’installazione dei pannelli solari per cui è causa, limitandosi a indicare l’esecuzione di ben diverse (e specificate) opere interne.
15. Il ricorrente sostiene altresì che l’intervento in questione, eseguito tra il 2012 e il 2013, rientrerebbe nell’edilizia libera e sarebbe ammissibile anche in assenza della comunicazione di inizio lavori.
Richiama sul punto:
   - l’art. 6 del DPR n. 380/2001, rubricato “
attività libera edilizia” che al comma 1, prevede tra gli interventi che non necessitano di titolo abilitativo edilizio, al punto “e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici”.
   - l’art. 15 della l.r. n. 23/1985, rubricato “interventi di edilizia libera”, che al comma 1, dispone che “i seguenti interventi sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio:
(…)
j-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici
”.
16. L’argomento non è decisivo.
17. Come invero precisato nel provvedimento impugnato le citate disposizioni legislative subordinano espressamente gli interventi menzionati al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, comprese le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).
18. Orbene, l’art. 75 del Regolamento Edilizio vigente, rubricato “Coerenza e compiutezza architettonica degli edifici”, vieta di posizionare nelle pareti esterne (comprese quelle orizzontali) apparecchiature tecnologiche (tra le quali rientrano senz’altro i pannelli solari) che non risultano in armonia architettonica con le pareti del fabbricato ed il suo intorno, visibili da altri spazi pubblici e prive di accorgimenti volti a mascherare i macchinari.
18.1 Recita infatti testualmente: “Nelle nuove costruzioni o nella modifica di edifici esistenti, tutte le pareti esterne prospettanti su spazi pubblici e privati, anche se interni all'edificio, e tutte le opere ad esse attinenti (finestre, parapetti, ecc.) devono essere realizzate con materiali e cura di dettagli tali da garantire la buona conservazione nel tempo delle strutture stesse. Nelle stesse pareti esterne è vietato sistemare tubi di scarico, canne di ventilazione e canalizzazioni in genere, apparecchiature tecnologiche a meno che il progetto non preveda armonicamente una loro sistemazione nelle pareti, secondo accurate scelte di carattere funzionale ed architettonico… Per le unità di condizionamento visibili dalla strada o da altri spazi pubblici è prescritta l’adozione di accorgimenti volti a mascherare il macchinario.”.
19.1 E come precisato nel provvedimento impugnato “L'impianto tecnologico accertato al momento del sopralluogo non può essere ritenuto all'uopo idoneo, perché non integrato nella configurazione della copertura e posizionato in maniera tale da essere visibile dagli spazi pubblici”.
20. Sul punto l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato trova conferma nelle produzioni fotografiche allegate al verbale di sopralluogo in atti, dalle quali i pannelli in questione sono ben visibili da diverse inquadrature prospettiche.
21. Né può ritenersi che la nuova normativa nel frattempo intervenuta, ossia il DL n. 17 del 01.03.2022, richiamata nelle memorie difensive dal ricorrente, sia sul punto decisiva, essendo essa non applicabile ratione temporis alla valutazione di legittimità del provvedimento in esame e restando -eventualmente- suscettibile di valutazione in caso di presentazione di una nuova futura istanza da parte dello stesso ricorrente.
22. Nell’ordinanza impugnata si contesta altresì che l’intervento sia stato realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica, necessaria per abilitare quel tipo di interventi in ambito tutelato.
23. Sostiene invece il sig. Fr. che intervento rientrerebbe nella categoria degli interventi “esclusi dall’autorizzazione paesaggistica” pur in ambiti vincolati.
Ciò risulterebbe, in particolare, dall’apposita circolare regionale di “Chiarimenti in merito al Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”.
24. L’argomento non è fondato, in quanto nel “quadro sinottico di raffronto” (allegato a tale circolare) ove sono indicati gli “interventi ed opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica”, nella categoria “A.6.” che nella tesi del ricorrente giustificherebbe l’esclusione di tale autorizzazione, è inclusa “l’installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da non essere visibili dagli spazi pubblici esterni”.
25. Quanto affermato dal ricorrente non trova dunque riscontro in fatto in quanto, come evidenziato dalle produzioni fotografiche del Comune, i pannelli in questione, posizionati sul solaio piano del palazzo, risultano evidentemente inclinati e nettamente visibili dalle vie circostanti, con conseguente inapplicabilità -quanto meno con riguardo alla normativa vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- dell’invocata esenzione dal titolo autorizzatorio.
26. L’intervento in questione, sul punto, pare invece ricadere nell’ambito del quadro b.8 dell’anzidetta circolare, relativo alla categoria degli “interventi e opere soggette a procedimento semplificato”, che peraltro allo stato non risulta essere stato avviato.
27. Neanche il rilievo che il notevole lasso di tempo intercorso dalla realizzazione dell’opera all’adozione del provvedimento impugnato avrebbe ingenerato un legittimo affidamento del ricorrente circa la liceità dell’opera, il che richiederebbe una motivazione del provvedimento rafforzata, merita accoglimento.
28. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, più volte condiviso dal Tribunale, ritiene che anche nel caso di abuso risalente nel tempo l’ordine di demolizione di opere abusive costituisca atto dovuto, non potendo il semplice decorso del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore poiché il potere di ripristino dello status quo non è soggetto ad alcun termine di prescrizione, né è tacitamente rinunciabile poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (Adunanza Plenaria n. 9 del 2017).
28.1 Pertanto, in presenza di un abuso edilizio la lesione degli interessi pubblici urbanistici (e paesaggistici) è “in re ipsa”, senza necessità di far precedere la repressione del predetto abuso dalla verifica dell’effettiva compromissione in concreto del contesto circostante, con la conseguente infondatezza del profilo di censura con cui si lamenta la carenza di una adeguata motivazione da parte dall’amministrazione procedente in ordine al rilievo minimale dell’opera.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Quesito su mutamento composizione delle commissioni consiliari.
Sintesi/Massima
Sulla composizione delle commissioni consiliari si richiama il parere n. 771/2018 in cui il Consiglio di Stato osserva come il rispetto del criterio proporzionale ex art. 38, c. 6, del d.lgs. n. 267/2000 potrebbe essere garantito prevedendo l'istituto del voto plurimo piuttosto che capitario.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha trasmesso le osservazioni formulate dal segretario comunale del comune di … in merito alla questione segnalata da un consigliere di minoranza. Il predetto consigliere ha evidenziato che, all'esito delle elezioni amministrative dell'ottobre 2021, il consiglio comunale di … si componeva di 12 consiglieri eletti per la lista "… e …" e di 5 consiglieri per la lista "" di cui fa parte il consigliere esponente.
In seno al consiglio comunale sono istituite le commissioni consiliari permanenti, composte ciascuna da cinque consiglieri, di cui tre in rappresentanza della maggioranza e due della minoranza. Nel corso del mandato, due consiglieri di maggioranza sono passati all'opposizione formando il gruppo misto.
A seguito di tale circostanza, i consiglieri di maggioranza hanno presentato una delibera al fine -ad avviso del consigliere esponente- di nominare i nuovi membri delle commissioni e modificare la composizione delle commissioni consiliari permanenti per assegnare i due rappresentanti della minoranza uno al gruppo "…" ed uno al gruppo misto. La proposta della maggioranza pregiudicherebbe, quindi, la rappresentanza del gruppo "…" nell'ambito delle commissioni consiliari, riducendone i componenti da due a uno. I consiglieri del predetto gruppo, ritenendo la posizione della maggioranza non coerente con il regolamento del consiglio comunale, hanno deciso di non procedere alla elezione dei propri rappresentanti nelle commissioni che, ad oggi, da quanto emerge dalla richiesta di parere, non sarebbero state più convocate.
L'ente ritiene, invece, che l'istituzione del gruppo misto ha comportato inevitabilmente un mutamento delle forze politiche in seno al consiglio comunale; pertanto, è stato necessario adeguare, in coerenza con il principio di proporzionalità, la composizione delle commissioni permanenti ai nuovi assetti, attraverso l'attribuzione al gruppo misto di un proprio rappresentante all'interno delle commissioni senza però intervenire sul numero dei componenti l'organo.
Tanto premesso, è stato chiesto di conoscere se, a seguito dell'istituzione del gruppo misto, le commissioni debbano mantenere la composizione iniziale, oppure se i due rappresentanti assegnati alla minoranza debbano essere considerati in ragione di un componente per ciascun gruppo dell'opposizione. Al riguardo, in via preliminare, si precisa che le commissioni non sono organi necessari dell'ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli e, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo assembleare. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell'ambito della competenza dei consigli.
Si rileva, in base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, che le commissioni consiliari, se previste dallo statuto, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto; pertanto, spetta al consiglio comunale prevedere nel regolamento i meccanismi idonei a garantirne il rispetto. Ai sensi dell'art. 33, comma 1, del regolamento del consiglio comunale è previsto che ciascuna commissione permanente è costituita da cinque consiglieri da ripartire fra i gruppi consiliari, in proporzione alla consistenza dei gruppi stessi. Il terzo comma del medesimo articolo 33 dispone che "eventuali modifiche dei gruppi consiliari non determinano mutamenti nella composizione delle commissioni, salvo il caso di dimissioni o di impedimento permanente".
Secondo il consigliere esponente tale ultima disposizione precluderebbe la possibilità di modificare la composizione delle commissioni. Il segretario del comune ha osservato, invece, come la composizione delle commissioni consiliari con tre rappresentanti di maggioranza e un rappresentante per ciascun gruppo di opposizione sia stata ritenuta rispettosa del criterio proporzionale, precisando che la disposizione recata dall'articolo 33, comma 3, del regolamento del consiglio disciplina l'ipotesi di un'intervenuta modifica dei gruppi già esistenti, quindi l'ipotesi prevista dalla predetta norma non sarebbe applicabile al caso di specie trattandosi di costituzione di un nuovo gruppo. È pur vero che il citato art. 33, comma 3, del regolamento sembra presentare una formulazione ambigua.
Pertanto, il consiglio comunale potrebbe valutare la possibilità di riformulare in modo più chiaro la disposizione regolamentare sopracitata. In merito alla questione prospettata, si richiama il parere n. 771 del 07.03.2018 in cui il Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare come il rispetto del criterio proporzionale richiesto dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 potrebbe essere garantito prevedendo l'istituto del voto plurimo in luogo del voto capitario.
Con specifico riferimento all'istituto del voto plurimo, il Consiglio di Stato-sez. V, con sentenza n. 4919 del 25.10.2017, ha osservato che "questa modalità di voto, nel garantire il rispetto del principio di proporzionalità ex art. 38, comma 6, d.lgs. n. 267 del 2000, non viola il principio di parità tra i consiglieri".
Dall'esame delle osservazioni fornite dal segretario dell'ente, emerge che il consiglio comunale starebbe valutando l'opportunità di introdurre apposite modifiche normative tali da adeguare le fonti di autonomia locale ai criteri indicati nella citata pronuncia del Consiglio di Stato del 2018.
Nelle more delle modifiche in parola, si richiama il consolidato avviso di questo Ministero, espresso in altri casi analoghi, e cioè che l'oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni giustifica il riespandersi della piena attribuzione delle competenze del consiglio comunale, del quale le commissioni costituiscono articolazioni, essendo prive di competenza autonoma (parere 17.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

EDILIZIA PRIVATAQuesto Comune sta procedendo alla nomina del nuovo revisore dei conti per il triennio 2024/2027 ed ha provveduto a richiedere le prescritte dichiarazioni alla persona estratta dalla prefettura. Dalle dichiarazioni è emersa a carico dello stesso una condanna non definitiva per reato contro la PA.
È possibile procedere alla nomina?

Al fine di rispondere al quesito proposto dobbiamo discernere la nostra analisi necessariamente dalle specifiche previsioni introdotte dal Testo Unico degli Enti Locali in merito alle cause di incompatibilità dell’organo di revisione.
L'art. 236, comma 1, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 con riferimento alle ipotesi di incompatibilità dell’organo di revisione infatti stabilisce testualmente che: "valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile, intendendosi per amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale".
Tanto ciò premesso il citato art. 2399 c.c. rinvia, tra l'altro, all'art. 2382 c.c. che prevede che sono cause impeditive alla nomina (e se nominati, causa di decadenza) le seguenti situazioni: interdetto; inabilitato; fallito; chi è stato condannato ad una pena che comporta l'interdizione anche temporanea dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi.
Le ipotesi d'incompatibilità e d'ineleggibilità alla carica di revisore degli enti locali, elencate all'art. 236 del Tuel, sono pertanto tipiche e nominate e quindi non possono essere derogate, né estese per analogia ad altri casi non espressamente individuati nella legge e pertanto finché il revisore dei conti rimane iscritto nell’apposito registro dei revisori legali e/o all'Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili (necessaria ai fini dell’iscrizione all’elenco dei revisori degli enti locali).
Ad abundantiam segnaliamo che sul punto si è espresso anche il Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale con proprio Parere 24.01.2024 dove viene ribadito che "Il revisore sottoposto a giudizio penale mantiene l'iscrizione nell'Elenco fino a quando permangono le condizioni relative all'iscrizione all'ODCEC e/o al Registro dei revisori legali e, di conseguenza, può essere nominato dall'ente".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 236 - Art. 2399 c.c. - Art. 2382 c.c.
Documenti allegati

Parere 24.01.2024 del Ministero dell’Interno - Dipartimento Finanza Locale
(14.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimento in merito al parere prot. QI/19070/2021 inerente “i chioschi e i manufatti similari realizzati su suolo pubblico” - Indirizzi per gli Uffici (Comune di Roma, nota 07.02.2024 n. 26731 di prot.).
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E’ pervenuta allo scrivente Dipartimento una richiesta di chiarimento in merito all’oggetto, in particolare, facendo riferimento al parere 03.02.2021 n. 19070 di prot.
[1] di questo dipartimento, se la realizzazione di chioschi e manufatti similari su suolo pubblico sia sottoposta alla legislazione inerente le opere pubbliche o al D.P.R. 380/2001, con riferimento sia ai chioschi di nuova installazione che a quelli già preesistenti ma privi di titolo edilizio.
L’argomento dell’installazione dei chioschi è già stato ampiamente trattato nei suoi vari aspetti anche in un altro parere di questo Dipartimento, 18.04.2018 n. 67434 di prot., ed in un ordine di servizio interdipartimentale con il Dip. Sviluppo Economico Attività Produttive e Agricoltura, 18.11.2015 n. 79383 di prot., richiamati e riportati in allegato al suddetto parere
parere 03.02.2021 n. 19070 di prot., pubblicati sul sito istituzionale all’indirizzo ..., ed alla cui lettura si rimanda per brevità di trattazione. (...continua).
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[1] leggasi anche l'allegato 3 (Regione Lazio, parere 12.05.2011 n. 127210 di prot.) e l'allegato 4 (Regione Lazio, parere 19.05.2009 n. 91613 di prot.)

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Forma dei verbali del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
La registrazione integrale dell'adunanza del consiglio non può avere validità di un verbale, atteso che l'art. 97, c. 4, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000 assegna al segretario dell'ente locale la cura della verbalizzazione delle riunioni di consiglio.
Testo
Si fa riferimento alla nota con la quale una Prefettura ha chiesto l'avviso di quest'Ufficio in ordine al quesito posto da un consigliere di minoranza del comune ... concernente la forma dei verbali del consiglio comunale.
In particolare, è stato chiesto se la registrazione integrale della seduta del consiglio possa avere la stessa validità di un verbale e, quindi, se sia possibile non procedere alla verbalizzazione da parte del segretario comunale dell'ente, tenuto conto che l'art. 56, comma 8, del regolamento del consiglio comunale di ... dispone che "Nel caso vengano utilizzati sistemi di registrazione integrale della seduta, i supporti magnetici rappresentano i verbali dell'adunanza".
Lo statuto dell'ente all'art. 34, comma 4, prevede che "… la verbalizzazione delle sedute del Consiglio e della Giunta sono curate dal Segretario Comunale, secondo le modalità ed i termini stabiliti dal regolamento." Il successivo comma 5 dispone che i verbali delle sedute sono firmati dal presidente e dal segretario.
Al riguardo, si rileva che, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000, il segretario dell'ente locale "partecipa con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e ne cura la verbalizzazione". Pertanto, è lo stesso legislatore statale che ha previsto, nell'ambito delle competenze del segretario, la cura della verbalizzazione delle riunioni di consiglio e di giunta, e lo statuto dell'ente ribadisce tale funzione del segretario comunale.
In merito alla natura e alla funzione del verbale, si fa presente che il Consiglio di Stato - sez. IV, con sentenza n. 4373 del 2018, nell'esaminare un caso diverso da quello in esame, ha osservato che "il verbale, atto giuridico appartenente alla categoria degli atti certificativi, è il documento preordinato alla descrizione di atti o fatti, rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, appositamente incaricato di tale compito."
L'Alto Consesso ha, altresì, evidenziato che "negli organi collegiali, dove la funzione di verbalizzazione e il verbale assumono rilievo decisivo e necessità indefettibile, il tratto di collegamento tra esternazione dell'atto amministrativo (che normalmente avviene in forme diverse dalla scritta) e documentazione dell'atto (ad esempio, deliberazione) è rappresentato dal verbale della seduta, che costituisce la 'memoria' di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta stessa, affinché questi possano essere successivamente (ed ulteriormente) documentati, secondo le modalità di volta in volta prescritte. Come affermato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato - sez. IV, 25.07.2001, n. 4074), il verbale ha il compito di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia peraltro necessario indicare minutamente le singole attività compiute e le singole opinioni espresse."
Si soggiunge che il TAR Sicilia – Sez. di Catania, con sentenza n. 1311 del 14.07.2009, ha sottolineato che il verbale della seduta "costituisce l'elemento essenziale della esternazione e della documentazione delle determinazioni amministrative degli organi collegiali, nonché la condizione necessaria perché le determinazioni stesse acquistino valore di espressione di potestà amministrative."
Inoltre, dalla sentenza del Consiglio di Stato del 04.06.2020, n. 3544, si evince che "… l'atto di verbalizzazione ha una funzione di certificazione pubblica, contiene e rappresenta i fatti e gli atti giuridicamente rilevanti che è necessario siano conservati per le esigenze probatorie con fede privilegiata -dal momento che sono redatti da un pubblico ufficiale- che si sostanzia essenzialmente nella attendibilità in merito alla provenienza dell'atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al pubblico ufficiale ed ai fatti innanzi a lui accaduti (cfr. Cass. sez. I, 03.12.2002, n. 17106)".
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopra citato, si ritiene che il consiglio comunale, nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa di cui all'articolo 38, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, abbia la possibilità di regolamentare la registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, ma le norme statutarie e quelle regolamentari dell'ente locale devono, comunque, trovare una necessaria armonizzazione con le norme statali.
Nel caso di specie, si osserva che l'articolo 56, comma 8, del regolamento del consiglio comunale non risulta coerente con il disposto dell'art. 97, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, in quanto la verbalizzazione è attività propria del segretario comunale, il quale, oltre a riportare gli interventi dei singoli consiglieri e degli altri partecipanti alla seduta, può segnalare fatti e circostanze avvenuti che non emergano dalla registrazione vocale. Inoltre, la forma scritta fornisce certezza in ordine alla modalità della deliberazione maturata in sede di riunioni degli organi collegiali (parere 07.02.2024 - link a https://dait.interno.gov.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio personale di questo comune ha ricevuto una istanza di congedo parentale da parte di una dipendente che terminerà il periodo di maternità obbligatorio il prossimo 25 gennaio.
Secondo le disposizioni introdotte dalla legge di bilancio 2024, qual è il trattamento economico previsto?

Come richiamato nel quesito proposto, la legge di bilancio per il 2024 (L. 30.12.2023, n. 213) ha previsto ulteriori disposizioni agevolative per i genitori in tema di congedi parentali di cui all'art. 34, D.Lgs. 26.03.2001, n. 151.
La norma di cui trattasi (art. 1, comma 179, L. 30.12.2023, n. 213) recita infatti testualmente che:
   “All'articolo 34, comma 1, primo periodo, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, le parole: «elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un mese fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della retribuzione» sono sostituite dalle seguenti: «elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima complessiva di due mesi fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell'80 per cento della retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60 per cento della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese, elevata all'80 per cento per il solo anno 2024». L'articolo 34, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, come modificato dal presente comma, si applica con riferimento ai lavoratori che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, di cui rispettivamente al capo III e al capo IV del medesimo testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001, successivamente al 31.12.2023.”
Secondo le nuove disposizioni, pertanto, è stato previsto che il congedo parentale di due mesi, previsto fino al compimento del sesto anno di età del figlio, venga retribuito:
   - per il primo mese all'80% (ma per gli enti locali tale trattamento è assorbito da quello più favorevole previsto dall'art. 45, comma 3, CCNL 16.11.2022 che prevede la retribuzione dei primi 30 giorni pari al 100% - si veda la Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS);
   - per il secondo mese al 60% (per il solo 2024, la retribuzione al 60% del secondo mese è elevata all'80%).
   - per i restanti periodi continua ad applicarsi la disciplina attualmente vigente con indennità pari al 30%
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Riferimenti normativi e contrattuali
Circ. 16.05.2023, n. 45 dell'INPS - L. 30.12.2023, n. 213, art. 1, comma 179 (07.02.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI: Questa amministrazione comunale ha verificato di aver commesso un errore materiale in merito alla corretta indicazione del fondo di cassa nell'approvazione del rendiconto 2022.
E' possibile procedere nelle prossime settimane ad una riapprovazione dello stesso?

Il tema della modificabilità o meno del rendiconto approvato deriva da una atavica diatriba sul concetto della intangibilità o immodificabilità del rendiconto codificata per il bilancio dello Stato (che approva il rendiconto con legge ordinaria) dall'art. 150, R.D. 23.05.1924 n. 827.
Per ciò che concerne gli enti locali (che naturalmente approvano il rendiconto con proprio atto -delibera Consiliare- e non con legge) l'intangibilità e l'immodificabilità del rendiconto sono state più volte confermate dalla magistratura contabile (ad esempio Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE) in quanto secondo i giudici "modificare il rendiconto con effetto retroattivo sulla gestione di competenza pregressa significherebbe vanificare la funzione di veridicità "storica" insita nel rendiconto stesso".
Ad aiutarci nella risposta al quesito dobbiamo però registrare il recente intervento della stessa magistratura contabile ed in particolare della Sez. regionale di controllo per il Veneto che con propria Deliberazione n. 1/2024 ha affrontato nuovamente con dovizia di particolari il tema della modificabilità o meno del rendiconto approvato.
All'esito dell'indagine della Corte, viene concluso che non si rinvengono nell'ordinamento elementi ostativi alla rettifica di specifici allegati del rendiconto, in presenza di meri errori materiali e che pertanto "L'Ente potrà dunque, mediante opportuna delibera dell'organo consiliare, procedere senza indugio alla rettifica dell'allegato previsto dall'art. 11, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 118/2011, concernente il risultato di amministrazione, trasmettendo tempestivamente il rendiconto aggiornato alla banca dati delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 della legge 31.12.2009, n. 196 e rappresentando l'esito di tali variazioni nel primo documento di bilancio utile".
Sulla scorta di quanto innanzi, riteniamo che l'errore sulla corretta indicazione del fondo di cassa non può che essere ricondotto alla categoria degli errori materiali e che pertanto l'Ente potrà procedere alla riapprovazione del rendiconto 2022 con successiva ritrasmissione dello stesso alla BDAP.
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Riferimenti normativi e contrattuali
R.D. 23.05.1924 n. 827, art. 150
Documenti allegati

Sezione regionale di controllo per il Veneto, Deliberazione n. 1/2024 - Sezione regionale di controllo per il Piemonte, Deliberazione n. 117/2018/PRSE
 (31.01.2024 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

COMPETENZE GESTIONALI: Assegnazione di poteri gestionali ad organi politici.
Quesiti
Nei comuni sotto i 5.000 abitanti sussiste la possibilità di attribuire la Responsabilità dirigenziale ai politici. Tuttavia questa facoltà è riconosciuta solo se ricorrono dei presupposti. Come indicato da varie pronunce ANAC, l’ultima con Delibera ANAC 291 del 20.06.2023, i presupposti sono:
   1) Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti,
   2) Indicazione sullo statuto comunale della possibilità di deroga al principio di distinzione delle funzioni tra organi tecnici,
   3) Attribuzione delle funzioni tecniche prioritariamente al Segretario Comunale,
   4) Dimostrazione che l’attribuzione all’organo politico comporta il contenimento della spesa, mediante delibera allegata al bilancio.
Premesso quanto sopra, si chiede se in mancanza dei predetti requisiti (ad eccezione di quello concernente il numero di abitanti) è possibile che le competenze dirigenziali vengano attribuite ad un politico, nonostante nell’ente vi sia in pianta organica un dipendente D4 e se sia possibile che tale competenza dirigenziale venga attribuita tramite un’“auto-attribuzione” sindacale.
Risposta
La normativa così come interpretata dall’ANAC e dalla giurisprudenza fissa i presupposti indicati nel quesito, ferma restando che "è necessario che le relative disposizioni organizzative rivestano la prescritta forma “regolamentare”, ovvero siano contenute nello statuto o in un regolamento comunale, cioè in atti di competenza del consiglio comunale (art. 42 TUEL) o della giunta (articolo 48, comma 3, TUEL, relativamente al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi)” (cfr. TAR Liguria sez. I, sentenza 31.03.2021 n. 284).
Anche il Ministero dell’Interno (parere del 18.12.2014) ha ritenuto che il carattere speciale della norma richieda necessariamente il rispetto delle condizioni poste dalla norma medesima per la sua legittima applicazione, essendo necessaria sia la sussistenza di un apposito atto di giunta o regolamentare che disciplini la fattispecie, sia la documentazione annuale del risparmio di spesa in sede di approvazione del bilancio.
In merito all’applicazione dell’istituto derogatorio oggetto della presente trattazione, invero, lo stesso Ministero dell’Interno (si veda, ad esempio parere sopra citato) ha evidenziato che, in base all’art. 15 del CCNL 22.01.2004, negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli articoli 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999.
Pertanto, alla luce delle citate disposizioni, è apparso evidente al Ministero che negli enti privi di qualifiche dirigenziali le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa. Pur dovendosi ritenere tuttora applicabile l’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 il ricorso a tale disposizione resta, comunque, limitato e subordinato alla non concessione della posizione organizzativa al personale in possesso della qualifica apicale dell’ente, al fine del conseguimento di un effettivo risparmio di spesa. Peraltro, secondo la Corte dei conti, sez. reg. di contr. per l’Emilia Romagna, deliberazione 14.09.2023 n. 124, non è neppure necessario dimostrare la assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta condizione, che invece è richiesta per il conferimento di incarichi ad esterni.
L’esercizio di eventuali poteri gestionali da parte del Sindaco (o degli assessori) non può basarsi né sulla prerogativa sindacale di potere sindacale di affidare con proprio decreto le funzioni e la responsabilità dei servizi prevista dall’articolo 50, comma 10, TUEL, ma richiede necessariamente che sia preceduto da una apposita deliberazione di Giunta avente valenza ed efficacia regolamentare.
Infatti, la previsione della precitata disposizione dell’articolo 50, comma 10, TUEL, per il suo stesso tenore e per il contesto in cui è contenuta, non regola il potere di cui all’articolo 53 della legge n. 388/2000, ma riguarda semplicemente il potere di nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi.
Stante la deroga ad un principio generale, allora, occorre che la modifica organizzativa interna all’ente –assegnando agli organi politici anche l’esercizio di poteri gestionali– sia espressa e inequivoca.
Di questi principi ha fatto applicazione, infatti, il TAR Liguria, sez. II, nella sentenza n. 83 del 03.02.2022, che ha accolto il ricorso di un cittadino avverso una ordinanza sindacale adottata ai sensi dell’articolo 27 del D.P.R. n. 380/2001, che attribuisce ai dirigenti la vigilanza in materia edilizia e urbanistica, che aveva ingiunto ex articolo 31 D.P.R. n. 380/2001di provvedere entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica della presente ordinanza a ripristinare lo stato dei luoghi originario mediante rimozione di tutti i materiali abbancati in assenza di alcun titolo edilizio …”.
Il TAR Liguria, infatti, non avendo rilevato il rigoroso rispetto della preventiva regolazione derogatoria dell’assetto organizzativo interno da parte della giunta comunale ha ritenuto, in via derivata, l’illegittimità dell’ordinanza emessa dal Sindaco.
In particolare, nella citata sentenza i giudici hanno ritenuto illegittima, in quanto viziata da incompetenza, l’ordinanza sindacale impugnata che aveva disposto l’immediata rimozione di alcuni materiali abbancati, idonei a configurare la realizzazione di deposito di materiale, rientrante, ex art. 3, comma 1, lett. e.7), D.P.R. n. 380/2001 nella definizione di “interventi di nuova costruzione”, che necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ex articolo 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001.
Ciò in quanto, come detto, il Sindaco si era autonomamente attribuito il potere di natura gestionale ai sensi dell’articolo 107 del TUEL, senza una preventiva, necessaria, disposizione regolamentare o, quantomeno, di una apposita deliberazione di Giunta in tal senso
(23.01.2024 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Legittime le prove concorsuali svolte con carta e penna. Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impeghi nella pubblica amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023 non hanno carattere impositivo.
Le nuove regole sulle modalità di accesso agli impieghi nella pubblica amministrazione introdotte dal Dpr 82/2023, seppur finalizzate a promuovere l’utilizzo dello strumento informatico nelle prove scritte, non hanno carattere impositivo e, pertanto, gli enti possono in determinati contesti scegliere se svolgerle alla vecchia maniera ovvero con l’uso della classica carta e penna.
Nel preferire questa soluzione, le amministrazioni sono tenute a motivare la loro scelta (dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione) e ad indicare nei bandi di concorso tutte le prescrizioni volte ad assicurare l'imparzialità e l'efficienza della procedura.

È quanto viene affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez II-bis, con la sentenza 13.02.2024 n. 2948, che vede protagonista un comune laziale.
La procedura concorsuale indetta da un ente locale è stata impugnata, da un candidato innanzi al giudice amministrativo, ritenuta illegittima in ragione dell'espletamento della prova scritta in modalità cartacea e non informatizzata.
La norma violata, per il ricorrere, è l'articolo 13, comma 2, del Dpr 487/1994, nella versione aggiornata dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del Dpr 82/2023, laddove si stabilisce che «gli elaborati sono redatti in modalità digitale attraverso la strumentazione fornita per lo svolgimento delle prove».
Raffrontando la precedente versione testuale della norma e quella attuale, il Tar sottolinea come nel testo previgente (utilizzando l'avverbio «esclusivamente») era sancita l'obbligatorietà della redazione degli elaborati delle prove scritte mentre nella nuova formulazione tale obbligatorietà (venendo meno l'utilizzo di tale avverbio) non è più rinvenibile.
La disposizione in esame, se letta con il disposto contenuto all'articolo 1, comma 3, dello stesso (secondo la quale è essenziale garantire lo svolgimento del concorso pubblico in modo da assicurarne l'imparzialità e l'efficienza, rendendo possibile e non doveroso l'ausilio di sistemi informatici), porta a ritenere che, pur registrandosi una preferenza legislativa per promuovere l'utilizzo dello strumento informatico, le modalità di svolgimento delle selezioni pubbliche sono rimesse alla discrezionalità della pubblica amministrazione e devono rispondere a logiche di razionalità ed efficienza organizzativa.
Per il giudice amministrativo laziale, dunque, l'uso della tradizionale forma di redazione degli elaborati mediante supporto cartaceo non è illegittima, ma non gode più di quella presunzione di imparzialità e di efficacia che era immanente nella previsione regolamentare originale, con la conseguenza che l'amministrazione è tenuta a motivare opportunamente circa la preferenza delle prove in detta modalità, dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione nel caso concreto.
Allo stesso modo nel bando di concorso devono essere indicate le prescrizioni volte ad assicurare l'imparzialità e l'efficienza della procedura (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 16.02.2024).
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SENTENZA
I profili di rito possono essere tralasciati perché il ricorso è infondato nel merito, come puntualmente argomentato dal Comune di Fiumicino nelle proprie memorie difensive.
La disposizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera n), del DPR 16.06.2023, nr. 82, ha sostituito l’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, che nel testo previgente sanciva l’obbligatorietà della redazione degli elaborati delle prove di concorso (come reso palese dall’avverbio “esclusivamente”) “su carta portante il timbro dell’ufficio e la firma di un componente della commissione esaminatrice….”, con il testo che adesso prevede la redazione degli elaborati “in modalità digitale attraverso la strumentazione fornita per lo svolgimento delle prove”, specificandone le condizioni (tempo aggiuntivo per malfunzionamento, non modificabilità del documento salvato dal candidato, disabilitazione della connessione internet).
Sia l’esegesi testuale operata nel raffronto tra la precedente versione testuale della norma e quella attuale (che non include più l’avverbio “esclusivamente”), sia l’interpretazione sistematica in rapporto all’art. 1, comma 3, D.P.R. 487/1994 a norma del quale è essenziale garantire lo svolgimento del concorso pubblico in modo da assicurarne l’imparzialità e l’efficienza, rendendo possibile (e non doveroso) l’ausilio di sistemi informatici (“Il concorso pubblico si svolge con modalità che ne garantiscano l'imparzialità, l'efficienza, l'efficacia nel soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione reclutante e la celerità di espletamento ricorrendo, ove necessario, all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di preselezione e a selezioni decentrate per circoscrizione territoriali”) inducono il Collegio a condividere la tesi del Comune di Fiumicino, secondo la quale pur registrandosi una preferenza legislativa per promuovere l’utilizzo dello strumento informatico, le modalità di svolgimento delle selezioni pubbliche sono rimesse alla discrezionalità della P.A. e devono rispondere a logiche di razionalità e efficienza organizzativa.
Ciò comporta due importanti conseguenze.
La prima è che, a mente dell’art. 13, comma 2, del DPR 487/1994, nel testo modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera n), del D.P.R. 16.06.2023, n. 82, l’uso della tradizionale forma di redazione degli elaborati mediante supporto cartaceo non è illegittima, ma non gode più di quella presunzione di imparzialità e di efficacia che era immanente nella previsione regolamentare originale, con la conseguenza che l’Amministrazione è tenuta a motivare opportunamente circa la preferenza delle prove in detta modalità, dimostrandone la coerenza con il fine di assicurare il migliore e più efficiente metodo di selezione nel caso concreto.
La seconda è che, rispetto all’uso nelle prove scritte di supporti informatici, la redazione degli elaborati su carta dovrà essere disciplinata specificatamente dall’Ente, non potendosi più contare sulle garanzie formali che erano precedentemente previste dall’art. 13, comma 2, del DPR 487/1984 (e dunque spetterà all’Ente indicare nel bando di concorso le prescrizioni volte ad assicurare in concreto l’anonimato dell’elaborato durante la sua correzione ai fini dell’assegnazione del punteggio, la sua effettiva riferibilità al candidato, che quest’ultimo lo abbia redatto durante le prove e così via).
Siccome nessuno dei due aspetti sin qui elencati è oggetto di censura e la doglianza formulata si fonda solo sulla ritenuta obbligatorietà della prova scritta in modalità informatica (principio che va escluso), il gravame è infondato nel primo motivo e come tale va respinto.

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
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3. Il ricorso è inammissibile.
L'unico motivo -con il quale si censurano la violazione di legge ed il vizio della motivazione del provvedimento impugnato relativamente all'inosservanza degli artt. 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001- è inammissibile.
Diversamente da quanto prospettato dal ricorrente, il Tribunale, nel motivare il rigetto dell'istanza di sospensione o revoca dell'ordine di demolizione, non ha imperniato la propria decisione sul solo diniego tacitamente espresso dalla Pubblica Amministrazione competente sulla richiesta di permesso in sanatoria -pur molto significativo- ma ha valorizzato altri elementi, come le dichiarazioni della teste Ca., la quale ha riferito che la demolizione comunque non è stata effettuata e che a causa dei vincoli insistenti sulla zona ove l'immobile è costruito si tratta di una costruzione non sanabile.
Inoltre, lo stesso consulente di parte ha aderito a tali conclusioni sottolineando che la sopraelevazione oltre il terzo piano non è sanabile; circostanza ammessa e non contestata dallo stesso ricorrente, il quale afferma di avere proposto un'istanza di sanatoria condizionata alla demolizione di parte dell'edificio.
Ed è sufficiente ricordare che è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (ex plurimis, Sez. 3, 15.10.2020 n. 28666, Rv. 280281).
Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcuna ipotesi di violazione di legge, avendo operato il Tribunale nel rispetto dell'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, con adeguata e coerente motivazione in punto di fatto, a fronte di una prospettazione difensiva manifestamente infondata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2024 n. 5486).

EDILIZIA PRIVATA: Aree vincolate, la presenza di altri edifici non basta a giustificare il condono. Con questa motivazione il Tar di Roma ha respinto il ricorso contro un’ordinanza di demolizione.
La presenza di altri edifici in un’area vincolata non è motivo sufficiente per consentire la sanatoria di un’opera realizzata abusivamente.
Con questa motivazione il TAR Lazio-Roma, Sez. IV-quater con la sentenza 07.02.2024 n. 2422, ha respinto il ricorso di una persona che aveva impugnato l’ordinanza di demolizione di Roma Capitale per la realizzazione di un“immobile posto al piano terra con destinazione abitazione”, per 73 metri quadrati e un cubatura fuori terra di 247,00 metri cubi.
La vicenda inizia nell'aprile del 2013 quando dal Comune viene inviato l'avviso di rigetto alla domanda di condono, «in quanto l'edificio ricadrebbe in area sottoposta a tutela dei beni paesaggistici e al quale seguiva (malgrado le osservazioni del ricorrente) il provvedimento di rigetto definitivo». Quindi il ricorso al Tar.
Tra i motivi «travisamento dei fatti, in quanto l'edificio ricadrebbe nell'ambito della c.d. zona 02 (recupero urbanistico) e nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b Pian del Marmo che riguarda un vasto quartiere ormai edificato e urbanizzato». Poi altre argomentazioni che riguardano la classificazione dell'area.
Per il Collegio il ricorso è infondato.
«Sono da respingere i primi due motivi con i quali si sostiene l'insussistenza del vincolo paesaggistico, in quanto l'immobile ricadrebbe in un'area oramai urbanizzata -scrivono i giudici-, rientrando nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b Pian del Marmo che riguarda un quartiere ormai edificato, che non avrebbe nulla delle caratteristiche delle aree vincolate». I giudici sottolineano il fatto che «l'istanza di condono riguarda un abuso che ha determinato la realizzazione di un'intera unità immobiliare, con aumento di superficie utile e volumetria e adibita a civile abitazione».
Per i giudici «è evidente che non rileva l'avvenuta urbanizzazione dell'area e, ciò, considerando che il vincolo paesaggistico è fondato com'è su una valutazione complessiva del paesaggio e dell'area circostante, che presuppone un giudizio di prevalenza dell'interesse pubblico che, in quanto tale, può essere superato solo da un successivo provvedimento di revoca o di rimozione del vincolo stesso che, al termine di una nuova istruttoria, determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari».
I giudici ricordano che l'applicabilità del terzo condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata limitata alle sole opere di restauro e risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Non solo: «Il fatto che si sia in presenza di una zona urbanizzata non fa venire meno l'esigenza di scongiurare la realizzazione di ulteriori interventi abusivi -sottolineano i giudici-, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia suscettibile di venir meno solo perché in passato sia stato disatteso, imponendosi al contrario un maggiore rigore per il futuro per prevenire ulteriori danni all'ambiente e salvaguardare quel poco di integro che ancora residua».
Ricorso respinto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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SENTENZA
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sono da respingere i primi due motivi con i quali si sostiene l’insussistenza del vincolo paesaggistico, in quanto l’immobile ricadrebbe in un’area oramai urbanizzata, rientrando nel perimetro del piano di recupero urbanistico Nucleo 19.12b "Pian del Marmo" che riguarda un quartiere ormai edificato, che non avrebbe nulla delle caratteristiche delle aree vincolate.
1.2 Contrariamente a quanto dedotto, va evidenziato come sia stato lo stesso ricorrente a confermare (nel secondo motivo) che la zona in cui è situato l’immobile del ricorrente è inclusa nel piano territoriale paesistico n. 15/b “Valle del Tevere”, circostanza ulteriormente ribadita dall’avvenuto deposito del certificato di destinazione urbanistica che conferma la sussistenza dei vincoli individuati dall’Amministrazione.
1.3 Si consideri, peraltro, che l’istanza di condono riguarda un abuso che ha determinato la realizzazione di un’intera unità immobiliare, con aumento di superficie utile e volumetria e adibita a civile abitazione.
1.4 E’ altrettanto evidente che non rileva l’avvenuta urbanizzazione dell’area e, ciò, considerando che il vincolo paesaggistico è fondato com’è su una valutazione complessiva del paesaggio e dell’area circostante, che presuppone un giudizio di prevalenza dell’interesse pubblico che, in quanto tale, può essere superato solo da un successivo provvedimento di revoca o di rimozione del vincolo stesso che, al termine di una nuova istruttoria, determini il venir meno delle circostanze e dei presupposti originari.
1.5 E’ noto, peraltro, che l’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 4 e l’art. 3, comma 1, lett. b), della L.Reg. n. 12/2004, prevede che per le aree soggette a vincolo siano sanabili esclusivamente le opere di restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria (tipologie nn. 4, 5 e 6 dell'allegato "1" alla legge 24.11.2003, n. 326), tipologie queste ultime che escludono gli incrementi volumetrici e di superficie.
1.6 Un costante orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che “l'applicabilità del c.d. terzo condono in riferimento alle opere realizzate in zona vincolata ..(sia) limitata alle sole opere di restauro e risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici" e, ancora, che "ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge su menzionato come convertito sul terzo condono, ... (siano) sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
   a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo;
   b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
   c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
   d) che vi sia il previo parere dell'Autorità preposta al vincolo
" (Cons. St., Sez. VI, 18.05.2015 n. 2518; Cons. Stato, sez. VI, 16/08/2023, n. 7779 Cons. Stato, Sez. VI, 03.02.2023 n. 1182, 29.07.2022 n. 6684, 22.04.2022 n. 3088 e 17.03.2020 n. 1902).
1.7 Anche la successiva giurisprudenza di merito ha confermato che “in materia edilizia ed urbanistica, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, non può essere ammessa a sanatoria un'opera abusivamente realizzata qualora comporti l'edificazione di nuove superfici abitabili e un conseguente aumento volumetrico, seppur minimo, non rilevando in tal senso l'entità del vincolo stesso (assoluto o relativo) (TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 23/01/2018, n. 828)”.
1.8 Il fatto che si sia in presenza di una zona urbanizzata non fa venire meno l’esigenza di scongiurare la realizzazione di ulteriori interventi abusivi, risultando evidente come il vincolo paesaggistico non sia suscettibile di venir meno solo perché in passato sia stato disatteso, imponendosi al contrario un maggiore rigore per il futuro per prevenire ulteriori danni all’ambiente e salvaguardare quel poco di integro che ancora residua (TAR Lazio sez. IV-ter, 01/02/2023 n. 18076).
1.9 Da respingere è anche la terza e ultima censura con la quale si sostiene che sarebbe illegittima una qualunque ulteriore sanzione demolitoria o pecuniaria e, ciò, considerando che il Comune non risulta aver adottato i provvedimenti di carattere repressivo e sanzionatorio, essendosi quindi in presenza di poteri amministrativi ancora inespressi.

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Sui motivi aggiunti in appello, sull’invalidità derivata e sull'avvalimento.
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Giustizia amministrativa – Motivi aggiunti – Grado di appello – Inammissibilità – Impugnazione di atti nuovi sopravvenuti.
Possono essere proposti motivi aggiunti in grado d'appello, al solo fine di dedurre vizi ulteriori degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi s'intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado.
Sono inammissibili i motivi aggiunti proposti, allorché gli atti sopravvenuti non sono in grado di integrare un vizio del provvedimento di aggiudicazione, oggetto di impugnativa in prime cure, sub specie di illegittimità sopravvenuta, e non vi sia ragione per derogare al principio del doppio grado di giudizio. (1)

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Atto amministrativo – Annullabilità – Impugnazione – Nullità – Effetto caducante – Rapporto di presupposizione tra atti.
Si distingue tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, atteso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato; mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi ricorre nel caso in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale a guisa di inevitabile conseguenza dell'atto anteriore.
Si realizza, pertanto, l'effetto caducante solo qualora il rapporto di presupposizione che avvince i due provvedimenti sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi. (2)

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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalto di servizi – Avvalimento – Avvalimento tecnico-operativo – Tratti caratterizzanti.
Nella fattispecie di avvalimento tecnico operativo, sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, indispensabili per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a disposizione del concorrente.
L'indagine in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento operativo deve essere svolta sulla base delle generali regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali.
Il contratto di avvalimento, pertanto, non deve quindi necessariamente spingersi sino alla rigida quantificazione dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero all’indicazione numerica dello stesso personale.
L'assetto negoziale deve consentire l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, nonché i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione.
Quando si tratti di avvalimento tecnico-operativo, può essere previsto l’impiego non di un singolo elemento della produzione, bensì dell’azienda intesa come complesso produttivo unitariamente considerato o di un ramo di essa. Di questa l’ausiliaria non perde la detenzione, pur mettendola adisposizione, in tutto o in parte, per l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le previsioni del contratto di avvalimento, approvate dalla stazione appaltante. (3)

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   (1) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.05.2020, n. 2792; Cons. Stato, sez.VI, 02.01.2018, n. 21.
   (2) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; Cons. Stato, sez. IV, 06.12.2013, n. 5813, idem, 13.06.2013, n. 3272; idem, 24.05.2013, n. 2823; Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2012, n. 5986; idem, 05.09.2011, n. 4998; Cons. Stato, sez. V, 25.11.2010, n. 8243.
   (3) Precedenti conformi: Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619; Cons. Stato, sez. V, 21.07.2021, n. 5485; Cons. Stato, sez. V, 12.02.2020, n. 1120; Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n. 5464; Cons. Stato, sez. III, 04.01.2021, n. 68; Ad. plen., 14.11.2016, n. 23; Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3682; Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935; Cons. Stato, sez. V, 10.01.2022, n. 169; Cons. Stato, sez. V, 22.02.2021 n. 1
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2024 n. 1263 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
13. In limine litis vanno delibate le eccezioni di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti in appello sollevata da LaB. e dal Comune di Milano e quella di improcedibilità del presente giudizio formulate da LaB., principiando in ordine logico da quella di inammissibilità.
13.1. Ed invero secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, nella sua più autorevole composizione (Ad. Plen. n. 4 del 2011 e di recente ribadito da Ad. Plen. n. 9 del 2014), la norma positiva enucleabile dal combinato disposto degli artt. 76, co. 4, c.p.a. e 276, co. 2, c.p.c., impone di risolvere le questioni processuali e di merito secondo l'ordine logico loro proprio, assumendo come prioritaria la definizione di quelle di rito rispetto a quelle di merito, e fra le prime la priorità dell'accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali (nell'ordine, giurisdizione, competenza, capacità delle parti, ius postulandi, ricevibilità, contraddittorio, estinzione), rispetto alle condizioni dell'azione (tale fondamentale canone processuale è stato ribadito da Ad. Plen. n. 10 del 2011).
13.2. L’eccezione è fondata alla luce di quanto di seguito specificato.
13.2.1. E’ noto che ai sensi dell’art. 104, comma 3, c.p.a., nel giudizio di appello possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte ricorrente venga a conoscenza di nuovi documenti, dopo la conclusione del primo grado di giudizio, e da detti documenti emergano vizi degli atti già impugnati, senza che gli stessi siano stati prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17.07.2023, n. 6933; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 04.10.2022, n. 996).
Da tale disposto normativo è dato agevolmente inferire che la proposizione di motivi aggiunti è consentita nei limiti in cui essi siano proposti avverso i medesimi atti già impugnati in prime cure.
Questo Consiglio ha avuto modo a sua volta di osservare che "ai sensi dell'art. 104, co. 3, del d.lgs. n. 104 del 2010 le parti possono proporre motivi aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, dovendo rilevarsi come non ci si trovi in tale evenienza nell'ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di prime cure" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.05.2020, n. 2792; id., sez. VI, 02.01.2018, n. 21).
La norma de qua ha pertanto codificato il pregresso orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre vizi ulteriori degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi s'intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 02.01.2018, n. 21).
La norma, costituendo un'eccezione alla regola del divieto dei nova nel giudizio di secondo grado, non si presta ad una lettura estensiva, che peraltro finirebbe per sovvertirne la stessa formulazione posta dal legislatore in termini inequivocabilmente negativi. Inoltre l'impugnazione dei nuovi atti sopravvenuti per la prima volta e direttamente in sede di appello violerebbe il principio del doppio grado di giudizio (Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2011 n. 3662).
...
14. Deve per contro essere disattesa l’eccezione di improcedibilità dell’odierno giudizio, avanzata da LaB., fondata sul rilievo che gli atti di presa d’atto dell’aggiudicazione in favore del soggetto incorporante, che si sostanzierebbero in una riaggiudicazione, non sarebbero stati oggetto di rituale impugnativa in prime cure, trattandosi di profilo sconfessato non solo da Sa. ma dallo stesso Comune di Milano.
14.1. Né si può ritenere, alla luce di quanto innanzi rappresentato, circa la riaggiudicazione (implicita) in favore di LaB., che l’interesse al ricorso debba intendersi completamente traslato avverso le note di presa d’atto e di comunicazione, oggetto di impugnativa innanzi al Tar Lombardia, posto che, ferma la necessità che sui vizi denunciati con il ricorso per motivi aggiunti in appello –afferenti i requisiti di partecipazione di ordine generale del soggetto incorporante- si pronunci il giudice di prime cure, l’eventuale illegittimità del provvedimento di aggiudicazione in favore di Eu., oggetto dell’odierno giudizio, non potrebbe che determinare comunque in via automatica la caducazione della riaggiudicazione in favore del soggetto incorporante LaB..
14.2. Può pertanto applicarsi alla fattispecie de qua la giurisprudenza in materia secondo la quale, pur in presenza di vizi accertati dell'atto presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito.
La prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale a guisa di inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l'intensità del rapporto di conseguenzialità tra l'atto presupposto e l'atto successivo, con riconoscimento dell'effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all'atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26.05.2015, n. 2611 e 20.01.2015, n. 163; IV, 06.12.2013, n. 5813, 13.06.2013, n. 3272 e 24.05.2013, n. 2823; VI, 27.11.2012, n. 5986 e 05.09.2011, n. 4998; V, 25.11.2010, n. 8243).
Detto rapporto di presupposizione è invero ravvisabile tra l’atto presupposto –aggiudicazione in favore del soggetto incorporato Eu.– e l’atto consequenziale –riaggiudicazione a favore del soggetto incorporante LaB., nella parte in cui quest’ultimo presuppone l’esistenza e la validità del primo -non oggetto di successivo ed autonomo vaglio- ferma restando per contro la necessità di autonoma impugnativa della riaggiudicazione per i profili afferenti esclusivamente ai requisiti di partecipazione del soggetto incorporante LaB., nei termini suindicati, in quanto non suscettibili di retroagire sul primo atto, determinandone una sorta di illegittimità sopravvenuta.
14.3. Pertanto, applicando tali coordinate ermeneutiche nei termini suesposti, si ravvisa l’indicato vincolo di presupposizione, in grado di comportare, in ipotesi di annullamento del provvedimento oggetto del presente contenzioso, da qualificarsi quale atto presupposto, un effetto caducante automatico dell’atto consequenziale, ovvero dell’implicita riaggiudicazione in favore del soggetto incorporante LaB., per la parte avente ad oggetto la previa aggiudicazione in favore di Eu. (atto presupposto).
...
17.3. Il motivo è infondato, dovendosi il disciplinare di gara interpretare in senso conforme alla previsione dell’art. 89 del d.lgs. n. 50 del 2016 cui expressis verbis fa rinvio.
17.4. Non ignora il collegio che secondo orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, a seconda che si tratti di avvalimento c.d. garanzia ovvero di avvalimento c.d. tecnico o operativo, diverso è il contenuto necessario del contratto concluso tra l'operatore economico concorrente e l'ausiliaria; in particolare, in caso di avvalimento c.d. tecnico operativo sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, e specificamente indicate nel contratto, indispensabili per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a disposizione del concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.10.2021, n. 6619; V, 21.07.2021, n. 5485; V, 12.02.2020, n. 1120 e le sentenze ivi richiamate; le ragioni alla base del predetto orientamento giurisprudenziale sono in Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giuris., 19.07.2021, n. 722).
E' peraltro altrettanto noto il principio (ex multis, cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.07.2021, n. 5464; III, 04.01.2021, n. 68, ma fissato dall'Adunanza plenaria nella sentenza del 14.11.2016, n. 23) secondo cui l'indagine in ordine agli elementi essenziali dell'avvalimento c.d. operativo deve essere svolta sulla base delle generali regole sull'ermeneutica contrattuale e in particolare secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 cod. civ.).
17.5. Il contratto di avvalimento pertanto non deve quindi necessariamente spingersi, ad esempio, sino alla rigida quantificazione dei mezzi d'opera, all'esatta indicazione delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero alla indicazione numerica dello stesso personale. Tuttavia, l'assetto negoziale deve consentire quantomeno "l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3682); deve cioè prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio o per la formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata, dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30.06.2021, n. 4935 Cons. Stato Sez. V, Sent., 10.01.2022, n. 169).
17.5.1. Inoltre questa Sezione ha altresì affermato il principio ( Consiglio di Stato, sez. V. 22/02/2021 n. 1514) per cui “L’elemento caratterizzante [l’avvalimento] non è limitato a un mero “prestito” formale di personale e/o di macchinari e/o di beni strumentali necessariamente, sganciato dalla relativa organizzazione aziendale […] anche se il suo effetto –relativamente al rapporto di appalto- consiste nell’imputazione giuridica ed economica delle prestazioni che ne sono oggetto direttamente all’impresa concorrente, che, a tal fine, si avvale dell’ausiliaria” (Cons. Stato, V, 16.03.2018, n. 1698) e che pertanto nel caso di ricorso all’istituto dell’avvalimento, è ben possibile “che, nel singolo contratto, sia previsto, quando si tratti di c.d. avvalimento tecnico-operativo, l’impiego non di un singolo elemento della produzione, bensì dell’azienda intesa come complesso produttivo unitariamente considerato (o di un ramo di essa). Di questa l’ausiliaria non perde la detenzione, pur mettendola a disposizione, in tutto o in parte, per l’utilizzazione dell’ausiliata, secondo le previsioni del contratto di avvalimento, approvate dalla stazione appaltante” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2024 n. 1263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una scala in ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile, non determina una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza, essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico.
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia priva di un collegamento strutturale con l’abitazione, inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in ragione della sua conformazione, destinata ad essere agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata di ruote: le caratteristiche ora evidenziate inducono, pertanto a ritenere che non necessitasse di un permesso di costruire, come invece adombrato dall’amministrazione che ha emesso l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001.

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... per l'annullamento dell’ingiunzione di demolizione di una scala esterna - provvedimento del 09.08.2023, prot. n. 0508, del responsabile del settore IV “Urbanistica ed edilizia - Attività produttive” del Comune di Santa Marinella;
...
1. Con ordinanza prot. n. 508 del 09.08.2023, il Comune di Santa Marinella ingiungeva alle ricorrenti di effettuare la demolizione di opere realizzate abusivamente (“scala a chiocciola, in ferro zincato di colore bianco, di larghezza pari a mt. 1,40 ed altezza pari a mt. 3,50, ancorata con piastre in ferro e bulloni ad una pedana in ferro montata su ruote, che consente di accedere dal giardino al solaio di copertura del portico prospiciente l’ingresso dell’abitazione”) e di rimettere in pristino lo stato dei luoghi presso l’immobile ubicato al lungomare ... n. 9, distinto in catasto al foglio 22, p.lla 28, sub. 501.
2. Con ricorso notificato in data 24.10.2023 e depositato in data 02.11.2023, le ricorrenti esponevano:
   - che De Ma.Da. e le figlie Sa.Lu. e Sa.Gi. sono proprietarie della suddetta unità immobiliare, risalente agli anni ‘30, alla quale si accede dall’antistante giardino pertinenziale attraverso un portico a copertura piana;
   - che la copertura del portico ed il tetto a tegole sono raggiungibili, per qualunque esigenza, esclusivamente dal giardino;
   - che De Ma.Da. aveva posizionato nel giardino una scala a piattaforma mobile e di arredo, con struttura autoportante, realizzata con elementi di esigua dimensione (tubolari in ferro verniciato di diametro 8 cm con altezza variabile, 3 mt. nel punto più alto) dotata di ruote e fermi di sicurezza a vite che ne consentono, all’occorrenza, l’agevole spostamento all’interno dell’ampio giardino pertinenziale (di circa mq. 1.300).
Tanto premesso, impugnavano la suddetta ordinanza, sulla base dei seguenti motivi di diritto.
...
   2.2. “Violazione di legge (violazione e falsa applicazione artt. 3, 6, co. 1, lett. e-bis), 22, 31, 36 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001). Eccesso di potere per sviamento e travisamento dei fatti, difetto di istruttoria, illogicità e contraddittorietà degli atti, motivazione incongrua e contraddittoria, manifesta ingiustizia. Violazione del procedimento: artt. 10 e 11 della L. n. 241/1990”.
Evidenziava la parte ricorrente che la scala su piattaforma mobile in questione (diretta a soddisfare esigenze contingenti e temporanee, e destinata ad essere immediatamente spostata al cessare della necessità di accesso) non costituisce manufatto o intervento edilizio e, contrariamente a quanto assunto dall’amministrazione resistente mediante il richiamo all’art. 31 del D.P.R. 380/2001, non necessita del rilascio del permesso di costruire.
Denunciava comunque che la suddetta ingiunzione denotava una valutazione affrettata ed errata, ed era affetta da carenza di motivazione.
Allegava che l’ordine di demolizione non era stato preceduto dalla notifica di un accertamento motivato, tale da consentire un preventivo contraddittorio in sede amministrativa.
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5. Ritiene il Collegio di poter esaminare anzitutto il secondo motivo di ricorso, in base all’orientamento secondo cui «Il principio della ragione più liquida consente di derogare all'ordine logico di esame delle questioni portate al vaglio dell'organo giurisdizionale e, qualora le questioni vagliate esauriscano la vicenda sottoposta al giudice amministrativo, aderendo al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato, gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati vengono ritenuti non rilevanti ai fini della decisione» (Cons. Stato, sez. VI, 27/01/2023, n. 951).
6. Il motivo è fondato.
È condivisibile infatti l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui la realizzazione di una scala in ferro per consentire l'accesso ad un terrazzo costituisce intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tale opera, finalizzata a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile, non determina una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configura piuttosto come mera pertinenza, essendo preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e caratterizzata da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accede e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico. (TAR Campania-Salerno, sez. I, 24/07/2013, n. 1680).
Nel caso in esame la scala di cui è contestata la realizzazione è costituita da una struttura mobile, ossia priva di un collegamento strutturale con l’abitazione, inidonea a modificarne la sagoma e il prospetto, e, in ragione della sua conformazione, destinata ad essere agevolmente spostata, essendo ancorata ad una pedana dotata di ruote (cfr. fotografie depositate in atti): le caratteristiche ora evidenziate inducono, pertanto a ritenere che non necessitasse di un permesso di costruire, come invece adombrato dall’amministrazione che ha emesso l’ingiunzione ai sensi dell’art. 31, d.P.R. 380/2001 (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.02.2024 n. 2261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Parere di regolarità tecnica espresso dal responsabile del servizio ex art. 49 TUEL – Natura – Parere non vincolante – Collocazione endoprocedimentale – Impugnazione – Inammissibilità.
Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto avverso il parere formulato dal responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del DLgs 18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità), è dirimente rimarcare la natura non vincolante del parere tecnico, dal quale (come la norma precisa) la Giunta e il Consiglio possono discostarsi, sia pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria per la nascita dell'interesse a ricorrere.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, (per quanto riguarda il ricorso introduttivo):
   1) della nota prot. n. 3442 del 15/03/2019 del Dirigente del Servizio Urbanistica del Comune di Cardito, con la quale, con riferimento alla pratica edilizia 623/2017 del 05.05.2017 relativa ad approvazione di PUA presentata dalla ricorrente, si esprime diniego definitivo;
...
1 - Il ricorso introduttivo ha ad oggetto la legittimità del parere contrario espresso dal Dirigente del servizio urbanistica del Comune di Cardito in merito all’adozione e approvazione da parte della Giunta Comunale del PUA ad iniziativa privata presentato dalla società ricorrente (di seguito, “Vi.”) con istanza n. prot. 5931/2017, con riferimento alla realizzazione di edificazione residenziale su lotto di sua proprietà in ct. al fg. 2, p.lle nn. 897 e 899 (zona C2, lato ovest).
La proposta di piano segue una precedente proposta presentata dalla ricorrente nel 2011 e respinta dall’Amministrazione con d.G.C. n. 164/2012, la quale ha resistito all’impugnativa esperita dalla Vi. (cfr. sent. n. 967/2016 in atti).
...
6 - In limine litis, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso introduttivo proposto avverso il parere formulato dal responsabile del competente servizio comunale.
Tale parere risulta acquisito ai sensi dell’art. 49 del Decreto Legislativo 18.08.2000, n. 267, a mente del quale: “1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. [omissis] 4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione”.
Oltre a rammentare che per consolidata giurisprudenza questi pareri rilevano solo sul piano interno (tant’è che la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità - cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013 n. 3236 che richiama quali precedenti conformi Cons. St., sez. IV, 26.01.2012, n. 351; sez IV, 22.06.2006, n. 3888; n. 1567 del 2001; 23.04.1998, n. 670), è dirimente rimarcare la natura non vincolante del parere tecnico, dal quale (come la norma precisa) la Giunta e il Consiglio possono discostarsi, sia pure fornendo idonea motivazione.
Trattasi, quindi, di un parere che, per la sua collocazione endoprocedimentale e per l'assenza di efficacia esterna, è inidoneo a concretizzare quella lesione della situazione giuridica soggettiva facente capo alla ricorrente necessaria per la nascita dell'interesse a ricorrere (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2024 n. 919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Accesso civico, illegittimo il «no» all’istanza sull’esecuzione di un’opera pubblica. Consentito a chiunque di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.
Fatti salvi i limiti (di stretta interpretazione) sanciti dall’articolo 5-bis del Dlgs 39/2013, l’accesso civico generalizzato consente a chiunque di conoscere atti e decisioni della Pa anche ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria per consentire la partecipazione al dibattito pubblico e il controllo democratico dell’attività amministrativa, senza necessità di verificare la legittimazione del soggetto richiedente.
Di conseguenza, nel caso di un'istanza riguardante l'accesso alle fasi di un procedimento di esecuzione di un'opera pubblica, il Comune non può evocare l'ipotesi di abuso del diritto all'accesso civico generalizzato e opporre un diniego all'istanza per il fatto di ritenerla strumentale, pretestuosa e d'intralcio al buon funzionamento degli uffici dell'ente.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 02.02.2024 n. 1117.
Il fatto
Nel caso in esame alcuni cittadini si erano rivolti a un Comune campano per acquisire una fitta mole di documentazione relativa alla progettazione ed esecuzione di un intervento di riqualificazione di un edificio storico, parzialmente finanziato dal ministero dell'Interno.
I cittadini si dolevano di una presunta e improvvisa trasformazione delle modalità dell'intervento (da miglioramento sismico e messa in sicurezza a integrale demolizione e successiva ricostruzione del plesso), per cui formulavano istanza all'ente locale per ottenere l'estrazione di copia di tutti i documenti relativi all'intervento in questione, e in particolare:
   - i pareri allegati al progetto definitivo ed esecutivo;
   - la corrispondenza intercorsa tra il Comune beneficiario del finanziamento e il ministero che lo erogava;
   - le attestazioni e/o dichiarazioni rese dal sindaco o dal Rup in merito all'ottenimento del finanziamento;
   - l'accordo/convenzione/contratto stipulato tra il Comune e l'ente finanziatore.
A fronte di una siffatta istanza il Comune opponeva un reiterato diniego evocando la figura giuridica dell'abuso del diritto all'accesso civico generalizzato in quanto il gruppo di cittadini, ad avviso dell'amministrazione, fondava le proprie richieste esclusivamente su mere e indimostrate illazioni circa la possibile perdita del finanziamento ministeriale.
L'ente aggiungeva poi che l'ampia e ingiustificata ostensione documentale sarebbe stata causa di intralcio al buon funzionamento della Pa. Al che gli interessati impugnavano il diniego dell'ente e il Tar Campania (Sezione II, decisione n. 1618/2023) accoglieva il ricorso censurando in toto l'operato comunale.
La carenza di motivazione
I giudici hanno osservato che la motivazione addotta dall'ente nel provvedimento di diniego non ha indicato le ragioni ostative all'accesso generalizzato, tenuto conto del fatto che, in relazione all'articolo 5-bis «il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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SENTENZA
L’appello non è fondato.
Con un primo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i. - difetto e, comunque, erroneita’ della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, il giudice di primo grado avrebbe errato nel disattendere l’eccezione di inammissibilità, formulata dal comune in primo grado e fondata sul rilevo della mancata impugnazione, nei termini di legge, dell’unico e solo provvedimento di diniego espresso, emesso dal Responsabile dell’U.T.C. con nota prot. del 24.11.2022, atteso che la successiva nota del Responsabile dell’U.T.C. prot. n. 786 del 14.02.2023 costituirebbe, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, un atto meramente confermativo del precedente diniego prot. n. 6138 del 24.11.2022.
La premessa, da cui muove il comune appellante, è quella secondo cui la mera reiterazione di una richiesta di accesso agli atti, già oggetto di un provvedimento di rifiuto, che non sia basata su elementi nuovi rispetto alla richiesta originaria o su una diversa prospettazione dell’interesse a base della posizione legittimante l’accesso, non vincola l’amministrazione ad un riesame della stessa e rende legittimo e non autonomamente impugnabile il provvedimento meramente confermativo del precedente rigetto.
Dall’accoglimento di tale premessa la parte appellante fa pertanto discendere l’inammissibilità del ricorso di primo grado, essendo stato lo stesso esperito a fronte di un atto meramente confermativo del primo diniego, non impugnato.
L’assunto della parte appellante, pur essendo astrattamente condivisibile, in quanto conforme alla constante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. IV, 13.01.2020 n. 279 e, nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV, 22.09.2020 n. 5549), non può trovare applicazione alla fattispecie oggetto del presente giudizio, in relazione alla quale, contrariamente a quanto ritenuto nel primo motivo di appello, non viene in rilievo una mera reiterazione della prima richiesta di accesso documentale, in assenza di nuovi elementi, ma una nuova richiesta di accesso basata sul diverso istituto dell’accesso civico generalizzato.
L’accesso civico generalizzato, come noto, costituisce un diritto fondamentale che contribuisce al miglior soddisfacimento degli altri diritti fondamentali che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona.
La natura fondamentale del diritto di accesso generalizzato rinviene, infatti, fondamento, oltre che nella Carta costituzionale (artt. 1, 2, 97 e 117) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 42), anche nell’art. 10 della CEDU, in quanto la libertà di espressione include la libertà di ricevere informazioni e le eventuali limitazioni, per tutelare altri interessi pubblici e privati in conflitto, sono solo quelle previste dal legislatore, risultando la disciplina delle eccezioni coperta da riserva di legge.
L’accesso civico generalizzato si traduce nel diritto della persona a ricercare informazioni, quale diritto che consente la partecipazione al dibattito pubblico e di conoscere i dati e le decisioni delle amministrazioni al fine di rendere possibile quel controllo “democratico” che l’istituto intendere perseguire.
La conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, infatti, la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione (accountability) della classe politica e dirigente del Paese.
Ai fini dell’accesso civico generalizzato, inoltre, non occorre verificare, così come per l’accesso documentale, la legittimazione dell’accedente, né è necessario che la richiesta di accesso sia supportata da idonea motivazione.
L’accesso civico “generalizzato”, infatti, consente, contrariamente a quello documentale, a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (articolo 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge, mentre l’accesso documentale (e ancor di più quello difensivo) risponde al paradigma del “need to know”, con tutto ciò che ne consegue in punto di
Dalle considerazioni che precedono emerge la netta distinzione, sul piano strutturale e funzionale, tra l’istituto dell’accesso documentale e quello civico generalizzato, da cui ulteriormente discende la legittima facoltà di azionare il secondo anche quando non sussistono ( o non sussistono più) i presupposti per esercitare il primo.
Con un secondo mezzo di gravame il comune appellante deduce: “error in judicando - violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. l. 07.08.1990 n. 241 e s.m.i., nonché dell’art. 5 d.lgs. 14.03.2013 n. 33 e s.m.i. - difetto e, comunque, erroneità della motivazione”.
Ad avviso della parte appellante, la sentenza di primo grado sarebbe erronea per avere il giudice di primo grado apoditticamente ritenuto “sussistenti” tutti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di accesso ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 33/2013.
Ciò, in quanto l’istanza di accesso del 02.02.2023 e, ancor di più, la successiva domanda giurisdizionale, lungi dal raggiungere un benché minimo grado di concretezza, sarebbero fondate soltanto su mere e indimostrate “illazioni” circa la possibile perdita del finanziamento e come tali si rileverebbero del tutto pretestuose.
Inoltre, tali richieste di accesso sarebbero state formulate in modo del tutto disfunzionale rispetto alla finalità che si propongono di realizzare, trasformandosi, in ragione dell’ampia e ingiustificata ostensione documentale, in una causa di intralcio al buon funzionamento della P.A., tale da compromettere lo svolgimento degli ordinari compiti di ufficio che già spettano al funzionario comunale
Il motivo non è fondato.
Per individuare l’ambito di estensione e gli eventuali limiti dell’accesso civico generalizzato si possono richiamare i principi espressi nel parere della sez. I del Consiglio di Stato 30.03.2021, n. 545.
È stato in precedenza ricordato che
l’accesso civico “generalizzato” consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (art. 5, comma 2, d.lgs. 14.03.2013, n. 33).
L’accesso civico generalizzato è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse, concreto e attuale in relazione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazioni in tal senso
(tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 04.01.2021, n. 60; sez. VI, 05.10.2020, n. 5861).
E’ stato precisato (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2020, n. 5861) che
con l’accesso civico generalizzato il legislatore ha inteso superare il divieto di controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche amministrazioni, su cui è incentrata la disciplina dell’accesso di cui agli artt. 23 e ss., l. 07.08.1990, n. 241, così che l’interesse individuale alla conoscenza è protetto in sé, ferme restando le eventuali contrarie ragioni di interesse pubblico o privato di cui alle eccezioni espressamente stabilite dalla legge a presidio di determinati interessi ritenuti di particolare rilevanza per l’ordinamento giuridico.
E’ stato altresì puntualizzato che
il rapporto tra le due discipline (dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato, oltre il rapporto tra tali due discipline generali e quelle settoriali) deve essere interpretato non già secondo un criterio di esclusione reciproca, quanto piuttosto di inclusione/completamento, finalizzato all’integrazione dei diversi regimi in modo che sia assicurata e garantita, pur nella diversità dei singoli regimi, la tutela preferenziale dell’interesse coinvolto che rifugge ex se dalla segregazione assoluta per materia delle singole discipline (cfr. Adunanza Plenaria 10/2020).
La regola della generale accessibilità è peraltro temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune informazioni.
Tali eccezioni, previste dall'art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, sono state classificate in assolute e in relative e al loro ricorrere le Amministrazioni devono (nel primo caso) o possono (nel secondo) rifiutare l'accesso.
Le eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato sono quelle individuate all'art. 5-bis, comma 3
(segreto di Stato e altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990), mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del medesimo articolo (la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive; la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali).
Nel caso delle eccezioni relative, nelle Linee guida Anac, adottate con deliberazione n. 1309 del 28.12.2016 (recanti le indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso civico generalizzato), è stato chiarito che il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all'accesso generalizzato, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata dalle Amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanti validi interessi presi in considerazione dall'ordinamento.
L'Amministrazione deve pertanto verificare, una volta accertata l'assenza di eccezioni assolute, se l'ostensione degli atti possa comunque determinare un pericolo di concreto pregiudizio agli interessi indicati dal Legislatore.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Collegio rileva che dalla analisi della motivazione del provvedimento di diniego si ricava l’assenza di qualsivoglia riferimento ad una delle suindicate ragioni che precludono i diritti all’accesso generalizzato.
Più in radice, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, in riferimento all’istanza presentata ai sensi dell’accesso civico generalizzato, di fatto, il comune non si è proprio pronunciato. Il che appare già sufficiente per la conferma della sentenza impugnata.
Peraltro, nemmeno può essere condiviso l’assunto che, nel caso in esame, si verserebbe nell’ipotesi di abuso del diritto all’accesso civico generalizzato.
Come noto,
l’abuso del diritto, secondo la definizione più accreditata anche in dottrina, consiste nella deviazione dell'esercizio del diritto rispetto allo "scopo" per il quale il diritto stesso è stato riconosciuto.
Orbene, dalla natura degli atti richiesti al Comune di Cotrone (relativi al procedimento di riqualificazione di un edificio storico) emerge, contrariamente a quanto ritenuto dal comune appellante, non solo la ragionevole esigenza conoscitiva dei ricorrenti in primo grado, ma, venendo in rilievo l’utilizzo di risorse pubbliche, anche la conformità della richiesta documentale alle finalità cui è preordinata la previsione dello strumento dell’accesso civico generalizzato, che, come anticipato, mira, a favorire forme di diffuse di controllo sull’ esercizio dei pubblici poteri.
Il riferimento, infine, alla possibile paralisi dell’ufficio tecnico comunale a fronte della massiva richiesta di accesso, costituisce, ad avviso del Collegio, una inammissibile integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento di diniego dell’accesso.
Il maggioritario e condivisibile indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato assume, infatti, l’inammissibilità della motivazione postuma (specie quando, come nel caso in esame, avviene per il tramite degli scritti difensivi), ritenendola in contrasto anche con le regole del giusto procedimento amministrativo.
Tale condivisibile orientamento trae ulteriore argomento dalla condivisibile considerazione per cui «il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti» (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, 07.04.2014, n. 1629; sezione sesta, 22.09.2014, n. 4770; sezione terza, 30.04.2014, n. 2247; sezione quinta, 27.03.2013, n. 1808).
L’indirizzo giurisprudenziale in esame ha ricevuto, inoltre, l’autorevole avallo della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato, con l’ordinanza 26.05.2015, n. 92, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della n. 241 de 1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, da una sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che la rimettente si era sottratta al doveroso tentativo di sperimentare l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, chiedendo un improprio avallo a una determinata interpretazione della norma censurata.
Dalle considerazioni che precedono discende il respingimento dell’appello con conseguente conferma della sentenza impugnata.

ATTI AMMINISTRATIVI: Obbligo per la Pa di adottare il provvedimento espresso anche quando gode di ampia discrezionalità. Non può si può applicare la preclusione prevista per gli atti amministrativi generali.
L’amministrazione può essere condannata all’adozione di un provvedimento espresso anche laddove il potere sia connotato da ampia discrezionalità.

Lo afferma la III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 01.02.2024 n. 1061.
Il caso
A seguito della carenza di organico presso un ufficio del giudice di pace, alcuni enti e avvocati hanno rivolto istanza al ministero della giustizia affinché coprisse i posti in pianta organica e avviasse la procedura di rideterminazione della stessa.
Non avendo il ministero fornito risposta, hanno impugnato il silenzio-inadempimento, che il Tar Toscana ha dichiarato inammissibile perché si tratta di attività ampiamente discrezionale in quanto diretta a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate.
Il Consiglio di Stato, a cui è passata la vertenza, ricorda in premessa il costante orientamento giurisprudenziale, che costituisce principio generale, secondo cui è obbligo della Pa adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto interessato anche se si ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo la Pa rimanere inerte.
La discrezionalità
L'applicazione al caso di specie di tali coordinate ermeneutiche induce i giudici di Palazzo Spada a dichiarare fondato l'appello. Non può infatti essere applicata la preclusione prevista per gli atti amministrativi generali, che non deve essere intesa in senso assoluto, acritico e generalizzato, posto che la sua ratio risiede nella impossibilità di individuare specifici destinatari in capo ai quali possa radicarsi una posizione giuridica qualificata e differenziata di interesse legittimo.
Non è questo il caso proposto dall'appello, riferito a specifiche interruzioni dei servizi giudiziari che avevano precluso l'efficace esercizio della professione forense.
D'altro canto, l'articolo 2 del Dlgs 165/2001 impone alle Pa di determinare le dotazioni organiche inspirando la loro organizzazione al criterio di funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività; l'articolo 6 inoltre dispone che in sede di definizione del piano dei fabbisogni di personale l'amministrazione indichi la consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in base ai fabbisogni programmati.
È del tutto evidente, dunque, che sull'istanza l'amministrazione avrebbe dovuto pronunciarsi con un provvedimento espresso, ancorché connotato da ampio margine di discrezionalità.
Ma in virtù di tale margine, il giudice non può spingersi a verificare l'adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici amministrativi, può solo ordinare al ministero di dare pieno riscontro all'istanza originaria. Ed è quello che fa nell'accogliere l'appello: accerta il silenzio-inadempimento del ministero e lo condanna a provvedere sull'istanza nel termine di trenta giorni (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).
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SENTENZA
1. A seguito di una situazione di carenza di organico presso l’ufficio del giudice di pace di Prato, che ha condotto ad una sensibile riduzione dei servizi (sospensione del servizi di iscrizione a ruolo dei decreti per ingiunzione di pagamento), gli enti e i singoli avvocati indicati in epigrafe hanno rivolto istanza al Ministero della Giustizia affinché coprisse i posti in pianta organica ed avviasse la procedura di rideterminazione della stessa.
Non avendo il Ministero fornito risposta, hanno impugnato davanti al TAR della Toscana il silenzio-inadempimento.
Il TAR della Toscana, con la sentenza gravata nel presente giudizio, ha dichiarato “
inammissibile l’azione proposta”, sia perché trattasi di attività “ampiamente discrezionale” (la prima), sia perché, ove si volesse intendere l’istanza come rivolta “all’emanazione dei cd. atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico”, si profilerebbe un difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
I ricorrenti hanno impugnato la sentenza con ricorso in appello.
...
2. Il gravame censura la sentenza di primo grado anzitutto per travisamento dell’atto di diffida, in punto di qualificazione data alla pretesa dal primo giudice, il che ha reso la pronuncia “incomprensibile ed illogica”.
Il TAR avrebbe quindi male inteso ed applicato il precedente in termini costituito dalla sentenza del TAR Abruzzo n. 46 del 2023, non impugnata dall’amministrazione e passata in autorità di cosa giudicata, che ha accolto analogo ricorso.
3. Per quanto riguarda l’istanza volta alla copertura dei posti in pianta organica, il TAR, richiamando la citata sentenza n. 46 del 2023 del TAR dell’Abruzzo, ha affermato che “il precedente giurisprudenziale sopra richiamato ha, infatti, concluso per la natura ampiamente discrezionale della verifica in ordine all’adeguatezza delle risorse amministrative assegnate all’Organo giudiziario e la conseguenziale impossibilità di ordinare al Ministero la copertura degli organici: “poiché la verifica dell’adeguatezza delle risorse assegnate agli uffici amministrativi costituisce esercizio di attività ampiamente discrezionale e avviene con cadenza periodica, il collegio non può ordinare, come richiesto dal ricorrente, al Ministero di provvedere alla copertura della dotazione organica cristallizzata nel d.m. 05.11.2009” (TAR Abruzzo L’Aquila, 21.03.2023, n. 46).
Con tutta evidenza, siamo pertanto nel solco della giurisprudenza citata nella memoria dell’Amministrazione resistente e che ha escluso il possibile ricorso al processo speciale in materia di silenzio della p.a. con riferimento a provvedimenti generali o pianificatori caratterizzati dalla natura ampiamente discrezionale (Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2017, n. 6096; sez. V, 09.03.2015, n. 1182; sez. IV, 05.03.2013, n. 1349) e dalla mancanza di un conseguenziale obbligo di provvedere giudizialmente coercibile
”.
Nello stesso ordine di idee l’amministrazione appellata in memoria ha affermato che la domanda di copertura della pianta organica “è atto complesso ad alto contenuto discrezionale, implicante non soltanto atti di gestione, come assunto nell’appello”; analogamente, “il silenzio sulla domanda di modifica della pianta organica —domanda che emerge dagli atti, anche se praticamente abbandonata nel corso del giudizio introduttivo e non coltivata nell’appello— non è azionabile in ragione della natura giuridica degli atti di rideterminazione delle piante organiche”.
4. Va in proposito osservato che -contrariamente ai più risalenti arresti, soprattutto di primo grado, richiamati in senso opposto dalla motivazione della sentenza gravata- per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo sentenze n. 4415/2023, n. 5206/2023 e n. 7912/2023) “il rito previsto dagli artt. 31 e 117 c.p.a. rappresenta infatti sul piano processuale lo strumento rimediale per la violazione della regola dell'obbligo di agire in via provvedimentale sancita dall'art. 2, L. n. 241 del 1990”.
La violazione della citata disposizione che, sul piano sostanziale, ha sancito l’obbligo per l’amministrazione di agire in via provvedimentale, costituisce pertanto il presupposto del rimedio processuale in questione.
L’obbligo per la pubblica amministrazione di agire in via provvedimentale, discendente dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, ha ad oggetto anche l’attività discrezionale (ad eccezione delle categorie di provvedimenti che solitamente la giurisprudenza esclude non già in quanto discrezionali, ma perché sottratti per altre caratteristiche strutturali o funzionali all’obbligo di provvedere: sul punto si tornerà al successivo punto 5.).
5. La sentenza di questa Sezione n. 7548/2022 ha in proposito precisato che “
Per costante orientamento giurisprudenziale, costituisce principio generale, riconducibile ai canoni di trasparenza e buona amministrazione ex art. 97 Cost. ed alla disposizione normativa di cui all'art. 2, comma 3 della L. n. 241 del 1990, quello secondo cui è obbligo della Pubblica Amministrazione adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto interessato (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 14.12.2004, n. 7955).
Ciò anche al fine di assicurare la trasparenza dell'azione e dei comportamenti dell'Amministrazione e favorire lo svolgimento imparziale del procedimento (cfr. Cons. Giust. Amm. Sicilia, 08.11.2005, n. 747).
L'obbligo dell'amministrazione pubblica di provvedere sulle istanze del privato con un provvedimento formale corrisponde ad un principio di civiltà giuridica, codificato dalla legge generale sul provvedimento amministrativo 07.08.1990, n. 241 art. 2, che trasmette un forte segnale in ordine alla doverosità dell'espresso agire della pubblica amministrazione, collegato al necessario raggiungimento della definizione, in senso positivo o negativo, di quella quota di interesse sostanziale concretamente messo in moto dall'atto di impulso del privato ed in esso soggettivizzata (cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, 04.10.2010, n. 32659).
In presenza di una formale istanza l'Amministrazione è tenuta a concludere il procedimento, e ciò anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte. Il legislatore, infatti, ha imposto al soggetto pubblico di rispondere alle istanze private, sancendo l'esistenza di un dovere che rileva ex se quale diretta attuazione dei principi di correttezza, buon andamento e trasparenza, consentendo altresì alle parti, attraverso l'emanazione di un provvedimento espresso, di tutelare in giudizio i propri interessi a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 23.02.2022, n. 1283; Cons. Stato, Sez. III, 13.07.2021, n. 5284; Cons. Stato. Sez. III, 19.04.2018, n. 2370; Cons. Stato, Sez. III, 18.05.2020, n. 3118)
”.
In senso analogo si è espressa la sentenza della VI sezione di questo Consiglio di Stato, n. 2420/2022: “
Ogniqualvolta la realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda dall'intermediazione del pubblico potere, l'Amministrazione, in particolare, è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia questione di procedimenti ad istanza di parte e l'organo procedente ravvisi ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda: l'attuale formulazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 241 del 1990, pure in caso di "manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità … della domanda", impone l'adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non giustificandosi una condotta meramente inerte.
Il silenzio-inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un'utilità giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non necessitante dell'intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente
”.
6. L’applicazione alla fattispecie dedotta di tali coordinate ermeneutiche depone nel senso della fondatezza del gravame.

APPALTI: Gare telematiche e malfunzionamenti delle piattaforme: le indicazioni del Tar.
È tutto da verificare l’impatto positivo sul contenzioso delle competizioni digitali: resta la ancora la prassi che trasforma ogni gara in una sorta di “caccia all’errore” e sulla disomogeneità degli orientamenti giurisprudenziali.

Due recenti sentenze del Tar Sicilia e del Tar Campania hanno affermato alcuni importanti principi in relazione allo svolgimento delle gare telematiche, con particolare riferimento alle ipotesi di malfunzionamento delle piattaforme digitali e dell’individuazione delle relative conseguenze.
Nello specifico, il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.02.2024 n. 383
[1], ha affermato che il meccanismo di sospensione e proroga del termine di presentazione telematica dell'offerta previsto dalle norme opera soltanto nel caso in cui il malfunzionamento della piattaforma sia imputabile alla stazione appaltante ovvero vi sia un'incertezza assoluta in ordine alle cause che hanno determinato il ritardo nell'invio dell'offerta.
Al contrario, la sospensione o la proroga non trovano spazio nel caso in cui sia provata la negligenza del concorrente il quale, ancorché messo a conoscenza delle modalità tecniche di presentazione dell'offerta telematica e dell'opportunità di operare con congruo anticipo, non si sia attivato tempestivamente.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 01.02.2024 n. 800
[2],ha invece sancito l'illegittimità dell'esclusione del concorrente che abbia operato il caricamento della documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l'orario prefissato ma non sia riuscito a finalizzarne l'invio a causa di un rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente stesso.
Ciò anche in considerazione dell'esiguo ritardo (8 secondi) con cui l'invio è stato finalizzato rispetto all'orario ultimo indicato nel disciplinare di gara.
Il Tar Sicilia: il malfunzionamento della piattaforma
Un ente appaltante aveva indetto una procedura aperta per l'affidamento di un accordo quadro relativo al servizio di gestione di centri di accoglienza per cittadini stranieri.
Il disciplinare di gara prevedeva che l'intera procedura si svolgesse attraverso una procedura telematica che prevedeva che la documentazione di offerta dovesse essere trasmessa tramite una piattaforma informatica messa a disposizione dall'ente appaltante. Un concorrente ricorreva al giudice amministrativo denunciando che non era stato messo nelle condizioni di partecipare alla procedura di gara.
Evidenziava infatti che entro l'orario indicato nel disciplinare di gara era riuscito a caricare la documentazione richiesta, ma che successivamente non aveva potuto presentare l'offerta in ragione di un blocco della piattaforma, che aveva dato luogo a una momentanea indisponibilità del servizio telematico. In considerazione di tale circostanza il concorrente presentava istanza all'ente appaltante per la riapertura del termine di presentazione dell'offerta.
Tale istanza veniva respinta sulla base dell'assunto secondo cui lo stesso disciplinare di gara stabiliva che l'inserimento della documentazione nel sistema rimaneva a rischio esclusivo del concorrente e che, in questa logica, i concorrenti erano tenuti ad avviare le attività di caricamento della documentazione di gara con congruo anticipo rispetto alla scadenza prevista, proprio per non trovarsi nell'impossibilità di completare la trasmissione dell'offerta nel termine prescritto.
In sede di ricorso il concorrente replicava a queste argomentazioni evidenziando che nessuna censura poteva essere mossa al suo comportamento, posto che lo stesso aveva provveduto al caricamento della documentazione nei termini previsti, e che esclusivamente l'invio dell'offerta non era avvenuto entro la scadenza stabilita a causa di un malfunzionamento del sistema.
Di conseguenza la scelta dell'ente appaltante di non procedere a una proroga del termine di presentazione dell'offerta doveva considerarsi illegittima, in quanto assunta in violazione da un lato di un'esplicita previsione del disciplinare di gara che la consentiva, e dall'altro dei principi generali di tutela dell'affidamento, raggiungimento del risultato, accesso al mercato e di buona fede richiamati negli articoli di apertura del D.lgs. 36/2023. La proroga del termine di presentazione dell'offerta.
Il Tar Sicilia ricorda preliminarmente il quadro normativo di riferimento.
Con previsioni sostanzialmente analoghe, sia il D.lgs. 50/2016 (articolo 79, comma 5-bis) che il D.lgs. 36/2023 (articolo 25, comma 2), stabiliscono che nel caso di malfunzionamento anche temporaneo delle piattaforme informatiche le stazioni appaltanti devono garantire la partecipazione alla gara dei concorrenti, anche eventualmente disponendo la sospensione del termine di presentazione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del malfunzionamento.
In relazione a queste previsioni è indubbio che se il concorrente non riesce a trasmettere l'offerta entro il termine prestabilito a causa di un malfunzionamento del sistema informatico imputabile alla stazione appaltate ha diritto di essere riammesso in termini ai fini della presentazione dell'offerta. Tale diritto sussiste anche nell'ipotesi in cui vi siano incertezze in merito alla causa del mancato invio, nel senso che non si riesca a determinare se lo stesso dipenda effettivamente dalla stazione appaltante o dal concorrente che non si è attivato per tempo al fine di rispettare il termine, considerati i meccanismi di funzionamento delle piattaforme informatiche.
In sostanza, se la rimessione in termini è naturalmente dovuta nel caso di malfunzionamento del sistema oggettivamente ascrivibile alla stazione appaltante, su quest'ultima ricade anche il rischio della causa ignota del malfunzionamento. Al contrario, nessun diritto alla rimessione in termini sorge in capo al concorrente nel caso in cui il ritardo nella presentazione dell'offerta sia ascrivibile a una comprovata negligenza dello stesso.
In questo senso la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente evocato il principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti nelle gare telematiche, secondo cui gli stessi sopportano le conseguenze di eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione di offerta.
In applicazione di tale principio la stessa giurisprudenza ha precisato che grava sul concorrente l'onere di attivarsi tempestivamente ai fini della presentazione della documentazione di gara e in particolare dell'offerta, in modo da capitalizzare i tempi. Più nello specifico, è stato affermato che nelle gare telematiche è richiesta ai concorrenti una particolare diligenza, nel senso che la sua capacità informatica e l'attenta lettura delle istruzioni sul funzionamento della piattaforma, nonché i fisiologici rallentamenti del traffico informatico, devono indurre i concorrenti stessi a gestire e per quanto possibile prevenire i possibili e limitati inconvenienti di malfunzionamento della piattaforma.
Applicando questi principi al caso di specie, il Tar Sicilia ha ritenuto che il concorrente non avesse assolto all'onere di attivazione tempestiva e con la dovuta diligenza ai fini della presentazione dell'offerta su piattaforma informatica. Infatti, lo stesso non ha mai generato e caricato il documento contenente l'offerta economica, e proprio per questo il sistema lungi dall'essersi bloccato ha più volte segnalato allo stesso concorrente l'impossibilità di procedere.
In sostanza, l'analisi di quanto avvenuto ha portato il Tar Sicilia a ritenere che non vi sia stato un blocco o malfunzionamento del sistema, quanto piuttosto la corretta segnalazione al concorrente dell'impossibilità di procedere a causa del mancato caricamento di un documento da parte dello stesso.
Ne consegue che la mancata presentazione dell'offerta nei termini previsti è imputabile esclusivamente al comportamento tenuto dal concorrente, non sussistendo quindi i presupposti per la rimessione in termini, che è stata legittimamente negata dall'ente appaltante.
Il Tar Campania: lo sforamento (minimale) del termine di presentazione delle offerte
La vicenda esaminata dal Tar Campania riguarda una procedura di gara telematica per l'affidamento di un appalto integrato di lavori.
La stazione appaltante aveva disposto l'esclusione di un concorrente in quanto non aveva provveduto al completo caricamento della documentazione di gara entro il termine previsto dal disciplinare.
L'esclusione veniva impugnata davanti al giudice amministrativo dal concorrente, che evidenziava come nonostante l'avvenuto caricamento della documentazione di offerta nel termine prestabilito il sistema non aveva consentito il completamento della procedura attraverso la ricezione positiva dell'invio con il tasto conferma poiché risultava superato il termine di soli otto secondi.
Secondo il ricorrente l'esiguità del ritardo rilevato avrebbe imposto all'ente appaltante di adottare il principio di proporzionalità nella valutazione dell'evento, evitando quindi di procedere all'esclusione. Il Tar Campania ha accolto il ricorso.
Il giudice amministrativo ha infatti in primo luogo osservato che nel termine indicato nel disciplinare di gara il ricorrente aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l'intera documentazione di offerta, in adempimento agli obblighi procedurali imposti ai concorrenti.
Al riguardo, non può essere imputato al concorrente di essersi attivato per iniziare il caricamento con solo due ore di anticipo rispetto all'orario di scadenza. Infatti il disciplinare non prevedeva alcun termine iniziale, e d'altro canto il tempo residuo per completare il caricamento doveva considerarsi congruo rispetto all'ordinario funzionamento delle piattaforme informatiche.
Di conseguenza, non può essere imputato al concorrente il mancato ricevimento della conferma all'invio nel termine ultimo stabilito per la presentazione dell'offerta, poiché si tratta di un ritardo del sistema presumibilmente dovuto al notevole traffico di dati verificatosi nella fase finale della procedura di caricamento.
Peraltro, attribuire un effetto escludente a un ritardo di soli otto secondi risulta contrario al principio di proporzionalità, in quanto produce il massimo della sanzione l'esclusione dalla gara nei confronti di un concorrente che in realtà aveva completato il caricamento nei tempi dovuti, ma non era riuscito a finalizzarlo (per soli otto secondi) a causa di un rallentamento del sistema.
Il contenzioso nelle gare telematiche Le due pronunce esaminate offrono interessanti indicazioni sulle modalità di svolgimento delle gare telematiche, tanto più importanti in un momento in cui il ricorso alle stesse rappresenta la scelta ordinaria per procedere agli affidamenti.
Le stesse pronunce fanno tuttavia emergere un dato. Le gare telematiche dovrebbero accelerare e rendere più fluido lo svolgimento delle procedure di gara, anche assicurando una più efficace tracciabilità dei relativi adempimenti. Sotto questo profilo, la funzione che si immaginava potessero assolvere era anche quella di una auspicabile riduzione del contenzioso. In realtà quest'ultimo obiettivo sembra raggiunto solo in parte. Ne sono evidenza le due pronunce esaminate, che giungono a conclusioni diverse in relazione a due casi sostanzialmente analoghi.
Ciò che muta è piuttosto la natura del contenzioso, che viene a concentrarsi essenzialmente sul funzionamento (o malfunzionamento) della piattaforma informatica. Ma è tutto da verificare quanto ciò riuscirà ad incidere sulla consolidata prassi che trasforma ogni gara in una sorta di caccia all'errore e sulla disomogeneità degli orientamenti giurisprudenziali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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[1] TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.02.2024 n. 383
10. Si può prescindere dall’esame delle eccezioni preliminari sollevate dalla difesa erariale, atteso che il ricorso è infondato e va rigettato.
Per la loro connessione logica e funzionale le censure articolate con il mezzo di tutela all’esame possono essere esaminate congiuntamente.
Osserva preliminarmente il Collegio che l’art 79, comma 5-bis, del D.lgs. 50/2016 prevedeva che "Nel caso di presentazione delle offerte attraverso mezzi di comunicazione elettronici messi a disposizione dalla stazione appaltante ai sensi dell'articolo 52, ivi incluse le piattaforme telematiche di negoziazione, qualora si verifichi un mancato funzionamento o un malfunzionamento di tali mezzi tale da impedire la corretta presentazione delle offerte, la stazione appaltante adotta i necessari provvedimenti al fine di assicurare la regolarità della procedura nel rispetto dei principi di cui all'articolo 30, anche disponendo la sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento dei mezzi e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del mancato funzionamento. Nei casi di sospensione e proroga di cui al primo periodo, la stazione appaltante assicura che, fino alla scadenza del termine prorogato, venga mantenuta la segretezza delle offerte inviate e sia consentito agli operatori economici che hanno già inviato l'offerta di ritirarla ed eventualmente sostituirla. La pubblicità di tale proroga avviene attraverso la tempestiva pubblicazione di apposito avviso presso l'indirizzo Internet dove sono accessibili i documenti di gara, ai sensi dell'articolo 74, comma 1, nonché attraverso ogni altro strumento che la stazione appaltante ritenga opportuno. In ogni caso, la stazione appaltante, qualora si verificano malfunzionamenti, ne dà comunicazione all'AGID ai fini dell'applicazione dell'articolo 32-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, recante codice dell'amministrazione digitale".
L’art. 25, comma 2, del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 stabilisce invece che “Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti utilizzano le piattaforme di approvvigionamento digitale per svolgere le procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, secondo le regole tecniche di cui all'articolo 26. Le piattaforme di approvvigionamento digitale non possono alterare la parità di accesso degli operatori, né impedire o limitare la partecipazione alla procedura di gara degli stessi ovvero distorcere la concorrenza, né modificare l'oggetto dell'appalto, come definito dai documenti di gara. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano la partecipazione alla gara anche in caso di comprovato malfunzionamento, pur se temporaneo, delle piattaforme, anche eventualmente disponendo la sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del malfunzionamento”.
L’art. 92, comma 2, lettera c), del D.lgs. n. 36/2023 stabilisce infine che i termini di presentazione delle domande di partecipazione sono prorogati “in misura adeguata e proporzionale”, nei casi di cui all'articolo 25, comma 2, terzo periodo.
Tanto premesso, alla luce delle citate disposizioni, non è revocabile in dubbio che se l'operatore economico -il quale si avvale dei mezzi di comunicazione elettronica messi a disposizione dalla stazione appaltante- non riesce a trasmettere la propria offerta entro il termine prestabilito a causa di un malfunzionamento informatico imputabile alla stazione appaltante, lo stesso ha evidentemente diritto da essere rimesso in termini per la presentazione dell'offerta.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che anche ove non sia possibile stabilire con certezza se vi sia stato un errore da parte del singolo operatore economico, ovvero se la trasmissione dell'offerta sia stata impedita da un vizio del sistema informatico imputabile alla stazione appaltante, le conseguenze degli esiti anormali del sistema non possono andare a detrimento dei partecipanti, stante la natura meramente strumentale del mezzo informatico (Consiglio di Stato, sezione III, 28.12.2020, n. 8348, Consiglio di Stato, sezione III, 07.01.2020, n. 86 e Consiglio di Stato, sezione V, 20.11.2019, n. 7922), nonché i principi di par condicio e di favor partecipationis.
Ne discende che il diritto alla rimessione in termini del singolo operatore economico (il quale non sia riuscito ad inviare in tempo l'offerta o la domanda di partecipazione) sorge, non soltanto in caso di comprovato malfunzionamento della piattaforma digitale della stazione appaltante, ma anche in caso di incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio (e cioè se per colpa della stazione appaltante oppure del singolo operatore economico che non si è attivato per tempo).
In definitiva, il rischio della "causa ignota" del malfunzionamento informatico ricade sulla stazione appaltante.
Nessun diritto alla rimessione in termini può essere riconosciuto, invece, in caso di comprovata negligenza del singolo operatore economico.
In proposito, la giurisprudenza amministrativa ha più volte evocato il principio di autoresponsabilità, e ciò con specifico riguardo alla partecipazione alle procedure di evidenza pubblica che si svolgono mediante la presentazione telematica dell'offerta. In linea generale, il Consiglio di Stato ha avuto modo di statuire che ciascuno dei concorrenti "sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione" (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 25.02.2014 n. 9).
A tal proposito, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sezione III, 02.07.2014, n. 3329, 03.07.2017, n. 3245, 03.07.2018, n. 4065 e, da ultimo, Consiglio di Stato, sezione III, 30.10.2023, n. 9325) ha elaborato il principio dell'equa ripartizione, tra soggetto partecipante e amministrazione procedente, del rischio "tecnico" di inidoneo caricamento e trasmissione dei dati su piattaforma informatica ("rischio di rete" dovuto alla presenze di sovraccarichi o di cali di performance della rete, e "rischio tecnologico", dovuto alle caratteristiche dei sistemi operativi software utilizzati dagli operatori), secondo criteri di autoresponsabilità dell'utente, sul quale grava l'onere di pronta e tempestiva attivazione delle procedure, sì da capitalizzare il tempo residuo, salvi ovviamente i malfunzionamenti del sistema imputabili al gestore della piattaforma (fermi del sistema, mancato rispetto dei livelli di servizio, etc.), per i quali invece non può che affermarsi la responsabilità di quest'ultimo.
In base a questi principi, applicabili al caso di specie in esame, sussiste "l'esigibilità, per le imprese, d'una peculiare diligenza nella trasmissione degli atti di gara, compensata dalla possibilità d'uso diretto della loro postazione informatica", mentre deve escludersi la possibilità "di predicare [...] l'accollo in capo alla stazione appaltante dei rischi derivanti dall'uso del modello informatico [...], a tutto concedere vigendo anche in questo caso le ordinarie regole di suddivisione della responsabilità per attività rischiose".
Nello specifico: "In tale chiave ricostruttiva, l'esperienza e abilità informatica dell'utente, la stima dei tempi occorrenti per il completamento delle operazioni di upload, la preliminare e attenta lettura delle istruzioni procedurali, il verificarsi di fisiologici rallentamenti conseguenti a momentanea congestione del traffico, sono tutte variabili che il partecipante ad una gara telematica deve avere presente, preventivare e "dominare" quando si accinge all'effettuazione di un'operazione così importante per la propria attività di operatore economico, non potendo il medesimo pretendere che l'amministrazione, oltre a predisporre una valida piattaforma di negoziazione operante su efficiente struttura di comunicazione, si adoperi anche per garantire il buon fine delle operazioni, qualunque sia l'ora di inizio delle stesse, prescelto dall'utente, o lo stato contingente delle altre variabili sopra solo esemplificativamente indicate" (Consiglio di Stato, sezione III, 24.11.2020 n. 7352; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, sezione I, 24.01.2020 n. 220).
In sintesi, il meccanismo di sospensione e proroga del termine di presentazione telematica dell'offerta, già previsto dall’articolo 79, comma 5-bis, D.lgs. n. 50 del 2016 ed ora dall’art. 25, comma 2, terzo periodo, del D.lgs. 31.03.2023 n. 36 opera soltanto se (e nella misura in cui) ricorra almeno una delle due seguenti situazioni:
   a) malfunzionamento della piattaforma digitale imputabile alla stazione appaltante;
   b) incertezza assoluta circa la causa del tardivo invio dell'offerta (e cioè se per un malfunzionamento del sistema oppure per negligenza dell'operatore economico).
Viceversa, il ridetto meccanismo di sospensione e proroga non può mai operare in caso di comprovata negligenza dell'operatore economico, il quale -benché reso edotto ex ante (grazie a regole chiare e precise contenute nella lex specialis) delle modalità tecniche di presentazione telematica dell'offerta e dell'opportunità di attivarsi con congruo anticipo- non si è invece attivato per tempo.
...
  
[2] TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 01.02.2024 n. 800
4.- Le diverse censure, in considerazione degli oggettivi profili di connessione e sovrapposizione dei relativi argomenti, possono ricevere sintetica trattazione unitaria.
Il ricorso è fondato.
Il bando di gara, alla Sezione IV: Procedura, al paragrafo IV.3.3), titolato “Termine per il ricevimento delle offerte”, precisa che “le offerte dovranno pervenire mediante l’utilizzo della piattaforma telematica “Net4market” … entro il termine perentorio del 09/10/2023 ora locale: 12:00:00.”.
I fatti riportati dalla ricorrente non sono smentiti dalle amministrazioni resistenti e sono peraltro confermati da una serie di documenti allegati agli atti della causa. Pertanto sugli stessi può fondarsi la ricostruzione certa degli avvenimenti.
Il giorno 09.10.2023, la Ca. SRL, mandataria del costituendo RTI ricorrente, caricava sulla piattaforma, in ordine cronologico, i seguenti documenti:
   - alle ore 11.19.54, il file dell’offerta economica, generato dal portale e firmato digitalmente da tutti i componenti del costituendo RTI;
   - alle ore 11.20.31, la cartella .zip contenente la documentazione costituente l’offerta temporale, firmata da tutti i componenti del costituendo RTI;
   - alle ore 11.50.31, la cartella .zip contenente la documentazione amministrativa, firmata da tutti i componenti del costituendo RTI;
   - alle ore 11.58.53, la cartella .zip contenente l’offerta tecnica, firmata esclusivamente dalla mandataria, con all’interno i tre files prescritti dal disciplinare firmati digitalmente da tutti i componenti del costituendo RTI.
Risulta quindi che, prima dell’orario stabilito dal bando come termine finale, la mandataria aveva provveduto a caricare sulla piattaforma l’intera documentazione relativa alle offerte, necessaria ai fini della partecipazione, svolgendo quindi diligentemente gli adempimenti previsti dal bando.
Ebbene, non può imputarsi alla ricorrente di avere iniziato il caricamento lo stesso giorno 9, a sole due ore dall’orario di scadenza, atteso che il bando di gara non imponeva alcun termine iniziale e, in ogni caso, la scelta del momento in cui iniziare gli adempimenti è da ritenersi del tutto congrua rispetto ai tempi ordinariamente preventivabili come necessari per caricare la documentazione sulla piattaforma e per confermarla.
Né può ricadere sulla ricorrente la circostanza che il sistema non abbia ricevuto la conferma di quanto già caricato entro il termine prefissato, in quanto non possono essere a suo carico non solo le anomalie manifeste del sistema che, nel caso in esame, non sembrano essersi verificate, ma nemmeno i meri ritardi nella ricezione delle offerte. Tali ritardi sono presumibilmente riconducibili al fatto che la piattaforma, la quale ha dovuto assorbire gli allegati caricati da una pluralità di operatori economici in un ristretto arco temporale, accusando rallentamenti nella procedura di caricamento.
In altri termini, il sovraffaticamento per eccesso di dati in entrata che, verosimilmente, non ha permesso la conferma dell’avvenuto caricamento entro l’orario previsto dal bando, non può riversarsi sulla ricorrente, ciò in applicazione dei principi di par condicio e di favor partecipationis alle procedure di gara (Cons. Stato, sez. III, 07.01.2020, n. 86).
Peraltro, attribuire significato ad un ritardo di soli otto secondi si scontrerebbe col principio di proporzionalità atteso che imporrebbe la grave sanzione espulsiva nei confronti di un operatore che aveva pur sempre caricato in tempo nella piattaforma i dati utili.
In questa sede devono quindi applicarsi per analogia i consolidati principî, affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui non può essere escluso dalla gara un concorrente che abbia curato il caricamento della documentazione di gara sulla piattaforma telematica entro l’orario fissato per siffatta operazione, ma non sia riuscito a finalizzare l’invio a causa di un rallentamento del sistema, non imputabile al concorrente (per i casi di malfunzionamento del sistema, cfr. Cons. Stato, 86/2020 cit.; anche Cons. Stato, sez. V, 20.11.2019, n. 7922; Sez. III, 07.07.2017, n. 3245, per ipotesi relativa ad un errore dell’impresa e non già ad un malfunzionamento del sistema).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, se risulta impossibile stabilire con certezza se vi sia stato un errore da parte del trasmittente o, piuttosto, la trasmissione sia stata danneggiata per un vizio del sistema, il pregiudizio ricade sull’ente che ha bandito, organizzato e gestito la gara (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 25.01.2013, n. 481).

EDILIZIA PRIVATA: Fascia di rispetto stradale, nessuna deroga per la recinzione dominicale.
Il Tar Milano conferma l’operato del comune per la norma restrittiva del regolamento comunale emanata in applicazione del Codice della Strada.
L’amministrazione di un comune milanese ha emesso un’ordinanza di demolizione di una recinzione di un fondo sul ciglio della strada, in quando realizzata nella fascia di rispetto stradale inedificabile, in violazione del regolamento edilizio comunale relativamente alle strade che ricadono sotto la gestione dell’ente.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza sostenendo che la recinzione finalizzata a delimitare la proprietà allo scopo di separarla dalle altre, custodirla e difenderla da intrusioni fosse espressione di diritto dominicale, prevalente sulle norme urbanistiche in virtù dell'articolo 841 del codice civile che consente sempre al proprietario di chiudere il proprio fondo.
I giudici della II Sezione del TAR Lombardia-Milano hanno smontato la tesi del ricorrente.
«Anche le recinzioni -si legge nella sentenza 30.01.2024 n. 229- sono soggette al rispetto del vincolo stradale indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all'esercizio dello jus escludendi alios o meno» sono soggette al rispetto della fascia di rispetto delle strade ai sensi del Codice della Strada.
I giudici ricordano che è lo stesso Codice della strada che, per quanto riguarda le strade comunali, «prevede fasce di rispetto che inibiscono le nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti e prescrizioni per la realizzazione di recinzioni e piantagioni» (articolo 18, commi 1 e 4).
È sempre l'articolo 18, comma 4, del Codice a prevedere che «le recinzioni e le piantagioni dovranno essere realizzate in conformità ai piani urbanistici e di traffico e non dovranno comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente proprietario della strada, il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione».
Nel caso specifico, i giudici premettono che il regolamento edilizio del Comune ha previsto che «la realizzazione di recinzioni, di qualsiasi tipologia, è comunque soggetta a titolo abilitativo». E che per quanto riguarda la strada in questione si fa espresso riferimento alle fasce di rispetto stabilite dal Codice all'articolo 26 a seconda di tipo, dimensione ed ente gestore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).

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SENTENZA
1. La ricorrente ha impugnato l’ordinanza n. 2 del 27.02.2020 del Responsabile del Settore Gestione del Territorio recante la rimozione della recinzione esistente sull’area di cui al fg. 2 mapp. 928 (parte), 926 e 485 e il pagamento della sanzione di € 1.000,00.
Contro il suddetto atto la ricorrente ha sollevato i seguenti motivi di ricorso.

   I. Violazione e falsa applicazione artt. 6 e 31 dpr n. 380/2001 – falsa applicazione art. 31 regol. edilizio - falsa applicazione art. 26, comma 4, lett. b), dpr n. 495/1992 – eccesso di potere per errata rappresentazione dei fatti – difetto di istruttoria difetto dei presupposti.
Secondo la ricorrente la posa di una recinzione -manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, di talché anche la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio, nella specie, peraltro, inesistente, non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell' art. 841 c.c.

   II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 26, comma 4, lett. b), dpr n. 495/1992 - violazione artt. 6 e 10 dpr n. 380/2001.
Secondo la ricorrente l’art. 31 del Regolamento edilizio comunale ha ritenuto di estendere nel tratto interno del centro abitato la previsione in materia di distacchi di cui all’art. 26, comma 4, lett. b), che il DPR n. 495/1992 contempla, invece, per i tratti “fuori dai centri abitati” per cui sarebbe illegittimo in quanto il regolamento edilizio non può determinarsi in tema di distanze delle costruzioni dal confine stradale in maniera difforme da quanto previsto dalla norma statale.

La difesa del Comune ha chiesto l’inammissibilità ed improcedibilità per acquiescenza, tardività e mancata tempestiva impugnazione dell’art. 31 del R.E. comunale di Corbetta. In subordine ha chiesto la reiezione del ricorso.
...
2. Il ricorso non è inammissibile in quanto il Regolamento edilizio, in quanto, norma generale, può essere impugnato insieme all’atto applicativo e quindi, nel caso di specie, con l’ordinanza di demolizione in questione.
3. Nel merito il ricorso è infondato.
Il presente ricorso è stato introdotto al fine di contestare la legittimità dell’ordinanza che ha imposto la rimozione della recinzione realizzata al limite del ciglio stradale nella fascia di rispetto stradale inedificabile in violazione del regolamento edilizio comunale relativamente al rispetto della distanza dalla strada comunale (ex Strada Statale 11).
In merito occorre rilevare che la “fascia di rispetto” delle strade, secondo la classificazione di queste offerta dal relativo Codice, consiste, ai sensi dell’art. 2, co. 1, n. 22, d.lgs. n. 285/1992, nella “striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili”.
Quindi anche le recinzioni sono soggette al rispetto del vincolo stradale indipendentemente dal fatto che siano finalizzate all’esercizio dello jus escludendi alios o meno.
Il successivo art. 18 del Codice della Strada, relativo ai centri abitati, nel fare rinvio alle più specifiche norme del regolamento, prevede fasce di rispetto che inibiscono “le nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti” (co. 1) e prescrizioni per la realizzazione di “recinzioni e piantagioni” (co. 4).
Il comma 4 stabilisce che “Le recinzioni e le piantagioni dovranno essere realizzate in conformità ai piani urbanistici e di traffico e non dovranno comunque ostacolare o ridurre, a giudizio dell'ente proprietario della strada, il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione”.
Il Regolamento Edilizio comunale di Corbetta approvato con delibera consiliare n. 52 del 28.11.2019 ha esercitato tale competenza stabilendo all’art. 31 che: “la realizzazione di recinzioni, di qualsiasi tipologia, è comunque soggetta a titolo abilitativo. Lungo la strada ex SS 11, anche nel tratto interno al centro abitato, trova applicazione l’art. 26, comma 4, lett. b), del D.P.R. 16.12.1992, n. 495”.
Poiché la distanza della recinzione dal ciglio della strada è finalizzata a garantire il campo visivo necessario a salvaguardare la sicurezza della circolazione, deve escludersi che il Comune abbia esercitato la sua competenza in contrasto con la norma di legge.
4. In definitiva quindi il ricorso va respinto.

APPALTI: Sulla durata delle iscrizioni nel casellario Anac e sull’intrasferibilità a diversa sezione dopo la scadenza di una iscrizione obbligatoria.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Iscrizione nel casellario informatico – Durata massima di un anno – Derogabilità da parte di Anac - Esclusione.
La decisione dell’Anac di “spostare”, allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione nel casellario informatico a seguito di segnalazione per dichiarazione falsa, in una diversa sezione del casellario medesimo, anziché disporne la cancellazione, è illegittima in quanto priva di un reale fondamento normativo e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia (anche sub specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti dall’art. 38, 1° comma, lett. h), del d.lgs. n. 163 del 2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare (1).
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ha evidentemente carattere speciale, riferendosi non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere –circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto.
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   (1) Precedenti conformi: non risultano specifici precedenti in termini. In generale, sulla durata dell’iscrizione nel casellario informatico, Cons. Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 517; TAR per l’Abruzzo, sez. I, 15.04.2015, n. 282
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.01.2024 n. 881 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Con il primo motivo di appello viene riproposta la censura, già dedotta nel precedente grado di giudizio, secondo cui l’impugnato diniego di cancellazione dell’annotazione del provvedimento sanzionatorio avrebbe violato l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006.
L’originaria iscrizione nel casellario ANAC, infatti, era stata disposta ai sensi di tale ultima norma, laddove il potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione è disciplinato dalle previsioni del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio, emanato ai sensi dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006.
In virtù di quanto previsto dall’art. 38, comma 1-ter, cit., in particolare, l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h), può essere disposta per la durata massima di un anno, decorso il quale la detta iscrizione “è cancellata e perde comunque efficacia”.
Inserendo l’iscrizione di cui trattasi, al termine del periodo interdittivo (per di più con procedura totalmente automatizzata e, dunque, senza alcuna ponderazione del caso concreto) nell’area “C” del casellario, per un periodo di tempo indefinito, l’ANAC avrebbe contestualmente violato l’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 45, comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio (a mente del quale “Il termine di durata delle annotazioni inserite nel Casellario, indicato nel provvedimento finale, ai sensi dell’art. 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed articolo 48, comma 1, del Codice decorre dalla data di pubblicazione delle annotazioni stesse. Trascorso detto termine, le annotazioni perdono efficacia”), in quanto l’annotazione (iscritta in data 17.07.2020) avrebbe dovuto essere cancellata in accoglimento dell’apposita istanza presentata dalla società in data 28.09.2021, essendo decorso il termine (massimo) di un anno dall’iscrizione (oltre il quale l’Autorità è tenuta a disporre
la materiale cancellazione dell’annotazione, non potendosi limitare a spostare la stessa da una sezione all’altra del casellario, così mantenendo evidenza del periodo di interdizione già trascorso).
In ogni caso, prosegue l’appellante, anche ove di volesse ritenere che l’ANAC conservi un potere discrezionale di conservazione dell’annotazione oltre il periodo annuale indicato dall’ultimo periodo dell’art. 38, comma 1-ter cit., l’Autorità avrebbe dovuto comunque svolgere un’istruttoria specifica e rendere apposita motivazione “rafforzata” in relazione alla conservazione “ultrattiva” dell’annotazione riportata nel casellario informatico ed alla pubblica utilità della stessa.
Il motivo è fondato.
E’ pacifico in atti che il provvedimento sanzionatorio presupposto fosse stato adottato dall’ANAC ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006, che così prevede: “In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h), fino ad un anno, decorso il quale l’iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia”.
La finalità di tale iscrizione –disposta con norma primaria di legge– è evidentemente quella di portare a conoscenza delle stazioni appaltanti l’esistenza del divieto di partecipazione alle gare pubbliche (anche in veste di subappaltatore) e, con esso, necessariamente anche le ragioni che ne stanno alla base.
La stessa legge è chiara nel prescrivere un termine massimo di efficacia di tali iscrizioni, che non può eccedere l’anno.
A tale regola primaria si conforma –per evidenti ragioni di gerarchia delle fonti giuridiche– la disciplina regolamentare in materia, data in particolare dall’art. 45, comma 1, del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’ANAC, a mente del quale –come già detto– “Il termine di durata delle annotazioni inserite nel Casellario, indicato nel provvedimento finale, ai sensi dell’art. 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, ed articolo 48, comma 1, del Codice decorre dalla data di pubblicazione delle annotazioni stesse. Trascorso detto termine, le annotazioni perdono efficacia”.
La norma di cui all’art. 38, comma 1-ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 ha evidentemente carattere speciale, riferendosi non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di “presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione”, peraltro ove rese “con dolo o colpa grave”.
In quanto norma speciale, è destinata a prevalere –circoscrivendone l’ambito di applicazione– su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto (in quanto di natura regolamentare, quale l’art. 38 del Regolamento per la gestione del Casellario Informatico di cui alla delibera consiliare ANAC del 29.07.2020).
Nel caso di specie l’ANAC ha ritenuto motu proprio di poter “trasferire” la detta iscrizione, allo scadere del termine massimo di efficacia annuale, dalla Sezione “B” del casellario informatico alla Sezione “C” del medesimo, anziché limitarsi a cancellarla (come prescritto dalla norma di legge primaria), scelta che secondo il primo giudice troverebbe la “copertura” giuridica dell’art. 8, comma 2, lett. dd), del d.P.R. n. 207 del 2010, per cui “Nella subsezione del casellario relativa alle imprese qualificate SOA esecutrici di lavori pubblici sono inseriti i seguenti dati: […] tutte le altre notizie riguardanti le imprese che, anche indipendentemente dall'esecuzione dei lavori, sono dall'Autorità ritenute utili ai fini della tenuta del casellario, compresa la scadenza del certificato del sistema di qualità aziendale”.
Tale soluzione non può essere accolta, ove si consideri che, nel corpo del medesimo art. 8, comma 2 cit., alla lettera s) vengono già fatte oggetto di iscrizione le “falsità nelle dichiarazioni rese in merito ai requisiti e alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara e per l’affidamento dei subappalti”, all’uopo precisando che “il periodo annuale, ai fini dell’articolo 38, comma 1, lettera h), del codice, decorre dalla data di iscrizione nel casellario”.
Deve quindi concludersi, per ragioni di sistematicità logica, che la previsione di chiusura (dunque, di carattere generale e sussidiario) di cui alla richiamata lettera ss) possa trovare applicazione solo nel caso di fattispecie non riconducibili alle ipotesi specificamente contemplate dalle precedenti lettere del medesimo comma secondo.
Nel caso in esame tale condizione non si verifica, l’iscrizione di cui trattasi essendo pacificamente riconducibile alla diversa ipotesi contemplata dall’art. 8, comma 2, lettera s), del d.P.R. n. 207 del 2010 (ipotesi per la quale, come già detto, la norma primaria di riferimento prevede la cancellazione sic et simpliciter dell’iscrizione, una volta scaduto il termine di efficacia della misura interdittiva).
Deve quindi concludersi che la decisione dell’ANAC di “spostare”, allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione di cui trattasi in una diversa Sezione del casellario informatico, anziché disporne la cancellazione, sia illegittima in quanto priva di un reale fondamento normativo e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia (anche sub specie di pubblicità-notizia) ab origine previsti dall’art. 38, comma primo, lettera h), del d.lgs. n. 163 del 2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.01.2024 n. 881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’onere della prova in materia di domanda di sanatoria di abusi edilizi.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento di conformità – Onere della prova.
L’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in primis, la data dell’abuso grava sul richiedente; infatti, solo il privato può fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre l’amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio (1).
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   (1) Conformi: Cons. Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e 24.03.2023 n. 3011; Cons. Stato, sez. VI, 12.10.2020, n. 6112;
         Difformi: non risultano precedenti difformi
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.01.2024 n. 853 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. I motivi sono infondati.
7.1 Per giurisprudenza consolidata grava sul richiedente l’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in primis, la data dell’abuso. Solo il privato può, infatti, fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre l’amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio (Cons. Stato, sez. VII, 29.09.2023, n. 8594 e 24.03.2023 n. 3011; sez. VI, 12.10.2020, n. 6112; sez. VII, 07.08.2023 n. 7628; id. 30.03.2023, n. 3304; sez. VI, 18.05.2021, n. 3853).
7.2 Nel caso di specie, posto che l’amministrazione ha respinto l’istanza di sanatoria perché dal fotogramma aereo del 12.07.2003 non erano visibili le opere oggetto di condono, l’interessato non ha fornito alcun elemento idoneo a smentire quanto emergente dalla documentazione agli atti del comune.
Al riguardo non assurgono a prova della realizzazione dei manufatti residenziali in data antecedente al 31.03.2003 né la concessione edilizia n. 39/1996, che ha per oggetto la costruzione di un magazzino agricolo, né la circostanza -affermata ma, mai dimostrata- che all’epoca del rilievo aerofotogrammetrico del luglio 2003 il fabbricato fosse occultato da rigogliosa vegetazione che lo sovrastava.
7.3 Correttamente pertanto il giudice di primo ha ritenuto legittimo il diniego a prescindere dall’ulteriore profilo afferente al superamento della volumetria condonabile, poiché la mancata realizzazione delle opere entro il termine di legge, che era onere del richiedente dimostrare, costituisce di per sé circostanza ostativa al condono.
Peraltro l’appellante non ha nemmeno dato la prova della sussistenza dei presupposti di cui al comma 1, lett. b), l.r. 8/11/2004, n. 12, che disciplina il caso in cui l’intera unità immobiliare oggetto di sanatoria sia adibita a prima casa del richiedente, giacché nel caso di specie è pacifico che solo una porzione del fabbricato era adibito ad abitazione dell’istante.
8. In definitiva l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.01.2024 n. 853 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per l’ordine di demolizione non serve il motivo di interesse pubblico. Il Consiglio di Stato ricorda la natura del provvedimento di «atto dovuto e vincolato»; e la ponderazione dell’interesse pubblico è assolta, a monte, dal legislatore.
Nessun diritto a comunicare l’avvio del procedimento prima di emettere l’ordinanza di demolizione. Nessun obbligo di indicare nell’ordinanza di demolizione il motivo di interesse pubblico al ripristino. Nessuna possibilità di invalidare l’ordinanza a causa del molto tempo trascorso tra la realizzazione dell’abuso e la procedura repressiva. Nessun obbligo di verificare, su istanza dell’interessato, la “doppia” conformità dell’opera oggetto dell’ordinanza di ripristino.
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sul caso di un abuso realizzato in un comune della Campania, ribadisce tutte le caratteristiche dell'ordinanza di demolizione che rendono questo atto snello, potentissimo e praticamente inarrestabile.
Il caso di specie riguarda un fabbricato di due livelli a destinazione abitativa realizzato senza titolo in un'area incompatibile con tale funzione (zona agricola).
L'ordinanza di demolizione emessa dal comune a cinque anni dalla sua scoperta, da parte della polizia municipale, è stata impugnata al Tar Campania dall'interessato, il quale ha impugnato anche il diniego del comune nei confronti della richiesta, fatta successivamente, per valutare la conformità urbanistica dell'opera per la quale era stato avviato il contenzioso. Infine, a seguito del rigetto dei ricorsi del Tar, l'interessato si è rivolto al Consiglio di Stato.
Il secondo giudice, nel confermare la decisione del Tar, ha esaurientemente dimostrato l'infondatezza di tutti i motivi con i quali il ricorrente aveva attaccato la decisione del Comune. In nessun caso è stato possibile intaccare o indebolire l'efficacia di questo provvedimento repressivo, previsto dal legislatore a favore dei comuni e finalizzato al controllo e tutela del territorio.
Tanto per cominciare, l'ordinanza di demolizione di manufatti abusivi, ribadisce Palazzo Spada, «non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore».
Il provvedimento, precisano inoltre i giudici nella sentenza 26.01.2024 n. 825, «è atto vincolato e -si ribadisce- non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione».
Neanche il passaggio del tempo toglie nulla al potere del comune, escludendo «un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi».
Quanto alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento, i giudici respingono decisamente anche la tesi del ricorrente secondo la quale l'ordinanza sarebbe illegittima senza la comunicazione ex articolo 7 della legge 241/1990, non prevedendo questo atto, «alcun apporto partecipativo del privato», se ci sono i presupposti di legge.
«L'attività di repressione degli abusi edilizi mediante l'ordinanza di demolizione -si ricorda-, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
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SENTENZA
3.1. Nel merito l’appello è infondato e va respinto.
Con il primo motivo (rubricato: Error in iudicando – violazione art. 7 l. 241/1990) l’appellante sostiene che il TAR avrebbe erroneamente ritenuto superflua la preventiva comunicazione di avvio del procedimento e del funzionario responsabile, stante la natura vincolata dell’ordinanza di demolizione, in quanto il Consiglio di Stato in più occasioni avrebbe ribadito, seppur implicitamente, la necessità della preventiva interlocuzione tra la P.A. ed il privato anche in materia di ordinanza di demolizione.
3.2. La censura relativa all’illegittimità dell’ordine di demolizione per assenza della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 l. 241/1990 non ha pregio.
L’ordinanza di demolizione costituisce infatti espressione di un potere vincolato e doveroso in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, rispetto al quale non è richiesto alcun apporto partecipativo del privato (Cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11/05/2022, n. 3707: “L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”; Consiglio di Stato, sez. II, 01/09/2021, n. 6181: “Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione; per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento”).
In ogni caso, trattandosi di procedimento vincolato, troverebbe applicazione l’art 21-octies, co. 2, l. 241/1990, posto che il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato.
3.3. E’ pure infondato il secondo motivo di impugnazione (rubricato: Error in iudicando – eccesso di potere), con il quale l’appellante sostiene che sarebbe errata la sentenza nella parte in cui il giudice di I grado ha respinto il motivo di ricorso con il quale è stato evidenziato il difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico alla demolizione ed alla mancata valutazione della conformità urbanistica degli abusi sanzionati, e con il quale l’appellante (citando la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 781/1991 senza riportarne sinteticamente il contenuto o altra indicazione per esaminare l’attinenza della stessa alla censura) ritiene che tale onere motivazionale era sicuramente esistente.
3.3.1. Secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato,
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività (Ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 07/06/2021, n. 4319).
Ne consegue che non è necessario che l’amministrazione individui un interesse pubblico –diverso dalle mere esigenze di ripristino della legalità violata– idonee a giustificare l’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, sez. VI, 17/10/2022, n. 8808: “L'ordine di demolizione di manufatti abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore”; Consiglio di Stato sez. II, 11/01/2023, n. 360: “L'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”).
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, atteso che, a fronte della realizzazione di un immobile abusivo, non è configurabile alcun affidamento del privato meritevole di tutela; l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Consiglio di Stato, ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dal Consiglio di Stato, sez. II, 11/01/2023, n. 360, che ha affermato che “
l'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi".).
3.3.2. È pure infondata l’affermazione dell’erroneità della sentenza laddove respinge la censura sulla mancata valutazione della conformità urbanistica degli abusi sanzionati prima di ordinarne la demolizione.
Infatti,
la realizzazione delle opere edilizie descritte nell’ordine di demolizione in assenza del prescritto titolo edilizio, costituisce elemento sufficiente a giustificare l’adozione del provvedimento impugnato; tale circostanza impone al Comune di ordinare il ripristino dello stato dei luoghi a prescindere dall’eventuale compatibilità delle opere con gli strumenti urbanistici.
3.3.3. Secondo la costante giurisprudenza di questa Sezione,
la conformità urbanistica delle opere deve essere oggetto di valutazione da parte dell’amministrazione comunale solo nell’ipotesi in cui il privato abbia presentato un’istanza di accertamento di conformità (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 20/07/2021, n. 5457: “In presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, del medesimo d.P.R. n. 380 cit., che obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato”).

EDILIZIA PRIVATA: Giusta il consolidato orientamento della giurisprudenza, l'omessa o imprecisa indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate”.
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione.
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.

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3.4. Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato: Error in iudicando - violazione art. 31 DPR n. 380/2001), l’appellante censura la sentenza laddove ritiene che l’indicazione dell’area da acquisire può avvenire nella fase susseguente all’accertamento dell’inottemperanza.
L’appellante sostiene che l’omessa indicazione pregiudicherebbe dal punto di vista sostanziale gli interessi del ricorrente, il quale, in primo luogo, deve essere messo in condizione di valutare, in termini di “costo-beneficio”, l’opportunità di adempiere o meno all’ordine di demolizione.
Inoltre l’esatta indicazione sarebbe necessaria, in quanto l’effetto ablatorio si verificherebbe immediatamente ed “ope legis” alla scadenza del termine legale o di quello prorogato dall’autorità competente per ottemperare all’ingiunzione a demolire, con acquisto a titolo originario della proprietà libera da eventuali pesi e vincoli preesistenti.
3.4.1. La censura non merita accoglimento.
Occorre premettere che l’articolo 31 del d.P.R. n. 380/2001 prevede al comma 3 che, "Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti previsioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
Con riferimento alla censura dedotta il Collegio rileva che la prospettazione di parte appellante, come rilevato nella decisione di questa Sezione 03.12.2020, n. 7672, “si pone in contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza in base al quale l'omessa o imprecisa indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che verrà acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa; invero, l'indicazione dell'area è requisito necessario ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez. VI, n. 1998 del 2004)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2020, n. 7672).
E’ stato osservato che “l'effetto acquisitivo costituisce una conseguenza fissata direttamente dalla legge, senza necessità dell'esercizio di alcun potere valutativo da parte dell'Autorità eccetto quello del mero accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi; per quanto invece riguarda l'indicazione dell'area da acquisire, il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia, atteso che il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.02.2018, n. 755).
Dunque l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione costituisce un evento normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; la mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione (Cons. St., sez. VI, 24/06/2020, n. 4058; Cons. St., sez. IV, n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St., sez. VI, n. 1998 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.10.2022, n. 9068).
Dunque la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza, nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
3.4.2. Da quanto dedotto emerge l’infondatezza delle censure proposte dalla parte appellante alle statuizioni del Giudice di prime cure in ordine alle doglianze sottoposte al suo vaglio con il ricorso principale con riferimento all’ordine di demolizione
 Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.01.2024 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

APPALTI SERVIZI: Clausola sociale, nessun obbligo di riassunzione di tutto il personale dell’appaltatore uscente.
Il Consiglio di Stato ribadisce la necessità di contemperare l’obbligo con la libertà di organizzazione dell’impresa anche nel nuovo codice.
Con la recente sentenza 25.01.2024 n. 807 del Consiglio di Stato, Sez. V, si rimarca che dall’applicazione della clausola sociale non sorge alcun obbligo di integrale riassorbimento del personale del pregresso affidatario.
L’applicazione della clausola, infatti, esige un contemperamento tra un «bilanciamento delle tutele del lavoro con l’art. 41 Cost.» ed il «principio, tipicamente pubblicistico, di buon andamento dell’azione amministrativa».
La vicenda
Il ricorrente censura l'errore della sentenza di primo grado (Tar Lazio, sez. II, n. 13442/2023) nella parte in cui non ha accolto il primo motivo del ricorso fondato sulla pretesa violazione dell'obbligo di riassorbimento del personale del pregresso gestore imposto dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
L'aggiudicatario, secondo l'appellante avrebbe sottodimensionato il riassorbimento del personale del pregresso affidatario proponendo l'assorbimento di 73 dipendenti su 181.
Il giudice, anche di secondo grado, non condivide l'assunto evidenziando, fin dalla premessa, che la stessa legge di gara non prevedeva -né avrebbe potuto prevederlo- l'esclusione in caso di mancato totale riassorbimento del personale del precedente contratto prevedendo, invece, l'estromissione solo in caso di mancata produzione del piano di riassorbimento (destinato a chiarire le dinamiche organizzative che concretamente l'operatore intende adottare sul riassorbimento, sempre eventuale).
I vincoli della clausola sociale
La censura consente al giudice d'appello di ricordare l'esatta configurazione degli obblighi che discendono dalla clausola sociale (anche nella nuova configurazione voluta dal
nuovo codice).
In primo luogo, lo stesso disciplinare di gara, correttamente, prevedeva da un lato la necessità di impegnarsi sulla stabilizzazione ma chiarendo «la necessaria armonizzazione con l'organizzazione dell'operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto». In secondo luogo, la legge di gara indicava il contratto «preteso» dalla stazione appaltante (Ccnl Servizi di pulizia e servizi integrati/Multiservizi) ma «ferma l'applicazione», proseguiva il disciplinare, «ove più favorevole, della clausola sociale prevista dal contratto collettivo nazionale prescelto dall'aggiudicatario del contratto».
Il disciplinare quindi, rispettoso delle indicazioni del codice, salvaguardava l'autonomia imprenditoriale degli appaltatori. Nel ritenere corrette dette indicazioni, il giudice d'appello precisa che «il grado di vincolatività della clausola sociale si desume dalla regola di compatibilità espressamente declinata nel disciplinare, che richiede l'armonizzazione con l'organizzazione aziendale, rendendola attuabile con elasticità, in ragione appunto delle prerogative imprenditoriali».
L'obbligo del nuovo gestore, quindi, è solo quello di procedere prioritariamente, in caso di necessità di manodopera, nell'assorbimento «nel proprio organico» del «personale già operante alle dipendenze del fornitore uscente». Ed è proprio l'uso dell'avverbio «prioritariamente», spiega il giudice, sta a significare che «l'esigenza di assumere personale deve essere soddisfatta attingendo prioritariamente al personale alle dipendenze del gestore uscente, non obbligando invece ad acquisire personale proveniente dal gestore uscente se non necessario, così declinando l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le scelte organizzative dell'impresa».
La clausola sociale, quindi, deve essere intesa in senso elastico non imponendo in nessun caso «la riassunzione di tutta la forza lavoro utilizzata dal gestore uscente». La portata dell'obbligo della clausola, del resto, veniva ben chiarita in una serie di riscontri ad altrettanti quesiti posti alla stazione appaltante con cui si chiariva che dalla stessa «non può derivare un obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata» laddove il concorrente risultasse «già in possesso di una propria struttura in grado di gestire autonomamente tale funzionalità, così declinando l'obbligo in modo da renderlo compatibile con le esigenze imprenditoriali».
La stazione appaltante, pertanto, ha ben chiaro l'approdo giurisprudenziale in materia prima di tutto anche comunitario (fatto proprio anche dall'Anac) secondo cui l'obbligo del riassorbimento è solo teorico e deve essere contemperato «con la libertà d'impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell'appalto (Cons. St., sez. V, 01.08.2023 n. 7444)».
La clausola sociale di assorbimento, conclude il giudice, è destinata sì ad operare nell'ipotesi di cessazione d'appalto e «subentro di imprese o società appaltatrici e risponde all'esigenza di assicurare la continuità dell'occupazione nel caso di discontinuità dell'affidatario» ma l'effetto non può essere vessatorio e tale da «condizionare la libertà economica e i principi dell'economia di mercato al fine di perseguire interessi socialmente rilevanti, come il diritto al lavoro». In difetto risulterebbe in contrasto con la stessa Costituzione italiana fin dall'articolo 1 e delle disposizioni costituzionali «che si occupano di lavoro, fra le quali gli artt. 35, 36» e 41.
E sono proprio «le esigenze di bilanciamento fra diritti costituzionalmente protetti» che «impediscono quindi di attribuire alle prerogative dei lavoratori una valenza assoluta, dovendo essere contemperate con altre esigenze di tutela, pure costituzionalmente garantite», tra queste l'autonomia imprenditoriale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.02.2024).

URBANISTICA: La buona fede dei lottizzandi non salva la lottizzazione abusiva (e non ferma il Comune). Il Tar Palermo ha ribadito il principio, rigettando la richiesta degli interessati di sospendere il fermo dei lavori imposto dall’ente locale.
Nessuna possibilità per i lottizzandi in buona fede di fermare l’azione del Comune contro la lottizzazione abusiva.
Con una recente ordinanza, il Tar Palermo ha respinto l’istanza di alcuni lottizzandi volta a sospendere l’ordinanza dell’ente locale per fermare subito i lavori dopo la scoperta di una vasta lottizzazione abusiva (in forma sia cartolare che materiale) nel comune siciliano.
I giudici del TAR Sicilia-Palermo, Sez.   , hanno escluso nettamente qualsiasi fumus boni iuris dei richiedenti, per una serie di motivi, tutti saldamente confermati dagli orientamenti della giurisprudenza.
Gli istanti, affermano i giudici, «non possono invocare il proprio stato soggettivo al fine di escludere la legittimità del provvedimento impugnato»; e questo perché «la lottizzazione abusiva -si ricorda nell'ordinanza 25.01.2024 n. 38- prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione dell'illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell'alienante».
Strada sbarrata anche alle eventuali possibilità di sanatoria di singoli elementi (lotti o fabbricati), in quanto «non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell'area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso».
Infine, anche l'argomento legato alla circostanza che l'abuso è molto risalente nel tempo viene respinto al mittente. «Il fatto che le opere siano state realizzate in un lungo arco di tempo -affermano infatti i giudici del Tar- non incide in alcun modo sulla legittimità dell'ordine di sospensione della lottizzazione, avuto presente il menzionato carattere permanente dell'illecito» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.02.2024).
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ORDINANZA
Considerato, anzitutto:
   - che secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza “…la lottizzazione abusiva ex art. 30 del d.P.R. n. 380 del -OMISSIS-01 prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti: e ciò in quanto rileva in via esclusiva il mero dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fermo restando che la tutela dei terzi acquirenti in buona fede, estranei alla commissione dell'illecito, può essere fatta valere in sede civile nei confronti dell'alienante [cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.-OMISSIS-16, n. 26]” (Consiglio di Stato n. 768/-OMISSIS--OMISSIS-), sicché i ricorrenti –quali acquirenti dell’immobile– non possono invocare il proprio stato soggettivo al fine di escludere la legittimità del provvedimento impugnato;
Rilevato:
   - che dalla documentazione versata in atti dal Comune e per fatti pacifici, l’area indentificata al catasto al foglio -OMISSIS- ex part.-OMISSIS- (di estensione di 23.610 mq) ha formato oggetto di numerosi frazionamenti con conseguente edificazione, nei lotti così creatisi, di altrettanti immobili, connessi da una strada d’accesso e delimitati da un muro lungo tutto l’asse nord/sud dell’area, sicché sussiste una lottizzazione abusiva nella forma sia cartolare che materiale;
   - che, inoltre, la contestata lottizzazione abusiva –pur al sommario esame proprio della presente fase cautelare– non appare realizzata interamente in data antecedente all’introduzione della l. 47/1985;
   - che, in proposito, il Comune ha dato conto di elementi concreti che suffragano il compimento di opere e atti giuridici, nell’ambito dell’area coinvolta nella lottizzazione, successivamente all’entrata in vigore della legge predetta;
Evidenziato:
   - che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell'ordinato assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall'eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, e pertanto alcun rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria (TAR Campania Salerno, sez. I – 14/11/-OMISSIS-23 n. 2172, che ha puntualizzato come “Su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell'area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso”);
   - che, su quest’ultimo punto, si veda in senso conforme Consiglio di Stato, sez. VI – 19/04/-OMISSIS-23 n. 3957;
   - che, in ogni caso, la natura di illecito permanente della lottizzazione abusiva (cfr. Consiglio di Stato n. 2947/-OMISSIS-21) conduce a ritenere applicabile la sanzione reale della demolizione di cui all’art. 18 l. 47/1985; in altri termini, il fatto che le opere siano state realizzate in un lungo arco di tempo non incide in alcun modo sulla legittimità dell'ordine di sospensione della lottizzazione, avuto presente il menzionato carattere permanente dell'illecito (cfr. Tar Sicilia- Palermo sent. n. 1001/-OMISSIS-23);
   - che la conseguente insanabilità si giustifica con la deviazione dagli scopi stabiliti con la pianificazione urbanistica e la lesione dell'essenziale prerogativa comunale della programmazione in materia (CGA Sicilia – 22/06/-OMISSIS-22 n. 745, ad avviso del quale “essa ha dunque una potenzialità lesiva più estesa di quella del singolo abuso edilizio poiché incide sull'interesse pubblico primario alla corretta urbanizzazione del territorio condizionando indebitamente le scelte pianificatorie future”);
Dato atto:
   - che, per costante giurisprudenza, non vi è obbligo per il Comune di procedere ad una variante urbanistica pur in presenza di zone interessate da vasti interventi abusivi (CdS, I, 14.03.-OMISSIS-22, n. 565; Id., II, 02.11.-OMISSIS--OMISSIS-, n. 6762 e 07.08.-OMISSIS-19, n. 5607);
   - che, con riguardo all’ultimo motivo, la natura di atto vincolato del provvedimento impugnato esclude la necessità di comunicazione del preavviso di rigetto;
Ritenuto:
   - che, in definitiva, non sussiste il fumus boni iuris del gravame;

EDILIZIA PRIVATA: Abuso in centro storico, prima di demolire (o monetizzare) serve il parere della Soprintendenza.
La procedura, ricorda il Consiglio di Stato chiamato a giudicare un’intricata vicenda, si applica anche agli edifici non sottoposti a vincolo.

Prima di decidere se demolire o concedere la possibilità di monetizzare un abuso edilizio su un edificio nel centro storico, il Comune deve chiedere il parere della Soprintendenza, anche se l'intervento riguarda un bene non sottoposto a tutela. E comunque, in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, benché l'acquisizione al patrimonio del Comune «operi di diritto, non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo; pertanto, il mancato accertamento dell'inottemperanza, unitamente peraltro all'adozione di atti e/o comportamenti dell'Amministrazione incompatibili con l'esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme restando le responsabilità civili, amministrative, penali e contabili dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore».

Questi principi si leggono nella lunga e densa pronuncia del Consiglio di Stato - Sez. II (sentenza 22.01.2024 n. 806) che mette la parola fine a una vicenda estremamente complessa, di cui in passato si è occupato sia il giudice ordinario (fino a una pronuncia della Corte d'Appello) sia lo stesso giudice amministrativo (con sentenze del Tar Emilia Romagna e infine dello Stesso Consiglio di Stato).
La controversia prende le mosse da un abuso edilizio, consistente in una sopraelevazione su una terrazza all'ultimo piano di un edificio (non sottoposto a tutela) nel centro storico di Modena, di cui di fatto ne è stato modificato il prospetto. L'intervento consiste nella l realizzazione di un volume di circa 14 mq con un affaccio diretto quasi in linea con il fronte dell'edificio e con due finestre, diverse per forma e collocazione rispetto a quelle del palazzo. L'intervento è stato realizzato in difformità a una istanza di risistemazione dell'immobile ottenuta nel 1983.
Successivamente, l'interessata ha chiesto la sanatoria ai sensi del condono del 1985, che gli è stata negata dal Comune, il quale nel 1990 ha emesso una ordinanza di demolizione, mai formalmente revocata. Ne è seguito un primo contenzioso, che si concluso sfavorevolmente al proponente: sia il Tar Emilia Romagna che il Consiglio di Stato, infatti, respingono, rispettivamente, ricorso e appello dell'interessato. L'abuso viene confermato anche dal giudice ordinario, con sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello.
Tuttavia, questi giudizi non incidono in alcun modo sulla realtà: né il proprietario procede alla rimessa in pristino, né le opere vengono demolite dal Comune, il quale non procede neanche all'acquisizione del bene. Si apre invece una interlocuzione tra il proprietario e il Comune, ad esito della quale vengono emanati due successivi provvedimenti, nel 2019 e poi nel 2022, con i quali il Comune concede alla proprietaria la sanatoria dell'abuso previa monetizzazione, in alternativa alla demolizione.
A questo punto inizia il secondo contenzioso perché il provvedimento viene impugnato dai condomini dell'edificio. Il Tar Emilia Romagna accoglie il ricorso.
Da ultimo, il Consiglio di Stato, ad esito di una attenta ricostruzione e una approfondita analisi dei vari profili del caso, respinge l'appello e annulla i provvedimenti del Comune, con però una diversa motivazione rispetto al Tar. In questo secondo contenzioso lo stesso Co
mune di Modena si è costituito ad adiuvandum a fianco dell'interessata.
A rendere complicata la vicenda è anche la classificazione dell'intervento edilizio oggetto della controversia, che il Tar inquadra come nuova costruzione e che invece il Consiglio di Stato riconduce alla ristrutturazione edilizia. Il Tar respinge il ricorso perché ritiene che il Comune abbia violato l'articolo 31 del Testo unico edilizia, cioè quello che riguarda gli interventi senza permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali. L'articolo 31 prevede appunto la procedura dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale, in caso mancata rimessa in pristino da parte dell'interessato (cui può eventualmente seguire una demolizione volontaria da parte del proprietario negoziata con il Comune).
Anche il Consiglio di Stato respinge l'appello ma guarda invece all'articolo 33, quello sugli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità. Per questa fattispecie, come è noto, è prevista la rimessa in pristino ma non l'acquisizione da parte del comune in caso di inottemperanza. Di fatto, attraverso due percorsi argomentativi diversi, i due giudici arrivano alla medesima conclusione. Nel primo caso, il Tar respinge il ricorso perché -muovendosi nella logica dell'acquisizione del bene al patrimonio comunale ex articolo 31- conclude che «la fiscalizzazione non avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica».
Il Consiglio di Stato -muovendosi invece nella logica della regolarizzazione ex articolo 33- pizzica il comune nel mancato adempimento previsto dal comma 4 dell'articolo, bypassando il parere obbligatorio e vincolante da richiedere alla Soprintendenza, previsto anche nel caso di edifici non vincolati.
Infatti, ricordano i giudici della Seconda Sezione di Palazzo Spada, in caso di regolarizzazione di opere di ristrutturazione edilizia, «eseguite su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o pecuniaria, spetta all'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime mediante un parere vincolante. Tale tipologia di atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso entro il termine previsto, la competenza si trasferisce all'amministrazione comunale». Il comune invece ha fatto tutto in casa, attraverso la commissione sulla qualità del paesaggio, in difformità dalla legge.
«È proprio il legislatore -sottolinea Palazzo Spada- ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio, anche singolo, all'interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all'Autorità preposta alla tutela di un vincolo, ancorché formalmente non imposto.
D'altro canto, la affermata insanabilità dell'opera di cui all'originario provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica».
«Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo consultivo l'espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun conto dei precedenti giudicati sul punto -concludono i giudici- il Comune di Modena ha violato l'art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001».
«Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza, quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a tutela dell'assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevazione, c’è l’interesse ad agire in giudizio del condòmino. Il Consiglio di Stato l’ha individuato nella tutela del valore architettonico dell’edificio
La tutela del valore architettonico dell’edificio condominiale, “astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione”, integra sicuramente l’interesse ad agire del condomino contro provvedimenti che invece ne legittimano il mantenimento.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 (Pres. Cirillo, Est. Manzione) con una complessa decisione che ha toccato almeno tre punti su cui, si legge in una nota del Cds, “non esistono precedenti negli esatti termini”.
Il requisito della vicinitas, quale condizione della legittimazione ad agire, spiega il Collegio, è intrinseco nella qualità di condomino ma non assorbe, neppure in tale peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire, che va dimostrato in concreto, anche in corso di causa; esso, tuttavia -prosegue-, sussiste ogniqualvolta l’intervento contestato sia una sopraelevazione, e il condomino lamenti il pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio, giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art. 1127, commi 2 e 3, c.c.
Nel caso affrontato l’intervento era consistito in una sopraelevazione contro la quale alcuni condomini avevano proposto ricorso al giudice civile ex art. 1127 c.c. La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la signora l’ha “inglobato” nel proprio appartamento.
Il Collegio condivide la ricostruzione operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata condominiale» nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto architettonico».
Il Consiglio di Stato pone anche altri punti fermi. Benché la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, spiega il Collegio, in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di diritto», non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo; pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza, unitamente peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti dell’Amministrazione incompatibili con l’esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme restando le responsabilità –civili, amministrative, penali e contabili– dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore.
Inoltre, lo stato legittimo dell’immobile, chiarisce la decisione, è altra cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto dall’ultimo titolo di legittimazione rilasciato; qualora un titolo edilizio esista e sia proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria ad attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo possibile riferirsi a una ipotetica situazione preesistente al titolo stesso, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno (articolo NT+Diritto del 30.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Conseguenze della mancata demolizione di un immobile abusivo.
In linea generale il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia possibile- prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34.
Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli effettivamente accertati. Nella prassi, cioè, accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente.
La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche. Vero è che la formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione dell’ingiunzione a demolire.
Si ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31, comma 4).
L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sull’interesse del condomino ad agire in giudizio contro un abuso edilizio.
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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Giustizia amministrativa – Condominio – Interesse al ricorso.
Il requisito della vicinitas, quale condizione della legittimazione ad agire, è intrinseco nella qualità di condomino ma non assorbe, neppure in tale peculiare ipotesi, quello dell’interesse ad agire, che va dimostrato in concreto, anche in corso di causa.
Esso, tuttavia, sussiste ogniqualvolta l’intervento contestato sia una sopraelevazione, e il condòmino lamenti il pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio, giusta l’operatività in tali ipotesi dell’art. 1127, commi 2 e 3, c.c. operatività dell’art. 1127 c.c. (1).

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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Acquisizione al patrimonio del comune – Inottemperanza – Accertamento.
Benché la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, operi «di diritto», non è possibile prescindere dagli adempimenti formali necessari al fine di addivenire al trasferimento di proprietà, che necessita di un titolo.
Pertanto, il mancato accertamento dell’inottemperanza, unitamente peraltro all’adozione di atti e/o comportamenti dell’Amministrazione incompatibili con l’esercizio di tale potestà acquisitiva, possono escludere la colpevolezza del proprietario, non determinando il trasferimento della proprietà, ferme restando le responsabilità –civili, amministrative, penali e contabili– dei funzionari che non hanno dato seguito al procedimento sanzionatorio secondo le scansioni temporali previste dal legislatore (2)

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Edilizia e urbanistica – Abuso edilizio – Accertamento – Titolo edilizio.
Lo stato legittimo dell’immobile è altra cosa rispetto alla sua consistenza originaria e va desunto dall’ultimo titolo di legittimazione rilasciato.
Qualora un titolo edilizio esista e sia proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria ad attivare il procedimento sanzionatorio, non è certo possibile riferirsi ad una ipotetica situazione preesistente al titolo stesso, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno (3).

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   (1) Non risultano precedenti negli esatti termini.
   (2) Non risultano precedenti negli esatti termini.
   (3) Non risultano precedenti negli esatti termini
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
10. La vicenda di cui è causa, resa ancor più complessa dall’evidente conflittualità sottesa alla stessa e dal profluvio argomentativo di tutte le parti (da ultimo, la memoria di replica delle appellate supera finanche i previsti limiti dimensionali), interseca diverse questioni di diritto con riferimento alle quali appare opportuno una preliminare ricostruzione giuridica.
Oggetto di impugnativa sono due provvedimenti di c.d. fiscalizzazione di un abuso edilizio, la cui sussistenza è incontestata tra le parti, ancorché non ne sia condiviso l’inquadramento, essendone dubbia la riconducibilità al paradigma della “nuova opera” o della “ristrutturazione edilizia”, in entrambi i casi sine titulo, ovvero, al più, in totale difformità da quanto avallato con l’unico posseduto, vale a dire l’autorizzazione edilizia n. 1461 del 1983 per «risanamento e modifiche di un appartamento al 4° piano di un fabbricato civile».
Il secondo provvedimento, di sostanziale conferma del precedente, consegue alla dichiarata necessità di ottemperare al giudicato cautelare favorevole alle ricorrenti in primo grado, previa acquisizione, peraltro, di documentazione tecnica che il Comune ha ritenuto satisfattiva dell’avvenuto rispetto dei requisiti imposti dalla normativa antisismica.
11. Il primo giudice, nel tentativo di mettere ordine nel reticolo delle contrapposte argomentazioni di parte, e soprattutto nel disordinato sviluppo procedimentale seguito dagli uffici comunali, ha infine motivato l’accoglimento del ricorso sul solo scrutinio positivo della doglianza contenuta al punto 3.1 dei motivi aggiunti, relativi alla invocata inapplicabilità agli interventi di “nuova costruzione” dell’istituto di cui all’art. 33, comma 4, del T.u.e.
Nello sviluppo della motivazione, tuttavia, ha dato altresì atto della fondatezza di ulteriori rilievi avanzati dalle ricorrenti in particolare con il ricorso principale, seppure in verità senza preoccuparsi troppo della coerenza narrativa della ricostruzione del quadro normativo proposta. Da qui il riferimento all’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio del Comune, giusta la colpevole inottemperanza all’ingiunzione a demolire, non potendo la condotta della proprietaria essere “scriminata” dai documentati tentativi di appianare le problematiche di natura civilistica sottese alla vicenda.
Con riferimento poi alle censure riguardanti il primo atto, ma superate dal contenuto del secondo (lesione del contraddittorio, violazione o erronea applicazione della l.r. n. 39 del 2004), dando atto che esse sono state «depotenziate, alla luce del rinnovato esercizio dell’iter procedimentale e del nuovo provvedimento», ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse.
Alcune ulteriori questioni invece, o in quanto «aventi natura logicamente subordinata» o perché divenute irrilevanti (ad esempio, il rispetto delle norme in materia sismica, l’incongruità motivazionale, la disparità di trattamento), sono state assorbite.
Infine, «sull’applicazione della sanzione di 20.000 € (asseritamente dovuta ex art. 31 comma 4-bis)» ha ritenuto di non potersi pronunciare «trattandosi di attività amministrativa consequenziale e non ancora esercitata».
12. Il Collegio ritiene dunque utile innanzi tutto chiarire che il perimetro della controversia si concentra essenzialmente sul provvedimento del Comune di Modena del 2022, che in quanto confermativo del precedente, ne replica il contenuto (e quindi i vizi), ampliandoli, ma nel contempo ne elimina alcuni in precedenza presenti.
12.1. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se esso sia stato adottato o meno a seguito di una nuova istruttoria e di una nuova ponderazione degli interessi.
In tale seconda ipotesi, va dunque richiamato l’insegnamento giurisprudenziale per il quale «ogni nuovo provvedimento innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria (che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento del Giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo superamento di quelle poste a base di un provvedimento impugnato giurisdizionalmente, comporta la sopravvenienza di carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del relativo gravame» (v. Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2018, n. 195, che, a sua volta, richiama Cons. Stato, III, 02.09.2013, n. 4358 e sez. IV, 25.06.2013, n. 3457).
13. Da un confronto meramente testuale tra la determina del 2019 e quella del 2022 risultano chiari gli elementi di diversificazione e di approfondimento sopravvenuto, a partire dal mutato richiamo alla cornice normativa di riferimento, abbandonando il riferimento alla legislazione regionale per ricondurre la scelta solo sotto l’egida dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Da qui, l’effettiva inutilità della riproposizione da parte delle appellate delle censure facenti leva sulla contestata errata applicazione di tale legislazione regionale.
13.1. Vero è che nei casi di riedizione del potere in mera ottemperanza di una sentenza, si configura un comportamento attuativo necessitato dalla volontà di non vedersi esposto ad un’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2011, n. 1757; Cons. Stato, sez. IV, 02.01.2019, n. 16).
Nel caso di specie tuttavia l’adozione non in maniera spontanea, ma in esecuzione della decisione cautelare del giudice, del nuovo atto regolante la vicenda da parte dell’Amministrazione, non dà allo stesso rilevanza provvisoria, in attesa cioè che una sentenza di merito definitiva accerti se quello originariamente impugnato sia o meno legittimo.
Al contrario, da esso emerge chiaramente che l’Amministrazione, a seguito della decisione del giudice, ha sostituito il provvedimento la cui esecutività è stata sospesa in sede giurisdizionale con un nuovo provvedimento frutto di una rinnovata valutazione degli interessi coinvolti, così adeguandosi al suo pronunciamento senza attendere il giudicato, innovando rispetto all’assetto di interessi già pregiudizievole per il privato.
In sintesi, seppure il dirigente abbia richiamato espressamente in premessa l’ordinanza n. 186/2022 del Tar per l’Emilia Romagna, se ne è poi discostato radicalmente, avendo da subito rimarcato che «non si è verificato alcun effetto ablatorio del manufatto in questione a favore del Comune di Modena visti gli intendimenti reiteratamente espressi dalla sig.ra Ma. di dare corso all’ordinanza con il corretto obiettivo di ripristinare uno stato dei luoghi conforme alla categoria del restauro propria dell’immobile, e non di creare un “quid novi” inconciliabile con tale categoria».
In senso diametralmente opposto la richiamata ordinanza, esprimendosi sul fumus dell’istanza, dà atto che «in buona sostanza, l’effetto ablatorio in favore del Comune appare essersi verificato ope legis con l’inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all’ingiunzione, mentre è irrilevante la mancata adozione di un atto di ricognizione della consistenza immobiliare oggetto di trasferimento (il quale costituisce viceversa titolo necessario per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari del trasferimento dell’immobile)», invocando anche la copiosa giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia.
14. Sempre in limine litis, alterando la sistematica seguita nello sviluppo dell’appello, il Collegio ritiene opportuno scrutinare il quarto motivo di gravame, con il quale la signora Si.Ma. lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente l’interesse ad agire delle condòmine, asseritamente identificandolo nella mera affermazione di tale specifico status.
15. In materia di impugnazione dei titoli edilizi, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 22 del 2021, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sulle condizioni dell’azione impugnatoria da parte di chi si ritenga leso da un titolo rilasciato a terzi, ha precisato che la mera c.d. vicinitas, intesa come vicinanza fisica della propria proprietà rispetto a quella oggetto dell’intervento edilizio contestato, non basta a dimostrare l’esistenza di un concreto ed attuale interesse a ricorrere, dovendosi affermare la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione ad agire e l’interesse al ricorso.
Il Giudice è tenuto dunque ad accertare anche d’ufficio la sussistenza di entrambe le condizioni dell’azione, verificando se esiste un vantaggio concreto ed attuale che il ricorrente potrebbe effettivamente trarre dalla caducazione del titolo edilizio contestato, tenuto conto delle specifiche censure articolate in atti e concedendogli la possibilità di precisarlo e comprovarlo in corso di causa, in modo da evitare il compimento di attività giurisdizionali inutili, in contrasto con l’interesse pubblico all’efficienza ed efficacia del processo ex artt. 111 Cost., 6 e 13 CEDU e 47 Carta UE.
15.1. Quanto detto non subisce deroghe neppure laddove ad agire sia un condomino, in relazione ad interventi che non interessino, o non interessino direttamente, parti comuni dell’edificio, seppure evidentemente la peculiarità del contesto renda la vicinitas per così dire ontologicamente intrinseca alla relativa qualifica.
Come di recente affermato anche dalla Sezione, ad esempio, laddove le conseguenze dannose dell’intervento siano già state oggetto di pronuncia risarcitoria favorevole, l’interesse è venuto meno, al fine di evitare un’indebita locupletatio del terzo rispetto alla censurata attività edificatoria altrui (Cons. Stato, sez. II, 17.10.2022, n. 8841).
15.2. Nel caso di specie tuttavia l’intervento è consistito nella sopraelevazione dell’edificio, con riferimento alla quale le odierne appellate non a caso hanno proposto ricorso innanzi al giudice civile ex art. 1127 c.c.
La Corte di Appello di Bologna, confermando sul punto la pronuncia di primo grado, ha ritenuto corretto il paradigma normativo invocato, in quanto intervenendo sul lastrico solare con una chiusura la signora Si.Ma. l’ha “inglobato” nel proprio appartamento.
E in effetti, quale che ne sia l’inquadramento tipologico sotto il profilo edilizio e a prescindere dalla contestata efficacia di giudicato di tali affermazioni da parte della difesa civica, giusta l’estraneità del Comune di Modena a ridetto contenzioso, il Collegio condivide la ricostruzione dei fatti di causa operata dal giudice civile. L’incremento di volumetria, cioè, è stato realizzato sì sulla propria esclusiva di una parte, ma effettuando una sopraelevazione, la cui realizzazione soggiace comunque ai limiti e alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 del richiamato art. 1127 c.c.
Pur non essendo stato ritenuto provato il pregiudizio statico riveniente all’intero edificio, è stata al riguardo dichiarata «la discontinuità con la linea orizzontale superiore del fabbricato, […] arretrata rispetto alla facciata condominiale» nonché connotata dalla presenza di «due finestre di forma e finiture diverse da quelle esistenti nei piani inferiori e disallineate rispetto alle stesse, determinando un quid disarmonico rispetto al preesistente a scapito del pregio estetico del condominio nel suo aspetto architettonico».
Il riferimento alle finestre, quindi, cui l’appellante vorrebbe circoscrivere la portata del giudicato civile, è solo esemplificativo, oltre che rafforzativo, della generale disarmonia prodotta, quanto meno ad avviso del giudice civile.
15.3. La tutela, dunque, del valore architettonico dell’edificio condominiale, astrattamente pregiudicata da qualsivoglia ipotesi di sopraelevazione, integra sicuramente l’interesse ad agire avverso provvedimenti che ne legittimano il mantenimento, siccome accaduto nel caso di specie.
15.4. Va pertanto respinto il quarto motivo di appello.
16. D’altro canto e in senso diametralmente opposto, la sentenza impugnata ha ritenuto meritevole di apprezzamento la tesi contenuta nei motivi 2.1, 2.2 e 2.5 del ricorso introduttivo, laddove le appellate allora ricorrenti lamentano il difetto di legittimazione a chiedere una sanatoria da parte dell’appellante, essendo ormai intervenuta l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio indisponibile del Comune, e alla luce del giudicato formatosi sulla compromissione e peggioramento del decoro architettonico del palazzo.
La questione, ripresa nel motivo aggiunto 3.1, è infine più correttamente ricondotta non alla legittimazione ad avanzare richieste di qualunque genere al Comune di Modena -cui spettava l’onere di dichiararne se del caso l’improcedibilità- bensì alla ritenuta violazione, nell’adozione degli atti impugnati, dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, che essendo riferito alle ipotesi di ristrutturazione abusiva, non avrebbe potuto trovare applicazione in caso di “nuova costruzione”, quale quella in esame.
17. Il Collegio ritiene utile premettere una sintetica ricostruzione dei principi posti a base degli istituti giuridici a vario titolo e con finalità opposte evocati da tutte le parti in causa, in maniera peraltro spesso confusa, sì da attingere indistintamente elementi dall’uno e dall’altro, seppure si tratti di categorie autonome e per nulla fungibili.
18. L’art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede, per i soli casi di opera eseguita in assenza di permesso di costruire, ovvero in variazione essenziale o totale difformità dallo stesso, quale conseguenza della mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, un’automatica fattispecie acquisitiva al patrimonio del comune dell’opera abusiva e della relativa area di sedime.
Sull’automatismo del relativo meccanismo acquisitivo si è di recente espressa anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai cui principi occorre fare integrale rinvio, seppure con talune precisazioni integrative (Cons. Stato, A.P., 11.10.2023, n. 16).
18.1. Come affermato dal giudice delle leggi con riferimento all’omologa previsione contenuta nell’art. 15, comma 3, della l. 28.01.1977, n. 10, «l’acquisizione, a titolo gratuito, dell’area sulla quale insiste la costruzione abusiva al patrimonio indisponibile del comune rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità od in assenza della concessione e, poi, non adempie l’obbligo di demolire l’opera stessa» (Corte cost., ordinanza n. 82 del 15.02.1991).
La natura sanzionatoria autonoma dell’acquisizione al patrimonio, da sempre riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa (da ultimo, v. ex multis C.G.A.R.S., 25.03.2022, n. 373, nonché Cons. Stato, sez. II, 20.01.2023, n. 714), ha trovato d’altro canto conferma con l’aggiunta al predetto art. 31 dei commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, per effetto dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), della legge 11.11.2014, n. 164, di conversione, con modifiche, del d.l. 12.09.2014, n. 133, che hanno previsto un’ulteriore e autonoma sanzione per il medesimo illecito, ovvero la corresponsione di una somma di danaro compresa tra euro duemila (2.000/00) e euro ventimila (20.000/00), i cui proventi sono a destinazione vincolata alle spese per rimessione in pristino e acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico. Sanzione aggiuntiva della quale le appellate lamentano la mancata irrogazione.
Sul punto, come detto, il primo giudice ha ritenuto di non pronunciarsi, essendo il relativo potere ancora esercitabile dal Comune di Modena, così dando ulteriormente per scontato che l’intera fattispecie sia da ricondurre all’interno della cornice delineata dall’art. 31 e non dall’art. 33 del T.u.e.
18.2. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale costituiscono dunque due distinte sanzioni, che rappresentano «la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla» (Corte cost., n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.).
Mentre la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive, per cui l’individuazione del suo destinatario comporta l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene; invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la correlata sanzione pecuniaria).
18.3. Le scansioni procedurali sintetizzate dall’Adunanza plenaria risultano dunque essere le seguenti: «[…] il responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze, sicché vanno distinte le seguenti fasi temporali:
   a) fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la demolizione, che, se viene posta in essere, evita il trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico;
   b) qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001);
   c) decorso il termine per demolire, qualora l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla ‘retrocessione’ del bene, né fa venire meno la sanzione pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione, nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla demolizione in danno
».
19. In linea generale, quindi, il proprietario non ha più alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella stessa.
Quanto alla possibilità di chiedere una sanatoria, l’art. 36, comma 1, del medesimo T.u.e., consente la presentazione della relativa istanza «fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative» e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero -nel caso in cui ciò non sia possibile- prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34.
20. Le possibili variabili a tale -condiviso- schema ricostruttivo generale conseguono alle difficoltà dei Comuni di dare seguito alle sanzioni ripristinatorie, come dimostrato dalla sempre denunciata scarsa incidenza casistica degli abusi concretamente demoliti rispetto a quelli effettivamente accertati.
Nella prassi, cioè, accade sovente che i provvedimenti ripristinatori rimangano lettera morta per incapacità, semplice inerzia, ovvero addirittura scelta consapevole dell’amministrazione procedente. La meccanicistica applicazione dei principi di diritto poc’anzi enunciati finirebbe dunque per determinare un incredibile quantitativo di situazioni nelle quali, a prescindere da qualsivoglia analisi del caso concreto, lo stato di diritto non corrisponde allo stato di fatto, a discapito delle più elementari esigenze di certezza delle situazioni giuridiche.
21. Vero è che la formulazione della norma non sembra lasciare spazio a momenti interruttivi della sequenza procedimentale che consegue all’avvenuta adozione dell’ingiunzione a demolire. Il Collegio ritiene tuttavia che l’effetto acquisitivo, seppure immediato, sia da considerare sottoposto ad una sorta di ineludibile condizione sospensiva, da ravvisare nel formale accertamento dell’inottemperanza, notificato «all’interessato» (art. 31, comma 4).
21.1. L’applicazione della sanzione ablatoria, peraltro, in ragione della sua massima afflittività, presuppone necessariamente l’apertura di una parentesi accertativa/informativa che da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento.
Essa risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante.
21.2. Il rispetto di tali scansioni procedurali, dunque, lungi dal costituire baluardo meramente formale strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi tutelati dal legislatore, ovvero la salvaguardia dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso ripristino spontaneo dello stato dei luoghi.
Il che poi, sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del manufatto abusivo.
Per pacifica giurisprudenza esso costituisce un mero atto istruttorio endoprocedimentale che precede il provvedimento vero e proprio costituente titolo «per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente»; ma a detto verbale di sopralluogo deve essere attribuito anche il valore corrispondente, mutatis mutandis, al verbale di contestazione dell’illecito ex art. 14 della l. n. 689 del 1981, stante che è solo a far data dallo stesso che il proprietario viene messo in condizione di chiarire la propria posizione, scongiurando l’effetto acquisitivo (ma non, ovviamente, quello demolitorio).
Solo così è possibile recuperare quel necessario elemento di raccordo tra i due snodi che tipicamente connotano ogni procedimento sanzionatorio, ovvero la fase affidata agli organi di vigilanza, deputata all’acquisizione di elementi istruttori, e la successiva, avente natura lato sensu contenziosa e decisoria, preordinata all’adozione, da parte dell’autorità titolare della potestà sanzionatoria, del provvedimento di irrogazione della stessa.
21.3. Nel contempo, le ricordate esigenze di certezza del diritto non possono tradursi in un effetto traslativo destinato a rimanere meramente virtuale ove non seguito, cioè, dai necessari e doverosi adempimenti formali.
Ritiene dunque il Collegio che l’operatività “di diritto” dell’effetto acquisitivo allo scadere dei 90 giorni dall’ingiunzione demolitoria vada intesa esclusivamente a favore del Comune, ponendo il proprietario in una situazione di mera soggezione rispetto alle scelte del primo, che non gli consente più di demolire spontaneamente, salvo il primo non glielo consenta, espressamente o tacitamente, non addivenendo alla formazione del titolo sempre necessario per dare luogo ad un cambio di proprietà.
21.4. È evidente al riguardo che ciò non esclude le eventuali responsabilità, penali, amministrativo-contabili e/o civili conseguente alla sostanziale rimessione in termini operata dal Comune nel momento in cui non dà seguito al procedimento sanzionatorio. Trattasi tuttavia di vicende estranee al perimetro del giudizio e comunque inidonee ad inficiare ex se il successivo procedimento amministrativo.
22. Ulteriore corollario di tali scelte gestionali è costituito dalla potenziale incidenza delle stesse sulla valutazione della “colpevolezza” del soggetto tenuto a rimuovere l’abuso. Anche a tale riguardo, va detto che l’Adunanza plenaria, nella pronuncia poc’anzi richiamata, seppure quasi come un obiter, ha individuato quale unica ipotesi di esclusione della imputabilità (non della colpevolezza, quindi) il caso, in verità alquanto di scuola, della «malattia completamente invalidante» ( § 19.6, della pronuncia n. 16 del 2023).
23. Ritiene il Collegio che se è lo stesso Comune ad aprire un dialogo con la proprietà, accedendo alle relative proposte e di fatto operando continue rimessioni in termini rispetto a quello normativamente previsto per l’ottemperanza, ridetta colpevolezza non può che essere esclusa.
23.1. Nel caso in esame, l’Amministrazione da un lato non ha mai inteso annullare in autotutela l’ordinanza del 1990 - revocata, a distanza di oltre trenta anni, con i provvedimenti impugnati; ma dall’altro non vi ha dato mai alcun concreto seguito, come avrebbe potuto –recte, dovuto– fare una volta passata in giudicato la sentenza n. 1507/2012 di questo Consiglio di Stato, che ha confermato la legittimità della denegata sanatoria.
Manca, dunque, un vero accertamento di inottemperanza: l’ammissione della stessa per tabulas nelle richieste di parte, dapprima di riesame, indi di sanatoria/legittimazione di una diversa modalità costruttiva, infine di fiscalizzazione, non è stata in alcun modo valutata dal Comune in relazione alla tempistica entro la quale l’abuso avrebbe dovuto essere demolito. Finanche la nota del 21.05.2014, di riscontro alla richiesta di parte del 02.04.2014, invocata dalle appellate a conferma delle proprie tesi, conferma la scelta del Comune di non dare seguito alla sanzione originariamente inflitta.
È vero, infatti, che in tale occasione il dirigente ha dichiarato non decaduto «nessun ordine di demolizione causa del parere della Commissione per qualità architettonica e il paesaggio del 14/03/2014 ove, a fronte di una Sua volontaria demolizione di quanto realizzato abusivamente. È stato proposto di valutare la possibilità di realizzare (dopo la demolizione dell’abuso), una struttura di tipo “ferro-finestra” per consentire il godimento del terrazzo prospiciente su piazza Pomposa»; salvo poi sollecitare la stipula di un accordo sostitutivo di provvedimento ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, con ciò riconducendo il problema del mantenimento o meno dello status quo al previo avallo degli altri condomini, non alle questioni ostative di natura urbanistica.
Lo stesso è a dire della successiva comunicazione del 30.07.2015, che in maniera ancora più ambigua “concede” «ulteriori 90 giorni, dal ricevimento della presente, per dar corso all’esecuzione dell’ordinanza di demolizione del 01.03.1990», sull’assunto che non è stato dato riscontro all’invito precedente.
La nota peraltro preannuncia, in caso di ulteriore inottemperanza, non la futura acquisizione del bene e dell’area di sedime, ma l’irrogazione aggiuntiva della (sola) sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, del T.u.e., «in considerazione del fatto che l’abuso ricade nelle aree di cui all’art. 27, comma 2, del citato D.P.R. 380/2001», senza peraltro precisare l’ipotizzata tipologia del vincolo, con ciò rafforzando tuttavia l’originario inquadramento dell’illecito nella fattispecie più grave.
24. Sotto tale profilo, dunque, è meritevole di positiva valutazione la contestata acquisizione del bene alla proprietà comunale (secondo motivo di appello, laddove si contestano i capi da 1.6 a 1.8, pag. 28-29), ripreso anche dal Comune di Modena, con argomentazione maggiormente perspicua.
25. Il Tar per l’Emilia Romagna, tuttavia, dopo essersi dilungato sulla tematica dell’automatica acquisizione del bene al patrimonio comunale, vi giustappone quella della ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’istituto della fiscalizzazione.
26. Con il termine “fiscalizzazione” dell’abuso, funzionale ad evidenziare sinteticamente e già a livello definitorio la sua sostanziale monetizzazione, si intende un rimedio alternativo eccezionalmente concesso in luogo della demolizione.
In particolare, si può accedere alla fiscalizzazione sia in caso di mancanza, totale difformità o variazione essenziale dal titolo riferito ad ristrutturazione edilizia (art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001); sia a fronte di accertata difformità solo parziale dal permesso di costruire (art. 34, comma 2, e 2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli interventi soggetti a s.c.i.a. alternativa al permesso di costruire di cui all’art. 23, comma 01); sia infine all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela, del titolo stesso (art. 38).
Ma non nell’ipotesi, più grave, di avvenuta realizzazione di una “nuova opera” in assenza di permesso di costruire o in totale difformità o variazione essenziale dallo stesso (art. 31).
27. Sul piano dei presupposti oggettivi, mentre nel caso di variazione essenziale o totale difformità ovvero di illiceità dell’intervento sopravvenuta all’annullamento del titolo si fa riferimento all’impossibilità di esecuzione, il cui accertamento motivato è demandato espressamente, almeno nella prima ipotesi, ai competenti uffici tecnici comunali (art. 33, comma 2); laddove si tratti di parziale difformità la stessa è limitata alla verifica dell’impatto sulla «parte eseguita in conformità», che non deve ricavarne pregiudizio.
27.1. Ad avviso del Collegio tale differenza, apparentemente minimale, costituisce un ulteriore tassello a riprova della proporzionalità del quadro delle reazioni dell’ordinamento rispetto al diverso disvalore degli illeciti: ferma restando la priorità sempre e comunque accordata all’opzione ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza della costruzione nel caso della variazione essenziale o totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona” del manufatto, in caso di difformità parziale dal titolo, prescindendo, solo in tale ultima ipotesi, dalla tipologia di intervento effettuato (che dunque può anche non essere una ristrutturazione).
27.2. Con riferimento agli immobili non vincolati ma ricompresi nelle zone omogenee A di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, la norma prevede un’ulteriore “variabile” procedimentale, ovvero la necessità del previo «parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria» a cura dell’«amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali».
28. Se si eccettua il caso dell’avvenuta caducazione del titolo, è dunque evidente che la fiscalizzazione costituisce un “castigo” alternativo alla demolizione solo laddove l’abuso sia per così dire parte di un tutto, che comunque il legislatore consente eccezionalmente di preservare: ciò avviene tipicamente sia nel caso in cui ci si discosti in maniera minimale dalle indicazioni del permesso di costruire, sia in quelle in cui, benché la divergenza sia corposa, si tratta comunque di un intervento su patrimonio edilizio preesistente.
29. Certo è che essa si basa su presupposti del tutto diversi da quelli che portano all’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile quale conseguenza dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire: e ciò per l’evidente ragione che la maggior gravità di queste ultime non consentono mai di tollerare il mantenimento in loco di situazioni di illecito permanente ritenute radicalmente in contrasto con esigenze di buon governo del territorio. Laddove ciò avvenga, infatti, deve trattarsi di una scelta funzionale all’interesse pubblico deliberato dall’organo legislativo del Comune, e successiva all’acquisizione della proprietà alla mano pubblica (art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001).
29.1. Rileva ancora il Collegio come tale eterogeneità contenutistica trovi piena conferma nelle differenze di declinazione dei relativi procedimenti sanzionatori: gli artt. 33 e 34 del T.u.e. non prevedono affatto la notifica dell’accertamento di inottemperanza per l’evidente ragione che ad essa non consegue la perdita della proprietà. L’iter si ricongiunge in tratti omogenei con riferimento alla demolizione, che nei casi più gravi è successiva all’acquisizione dell’opera, ma grava pur sempre sul Comune, seppure a spese dei responsabili dell’abuso.
30. La sentenza impugnata, in verità in assenza di una specifica censura sul punto, inquadra l’intervento come “nuova costruzione” e coerentemente ritiene non applicabile l’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non riferibile a ridetta tipologia di intervento edilizio, salvo poi precisare che in ogni caso la fiscalizzazione non avrebbe potuto intervenire essendo il bene ormai passato alla proprietà pubblica.
Su siffatto inquadramento «il Comune era privo di margini di apprezzamento, avendola il giudice amministrativo già qualificata come “nuova costruzione” (cfr. sentenza irrevocabile sez. II - 11/7/2003, par. 1-d)». Esso inoltre contrasterebbe con la giurisprudenza, richiamata allo scopo, che «[…] ritiene che debba essere classificata come nuova costruzione, non pertinenziale, anche una tettoia “che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa o di elevazioni dell’opera” (cfr. Tar Calabria-Reggio Calabria- 23/01/2023 n. 96, che evoca Consiglio di Stato sez. IV – 02/03/2018 n. 1309)».
31. Il Collegio non condivide la ricostruzione, ritenendo di accedere al riguardo alla diversa prospettazione fornita in merito dalla difesa civica.
Le argomentazioni dell’appellante, invece, in quanto fondate essenzialmente sulla ribadita attendibilità della documentazione concernente la preesistenza di un granaio che si sarebbe andato a ripristinare, già ritenuta inconferente sia dal Comune (con atti non impugnati), sia dal giudice civile, si palesano in parte qua prive di pregio.
D’altro canto, laddove l’Amministrazione avesse voluto rivedere anche le proprie originarie posizioni negative al riguardo, avrebbe dovuto rieditare tutti i precedenti dinieghi, a far data da quello del 30 ottobre 1989, per contro mai messo in discussione.
32. Il provvedimento datato 22.08.2022, oggetto di motivi aggiunti di ricorso, diversamente dal precedente, del 17.06.2019, inquadra espressamente l’opera «
nella categoria di intervento della ristrutturazione edilizia, nell’accezione di cui alle lett. d), comma 1, art. 31 Legge n. 457/1978, ora lett. d), comma 1, art. 3 DPR 380/2001 e lett. c), comma 1, art. 10 DPR 380/2001».
33. Il Collegio ritiene che l’inquadramento dell’abuso come ristrutturazione edilizia sine titulo, in quanto neppure fatta oggetto di censure di merito, non fosse in alcun modo preclusa dal precedente giudicato amministrativo.
La scarna motivazione ricavabile dalle sentenze del Tar per l’Emilia Romagna n. 755 del 1990 e n. 756 del 1990, confermate dall’altrettanto sintetica pronuncia del Consiglio di Stato n. 5707 del 2012, infatti, pare piuttosto arrestarsi ai limiti della relativa questione, non prendendo una vera e propria posizione in termini di inquadramento sistematico.
Nella prima, in particolare, avente ad oggetto proprio il diniego di sanatoria del 30.10.1989, il richiamo è all’art. 14 delle allora vigenti n.t.a. che vietano «ogni costruzione, anche di carattere provvisorio», così creando quel vincolo di inedificabilità assoluta sull’immobile ostativo al rilascio della sanatoria ex art. 33, lett. a) della l. n. 47 del 1985.
Analoga argomentazione è contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato, ove in maggior dettaglio si precisa come la «sostanziale sopraelevazione dell’edificio e […] costruzione di un nuovo vano» implica l’operatività del richiamato vincolo di inedificabilità, che seppure contenuto nella pianificazione urbanistica, esclude la condonabilità ai sensi della norma poc’anzi richiamata.
La disciplina urbanistica, cioè, ammettendo sul fabbricato esclusivamente il risanamento conservativo, non consentiva alcun tipo di incremento volumetrico, automaticamente riconducendo lo stesso a “nuova” costruzione, come tale vietata. La dicitura “nuova costruzione”, cioè, pare effettivamente utilizzata in accezione atecnica, comunque sufficiente a motivare la reiezione di quello specifico ricorso.
34. D’altro canto, al momento della sua realizzazione era operante la sola previsione di cui all’art. 31 della l. n. 457 del 1978 -non a caso richiamato esso pure nelle premesse all’atto impugnato nella versione del 2022- che ha per la prima volta avocato alla potestà statale ambiti lasciati fino ad allora alla libera interpretazione delle norme tecniche e dei regolamenti edilizi comunali.
Va peraltro ricordato che già dalla seconda metà degli anni ´80 -ferma restando la definizione di legge- si era riscontrata finanche una frattura fra l’orientamento della giustizia amministrativa e quello della giustizia penale in quanto la prima riconosceva la possibilità nella ristrutturazione di aggiungere anche un quid novi e cioè incrementi volumetrici dell’edificio preesistente, laddove la seconda lo negava in maniera tassativa.
34.1. D’altro canto proprio la ristrutturazione edilizia, la cui definizione è ora contenuta nella lettera d) del comma 2 dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha subito nel tempo una storia travagliatissima, tanto da costringere l’interprete ad una faticosa opera di “ortopedia” e lettura sinottica delle diverse disposizioni che si sono succedute nel tempo al fine di stabilire quali fra gli interventi rientranti nella detta definizione siano oggi subordinati a permesso di costruire e quali possano invece essere realizzati con semplice s.c.i.a.
La norma, in verità, nella sua formulazione originaria, riprendeva e precisava in chiave fortemente limitativa- in quanto imponeva la «fedele ricostruzione» con «identicità» di «sagoma, volume, sedime e materiali»- quella del 1978, tant’è che da subito è stata oggetto di novelle caratterizzate da aperture sempre più sviluppate.
34.2. Da ultimo, con la legge di conversione 15.07.2022, n. 91, del decreto legge 17.05.2022, n. 50, c.d. decreto “Aiuti”, vi sono state ricomprese anche le tipologie di interventi demo-ricostruttivi “non fedeli” ricadenti in area vincolata che il legislatore aveva nelle precedenti modifiche continuato a riservare alla diversa categoria della nuova costruzione.
35. Una volta ammesso dunque l’inquadramento della fattispecie come ristrutturazione edilizia, viene meno qualsivoglia astratta possibilità di ipotizzare la perdita della proprietà, che comunque il Comune espressamente esclude nell’atto impugnato, in maniera tuzioristica, attribuendosi la scelta di avere valutato favorevolmente il fattivo contributo della proprietaria, escludendone la volontaria e quindi colpevole inottemperanza.
36. Il Collegio non ritiene comunque di addivenire ad una soluzione diversa da quella propugnata dal primo giudice, ancorché mutandone la motivazione, giusta il sostanziale sviamento da parte del Comune dal potere sanzionatorio del quale è titolare in materia urbanistico-edilizia.
37. Prive di pregio si palesano innanzi tutto le ulteriori censure dell’appellante, atte a valorizzare il contenuto dei vari pareri della Commissione comunale: essi, infatti, non solo «urtano frontalmente», come riportato dal Tar contro le statuizioni del giudice civile sul nocumento estetico al fabbricato; ma soprattutto attengono ad un mero giudizio di valore, basato cioè sulla personale opinione di quell’organo, privo di specifica competenza in materia di tutela vincolistica, circa l’opportunità di non modificare lo stato dei luoghi, in base ad un costrutto, più empirico che giuridico, che nel dubbio tende a considerare il rimedio (ovvero la demolizione) peggiore del male (la conservazione dell’illecito).
Anche a non voler considerare l’innegabile incoerenza evolutiva degli stessi, che hanno valutato senza soluzione di continuità richieste di riesame di un procedimento sanzionatorio ormai concluso, proposte edificatorie alternative alla demolizione, ovvero (ri)proposte sub specie di s.c.i.a. (laddove per dare esecuzione ad una demolizione non è evidentemente necessario alcun titolo, né è pensabile inserire in tale fase una anomala legittimazione sanante di porzione di illecito, in deroga alla -per quanto consta in atti- immutata disciplina urbanistica sul punto), essi non attengono agli aspetti tecnico-strutturali dell’edificio.
Trattasi cioè di una valutazione “a tavolino” che nulla ha a che vedere con il doveroso accertamento dell’impossibilità, sotto il profilo tecnico, di addivenire a demolizione, richiesto dalla norma in termini generali. La circostanza che manchi un’indicazione espressa in tal senso, non significa che alla disposizione possa attribuirsi un senso diverso da quello fatto palese dal sistema, per come sopra delineato, che vede nella monetizzazione dell’abuso un rimedio di natura eccezionale e derogatoria alla normalità del ripristino.
Non a caso, la differenza sostanziale tra le varie ipotesi di fiscalizzazione degli abusi va ravvisata negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera, sanata solo caso in cui essa consegua all’annullamento del titolo edilizio, cui parte della dottrina accomuna al più le “monetizzazioni” pure alternative alla demolizione di cui agli artt. 36-37 del T.u.e. (v. Cons. Stato, A.P., 07.09.2020, n. 17).
Nelle rimanenti ipotesi invece, in assenza di indicazione da parte del legislatore analoga a quella contenuta nell’art. 38, comma 2, del T.u.e, dopo non poche oscillazioni interpretative, la giurisprudenza è attestata nell’escludere la portata sanante del pagamento della sanzione, ravvisandovi piuttosto una sorta di tolleranza formalizzata di una situazione non conforme ad ordinamento, come tale da circoscrivere a situazioni di effettiva e oggettiva impossibilità di ripristino.
37. D’altro canto, neppure attingendo alla ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 33 può salvaguardarsi il procedimento seguito.
Va infatti ricordato che in caso di opere eseguite su immobili vincolati (comma 3) non è ammessa alcuna fiscalizzazione, dovendo l’amministrazione competente a vigilare sull’osservanza del vincolo ordinare sempre la restituzione in pristino, indicando criteri e modalità per la relativa effettuazione.
Nel caso invece di opere eseguite su immobili, anche non vincolati, ubicati nei centri storici, la individuazione della tipologia di sanzione da applicare, reale o pecuniaria, spetta all’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ed ambientali, che si esprime mediante un parere vincolante.
Tale tipologia di atto, per il suo contenuto, ha valenza sostanzialmente decisoria, il che implica che il Comune deve attenersi a quanto stabilito dalla suddetta amministrazione. Esclusivamente nel caso in cui il parere non venga reso entro il termine previsto, la competenza si trasferisce all’amministrazione comunale.
37.1. Anche a voler ritenere la richiesta da parte del dirigente comunale del tutto sganciata da una preventiva valutazione tecnica di fattibilità, comunque condizionante il successivo parere, dalla stessa non è certo possibile prescindere laddove si addivenga ad una decisione tutta interna al Comune, possibile solo dopo avere interpellato le Soprintendenze.
38. Il Collegio ben conosce al riguardo il diverso orientamento (invero risalente) del Consiglio di Stato secondo il quale in mancanza di uno specifico regime vincolistico sul bene, l’intervento della Soprintendenza per i beni storici e paesaggistici non potrebbe ammettersi se non nei casi e nei limiti previsti dalla legge (Cons. Stato, sez. VI, 24.02.2014, n. 855).
Quanto detto sia in ragione dell’immediato superamento dello stesso da altro di senso diametralmente opposto (Cons. Stato, sez. VI, 10.03.2014, n. 1084), cui il Collegio aderisce, sia in quanto nel caso di specie è proprio il legislatore ad avere preteso, giusta il potenziale impatto di un intervento demolitorio, anche singolo, all’interno di un centro storico, che la scelta (di ripristino, solo se tecnicamente possibile, ovvero di mantenimento, a prescindere dalla fattibilità) sia rimessa all’Autorità preposta alla tutela di un vincolo, ancorché formalmente non imposto.
D’altro canto, la affermata insanabilità dell’opera di cui all’originario provvedimento del 1989, si fonda proprio sulla assimilazione, quanto meno con riferimento al regime degli illeciti, tra regime vincolistico e regime di inedificabilità imposto dalla disciplina urbanistica.
38.1. Introducendo un autonomo concetto giuridico, anziché pratico/tecnico, di impossibilità demolitoria, invece, e nel contempo avocando ad un proprio organismo consultivo l’espressione della scelta tra demolizione e monetizzazione, sulla base di un giudizio di valore che non tiene alcun conto dei precedenti giudicati sul punto, il Comune di Modena ha violato l’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, come lamentato dalle appellate nei motivi 2.4 e 2.5 del ricorso di primo grado (riproposti come motivo aggiunto 3.0, che richiama gli originari 2.4 e 2.5, nonché, in quanto fonte di vizio autonomo, nei motivi aggiunti 3.2 e 3.5).
Applicando la regola generale, infatti, avrebbe dovuto far verificare dai propri uffici tecnici la fattibilità del ripristino; applicando invece quella specifica dettata per i centri storici, previa istruttoria finalizzata comunque ad accertare la fattibilità tecnica del ripristino, avrebbe dovuto acquisire il preventivo parere della Soprintendenza, quale unico soggetto munito della richiesta terzietà per evitare la demolizione, seppure concretamente eseguibile, a tutela dell’assetto complessivo dei luoghi. Tertium non datur.
39. Né infine a diverse conclusioni può condurre l’enfatizzata difficoltà di individuazione dello “stato legittimato preesistente” stante che la relativa dizione non può far retroagire ad libitum l’individuazione della consistenza di un immobile, finendo per consentire la eventuale stratificazione di abusi edilizi che si sono succeduti nel tempo dopo l’originaria edificazione del manufatto principale.
40. Tale indebita lettura dello “stato legittimato” contrasta peraltro anche con la definizione datane di recente dal legislatore.
40.1. Lo “stato legittimo” dell’immobile, infatti, è oggi declinato nel comma 1-bis, inserito nell’art. 9-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 dal d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120 -dunque dopo l’adozione del primo provvedimento impugnato, ma prima del successivo– che lo individua in «[…] quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia».
La disposizione, già sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, è stata ritenuta rispettosa del riparto costituzionale in materia edilizia in quanto si limita ad individuare, in termini generali, la documentazione idonea allo scopo, definendo i tratti di un paradigma le cui funzioni –comprovate dai lavori preparatori– sono quelle di semplificare l’azione amministrativa nel settore, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili.
«Il contenuto prescrittivo di ampio respiro e le finalità generali perseguite dalla norma depongono a favore della sua qualifica in termini di principio fondamentale della materia, ciò che trova conferma nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle “Disposizioni generali” del Titolo II della Parte I t.u. edilizia, dedicato ai “Titoli abilitativi”» (Corte cost., 14.09.2022, n. 217).
40.2. Lo “stato legittimo dell’immobile”, dunque, riguarda una sua condizione permanente, preesistente alla stessa entrata in vigore della disposizione, da riferire a opere realizzate prima del 1967, ovvero in epoca ancor più risalente, nei centri urbani poi dotatisi di un regolamento che richiedeva la licenza edilizia per l’edificazione, o per cui esiste solo un principio di prova di un titolo edilizio, il cui originale o la cui copia non è più rintracciabile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2023, n. 3006; sez. II, 15.09.2023, n. 8339).
40.3. Laddove tuttavia, come nella specie, un titolo edilizio esiste ed è proprio lo “scostamento” dallo stesso e la sua richiesta di sanatoria che ha cagionato l’attivazione del procedimento sanzionatorio, è di tutta evidenza che “scavalcarlo”, cercando di immaginare la situazione allo stesso preesistente non è in alcun modo ipotizzabile, salvo introdurre una forma di improprio e generalizzato condono di tutte le modifiche intervenute medio tempore, legittimate o meno.
41. Il Comune di Modena, facendo leva sulla mancata descrizione di tale “fantomatico” stato dei luoghi legittimato, cui ricondurre il ripristino della copertura, nell’ambito dell’ingiunzione a demolire del 1990, lo ha elevato a elemento essenziale della stessa. Con ciò pretermettendo che nella specie l’abuso non è consistito nella realizzazione di un’opera ex novo, bensì conseguito al rigetto di una sanatoria: ed è il contenuto di tale richiesta ad indicare, partendo dallo stato di fatto che si pretendeva di legittimare, lo sconfinamento rispetto al titolo rilasciato (l’autorizzazione del 1983).
Va dunque condivisa l’affermazione del Tar per l’Emilia Romagna laddove evidenzia che la controversa consistenza del palazzo negli anni 1926/1927 non inficia la certa realizzazione nel 1983 di una copertura dapprima inesistente, tant’è che la proprietà aveva informato del relativo progetto l’assemblea condominiale, subordinandone la realizzazione all’avallo comunale.
42. All’accoglimento delle (correttamente) riproposte censure di cui ai motivi aggiunti 3.0 e 3.5, non esaminate dal primo giudice, consegue la conferma della sentenza del Tar per l’Emilia Romagna, n. 67 del 06.02.2023, con diversa motivazione, e il conseguente annullamento dei provvedimenti del Comune di Modena del 17.06.2019 e del 22.08.2022.
Essi infatti sono stati adottati in violazione dell’art. 33, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, non risultando accertata dagli uffici tecnici comunali l’impossibilità della demolizione, presupposto indefettibile della fiscalizzazione dell’abuso, in alcun modo surrogabile da giudizi di valore espressi dalla competente Commissione sulla qualità architettonica e il paesaggio, giusta la competenza in merito della Sola Soprintendenza (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 22.01.2024 n. 806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Natura e presupposti della revoca di un beneficio economico già concesso.
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Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo – Revoca – Autotutela - Sanzione.
La revoca di un beneficio economico è espressione del potere di vigilanza accordato alla p.a. preposta alla relativa elargizione e, al pari della decadenza disposta dal G.S.E. in materia di energie alternative, ha tratti comuni con l’autotutela e con l’omonimo atto sanzionatorio ma se ne distingue in ragione di tale esplicitata finalizzazione (1).
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Contributi e finanziamenti – Atto amministrativo – Procedimento in genere – Correttezza e buona fede – Revoca – Termine.
La reciprocità degli obblighi di correttezza tra privato e p.a. impone al primo di fornire le informazioni richieste in maniera chiara ed esaustiva ma non consente alla seconda di intervenire sine die contestando la validità di documentazione il cui controllo avrebbe potuto essere effettuato nell’immediato.
Il potere di controllo è infatti strumentale alla corretta elargizione di danaro pubblico, ma senza perdere di vista la finalità del beneficio di incentivare determinate iniziative in quanto rispondenti a finalità di pubblico interesse, spesso oggetto di tutela anche a livello eurounitario.
Pertanto, ove esercitato senza tenere conto delle aspettative generate nel privato che ha fatto affidamento sulla correttezza dell’operato della p.a., che pur essendo in condizione di farlo, non gli ha eccepito alcunché, adottando anche atti o tenendo comportamenti indicativi di una valutazione positiva dell’iniziativa, esso è affetto da sviamento rispetto alle finalità pubbliche per le quali è stato conferito (2).

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   (1) Conformi: Cons. Stato, Ad. plen., n. 18 del 2020.
         Difformi: non risultano precedenti difformi.
   (2) Non risultano precedenti in termini
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2024 n. 688 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
8. Nel merito, l’appello è fondato per le ragioni di seguito esplicitate.
9. Innanzi tutto, il Collegio ritiene necessario inquadrare il provvedimento adottato, denominato di “revoca” di un beneficio economico in precedenza concesso, ancorché non ancora erogato.
10. In relazione a tale ambito, di regola con il relativo nomen iuris il legislatore indica l’atto caducatorio, distinto dall’esercizio della vera e propria autotutela, col quale si dà attuazione al potere di vigilanza conferito strumentalmente all’amministrazione preposta all’elargizione di risorse pubbliche per finalità via via individuate come meritevoli dalla normativa di settore.
I tratti distintivi della decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili disposta dalla Società gestrice dei relativi servizi (G.S.E.), in qualche modo contenutisticamente assimilabile, sono stati individuati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, distinguendoli per un verso dall’irrogazione della sanzione e per l’altro, appunto, dall’annullamento d’ufficio ex art. 21-novies della l. n. 241 del 1990 (Cons. Stato, A.P., 11.09.2020, n. 18).
La revoca, infatti, consegue alla riscontrata necessità da parte della p.a. concedente di procedere al recupero o alla mancata liquidazione in concreto di erogazioni in generale, in particolare se si tratta di agevolazioni di diritto UE, erroneamente accordate in assenza del presupposto che le legittimava ab origine.
Trattasi cioè dell’esercizio di un potere vincolato, che elide ex tunc il beneficio assentito sine titulo, sulla base del dato oggettivo della riscontrata violazione della normativa di regolazione del settore senza che ne rilevi lo stato soggettivo del beneficiario, emergendo quindi preminente l’esigenza per la pubblica amministrazione che neppure deve motivare specificamente le ulteriori ragioni d’interesse pubblico concreto e attuale o di comparazione con quello del debitore, anche quando questi sia in buona fede, circostanza destinata caso mai ad assumere rilievo in relazione al quomodo del recupero, non certo nell’an (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2018, n. 6659 e 30.05.2017, n. 2614).
9.1. L’esercizio di tale potere, cioè, in quanto privo di spazi di discrezionalità perché non rivolto al riesame della legittimità di una precedente determinazione amministrativa di carattere provvedimentale, ma finalizzato al controllo circa la veridicità e la completezza delle dichiarazioni formulate da un privato nell’ambito di un procedimento volto ad attribuire sovvenzioni pubbliche, esula in radice dalle caratteristiche proprie degli atti di autotutela e dall’applicabilità dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
A maggior ragione, non è configurabile alcun affidamento in capo al privato che abbia formulato dichiarazioni incomplete o non rispondenti all’effettivo stato dell’impianto e delle sue componenti, pur in assenza di ogni valenza penalistica di tale condotta.
10. Nelle procedure ad evidenza pubblica, infatti, quale che ne sia l’oggetto specifico, la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire perché consente, anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità, la celere decisione in ordine all’ammissione del privato, in particolare se operatore economico, per il quale il fattore tempo assume rilievo anche in termini concorrenziali, alla selezione.
11. Il procedimento configura cioè in capo al singolo obblighi di correttezza, specificati con il richiamo alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell’autoresponsabilità, che rinvengono il loro fondamento sostanziale negli artt. 2 e 97 della Costituzione e che impongono che egli assolva oneri di cooperazione, quale appunto è il dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di compilare moduli, di presentare la prescritta documentazione, ecc., di regola secondo il paradigma della dichiarazione sostitutiva di cui al d.P.R. n. 445/2000.
Conseguentemente, ove l’adempimento informativo, per come esplicitato a monte, sia stato evaso in maniera non corretta o non veritiera, tale mancanza non può formare oggetto di domanda d’integrazione o di richiesta di acquisizione a carico della P.A. in base al cd. “obbligo di soccorso” ex art. 6 della l. n. 241/1990, prima ancora che in base alla legislazione speciale sulla contrattualistica pubblica.
12. Rileva tuttavia il Collegio come tali principi non possano non incontrare un limite nelle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, e, soprattutto, nell’affidamento che il privato in buona fede ripone sulla correttezza dell’operato della p.a.
Lo stillicidio di richieste istruttorie che caratterizza troppo spesso la prassi operativa delle amministrazioni pubbliche, finanche laddove un mero screening preventivo della domanda ne consentirebbe da subito l’inquadramento in termini di adeguatezza e completezza, è d’altro canto alla base del lamentato fallimento di tutti i tentativi di semplificazione posti in atto dal legislatore, stante che è proprio su tale rilievo, vero o presunto, che si fonda la mancata decorrenza, ad esempio, dei tempi di controllo della regolarità di una s.c.i.a. ovvero di maturazione di un silenzio-assenso.
13. Vero è che laddove le verifiche attengano all’erogazione di risorse pubbliche il particolare rigore richiesto non può che risolversi in una maggior tolleranza in ordine alle tempistiche di verifica. Ma è evidente che le stesse, finanche nel caso in cui ammesse sine die dalla legislazione di settore (si pensi, ad esempio, a quanto prescritto, sempre in materia di incentivi in ambito energetico, dall’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011, per come interpretato dalla già richiamata pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato), non possono consentire ad libitum adempimenti meramente formali riducibili a semplici riscontri empirici, quali quelli consistenti nella “spunta” delle produzioni, ovvero nella verifica di rispondenza delle stesse ad ulteriori prescrizioni esteriori.
Ne consegue che, ad esempio, la carenza di allegazioni documentali non espressamente richieste e rivelatesi rilevanti ex post per supportare le dichiarazioni dell’istante, non può essere utilizzata a distanza di tempo per confutarne le deduzioni in quanto non documentate nella maniera pretesa.
Ciò laddove manchi una esplicitazione comprensibile ed inequivoca nel senso della loro necessità, ovvero laddove il comportamento dell’Amministrazione successivo al loro dichiarato scrutinio abbia confortato l’utente nel senso della efficacia/regolarità delle indicazioni fornite, rafforzandone l’affidamento. In tale ultima ipotesi, infatti, se non sono stati avanzati dubbi o richieste di chiarimenti ulteriori, per non tenere conto di quelli che le sono stati forniti l’amministrazione dovrà evidentemente motivarne la obiettiva inadeguatezza.
14. In altri termini, la ricerca del doveroso punto di equilibrio tra tutela dell’erario e affidamento del privato che sulla base della preventivata acquisizione di risorse ha concretamente investito in un’attività imprenditoriale, confidando nel recupero ancorché parziale delle spese affrontate, risiede nella declinazione di un efficace sistema di controlli e verifiche da parte dell’amministrazione. Esso cioè deve essere volto a scongiurare o quantomeno attenuare gli effetti gravemente afflittivi dei provvedimenti di decadenza/revoca sin da subito, ovvero in un tempo ragionevole necessario per l’effettuazione di verifiche di esclusiva natura documentale, adottabili, in quanto non presupponenti complesse verifiche ispettive, ad esempio circa la rispondenza dello stato dei luoghi a quanto dichiarato dall’istante.
Salvo evidentemente, come già precisato, l’ipotesi in cui emerga la non veridicità delle affermazioni del privato richiedente, che non può fondarvi alcun affidamento rispetto al conseguimento di un beneficio pubblico formalmente già concesso (Cons. Stato, A.P., 29.11.2021, n. 21), per superare la tutela dello stesso è sempre necessaria una qualche motivazione dell’interesse pubblico.
14. In sostanza, nel caso di esercizio del potere di disporre la decadenza o la revoca per assenza dei necessari presupposti degli incentivi, il legittimo affidamento presuppone che la causa di illegittimità o irregolarità -che ha portato all’esercizio del suddetto potere- non sia nota o comunque conoscibile sulla base dell’ordinaria diligenza dal privato che confida nella stabilità degli atti posti in essere dall’amministrazione.
Nel caso di specie, la cronologia delle fasi procedimentali, una volta esclusa la declaratoria di circostanze false, depone nel senso della necessità di dare rilievo a tale affidamento, ingenerato proprio dalle modalità dei controlli posti in essere dalla Regione Calabria.
Lo sviluppo del procedimento in senso formalmente rassicurante, infatti, conseguito proprio ad approfondimenti specifici sul punctum pruriens della controversia (la dimostrata disponibilità della titolarità del bene in conformità alle clausole contrattuali) non consente di ritenere il privato assoggettato ad libitum a ripensamenti circa la completezza ed adeguatezza dell’istruttoria effettuata.
15. A conferma di tale conclusione si pone da ultimo la modifica normativa apportata all’art. 1 della l. 07.08.1990, n. 241, mediante l’inserimento del comma 2-bis ad opera della l. 11.09.2020, n. 120, di conversione del d.l. 16.07.2020, n. 76, ai sensi del quale «i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede».
La disposizione ha legificato espressamente, rafforzandone la preesistente positivizzazione, anche alla luce dei principi di derivazione europea, il dovere di comportamento di buona fede da parte dell’amministrazione quale fondamento giustificante il formarsi di legittime aspettative in capo al privato. Quanto detto non senza ribadire che il dovere di collaborazione e buona fede è bilaterale, ponendosi un obbligo di diligenza anche in capo al privato, il cui affidamento deve quindi necessariamente risultare incolpevole, come più volte precisato.
16. A conclusioni favorevoli all’appellante può tuttavia giungersi a maggior ragione ove si acceda alla tesi che nel caso di specie la Regione Calabria abbia esercitato il proprio potere di autotutela sub specie di annullamento d’ufficio, cui consegue da un punto di vista fattuale, prima che giuridico, la “revoca” del contributo concesso.
17. In generale, va da sé, infatti, che nell’esplicare l’attività di controllo sulla correttezza dei presupposti di erogazione dei benefici economici, l’Amministrazione si avveda di un proprio precedente errore valutativo, al quale intenda porre rimedio. Il confine tra i due istituti (revoca quale conseguenza dei poteri di controllo postumo del possesso dei requisiti e annullamento d’ufficio della concessione degli stessi) nella prassi non è affatto netto, stante che le amministrazioni tendono ad utilizzare le ragioni del secondo per supportare il primo, superando i limiti, di tempo e di contenuto, sottesi all’esercizio dell’autotutela.
18. È chiaro infatti che ove si attinga alla categoria concettuale dell’annullamento d’ufficio, occorre anche garantire il rispetto di tutti i presupposti cui il legislatore ne condiziona l’utilizzabilità, quali in primo luogo il rispetto di un termine «ragionevole», da ultimo quantificato in dodici mesi dall’adozione dell’atto, indi la esplicitata comparazione tra l’interesse pubblico all’annullamento e quello al mantenimento del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario dello stesso.
19. La sentenza impugnata, pur omettendo totalmente l’essenziale passaggio sistematico sotteso all’inquadramento del provvedimento avversato, pare ricondurlo a ridetta categoria concettuale, giusta l’insistito richiamo ai principi di cui all’art. 21-octies, comma 2 e art. 21-novies.
A ben guardare, anzi, la affermata natura necessitata dell’atto, tale da rendere inutile qualsiasi apporto contributivo da parte del destinatario, evoca ancor più specificamente quella species dell’autotutela comunemente denominata come “doverosa” ancorché parziale, che trova fondamento proprio nella riscontrata falsità delle dichiarazioni del richiedente l’atto annullato (sul punto, si veda Cons. Stato, sez. II, 02.11.2023, n. 9415, ai cui principi si intende fare integrale richiamo).
Ma anche in tale specifica ipotesi, l’attenuazione dell’onere motivazionale consegue proprio alla richiamata falsità, di per sé sufficiente ad esplicitare il pubblico interesse alla rimozione dell’atto. Come pure precisato dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, infatti, l’erronea prospettazione, da parte del privato, delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare una sua posizione di affidamento, con la conseguenza che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (Cons. Stato, A.P. 17.10.2017, n. 8).
«L’interesse pubblico all’eliminazione, ai sensi dell’ art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 , di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente» (così TAR Salerno, sez. II, 05.01.2021, n. 18, richiamata da Cons. Stato, sez. VI, 06.07.2023, n. 6615).
20. Nel caso di specie, tuttavia, il provvedimento impugnato non reca alcun richiamo a tale presunta falsità, introdotta nel procedimento di primo grado dalla difesa della regione ed avallata dal Tar per la Calabria, con ciò dando luogo ad un’inammissibile integrazione postuma della motivazione dell’atto impugnato, basata esclusivamente sulla asserita violazione formale dell’art. 4 dell’avviso pubblico. Sicché neppure potrebbe dirsi soddisfatto quel minimo di obbligo motivazionale che consente, in ragione della gravità dei presupposti dell’esercizio dell’autotutela, di limitarsi a tale emblematico richiamo.
21. A ben guardare, anzi, la Società ha da subito documentato la propria (ritenuta) disponibilità del fabbricato giusta la scrittura privata allegata alla domanda, nonché ribadito tale impostazione reiterando la produzione documentale in riscontro alla specifica richiesta di integrazione istruttoria avente ad oggetto proprio la produzione del «titolo di proprietà» (richiesta della Regione del 27.07.2015, riscontrata il 24.08.2015).
In alcun modo, dunque, ha artefatto la descrizione della propria situazione in concreto riferita al bene, o, peggio ancora, falsificato la documentazione de qua. Il Collegio non rileva infatti l’adombrata divergenza tra il negozio prodotto nel corso di procedimento e quello acquisito successivamente dall’Agenzia delle Entrate competente per territorio, debitamente interpellata in merito – che peraltro, ove sussistente, avrebbe dovuto risolversi in un’informativa alla competente Procura della Repubblica, di cui non è traccia in atti.
L’unica differenza “grafica”, infatti, riguarda l’assenza del timbro a secco recante la data di protocollazione in entrata da parte di ridetta Agenzia nella produzione procedimentale (04.10.2014), che tuttavia sembra piuttosto da ascrivere ad un’omissione dell’ufficio, dato che coincidono sia il numero di protocollo che il nominativo della funzionaria.
Individuare in tale carenza “grafica” un intento truffaldino su un elemento che avrebbe potuto essere riscontrato immediatamente coinvolgendo l’Agenzia delle entrate, senza attendere di esservi indotti dall’esposto successivo, non solo non appare plausibile, ma neppure risulta da un qualche passaggio narrativo nell’atto impugnato.
22. Degna di rilievo appare piuttosto la rettifica informativa da parte dell’Agenzia, che nel trasmettere la certificazione dell’iscrizione al Comune, ne corregge l’indicato codice identificativo per tipologia di operazione compiuta, riportandolo alla registrazione di un preliminare di vendita e non di un acquisto definitivo, come rappresentato dall’amministrazione.
Ciò conferma ulteriormente o un’istruttoria negligente, e come tale non recuperabile in maniera postuma a discapito del beneficiario di buona fede senza evidenziarne i passaggi motivazionali, ovvero, più plausibilmente, la ritenuta coerenza originaria dell’atto prodotto con le finalità della clausola, salvo valorizzarne, ex post, la diversa stesura letterale, per come “attenzionata” dall’associazione denunciante.
22.1. Vero è che la scrittura privata del luglio 2014 presenta molteplici profili di ambiguità contenutistica, stante che in alcuni passaggi parla di vera e propria vendita, utilizzando il relativo verbo all’indicativo presente («vendono», appunto), in altri si pronuncia al futuro laddove parla di «fabbricato promesso in vendita» ovvero del prezzo per la «futura vendita». E tuttavia nessun chiarimento né sulla sua esatta portata, né sulla sua avvenuta registrazione è stato richiesto dalla Regione fino all’attivazione del procedimento di revoca.
23. Il Collegio ritiene superflua un’esegesi puntuale della portata letterale dell’art. 4 del bando, in particolare ove incentrata, come pure pretenderebbe l’appellante, sull’esatta estensione dell’ambito oggettivo della sua operatività, tratto dalla terminologia (sicuramente non rispondente alla lettera al quadro definitorio riveniente dal d.P.R. n. 380 del 2001, Testo unico dell’edilizia) con la quale vengono individuati gli interventi oggetto delle progettualità presentate (rispettivamente, nuova costruzione e ricostruzione previa demolizione alla lettera a) e recupero alla lettera b).
Ciò che viceversa appare dirimente nel caso di specie è che
24. Ciò in quanto, come ampiamente chiarito, la Regione Calabria non solo non ha eccepito alcunché in sede di scrutinio originario della domanda; ma neppure lo ha fatto all’esito dell’istruttoria mirata sul punto. I successivi controlli, egualmente con esito positivo, sono successivi a tale integrazione documentale: in particolare l’approvazione del QTE risale al 02.11.2015, quando cioè qualsivoglia dubbio residuo avrebbe dovuto essere necessariamente chiarito.
In tale atto peraltro nel richiamare nuovamente l’art. 14 dell’avviso, laddove si ricorda che l’erogazione delle somme concesse è subordinata alla verifica del possesso dei requisiti di ammissibilità, la Regione fa opportuno riferimento alle sole anomalie riscontrate in sede di esecuzione dei lavori per controllare la rispondenza tra quanto dichiarato negli elaborati progettuali e quanto effettivamente realizzato.
Ciò non poteva non far presumere esaurito il controllo di tipo documentale, con il supporto peraltro di apposita commissione nominata all’uopo a supporto del RUP, e quindi doverosa la motivazione delle ragioni sottese alla sua riedizione, alla luce dell’affidamento nel frattempo ingenerato nella controparte e del contenuto delle osservazioni presentate in risposta alla comunicazione di avvio del procedimento.
25. A conclusioni non dissimili deve pervenirsi laddove si acceda alla diversa tesi dell’avvenuto esercizio del potere di annullamento d’ufficio. Una volta escluso, in quanto né esplicitato in motivazione, né dimostrato in atti, che vi sia stata una falsificazione documentale per la quale va ribadito l’obbligo di informativa all’Autorità giudiziaria ordinaria, non possono trovare applicazione le agevolazioni procedurali sottese all’esercizio dell’autotutela doverosa, che peraltro non implicano, come chiarito, la totale assenza dell’onere motivazionale.
La discrezionalità intrinseca dell’annullamento in autotutela, dunque, non consente di derubricare a mero vizio di forma la mancata valutazione delle osservazioni di parte conseguite a inoltro del preavviso, stante che le stesse attengono proprio alla adeguatezza della produzione documentale, sia in termini formali, sia per la loro ravvisata non ostatività, alla luce della ratio della clausola e della sua lettura necessariamente orientata a principi di massima partecipazione, intrinseci alla tipologia di selezione in atto.
Le (presunte) sopravvenienza fattuali, ovvero l’esposto dell’associazione e i riscontri avuti circa l’obiettività dello stesso dall’Agenzia delle entrate, nulla aggiungono alla qualificazione delle dichiarazioni dell’Impresa come false.
26. Anche senza approfondire lo scrutinio di lamentata illegittimità della clausola contrattuale stessa, infatti, se letta nell’accezione propugnata dalla Regione, certo è che il documentato e comunicato avvio dei lavori riferito ad un’opera, riconosciuta come di interesse pubblico, dimostra per tabulas l’avvenuto soddisfacimento di quella acquisizione di disponibilità che la norma voleva garantire, ove non fosse sufficiente allo scopo l’avvenuta registrazione dell’atto nell’ottobre del 2014, cioè a distanza di poco più di due mesi dalla scadenza del termine di presentazione della domanda. Le esigenze di par condicio sottese invece al formale rispetto della clausola restrittivamente intesa non essendo state fatte valere a tempo debito avrebbero dovuto essere espresse nella motivazione dell’atto in comparazione con l’interesse dell’operatore economico alla conservazione degli effetti del beneficio ottenuto.
27. Vuoi, dunque, che la Regione Calabria abbia fatto uso del proprio potere di controllo delle dichiarazioni di parte (non motivando la diversa valutazione della adeguatezza dimostrata per acta et facta conludentia fino a quel momento); vuoi che abbia provveduto ad annullare la concessione in autotutela ex art. 21-novies (come sembrerebbe ipotizzare il primo giudice, seppure omettendo un preliminare inquadramento dell’atto impugnato), l’atto impugnato non dà alcun conto dell’interesse pubblico sotteso alla scelta oggetto di gravame, in comparazione con la posizione del privato che nel frattempo, contando sulla correttezza dell’operato dell’amministrazione, ha dato avvio, con l’avallo della stessa e delle altre amministrazioni coinvolte nel procedimento, ad un investimento economico di consistenza tutt’affatto esigua.
L’atto, cioè, per la parte in cui non dimostra di essere supportato da imperative esigenze egualmente rivolte al raggiungimento di predetti obiettivi, appare suscettibile di concretare non solo una lesione dell’affidamento del privato investitore, ma anche un non consentito sviamento dalle finalità d’interesse pubblico generale affidate alla Regione resistente quale soggetto gestore della misura in esame.
Di tali finalità, infatti, l’amministrazione deve tenere conto anche nell’esercizio del potere di controllo, che seppure intrinsecamente orientato a garantire la corretta elargizione di risorse economiche, non può intervenire con tempistiche e modalità che rischiano di vanificarla, esponendo il privato investitore non all’alea che connota qualsiasi iniziativa imprenditoriale, ma a quella, aggiuntiva, che conseguirebbe alla legittimazione postuma del rilievo di qualsivoglia carenza formale o procedurale in qualsiasi momento, quand’anche fosse possibile per l’Amministrazione rilevarla da subito, ovvero in un “tempo ragionevole”.
28. A quanto sopra detto consegue l’accoglimento del gravame e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tar per la Calabria, n. 360 del 2018, del ricorso di primo grado, con conseguente annullamento del provvedimento di revoca dei finanziamenti concessi e in parte qua della modifica della relativa graduatoria, oggetto di motivi aggiunti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2024 n. 688 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il consigliere comunale è obbligato ad astenersi in caso di conflitto di interessi.
L’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile.
Il Consiglio di Stato, Sez. VII con la sentenza 22.01.2024 n. 652, si è pronunciato sul conflitto di interessi cui possono incorrere i consiglieri comunali.
Il fatto
Un cittadino aveva impugnato dinanzi al Tar la deliberazione del consiglio comunale relativa all'approvazione di una variante allo strumento urbanistico comunale e aveva eccepito che il provvedimento consiliare sarebbe stato approvato con la partecipazione di un consigliere in situazione di conflitto di interessi, in quanto stretto parente di proprietari terrieri interessati dal progetto di variante strutturale e beneficiari della più favorevole classificazione ad area residenziale di completamento.
Il Tar Piemonte ha ritenuto la censura inammissibile per carenza di interesse, sostenendo che anche se sussistesse il conflitto non inciderebbe sulle valutazioni espresse in relazione all'area dell'appellante. La sentenza, impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, è stata integralmente riformata nel merito e nell'eccezione.
La decisione
Il Consiglio di Stato non ha condiviso la tesi del giudice di primo grado, in quanto, in tema di conflitto di interessi degli amministratori locali, deve ritenersi che l'obbligo di astensione ricorre per il solo fatto che i consiglieri comunali siano portatori di interessi divergenti rispetto a quello generale affidato all'organo di cui fanno parte. Inoltre, i soggetti interessati alle deliberazioni assunte dagli organi collegiali di cui fanno parte devono evitare di partecipare perché possono condizionare nel complesso la formazione della volontà assembleare, sicché è irrilevante l'esito della prova di resistenza.
Ne consegue che l'atto assunto in violazione dell'obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile. Infine, a tutela dell'immagine dell'amministrazione, rileva anche il conflitto di interessi potenziale.
Conclusioni
Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione di carattere speciale, oggi contenuta nell'articolo 78 del Tuel, ma che, nel suo nucleo essenziale, è anteriore alla stessa Costituzione, risultando enunciata già nel Rd 148/1915 (articolo 290).
Essa sancisce espressamente l'obbligo per gli amministratori locali di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado.
Tale obbligo non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
L'obbligo di astensione è espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 13.02.2024).
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SENTENZA
1. L’appello è fondato per le ragioni di seguito esposte.
2. Ai fini dell’accoglimento dell’appello, valenza dirimente riveste l’esame delle deduzioni incentrate sul conflitto di interessi, contestato in ricorso in relazione alla partecipazione alla deliberazione del consiglio comunale n. 14 del 2011 –avente ad oggetto “esame osservazioni alla variante strutturale al P.R.G.I. anno 2008 - adozione elaborati modificati a seguito di accoglimento delle osservazioni”–, di una consigliera che avrebbe avuto l’obbligo di astenersi in quanto suoi stretti congiunti (segnatamente la madre e la nonna, i cui nominativi sono specificamente indicati) sono proprietari di terreni, ricompresi nella medesima zona e limitrofi a quelli dell’odierno appellante, interessati dal progetto pianificatorio, con previsioni migliorative.
2.1. Come esposto nella narrativa in fatto, con la sentenza impugnata la sopra indicata censura è stata dichiarata inammissibile per carenza di interesse, sostenendosi che anche ove sussistesse il conflitto non inciderebbe sulle valutazioni espresse in relazione all’area dell’appellante.
2.3. Tale statuizione non può essere condivisa.
2.4. Nella fattispecie viene in rilievo una disposizione di carattere speciale, oggi compendiata nell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico enti locali, t.u.e.l.) ma che, nel suo nucleo essenziale, è anteriore alla stessa Costituzione, risultando enunciata già nel r.d. n. 148 del 1915 (art. 290).
Essa sancisce espressamente l’obbligo per gli amministratori locali di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri e di parenti e affini sino al quarto grado.
Tale obbligo “non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
2.5. La giurisprudenza ha da tempo affermato che l’obbligo di astensione “è espressione di una regola generale ed inderogabile, di ordine pubblico, applicabile quindi anche al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 2826 del 2003).
2.6. Le condizioni più stringenti sancite dalla disposizione contenuta nell’art. 78, comma 2, del t.u.e.l. per i regolamenti e gli atti generali –essendo richiesta una “correlazione immediata e diretta” con l’interesse in conflitto– rispondono tuttavia ad un’esigenza di carattere pratico poiché, in un contesto geografico delimitato, è evenienza molto frequente che gli amministratori locali abbiano un qualche generico interesse nelle fattispecie sulle quali sono chiamati a deliberare. 
2.7. Sussistendo una obiettiva situazione di conflitto, è poi ininfluente che l’amministratore, o il funzionario, abbiano proceduto in modo imparziale ovvero che non sussista prova del condizionamento eventualmente subito (Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3744; successivamente, sez. V, sentenza n. 5465 del 2014.)
2.8. Inoltre (cfr., Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2970 del 2008):
   a) l’obbligo di astensione ricorre per il solo fatto che i membri del collegio amministrativo siano portatori di interessi divergenti rispetto a quello generale affidato alle cure dell’organo di cui fanno parte, risultando irrilevante, a tal fine, la circostanza che la votazione non avrebbe potuto avere altro apprezzabile esito, che la scelta sia stata in concreto la più utile e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico, ovvero che non sia stato dimostrato il fine specifico di realizzare l’interesse privato o il concreto pregiudizio dell'amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.05.2003, n. 2826);
   b) i soggetti interessati alle deliberazioni assunte dagli organi collegiali di cui fanno parte devono evitare di partecipare finanche alla discussione, potendo condizionare nel complesso la formazione della volontà assembleare, sicché è irrilevante l’esito della prova di resistenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.10.1998, n. 1291);
   c) l’atto assunto in violazione dell’obbligo di astensione è annullabile in toto e non solo per la parte eventuale del provvedimento che riguardi il solo componente incompatibile (cfr. sez. IV, 21.06.2007, n. 3385);
   d) a tutela dell’immagine dell’amministrazione, rileva anche il conflitto di interessi potenziale, come evidenziato anche dalla giurisprudenza costituzionale e civile (cfr. Corte cost. 28.05.1975, n. 129; Cass. 16.09.2002, n. 13507).
2.9. L’appellante ha prodotto nel giudizio di primo grado evidenze a sostegno della sussistenza di una correlazione immediata e diretta, obiettivamente apprezzabile, tra il contenuto della deliberazione e gli interessi del consigliere comunale indicato in ricorso, tale da imporre un suo dovere di astensione.
Gli elementi prodotti, lungi dall’essere connotati da genericità, risultano sufficienti tenuto, peraltro, conto della circostanza che gli stessi sono rimasti insuperati, non avendo l’amministrazione comunale appellata prodotto alcunché, in quanto non costituita né nel giudizio di primo grado né nel presente giudizio di appello.
2.10. L’accoglimento della censura sopra indicata riveste, come sopra anticipato, carattere dirimente ai fini dell’accoglimento dell’appello e, dunque, della riforma della sentenza impugnata.

EDILIZIA PRIVATA: Condono, agli edifici rurali non si possono applicare le regole dettate per le case. Il Tar Campania accoglie il ricorso del proprietario contro il Comune. In questi casi si possono considerare ultimati anche gli immobili non rifiniti.
Nel caso di istanze di condono per fabbricati rurali non può applicarsi la disciplina che riguarda gli immobili a uso residenziale che (ai fini del condono) impone l’obbligo del completamento funzionale.

Con questa motivazione il TAR Campania (Sez. II di Salerno), con la sentenza 22.01.2024 n. 236, ha accolto il ricorso di una persona contro il Comune di Positano che aveva respinto due istanze di condono e due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica e ordinato la demolizione di due livelli di un fabbricato.
La vicenda inizia quando la proprietaria della struttura impugna l'ordinanza del 2020 con cui il Comune di Positano ha respinto due istanze di condono edilizio presentate nel 1986 e 2004, «nonché due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di due livelli di un fabbricato della superficie complessiva di 167,24 metri quadri».
Alla base dell'intero provvedimento, come si legge nella sentenza «vi è il diniego della prima domanda di condono, presentata ai sensi della legge n. 47/1985».
Il diniego si basa sulla duplice considerazione: «l'immobile ha uso produttivo e non risulta completato funzionalmente, così come previsto dall'art. 31, comma 2, della predetta legge, ma realizzato solo nel rustico e nella copertura». 
Inoltre «l'istanza risulta dolosamente infedele in quanto risultano presenti due unità immobiliari a destinazione residenziale aventi una superficie complessiva di metri quadri 160,08 ed un volume lordo di mc. 579,00, ubicate al piano primo e secondo sottostrada di un fabbricato articolato su cinque livelli, in luogo dell'abuso richiesto in condono corrispondente ad un unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di metri quadri 167,24 con un volume definito di mc. 562,56».
Per i giudici il ricorso è fondato e va accolto.
«Quanto al primo motivo di rigetto -scrivono- va rilevato che l'opera abusiva risulta rappresentata come manufatto connesso con la conduzione agricola articolato su due livelli e, dunque, come fabbricato rurale, astrattamente suscettibile di uso abitativo, ove ne possegga le caratteristiche».
Pertanto, sottolineano i giudici «non può applicarsi la disciplina riguardante gli immobili ad uso non residenziale che, ai fini del condono, impone l'obbligo del completamento funzionale». Risultato: «Ne consegue che, ai sensi dell'art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve considerarsi ultimato l'edificio realizzato senza titolo abilitativo in zona agricola e mancante delle rifiniture, della pavimentazione e degli infissi, laddove risulti eseguito il rustico ed ultimata la copertura».
Quanto al secondo motivo, «nella domanda di condono non è dato ravvisare alcuna falsità, ma tutt'a più una imprecisione, avendo la ricorrente rappresentato l'esistenza di un manufatto ... articolato su due livelli ed essendo irrilevante, ai fini della condonabilità dell'opera, l'eventuale (per altro, modesto) scarto esistente tra le dimensioni indicate e quelle reali. Il Comune è dunque tenuto a rivalutare l'istanza, partendo dalle considerazioni svolte nella presente decisione».
Ricorso accolto, spese compensate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 30.01.2024).
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SENTENZA
La ricorrente impugna l’ordinanza n. 10275 del 20.08.2020, ord. n. 46, con cui il Comune di Positano ha respinto due istanze di condono edilizio presentate l’01.04.1986 ed il 19.11.2004, nonché due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica ed ordinato la demolizione di due livelli di un fabbricato sito in via ... n. 124, della superficie complessiva di mq. 167,24.
Alla base dell’intero provvedimento vi è il diniego della prima domanda di condono, presentata ai sensi della legge n. 47/1985.
Detto diniego si basa sulla duplice considerazione che:
   a) l’immobile ha uso produttivo e non risulta completato funzionalmente, così come previsto dall’art. 31, comma 2, della predetta legge, ma realizzato solo nel rustico e nella copertura;
   b) “l’istanza risulta dolosamente infedele in quanto risultano presenti due unità immobiliari a destinazione residenziale aventi una superficie complessiva di mq. 160,08 ed un volume lordo di mc. 579,00, ubicate al piano primo e secondo sottostrada di un fabbricato articolato su cinque livelli, in luogo dell’abuso richiesto in condono corrispondente ad un unico manufatto a destinazione agricola avente una superficie coperta di mq. 167,24 con un volume definito di mc. 562,56”.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Ed invero, quanto al primo motivo di rigetto va rilevato che l’opera abusiva risulta rappresentata come “manufatto connesso con la conduzione agricola articolato su due livelli” e, dunque, come fabbricato rurale, astrattamente suscettibile di uso abitativo, ove ne possegga le caratteristiche.
Pertanto, non può applicarsi la disciplina riguardante gli immobili ad uso non residenziale che, ai fini del condono, impone l’obbligo del completamento funzionale.
Ne consegue che, ai sensi dell’art. 31 della legge 28.02.1985 n. 47, deve considerarsi ultimato l’edificio realizzato senza titolo abilitativo in zona agricola e mancante delle rifiniture, della pavimentazione e degli infissi, laddove risulti eseguito il rustico ed ultimata la copertura (cfr. TAR Umbria 06.11.2008, n. 702).
Quanto al secondo motivo, nella domanda di condono non è dato ravvisare alcuna falsità, ma tutt’a più una imprecisione, avendo la ricorrente rappresentato l’esistenza di un “manufatto … articolato su due livelli” ed essendo irrilevante, ai fini della condonabilità dell’opera, l’eventuale (per altro, modesto) scarto esistente tra le dimensioni indicate e quelle reali.
Il Comune è dunque tenuto a rivalutare l’istanza, partendo dalle considerazioni svolte nella presente decisione.

TRIBUTI: Niente riduzione dell’Imu per il fabbricato senza agibilità. Nel caso di specie si è trattato di unità ultimate per le quali dovevano ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di abitabilità.
Un fabbricato nuovo che non ha l’agibilità non è inagibile e per questo non ha diritto alla riduzione dell’Imu
.
Lo afferma la quinta sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza sentenza 18.01.2024 n. 1955.
La riduzione
Una società di costruzioni ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con cui la Commissione tributaria regionale aveva respinto l'appello avverso la sentenza della Commissione provinciale in rigetto del ricorso proposto avverso un avviso di accertamento Imu.
Lamenta l'erronea esclusione della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della riduzione d'imposta del 50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, prevista dall'articolo 8, comma 1, del Dlgs 504/1992, il quale affida l'accertamento della inagibilità o inabitabilità all'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario o, in alternativa, a una dichiarazione sostitutiva del contribuente.
Afferma la Suprema corte che, ai fini dell'applicazione della riduzione, devono considerarsi inagibili o inabitabili, e di fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i requisiti di cui all'articolo 24, comma 1, del Dpr 380/2001, in base al quale la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati e, ove previsto, di rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione certificata.
Talché si tratta di immobili che presentino un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente) o un'obsolescenza funzionale, strutturale e tecnologica non superabile con interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
I presupposti
Partendo dall'assunto che in materia fiscale le norme che stabiliscono esenzioni o agevolazioni sono di stretta interpretazione è quindi non c'è spazio per ricorrere al criterio analogico o all'interpretazione estensiva della norma oltre i casi e le condizioni dalle stesse espressamente considerati, i giudici della V sezione rilevano che
   - da una parte l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé presupposto sufficiente perché sia considerata fabbricato e di conseguenza assoggettabile all'imposta;
   - dall'altra l'inagibilità (che consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non come qualità giuridica superabile con il rilascio del certificato di abitabilità, che non costituisce presupposto per l'applicazione dell'imposta.
Nel caso di specie si è trattato di immobili non inagibili o inabitabili, ma di unità ultimate per le quali dovevano ancora essere messi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di abitabilità, per cui la Corte territoriale ha correttamente escluso l'applicazione della riduzione prevista dalla norma sopra citata.
La Cassazione quindi ritiene ben fondata la motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla mancata applicazione della richiesta riduzione d'imposta, rigettando integralmente il ricorso (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).
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SENTENZA
1.1. con il primo motivo la Società denuncia ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione di norme di diritto («art. 8, I comma, del d.lgs. 504/1992 afferente alla riduzione del 50% del tributo IMU per l’anno 2013, relativamente ad immobili invenduti ex artt. 2, I comma, lett. A), del d.lgs. 504/1992, 2, V comma-bis, del d.l. 102/2013, ... art. 1, comma 747, lettera B), della l. 160/2019, ... art. 13, III comma, lett. B), del d.l. 201/2011») per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della riduzione d’imposta prevista dalle citate disposizioni, secondo cui «la base imponibile è ridotta del 50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati», sebbene Roma Capitale fosse già a conoscenza, con riguardo agli immobili tassati del mancato rilascio, da parte del medesimo Ente territoriale, delle concessioni edilizie in sanatoria, il che aveva impedito di ottenere il relativo certificato di agibilità/abitabilità ed aveva precluso alla Società, impresa di costruzioni per la vendita, la vendita dei suddetti immobili;
1.2. la doglianza è infondata;
1.3. va premesso che l’art. 13 del d.l. n. 201/2011 prevede, per quanto qui di interesse, quanto segue: «3. La base imponibile dell'imposta municipale propria è costituita dal valore dell'immobile determinato ai sensi dell'articolo 5, commi 1, 3, 5 e 6 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504, e dei commi 4 e 5 del presente articolo. La base imponibile è ridotta del 50 per cento: ... b) per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, limitatamente al periodo dell'anno durante il quale sussistono dette condizioni. L’inagibilità o inabitabilità è accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, che allega idonea documentazione alla dichiarazione. In alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare una dichiarazione sostitutiva ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, rispetto a quanto previsto dal periodo precedente. Agli effetti dell'applicazione della riduzione alla metà della base imponibile, i comuni possono disciplinare le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di manutenzione»;
1.4. come già affermato, anche recentemente, da questa Corte (cfr. Cass. n. 5804 del 24/02/2023; Cass. n. 29966 del 19/11/2019 in motiv. anche se con riferimento all’ICI)
ai fini dell'applicazione della riduzione de qua devono considerarsi inagibili o inabitabili, e di fatto non utilizzati, i fabbricati per i quali vengano a mancare i requisiti di cui all'articolo 24, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e quindi nello specifico gli immobili che presentino un degrado fisico sopravvenuto (fabbricato diroccato, pericolante, fatiscente) o un’obsolescenza funzionale, strutturale e tecnologica (cfr. in tal senso, Cass. n. 29966/2019 cit. in motiv., che definisce condizione di inagibilità e inabitabilità in cui versi l’immobile l’«obiettiva inidoneità alla sua utilizzazione a causa dell'obsolescenza o cattiva manutenzione dello stesso o della presenza di carenze intrinseche»), non superabile con interventi di manutenzione, ordinaria o straordinaria;
1.5. tale interpretazione della norma non solo risulta aderente alla lettera della norma ma trova conferma nel costante indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. nn. 15407/2017, 4333/2016, 2925/2013, 5933/2013) in materia fiscale secondo il quale
le norme che stabiliscono esenzioni o agevolazioni sono di stretta interpretazione ai sensi dell'art 14 preleggi sicché non vi è spazio per ricorrere al criterio analogico o all'interpretazione estensiva della norma oltre i casi e le condizioni dalle stesse espressamente considerati;
1.6. va peraltro evidenziato, con riguardo alla lamentata mancanza del certificato di abitabilità degli immobili, che tale certificato non attesta alcuna agibilità dello stesso, ma la sola idoneità igienico-sanitaria del manufatto atta a consentirne l'uso, che non incide, però, sulla sua esistenza (in particolare, ai fini fiscali);
1.7. pertanto,
   - da una parte,
l'iscrizione nel catasto edilizio dell'unità immobiliare costituisce di per sé presupposto sufficiente perché l'unità sia considerata fabbricato e, di conseguenza, assoggettabile all'imposta prevista, laddove per i fabbricati di nuova costruzione, come nel caso in esame, i criteri alternativi dell'ultimazione dei lavori o di utilizzazione del fabbricato assumono rilievo solo per l'ipotesi in cui il fabbricato di nuova costruzione non sia ancora iscritto in catasto (cfr. Cass. n. 24924/2008), mentre,
   - d'altra parte,
l'inagibilità (che consente la riduzione d'imposta) è correlata alla temporanea impossibilità di utilizzo dell'immobile, intesa come situazione intrinseca di degrado dello stesso, superabile con interventi di manutenzione straordinaria, e non come qualità giuridica superabile con il rilascio del certificato di abitabilità (secondo Cass. n. 5372/2009 «...il rilascio del certificato di abitabilità non costituisce presupposto per l'applicazione dell'imposta, non potendosi desumere il contrario dal tenore dell'art. 8, comma 1, del citato decreto, che si riferisce esclusivamente all'ipotesi di fabbricati dichiarati inagibili e inabitabili a seguito di perizia dell'ufficio tecnico comunale, e di fatto non utilizzati»; conf. Cass. n. 12936/2019);
1.8. la Commissione tributaria regionale, nell'affermare che non era «applicabile la invocata disposizione di cui all'articolo 8 d.lgs. 504/1992, poiché, in disparte la mancanza di accertamenti tecnici che comprovino lo stato di fatiscenza dedotto, in realtà non vengono in considerazione immobili inagibili o inabitabili, ma piuttosto unità immobiliari di fatto ultimate per le quali devono ancora essere emessi i titoli abilitanti in sanatoria e il certificato di abitabilità», ha correttamente escluso l'applicazione al caso concreto della disciplina agevolatrice prevista dalle norme dianzi citate;

EDILIZIA PRIVATA: Scavo per la fibra ottica, non si può negare l’autorizzazione per mancata concertazione senza interventi concomitanti. Nel caso in cui la motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di coordinare l’intervento con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno programmati dall’ente.
In relazione alla posa di infrastrutture digitali per lo sviluppo della fibra ottica è illegittimo il provvedimento dell’ente locale che nega l’autorizzazione all’intervento di scavi sulla sede stradale per mancata concertazione ex articolo 3 del Dm 01.10.2013, nel caso in cui la motivazione dell’atto non documenti l’esigenza di coordinare l’intervento con altri lavori stradali concomitanti o quanto meno programmati dall’ente stesso.

È quanto affermato dal TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la sentenza 18.01.2024 n. 479.
Il fatto
Nell'aprile 2023 una società inoltrava a un Comune un'istanza di autorizzazione per scavi e opere civili ex articolo 49 del Dlgs 259/2003, nell'ambito di un progetto per la realizzazione di un'infrastruttura di rete a banda ultra-larga in fibra ottica sull'intero territorio nazionale.
Stante l'assenza di riscontro entro i termini da parte della Pa, la società notificava all'ente un'autocertificazione attestante l'intervenuta formazione del silenzio-assenso. Al che il Comune, in esito alla successiva corrispondenza con l'impresa, negava l'autorizzazione all'intervento oggetto dell'istanza e non dava corso al rilascio dell'ordinanza viabilistica necessaria allo svolgimento dei lavori, disponendo altresì l'annullamento in autotutela del silenzio-assenso di cui sopra.
Nello specifico, il provvedimento dell'ente giustificava tale annullamento con la motivazione secondo cui la programmazione degli interventi non è avvenuta in accordo con questa amministrazione, quale gestore delle strade, giusto articolo 3, comma 6, del Dm 01.10.2013, con l'effetto che l'intervento proposto risulta «in contrasto con le previsioni () di salvaguardia della sicurezza stradale» di cui al medesimo articolo.
In effetti, la normativa addotta dal Comune si addice al caso di specie in quanto il Dm 01.10.2013 disciplina i criteri e gli aspetti generali per il posizionamento delle infrastrutture digitali, indicando le modalità d'intervento e le metodologie di scavo a limitato impatto ambientale da utilizzare per favorire lo sviluppo digitale sul territorio nazionale.
In tale contesto la società interessata ha chiamato in giudizio il Comune e il Tar adito, in accoglimento della domanda della ricorrente, ha annullato il provvedimento adottato dall'ente locale.
La ratio della normativa
Questo perché, scrivono i giudici, «la motivazione addotta dal Comune difetta di qualsivoglia indicazione circa il necessario presupposto fattuale, consistente nello svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali da parte dell'ente locale».
Il collegio ha osservato, infatti, che soltanto nell'ipotesi di una pluralità di interventi in corso o comunque programmati l'articolo 3 del Dm 01.10.2013 ha previsto oltretutto a livello di raccomandazione e non di obbligo una concertazione con l'ente gestore della strada allo scopo di coordinare l'esecuzione degli interventi, compatibilmente con le rispettive esigenze temporali.
In secondo luogo, la Sezione ha rilevato che né dalla comunicazione di avvio del procedimento di annullamento, né dalla corrispondenza intercorsa tra il Comune e l'impresa è dato evincere che l'intervento oggetto dell'istanza sia suscettibile di pregiudicare gli interessi prioritari tutelati dal Dm 01.10.2013, ossia la sicurezza stradale della circolazione, dei lavoratori e degli utenti della strada, nonché la salvaguardia dell'infrastruttura da realizzare (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 08.02.2024).
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SENTENZA
6 - Nel merito, la domanda di annullamento avente ad oggetto il diniego di autorizzazione emesso dal Comune il 07/07/2023 è meritevole di accoglimento.
Ai sensi del comma 7 dell’art. 49 (ex art. 88) del d.lgs. n. 259/2003 (Opere civili, scavi ed occupazione di suolo pubblico), “Trascorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della domanda, senza che l'amministrazione abbia concluso il procedimento con un provvedimento espresso ovvero abbia indetto un'apposita conferenza di servizi, la medesima si intende in ogni caso accolta”.
Il provvedimento impugnato (emesso il 07/07/2023), pertanto, è intervenuto a fronte di un provvedimento autorizzativo ormai formatosi per silenzio-assenso (sull’istanza di Op.Fi. s.p.a. pervenuta il 05/04/2023) e va, pertanto, annullato.
7 - Stessa sorte segue il provvedimento di autotutela emesso dal Comune di San Nicola la Strada il 05/10/2023.
Al riguardo si rammenta che: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi [ora, dodici] dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
E’ stato affermato che “Il giudizio sulla valutazione dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio si scompone in una triplice verifica in ordine: a) alla competenza in capo all’autorità che procede all’annullamento; b) al termine entro cui il potere è stato esercitato; c) ai presupposti del suo esercizio (cause di illegittimità, ragioni di interesse pubblico all’annullamento, comparazione tra gli interessi pubblici e privati dei soggetti destinatari e di quelli comunque interessati)” - Tar Lazio, Roma, sez. II, sent. 09/04/2021.
Questi presupposti, com’è noto, debbono ricorrere cumulativamente, nel senso che l’illegittimità del provvedimento è condizione necessaria, ma non sufficiente, per procedere al suo annullamento, subordinato all’esistenza di ragioni di interesse pubblico diverse e ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata, nonché al decorso di un lasso di tempo “ragionevole” dall’adozione dell’atto da annullare.
Ed ancora: “Il presupposto per un legittimo esercizio del potere di annullamento d'ufficio non può ricondursi al mero ripristino della legalità, occorrendo dare conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione dell'atto; occorre, inoltre, una comparazione tra detto interesse pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto più quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione del bene della vita. Tuttavia, l'annullamento d'ufficio che intervenga entro breve tempo dall'adozione del provvedimento annullabile, quando le situazioni giuridiche coinvolte non si siano consolidate, è soggetto a un obbligo di motivazione attenuato” (cfr TAR Lazio-Roma, sez. III, 21/12/2018, n. 12485, Tar Puglia, Lecce, 06/06/2008, n. 1680; anche Tar Campania-Salerno, n. 1304, 25/5/2016).
7.1 - Tanto premesso, si osserva che la motivazione del provvedimento di secondo grado impugnato si incentra, come anticipato, sulla violazione dell’art. 3 del d.m. 01/10/2013 (“Criteri e aspetti generali per il posizionamento delle infrastrutture digitali”), che dispone:
   “1. Le infrastrutture digitali sono installate nel rispetto di quanto disciplinato nel decreto legislativo del 30.04.1992, n. 285 «Nuovo Codice della Strada», nel decreto del Presidente della Repubblica 16.12.1992, n. 495 «Regolamento di esecuzione ed attuazione del Nuovo Codice della Strada», e successive modificazioni, con particolare riferimento alle disposizioni relative alla regolarità e sicurezza della circolazione stradale ed alla tutela dell'infrastruttura stradale, nel rispetto di tutte le altre norme vigenti che disciplinano la sicurezza dei lavoratori nei cantieri stradali, nonché nel decreto legislativo 01.08.2003, n. 259 «Codice delle comunicazioni elettroniche».
   2. La posa delle infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia utilizzata e per i diversi ambiti individuati, deve avvenire, secondo quanto disciplinato dal presente decreto, che risulta improntato al principio di contemperare l'interesse nazionale allo sviluppo delle infrastrutture digitali con quello di preservare la sicurezza stradale della circolazione, sia durante i lavori sia per tutta la vita utile dell'infrastruttura stradale, di arrecare il minor danno possibile al complesso dell'infrastruttura salvaguardando i vincoli presenti, di contenere qualsiasi cedimento del corpo stradale, di preservare la sicurezza dei lavoratori e degli utenti stradali, di facilitare la circolazione veicolare e ridurre la quantità di materiale di risulta.
   3. Le infrastrutture digitali sono installate prioritariamente negli alloggiamenti già disponibili ed appositamente predisposti nelle sedi delle infrastrutture stradali, o comunque nei manufatti quali cunicoli, pozzetti, cavidotti e intercapedini, già utilizzati per il passaggio di altri sottoservizi, purché ciò risulti compatibile con le rispettive specifiche norme di settore.
   4. In assenza di alloggiamenti disponibili di cui al comma 3, la posa delle infrastrutture digitali, qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, deve prevedere un'idonea struttura di contenimento, tale da consentire in modo agevole l'inserimento e/o lo sfilamento di cavi, in caso di manutenzioni o guasti, al fine di evitare ulteriori successive alterazioni e danneggiamenti alla sovrastruttura stradale.
   5. Qualunque tecnica di scavo sia utilizzata, devono essere adottati tutti i possibili accorgimenti al fine di evitare i cedimenti del corpo stradale che devono essere risanati secondo le specifiche riportate negli articoli 7, 8 e 9.
   6. Al fine di ridurre complessivamente i disagi alla circolazione stradale derivanti da interventi ripetuti sulla sede stradale, nonché di ridurre tempi e costi per la posa delle infrastrutture digitali, la programmazione dei relativi lavori di installazione avviene preferibilmente in coordinamento con gli eventuali interventi di lavori stradali programmati dall'Ente gestore della strada, compatibilmente con le rispettive esigenze temporali. In tal caso l'Ente operatore, previo specifico accordo con l'Ente gestore della strada in fase autorizzativa del progetto di cui all'art. 12, provvede a sostenere soltanto gli oneri derivanti dall'installazione delle strutture di contenimento delle infrastrutture digitali
”.
7.2 - Orbene, stando a quanto esternato dal Comune, l’illegittimità dell’assenso deriverebbe dalla mancata “concertazione” tra Op.Fi. s.p.a. e Comune degli interventi programmati, ciò che porrebbe i lavori in contrasto con la previsione del comma 6 dell’art. 3 cit..
La motivazione addotta dal Comune difetta, tuttavia, di qualsivoglia indicazione circa il necessario presupposto fattuale, consistente nello svolgimento (o almeno nella programmazione) di concomitanti lavori stradali da parte dell’ente locale, la cui esistenza non è proprio allegata nell’atto (prima ancora che comprovata). È solo per tale ipotesi, infatti, che il legislatore, al fine di ridurre i disagi alla circolazione e tempi e costi dell’intervento, raccomanda (e neppure impone, stando all’utilizzo dell’avverbio “preferibilmente” e comunque facendo salva la compatibilità “con le rispettive esigenze temporali”) di coordinare gli interventi.
D’altro canto, neanche dalla lettura della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento è dato evincere, nello specifico, in che termini l’intervento progettato da Op.Fi. s.p.a. (per quanto di notevole consistenza), collida con quelli che la norma di riferimento (art. 3 d.m. cit.) indica come interessi da contemperare (sicurezza stradale della circolazione, dei lavoratori e degli utenti della strada, salvaguardia dell’infrastruttura).
7.3 - In mancanza, poi, della previa emissione di un atto autorizzativo “con prescrizioni”, parimenti inconfigurabile si rivela la violazione del comma 4 dell’art. 12 del cd. “decreto scavi” (“Obblighi dell’ente operatore: 4. L'Ente operatore deve osservare ed ottemperare eventuali ulteriori prescrizioni impartite dall'Ente gestore della strada in fase autorizzativa, dettate da ragioni di sicurezza della circolazione stradale ed in funzione della tipologia dell'opera da realizzare”), oggetto di contestazione nella comunicazione di avvio del procedimento, integralmente richiamata nel provvedimento conclusivo.
In conclusione, non emergendo –con riferimento all’assenso tacito formatosi sull’istanza della ricorrente- i profili di illegittimità enunciati dal Comune, il provvedimento di ritiro dell’atto tacito di assenso va caducato.
7.4 - L’acclarata formazione del silenzio-assenso determina la illegittimità anche della nota a firma del Comandante della Polizia Municipale, sorretta dal solo presupposto dell’intervenuto avvio del procedimento di annullamento di autotutela del silenzio-assenso.
7.5 – Va, invece, dichiarato inammissibile il gravame proposto avverso la comunicazione di avvio del procedimento (prot. n. 23298 del 14.09.2023), trattandosi di atto endoprocedimentale privo di autonoma lesività.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti responsabili per non avere assunto tutte le iniziative necessarie al collocamento in ferie del personale.
Il divieto di monetizzazione per dipendenti e dirigenti pubblici non è stato infatti abrogato né disapplicato dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea 18.01.2024 n. C-218/22.
I dirigenti sono impegnati, in relazione alla responsabilità in caso di monetizzazione delle ferie, ad assumere tutte le iniziative perché i dipendenti ne fruiscano. Il divieto di monetizzazione delle ferie dei dipendenti e dei dirigenti pubblici non è stato infatti abrogato né disapplicato dalla sentenza 18.01.2024 - C-218/22 della Corte di Giustizia Europea  (Nt+ Enti locali & edilizia del 22 gennaio).
Questa indicazione si applica in particolare per la maturazione di responsabilità amministrativa e contabile in capo ai dirigenti che non danno applicazione alle sue indicazioni.
Per cui, sulla base dei principi dettati dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza comunitaria, i dipendenti e dirigenti pubblici hanno diritto alla monetizzazione delle ferie non godute, tranne che l'ente dimostri che ciò è stato provocato esclusivamente dalla scelta del lavoratore, ma nulla esclude che in questo caso possa maturare responsabilità in capo al dirigente per non avere assunto tutte le iniziative necessarie per il collocamento in ferie del personale, anche nella fase finale del rapporto di lavoro, cioè prima del collocamento in quiescenza.
L'articolo 5, comma 8, quarto periodo, del Dl 95/2012 stabilisce che il divieto di monetizzazione delle ferie all'atto della conclusione del rapporto di lavoro è sanzionato sia con il vincolo al «recupero delle somme indebitamente erogate», sia con la maturazione di «responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile». La giurisprudenza comunitaria non si è occupata di questo aspetto. Essa ha stabilito che le amministrazioni devono assumere tutte le iniziative per fare fruire le ferie ai propri dipendenti. Questo principio è stato ribadito dalla citata sentenza della Corte di Giustizia Europea, ma era già stato reso in modo consolidato dalla stessa, anche con riferimento ai dirigenti.
Questi principi hanno radicalmente modificato la impostazione data in precedenza dalla nostra giurisprudenza, che stabiliva il diritto alla monetizzazione delle ferie, in particolare per i dirigenti, solamente nel caso in cui il lavoratore dimostrava di avere richiesto le stesse e che l'ente aveva rigettato tali istanze per esigenze di servizio.
Con la giurisprudenza comunitaria si è quindi sostanzialmente ribaltato l'onere della prova: non è il dipendente a dovere dimostrare che la mancata fruizione delle ferie è stato provocato dal rigetto da parte dell'amministrazione, ma è essa a dovere dimostrare di avere assunto tutte le necessarie iniziative per la fruizione delle stesse da parte del dipendente.
Su questa base, nel caso in cui un ente venga condannato alla monetizzazione delle ferie, non viene meno il dettato sanzionatorio del decreto legge n. 95/2012, quindi la maturazione di responsabilità amministrativa contabile da parte dei dirigenti competenti nel caso in cui l'ente debba sobbarcarsi l'onere in questione. Ricordiamo peraltro che, a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro, nelle pubbliche amministrazioni sono state assegnati ai dirigenti i poteri e le capacità del privato datore di lavoro.
Da questa scelta legislativa deriva la conseguenza che i dirigenti possono collocare anche d'autorità i propri dipendenti in ferie, soprattutto nel caso in cui essi non le richiedano. Questa possibilità è da considerare ulteriormente rafforzata nel caso in cui il dipendente violi le previsioni del d.lgs. n. 66/2003, per le quali si deve godere di almeno 2 settimane di ferie nel corso dell'anno e di altre 2 entro i 18 mesi successivi a quello di maturazione delle stesse.
E le previsioni del CCNL per cui le ferie maturate nel corso dell'anno non godute devono esserlo entro i primi 6 mesi di quello successivo, a prescindere che il mancato godimento sia stato provocato dalla mancata richiesta o dal rinvio per esigenze di servizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 30.01.2024).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Rilevanza penale dei rumori provocati in ambito condominiale.
Il bene giuridico tutelato dalla contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. è costituito, come emerge dallo stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento delle attività e del riposo delle persone che il legislatore intende presidiare da indiscriminate attività di disturbo, le quali, tuttavia, non possono essere identificate, proprio in ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le quali soltanto consentono di individuare, al di là della vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti annoverabili in un ambito ristretto, come avviene in un condominio costituito da più palazzine o da più appartamenti ubicati in uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti, soltanto un illecito civile foriero di un eventuale risarcimento del danno e non certamente una condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen.
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini residenti in appartamenti diversamente ubicati nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale da superare i limiti della normale tollerabilità di emissioni provenienti da immobili contigui
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2024 n. 2071 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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Il ricorso deve ritenersi meritevole di accoglimento.
A dispetto della anodina enunciazione, posta a chiusura della pur diffusa motivazione spesa dal Tribunale tarantino, secondo cui i rumori provenienti dall’abitazione degli imputati “erano stati percepiti anche da altri condomini”, tuttavia non emerge da alcun precedente passaggio della sentenza impugnata, contenente la disamina delle acquisite risultanze istruttorie, in qual modo fossero interessati dalla fonte sonora, costituita da rumori dei tacchi delle scarpe, così come da spostamenti di sedie o trascinamento di mobili sul pavimento che avvenivano pressoché quotidianamente specie nelle primissime ore del mattino, soggetti diversi dalle due condòmine residenti nell’appartamento posto al secondo piano, sottostante a quello dei coniugi Ma..
Occorre considerare che il bene giuridico tutelato dalla contravvenzione in esame è costituito, come emerge dallo stesso nomen della rubrica, dallo svolgimento delle attività e del riposo delle persone che il legislatore intende presidiare da indiscriminate attività di disturbo, le quali, tuttavia, non possono essere identificate, proprio in ragione del plurale figurante nella norma, in un singolo soggetto, pur infastidito in ragione della prossimità della fonte sonora a quella del suo luogo di lavoro o della sua abitazione, bensì da un numero indeterminato di persone le quali soltanto consentono di individuare, al di là della vastità dell'area interessata dalle emissioni o dall’entità del numero dei soggetti lesi, un pregiudizio inferto all’ordine pubblico nella specifica accezione della pubblica quiete.
Ciò non toglie che possa trattarsi di soggetti annoverabili in un ambito ristretto, come avviene in un condominio costituito da più palazzine o da più appartamenti ubicati in uno stesso stabile, ma in tal caso è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, configurandosi, altrimenti, soltanto un illecito civile foriero di un eventuale risarcimento del danno e non certamente una condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 659 cod. pen. (cfr. Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Vírgillito, Rv. 257345, secondo cui perché sussista la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. relativamente ad attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio; nonché Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, Iori, Rv. 251406; Sez. 1, n. 18517 del 17/03/2010, Oppong, Rv. 247062; Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, Costantini, Rv. 209694).
E se è ben vero che non vale ad escludere la configurabilità del reato la circostanza che solo alcuni dei soggetti potenzialmente lesi dalle emissioni sonore se ne siano lamentati, occorre ciò nondimeno in tal caso l’accertamento sia dell'idoneità delle stesse ad arrecare disturbo non solamente a un singolo ma a un gruppo più vasto di condomini residenti in appartamenti diversamente ubicati nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale da superare i limiti della normale tollerabilità di emissioni provenienti da immobili contigui (cfr. in termini Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273216).
Ciò premesso, il ragionamento probatorio svolto dal giudice di merito si sviluppa intorno alle dichiarazioni rese dalla sola Emanuela Pulpito, abitante nell’appartamento sottostante a quello degli imputati, che riferisce di rumori provenienti al mattino preso dal piano di sopra che, avuto riguardo alle loro stesse caratteristiche, sono privi della potenzialità diffusiva idonea ad integrare la rilevanza penale del fatto.
E’ evidente infatti che il ticchettio dei tacchi delle scarpe così come lo strusciamento dei mobili sul pavimento, per quanto foriero di disturbo per gli abitanti al piano inferiore in ragione del piano di calpestio dell’uno coincidente con il soffitto dell’altro, non possano propagarsi oltre l’unità immobiliare del piano inferiore, risultando pertanto insuscettibili di concreta percezione da parte degli altri soggetti residenti nella zona o comunque anche solo di altri condomini abitanti in appartamenti ubicati nel medesimo edificio condominiale.
D’altra parte le suddette dichiarazioni non risultano accompagnate a quelle di nessun altro condomino dello stabile, né corroborate da eventuali denunce o lagnanze di altri soggetti ivi residenti, neppure risultando essere stato effettuato alcun accertamento concreto vuoi con l’acquisizione di deposizioni di altri testi aliunde residenti, vuoi tramite perizia, vuoi per effetto di altri elementi di fatto globalmente valutati in ordine al superamento dei limiti della normale tollerabilità.
In difetto del necessario nesso di consequenzialità logica tra il disturbo arrecato alle condomine del piano sottostante e il disturbo alla pubblica quiete, mancano pertanto gli elementi fondanti l’affermazione di responsabilità dei prevenuti, tenuto conto che le lamentele del singolo possono al più configurare un illecito civile ai sensi dell’art. 844 cod. civ., ma non valgono ad integrare la materialità della contravvenzione de qua che si perfeziona quando le emissioni abbiano l’effetto di arrecare disturbo a una cerchia più ampia di persone, anche a prescindere da quelle che se ne siano in concreto lamentate.
Come infatti chiarito da questa stessa Corte «in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra:
   A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia;
   B) il reato di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
   C) il reato di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
» (così Sez. 3, n. 56430 del 18/07/2017, Vazzana, Rv. 273605, nonché il più recente arresto di questa stessa Sezione menzionato dalla difesa n. 49467 del 28.10.2022, non mass.).
Fuoriuscendosi nel caso di specie dalle ipotesi sub A e sub C, neppure menzionate nell’editto accusatorio, difetta quanto all’ipotesi di cui all’art. 659 primo comma cod. pen. il disturbo alla pubblica quiete, ricorrente solo allorquando il rumore molesto è percepito o comunque è percepibile da un numero indistinto di persone e non già, come accertato nel presente processo, dai componenti, anche a prescindere dalla mancata escussione della teste Ta., di un solo nucleo familiare residente nella medesima unità abitativa.
Non potendo pertanto ritenersi il fatto criminoso sussistente ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, stante la rinuncia di entrambi i ricorrenti alla prescrizione. Consegue all’epilogo decisorio anche la revoca delle statuizioni civili.

APPALTI: Sottosoglia, esclusione automatica solo con richiamo negli atti di gara.
Il Tar Campania sulle offerte anomale nel nuovo codice: bisogna indicare anche il metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia.
Con l’ordinanza 16.01.2024 n. 133 il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, prende in considerazione le disposizioni codicistiche, confermate rispetto a quanto già previsto dai decreti legge emergenza (in particolare il Dl 76/2020, art. 1, comma 3), tra le più rilevanti ovvero l’esclusione automatica nel sottosoglia in caso di appalto –lavori o servizi- da aggiudicarsi al minor prezzo privo di interesse transfrontaliero (in caso di competizione con almeno 5 partecipanti).
La richiesta del provvedimento cautelare
La ricorrente chiede al giudice la sospensione dell'efficacia del provvedimento di esclusione per anomalia dell'offerta mai ricevuto. La particolarità del caso preso in esame è che, nonostante la chiara previsione del nuovo codice con l'art. 54 e quindi dell'esclusione automatica dell'offerta anomala, la stazione appaltante stabiliva che avrebbe proceduto alla verifica della potenziale anomalia ai sensi dell'art. 110, comma 2, del codice.
Il giudice, ritenendo fondato il c.d. periculum vitae per il ricorrente, sospende l'efficacia del provvedimento di esclusione fornendo delle condivisibili indicazioni circa l'applicabilità delle nuove norme in tema di esclusione automatica.
Più nel dettaglio nell'ordinanza si rileva che la sussistenza del fumus si basa sulla mancata indicazione «nella lettera di invito () e nel bando di gara/capitolato tecnico» dell'esclusione automatica delle offerte anomale, ai sensi dell' art. 54, comma 1, del nuovo codice dei contratti.
Operando in quest'ambito, rimarca il giudice, la stazione appaltante risulterebbe obbligata nel caso di aggiudicazione al minor prezzo con appalto nel sottosoglia europea privo di interesse transfrontaliero «in deroga a quanto previsto dall'articolo 110» con esplicitazione negli atti di gara - all'esclusione automatica delle offerte che risultassero anomale, qualora il numero delle stesse ammesse sia pari o superiore a cinque.
Altro obbligo della stazione appaltante, definito non surrogabile precisa il giudice, è la necessità di individuare, sempre negli atti di gara il metodo per l'individuazione delle offerte anomale, scelto fra quelli descritti nell'allegato II.2, ovvero lo selezionano in sede di valutazione delle offerte tramite sorteggio tra i metodi compatibili dell'allegato II.2»)».
Questo dettaglio non risultava conosciuto dall'operatore (in realtà neppure il contenuto del provvedimento adottato) che, pertanto ha beneficiato della sospensione dell'efficacia del provvedimento di esclusione dalla procedura di gara.
Il nuovo codice
La lettura espressa nell'ordinanza, in tema di obblighi del Rup della stazione appaltane a procedere, nel caso specifico, con l'esclusione automatica emerge anche dalla relazione tecnica che accompagna il nuovo codice. In questa si legge, infatti, che «ove i contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea relativi ad appalti di lavori o servizi siano aggiudicati con il criterio del prezzo più basso e non presentino un interesse transfrontaliero certo, le stazioni appaltanti, in deroga all'art. 110, prevedono negli atti di gara l'esclusione automatica delle offerte che risultino anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque».
Secondo gli estensori, la previsione rispecchierebbe «la disciplina già contenuta nell'art. 1, comma 3, ultimo periodo, del decreto-legge n. 76/2020, che diviene, con la disposizione in esame, disciplina a regime e non più transitoria».
Gli estensori privilegiano, quindi, una decisione automatica di esclusione in luogo di una, lunga, previa valutazione di congruità sulla convenienza economica determina da ribassi spesso frutto di comportamenti strumentali. Il giudice ricorda che la stessa Direttiva Europea 2014/2024, «fornisce indicazioni chiare sulla gestione del rischio di anomalia delle offerte imponendo alle stazioni appaltanti di valutare questo rischio e fornendo agli operatori economici la possibilità di presentare i loro giustificativi».
Per effetto di tale pregiudiziale la scelta degli estensori viene limitata al sottosoglia comunitario per cui si è deciso di mantenere un sistema di esclusione automatica, ma limitatamente a quelle situazioni con un numero di offerte sufficientemente elevato (almeno cinque) per cui il processo di valutazione dell'anomalia sia più lungo e costoso per le stazioni appaltanti in ragione della maggior complessità intrinseca dei contratti (quindi, per appalti di lavori e servizi, ma non di forniture).
La disciplina dell'art. 54, per la sua portata generale, è applicabile alle ipotesi di procedura negoziata, ma anche al caso in cui si ricorra alla procedura ordinaria, nel caso previsto dall'art. 50, comma 1, lett. d). Si esclude invece esplicitamente, per fugare ogni dubbio, l'affidamento diretto con richiesta di più preventivi (comma 1, secondo periodo).
L'aspetto, però, di maggior delicatezza sembra essere determinata dal comma 2 dell'articolo che «contiene la parte più innovativa della disposizione», rappresentata dalla introduzione dell'obbligo per le stazioni appaltanti di prevedere negli atti di indizione della procedura da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso (e quindi fin dall'avviso a manifestare interesse o nel bando purché non determinato da interesse transfrontaliero), oltre alla opzione per l'esclusione automatica delle offerte, anche il metodo matematico di determinazione della soglia di anomalia, individuato a scelta delle medesime stazioni appaltanti tra uno dei tre indicati nell'allegato II.2.
Questa precisazione, effettivamente, rappresenta anche la debolezza della previsione visto che la sua mancata previsione/richiamo non può condurre ad esclusione automatica salvo che si affermi, ufficialmente, che l'articolo 54 è eteroingrativo (imponendosi, quindi, alla stazione appaltante in caso di omesso richiamo negli atti di gara) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Per realizzare la mansarda serve sempre il permesso edilizio.
Il Consiglio di Stato esclude le tesi che vorrebbero qualificare l’opera come una manutenzione o una ristrutturazione edilizia
Il residente di un comune campano ha presentato una Scia in sanatoria, versando 516 euro di sanzione, per regolarizzare un intervento considerato «alla stregua di un intervento di ristrutturazione o di manutenzione della copertura del preesistente piano primo mansardato».
Intervento che ha portato alla realizzazione di uno spazio abitabile di 500 mq. Sulla base dei riscontri effettuati nel cantiere dai vigili urbani il comune ha emesso un'ordinanza di demolizione ritenendo che gli interventi fossero privi del necessario titolo edilizio.
L'interessato ha impugnato l'ordinanza al Tar, sostenendo che stava eseguendo «mere opere di manutenzione consistenti nel rifacimento parziale della copertura del primo piano». Il Tar ha invece dato credito al rapporto dei vigili urbani che hanno descritto nel dettaglio una «sopraelevazione» tesa a realizzare appunto «una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato preesistente».
Il Consiglio di Stato - Sez. VII, nella sentenza 15.01.2024 n. 488, non ha potuto che respingere l'appello, ricordando che «la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l'intervento rientra nella nozione di nuova costruzione».
Pertanto, nel caso specifico, concludono i giudici della VII Sezione di Palazzo Spada, «la realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato preesistente di 500 mq non può qualificarsi come ristrutturazione edilizia perché comporta la creazione di nuovi volumi» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024).
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SENTENZA
6. Le censure sono infondate.
6.1 La descrizione delle opere contenuta nell’ordinanza di demolizione e nel verbale di sequestro datato 13.08.2015 smentisce la tesi difensiva secondo cui si tratterebbe di mere opere di manutenzione consistenti nel rifacimento parziale della copertura del primo piano oggetto di SCIA in sanatoria presentata in data 14.10.2015.
6.2 Per contro, le opere abusive accertate in sede di sopralluogo dei Vigili Urbani consistevano in una “sopraelevazione realizzata in legno, tegole di copertura, a falde inclinate, grondaia perimetrale, pali e travi in legno, parziale chiusura perimetrale con tavelle, guaina di calpestio. Alla stessa si accede con torrino scala. La detta sopraelevazione è di circa mq. 500 (cinquecento) con altezza di colmo ml 3,50 ed altezza laterale di circa ml 2,50 il tutto in corso di realizzazione”.
6.3 Come osservato dal giudice di primo grado,
è evidente che la realizzazione di una sopraelevazione per una superficie e un’altezza pari a quelli accertate non può essere considerata alla stregua di un intervento di ristrutturazione o di manutenzione della copertura del preesistente piano primo mansardato.
6.4 Per giurisprudenza costante,
la ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione (Cons. Stato Sez. VI, 13.01.2021, n. 423).
Ne discende che
la realizzazione di una mansarda a quota di piano primo di un fabbricato preesistente di 500 mq non può qualificarsi come ristrutturazione edilizia perché comporta la creazione di nuovi volumi (Cons. Stato sez. VII 01.08.2023, n. 7453).
7. A diverse conclusioni non conducono né la perizia giurata a firma del geom. Be.Fr. (in diparte i profili di inammissibilità della medesima in quanto depositata solo in appello, sub doc. n. 2) né la sentenza penale di assoluzione emessa dal Tribunale di Napoli nei confronti del signor -OMISSIS- e citata da parte appellante.
7.1 Da un lato, la perizia giurata, pretermettendo totalmente lo stato di fatto così come accertato nel verbale di sequestro, si limita a richiamare la perizia tecnica e gli elaborati grafici allegati all’istanza di concessione in sanatoria nonché la descrizione delle opere contenuta nella SCIA in sanatoria presentata il 14.10.2015, concludendo che “gli interventi sopra descritti non hanno comportato alcun aumento di superficie e volumetria rispetto a quella esistente e assentita con C.E. in sanatoria”.
7.2 La relazione tecnica, fondandosi sul mero confronto tra le opere oggetto di concessione in sanatoria e le opere sopravvenute così come descritte dall’istante nella SCIA presentata, non è idonea a smentire le circostanze di fatto accertate dagli operatori di Polizia Municipale i quali hanno anche puntualizzato che le opere erano ancora “in corso di realizzazione” al momento del sopralluogo (13.08.2015).
7.3 Dall’altro lato, la sentenza n. -OMISSIS- non reca alcun accertamento, suscettibile di efficacia extrapenale (art. 654 c.p.p.), in ordine all’affermata legittimità delle opere realizzate poiché si limita ad assolvere il signor -OMISSIS- dal reato di cui all’art. 44, lett. b), d.p.r. 380/2001 unicamente per la mancata prova che l’imputato fosse proprietario dell’immobile o committente delle opere abusivamente realizzate, come confermato anche dal fatto che era stata la signora -OMISSIS-, in qualità di proprietaria, a presentare la SCIA in sanatoria (pag. 3 sentenza n. -OMISSIS-, doc. 1 allegato alla memoria di primo grado del 30.01.2019).
7.4 Le considerazioni sopra svolte confermano, pertanto, la legittimità dell’ordinanza di demolizione poiché avente ad oggetto opere integranti una nuova costruzione per le quali è necessario il permesso di costruire.

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando che la partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare alcun esito diverso.
Invero, l’ordine di demolizione è atto vincolato e di carattere reale e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, atteso che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare.
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide sul dovere di disporne la demolizione.
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8. La natura vincolata dell’ordine di demolizione determina l’infondatezza delle censure relative alla violazione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento e al difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico perseguito in comparazione con quello del privato.
8.1 Sotto il primo profilo, in disparte la circostanza che gli appellanti si limitano a contestare l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento senza specificare quale apporto partecipativo avrebbero potuto fornire per superare le riscontrate illegittimità, è dirimente osservare che l’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento, considerando che la partecipazione del privato al procedimento non potrebbe determinare alcun esito diverso (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 11.05.2022, n. 3707; sez. II, 01.09.2021, n. 6181).
8.2 Sotto il secondo profilo, si richiama l’orientamento della giurisprudenza che, nel solco dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 9/2017 e ribaditi di recente dall’Adunanza Plenaria n. 16/2023, ha costantemente rilevato che l’ordine di demolizione è atto vincolato e di carattere reale e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. II, 11.01.2023, n. 360; sez. VI, 17.10.2022, n. 8808).
8.3 Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, atteso che non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (Ad. Plen. 9/2017, sez. II, 11.01.2023, n. 360; sez. VI, 26.09.2022, n. 8264).
La presenza del manufatto abusivo comporta, infatti, una lesione permanente ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide sul dovere di disporne la demolizione (Ad. Plen. 16/2023).
9. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 15.01.2024 n. 488, no - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controversie inerenti la mobilità interna.
Il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con sentenza 13.01.2024 n. 32 ha ricordato che
le controversie che hanno a oggetto la contestazione degli atti di mobilità interna (trasferimento ad altra unità organizzativa), anche quando impugnati congiuntamente all'atto programmatorio presupposto (Piao), sono di competenza del giudice ordinario.
Infatti, in questi casi, l'interesse personale, diretto, concreto e attuale ad agire azionato e dunque il petitum sostanziale del ricorso non è costituito da una generica ed astratta pretesa alla legalità della gestione delle risorse umane da parte dell'ente datore di lavoro, bensì dalla volontà del ricorrente di conservare l'assegnazione precedentemente ottenuta e, quindi, di far valere una situazione giuridica soggettiva legata al rapporto di lavoro in essere con l'amministrazione, sotto il profilo del diritto alla sede di servizio
 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
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SENTENZA
2. – Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, come da eccezione sollevata dal Comune di Gaeta, venendo in questione una vicenda contenziosa inerente la gestione privatistica del rapporto di lavoro di un dipendente comunale, sotto il profilo del suo trasferimento da un ufficio dell’ente ad un altro.
Infatti, ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, “1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo”.
Sul punto, costituisce ormai ius receptum che, dopo l’approvazione della graduatoria finale del concorso pubblico, “si apre la fase esecutiva nella quale si configurano attività che attengono allo svolgimento privatistico del rapporto di lavoro” (TAR Lazio, Roma, sez. V, 14.12.2023 n. 18972; sez. I, 28.03.2023 n. 5327; TAR Sardegna, sez. I, 08.09.2020 n. 483); nel contesto di tale fase i comportamenti e le determinazioni dell’Amministrazione sono espressione del potere negoziale che la stessa esercita nella veste e con la capacità del privato datore di lavoro (Cass. civ., sez. un., 07.07.2014 n. 15428; sez. un., 23.09.2013 n. 21671; sez. un., 06.07.2006 n. 15342).
Inoltre, osserva il collegio che “la giurisdizione deve essere determinata sulla base della domanda, dovendosi guardare, ai fini del riparto […] tra giudice ordinario e giudice amministrativo, non già alla prospettazione compiuta dalle parti, bensì al petitum sostanziale, da identificare, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto, soprattutto, in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, da individuarsi con riguardo ai fatti allegati” (Cass. civ., sez. un., 22.09.2022 n. 27748; TAR Lazio, Roma, sez. V, 14.12.2023 n. 18972).
Ebbene, nella vicenda che ci occupa -OMISSIS- non ha impugnato soltanto il PIAO civico, ma anche e soprattutto le note municipali prot. n.-OMISSIS- del 30.01.2023 e prot. n. -OMISSIS- del 02.02.2023, con le quali è stato concretamente disposto il suo trasferimento ad altra unità organizzativa, rispetto alle quali il suddetto piano costituisce un atto amministrativo presupposto.
In tal senso, l’interesse personale, diretto, concreto ed attuale ad agire azionato in questa sede dal ricorrente –e dunque il petitum sostanziale del ricorso– non è costituito da una generica ed astratta pretesa alla legalità della gestione delle risorse umane del Comune resistente, bensì nella volontà di -OMISSIS- di conservare l’assegnazione precedentemente ottenuta e, quindi, di far valere una situazione giuridica soggettiva legata al rapporto di lavoro in essere con l’Amministrazione civica, sotto il profilo del diritto alla sede di servizio.
Sul punto, giurisprudenza che il collegio intende condividere ha già affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia relativa all’assegnazione del dipendente a una diversa unità organizzativa nel rispetto della categoria e del profilo professionale di appartenenza, in quanto gestita con i poteri del privato datore di lavoro e non comportante alcuna modificazione del rapporto di impiego tra le parti (TAR Marche, sez. I, 07.03.2014 n. 327).
Pertanto, atteso che le citate note dirigenziali del 30.01.2023 e del 02.02.2023, cioè gli atti direttamente lesivi della posizione del ricorrente, sono state assunte con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, la cognizione sull’eventuale esistenza di patologie che ne inficino la legittimità è devoluta al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 165 cit., cui è anche attribuito il potere di disapplicare eventualmente il PIAO in quanto atto amministrativo presupposto rilevante.
È, dunque, innanzi al giudice ordinario che -OMISSIS- potrà riproporre la domanda nei termini di legge, ai sensi degli artt. 59, l. 18.06.2009 n. 69 e 11 cod. proc. amm. e secondo i principi affermati dalle sentenze della Corte costituzionale 12.03.2007 n. 77 e della Corte di cassazione, sezioni unite, 22.02.2007 n. 4109.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Depuratore comunale e responsabilità del sindaco.
La decisione consapevole di fare funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica una condotta positiva di disturbo e molestia a livello igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di cautele idonee ad impedire il versamento.
Quello di cui all’articolo 674 cod. pen. è reato di pericolo per la cui integrazione non occorre un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente «l'attitudine a cagionare effetti dannosi», sussistente nel caso di uno scarico di acque altamente tossiche e maleodoranti, avvenuto in luogo pubblico (fattispecie relativa alla condotta di un sindaco il quale non aveva evitato che i reflui provenienti dall’impianto di depurazione comunale finissero in mare in assenza di idonea depurazione, così imbrattando le acque marine)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2024 n. 1451 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Quanto al primo profilo, mediante il quale è stata lamentata la errata applicazione dell'art. 674 cod. pen., a causa della affermazione della idoneità lesiva della condotta nonostante il mancato accertamento della dannosità per le persone di quanto sversato in mare, occorre premettere i principi della giurisprudenza, che questo Collegio richiama ritenendoli pienamente condivisibili.
2.1. La Corte ha reiteratamente affermato (Sez. 3, n. 49213 del 06/11/2014, Ingianni) che l’ipotesi contravvenzionale in esame è qualificata come reato di pericolo, cosicché per la sua configurazione è necessaria esclusivamente l'astratta attitudine delle cose gettate o versate a cagionare effetti dannosi ed è sufficiente la colpa, configurabile in tutti i casi in cui venga riscontrata l'attivazione di impianti pericolosi ovvero venga accertata la colposa omissione di cautele atte ad impedire il verificarsi della situazione di pericolo.
Ancòra, Sez. 3, n. 46237 del 30/10/2013, Semplici, ha precisato che è necessario e sufficiente accertare «la potenziale offensività del rifiuto o del refluo e che il getto avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato di comune o altrui uso (cfr. Cass. sez. 3, sentenza n. 25037 del 25/05/2011 Ud. dep. 22/06/2011 Rv. 250618; cfr. anche, con riferimento alla normativa preesistente, Sez. 1, sentenza n. 13278 del 10/11/1998 Ud, dep. 17/12/1998 Rv. 211869)», allargando altresì, nel tempo, l’ambito della nozione di «molestia», ravvisata ad esempio anche in caso di «mutevole colorazione del mare» causata dai reflui di un impianto di depurazione comunale, risultando palese ed intrinseco il turbamento che suscita nella comunità la visione del mare di un colore diverso da quello suo proprio (Sez. 3, n. 10034 del 07/01/2014, Calabrò, secondo cui «costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle persone preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute»).
Si è poi precisato che «la decisione consapevole di fare funzionare e gestire un impianto fognario difettoso, implica una condotta positiva di disturbo e molestia a livello igienico e non una mera condotta omissiva dell’adozione di cautele idonee ad impedire il versamento» (Sez. 3, n. 48406 del 18/10/2019, Livello, Rv. 278259 – 01; Sez. 3, n. 6419 del 07/11/2007, Costanzach, Rv. 239058 – 01).
Recentemente, la Corte (Sez. 3, n. 21034 del 05/05/2022, Ali Spa, n.m.), ha chiarito che quello di cui all’articolo 674 cod. pen. è reato di pericolo per la cui integrazione non occorre un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente «l'attitudine a cagionare effetti dannosi», precisando che non può non essere ricompresa una situazione, ove esiste uno scarico di acque altamente tossiche e maleodoranti, avvenuto in luogo pubblico.
2.2. Per quanto concerne il merito del ricorso, il Collegio osserva come nella giurisprudenza consolidata della Corte (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01), in caso di c.d. «doppia conforme», ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione. Le motivazioni dei due provvedimenti in questo caso (v. Sez. 1, n. 8868 dell’08/08/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145) si integrano a formare un corpo unico.
Si è dunque, anche nel caso di specie, in presenza di «doppia conforme», con il conseguente obbligo per il ricorrente di confrontarsi in maniera puntuale con i contenuti delle due sentenze, circostanza, nel caso di specie, non sussistente.
Ciò premesso, il motivo è in parte qua inammissibile, essendo volto, peraltro in modo generico, privo di confronto critico con la motivazione della sentenza impugnata, a censurare sul piano del merito un accertamento di fatto, in ordine a detta idoneità lesiva dei reflui, di cui è stata accertata la presenza in mare nel corso di reiterate ispezioni ed analisi effettuate nel corso degli anni, che hanno evidenziato il superamento dei parametri COD e BOD, oltre l’assenza di misuratori di portata, pozzetti di ispezione e registri di carico e scarico dei rifiuti prodotti e smaltiti (pag. 6-7 sentenza di primo grado).
A ciò il Collegio aggiunge che non vi è dubbio che il mare territoriale (v. Sez. U. Civili, n. 2735 del 02/02/2017, Rv. 642419 - 02) sia una res communis omnium, rispetto al quale sussiste un diritto di uso comune a tutti i componenti della collettività uti cives, ragion per cui l’immissione in mare di sostanze inquinanti in misura superiore ai limiti consentiti cagiona un concreto pericolo di cagionare effetti dannosi alla salute nei confronti di un numero indeterminato di persone.
3. Del pari inammissibili sono le censure che si ricollegano alla qualifica di sindaco del ricorrente.
3.1. In ordine alla posizione del sindaco e alle responsabilità che ad essa conseguono, il Collegio premette che secondo la giurisprudenza della Corte il d.lgs. n. 267 del 2000, art. 107, comma 1, stabilisce che ai dirigenti degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo (v. Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Fasulo, Rv. 256638 – 01).
La richiamata disposizione è stata più volte oggetto di esame da parte della giurisprudenza di questa Corte con specifico riferimento alla materia dei rifiuti, contigua rispetto a quella oggetto del presente procedimento.
Si è infatti chiarito che
gli organi di governo, in base alla disciplina sugli enti locali, hanno un dovere di controllo limitato al corretto esercizio della funzione di programmazione generale (e, quanto al sindaco, dei compiti di ufficiale del governo), restando esclusa la responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da problemi di carattere tecnico-operativo, ancorché non meramente esecutivo, riguardanti difficoltà meramente contingenti e di ordinaria amministrazione nonché la sorveglianza dell'operato del personale dipendente, che restano di competenza del dirigente amministrativo di settore (Sez. 3 n. 23855, 07.05.2002, conf. Sez. 3 n. 8530, 04.03.2002).
Tuttavia, questa Corte (Sez. 3, n. 2478 del 09/10/2007, dep. 2008, Gissi, Rv. 238593 – 01) ha precisato che,
se è vero che l'art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti amministrativi dell'ente di autonomi poteri organizzativi, permane comunque in capo al sindaco, quale figura politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate (in tal senso Cass. Sez. 3, n. 28674 del 2004 Rv. 229293).
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Rv. 256638; Sez. 3, n. 18024 del 30/03/2023, Di Palma, n.m.).
Sussistono, quindi, da un lato, delle attribuzioni dirette del sindaco (quale quella di programmazione e, in materia di rifiuti, quella di ordinanza); dall’altro, un obbligo generale di vigilanza e controllo, a fronte di situazioni particolarmente gravi e reiterate nel tempo, quale quella in esame.
3.2. Nel caso di specie, le due conformi pronunce di merito sottolineano la risalenza nel tempo del problema, la sua gravità e la sua perduranza.
A pagina 7 della sentenza di primo grado si chiarisce, ad esempio, che le deposizioni dei testi Sa. (ARPA), Ar. e Ad. (Capitaneria di Porto) e i certificati di analisi in atti, evidenziavano i superamenti dei limiti tabellari per i parametri COD e BOD anche nel 2015, 2016 e 2018, ossia anche dopo l’elezione del Vi..
Analogamente, a pag. 4-5 della prima sentenza si dà conto di come nel 2018 si sia verificato un corposo carteggio tra la Regione e il Comune sul tema, sia stata fissata una conferenza di servizi, e di come nella nota del 18.05.2018 (ossia quando il vinci ricopriva la carica di sindaco) la Regione esprimesse rilievi critici proprio sulle «scelte operate dal RUP Geom. Sa. e dal sindaco del Comune di Saponara».
A fronte di tale, precisa, motivazione, il ricorrente da un lato omette di indicare in modo preciso quali interventi avrebbe posto in essere per fronteggiare il problema (essi sono solo genericamente indicati a pag. 2 del ricorso) e, dall’altro, omette di confrontarsi con i dati precisi offerti dalle due sentenze, da cui emerge la prosecuzione dell’inquinamento ben oltre la data di assunzione della carica sindacale e la comunicazione nelle sedi istituzionali di tale perduranza.
Ed infatti, a fronte di una motivazione precisa sia in ordine alla prosecuzione delle criticità dopo l’assunzione della carica sindacale da parte del ricorrente, certificate da rapporti analitici e debitamente rappresentate anche in conferenza di servizi, che alla precisa comunicazione di tali criticità agli organi comunali, il ricorso si limita ad una generica censura di tipo «contestativo», senza opporre una critica precisa che «attacchi» i motivi del provvedimento impugnato, risultando così inammissibile per difetto di specificità estrinseca.

APPALTI: Manodopera, mai ribassabili le spese individuate come «incomprimibili» nel bando.
Resta la possibilità di giustificare che il ribasso complessivo dell’importo derivi da una più efficiente organizzazione aziendale: il ragionamento del Tar Campania compatibile con le disposizioni del nuovo codice.

Il giudice campano (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 11.01.2024 n. 147) viene chiamato a verificare la legittimità di un provvedimento di esclusione determinato dal non consentito ribasso degli oneri della manodopera (e sicurezza) indicati dalla stazione appaltante riguardo ad un appalto bandito sotto l’egida del pregresso codice.
La sentenza contiene, però, indicazioni utili anche in relazione al nuovo impianto normativo.
La questione
Il ricorrente impugna la propria esclusione in relazione ad un appalto di servizi pulizia, manutenzione e custodia dell'area cimiteriale, fondata, in particolare, su un ribasso «abnorme» rispetto ai soli importi ribassabili ovvero la sola parte composta «dalle spese per i materiali e le attrezzature, per 5.844,15, il rimborso spese generali, per 7.017,77 e l'utile d'impresa, pari ad 5.380,29».
In questo modo la percentuale del ribasso determinava praticamente l'azzeramento di queste voci (raggiungendo la soglia del 92,77). Evidentemente, l'offerta è stata considerata anomala e inaccettabili le stesse giustificazioni.
Da qui, la censura del ricorrente che ha strutturato il proprio ricorso evidenziando che la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare la percentuale di ribasso non alla sola componente del costo dell'appalto preso in considerazione (che si potrebbero sintetizzare come spese generali e la percentuale di utile) ma anche alle altre componenti ovvero «l'importo per il costo del personale, pari ad 38.961 e quello per la sicurezza, pari ad 1.980, per complessivi 40.941,00».
In pratica, la stazione appaltante avrebbe dovuto prendere in considerazione (applicare il ribasso offerto), secondo la ricorrente, anche questi importi e, in questo modo, la percentuale di ribasso si sarebbe attesta sul 28,95% risultando non anomala.
La sentenza
Il Tar si sofferma, dapprima, sul procedimento di verifica della potenziale anomalia dell'offerta evidenziando che l'analisi -che deve essere presidiata dal Rup-, «costituisca espressione della discrezionalità tecnica, di cui l'amministrazione è titolare per il conseguimento e la cura dell'interesse pubblico ad essa affidato dalla legge (Consiglio di Stato sez. V, 14.06.2021, n. 4620, cfr. Consiglio di Stato sez. V, 01.06.2021, n. 4209)».
Le risultanze del procedimento, quindi, sono sottratte ad un «sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti». Giungendo, quindi, alla parte centrale della censura la possibilità o meno di ribassare il costo della manodopera-, in sentenza si rileva che «qualora la lex specialis di gara abbia nettamente distinto una parte del valore del contratto di appalto come spesa incomprimibile (quella afferente al costo del personale) ed abbia specificato, con riferimento alla restante parte della base d'asta, l'offerta del massimo ribasso, solo su questo costo l'operatore sia legittimato a proporre la sua offerta in ribasso».
Ed è ciò che è effettivamente avvenuto con la gara di in cui, la stazione appaltante, ha evidenziato i costi incomprimibili come richiesto dalla pregressa disciplina e, in modo più chiaro, con l'attuale codice-, richiedendo il ribasso solo sulla parte «comprimibile» e su questa «i singoli concorrenti avrebbero dovuto operare il ribasso». Il ribasso offerto, invece, secondo la pretesa della ricorrente, incideva anche sugli oneri della manodopera e sugli oneri della sicurezza violando le prescrizioni della legge di gara.
Pertanto la decisione, sul procedimento di verifica della potenziale anomalia, è tutt'altro che privo di fondamento illogico.
Il ragionamento espresso, prima dalla stazione appaltante e poi confermato dal giudice, pare coerente anche con il nuovo disposto contenuto nel comma 14 dell'articolo 41 del nuovo codice in cui per i soli contratti di lavori e servizi, «per determinare l'importo posto a base di gara, la stazione appaltante o l'ente concedente individua nei documenti di gara i costi della manodopera» che, con gli oneri della sicurezza, devono essere «scorporati dall'importo assoggettato al ribasso». Fermo restando la possibilità, da intendersi in senso generale, dell'operatore economico «di dimostrare che il ribasso complessivo dell'importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale».
Una corretta interpretazione impone quindi alla stazione appaltante di specificare, come anche avviene nel bando tipo n. 1/2023 dell'Anac, che gli oneri della manodopera non sono ribassabili direttamente ma qualora, si potrebbe dire in via indiretta, si incida anche su questi, l'offerente solo per questo non può essere escluso ma deve essere chiamato a certificare l'esistenza di una maggiore «efficienza» rispetto al modello richiesto dalla stazione appaltante con la legge di gara (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali, anche orti e case rustiche possono essere soggetti a vincolo. Lo segnala una sentenza del Tar Liguria rigettando il ricorso dei proprietari
Un frutteto, un orto e una casa rustica possono essere dichiarati beni culturali.
È quanto statuisce il TAR Liguria (Sez. I con sentenza 11.01.2024 n. 16) che ha confermato la legittimità di un decreto del Presidente della Commissione Regionale per il patrimonio culturale della Liguria che ha qualificato tali beni come soggetti a vincolo culturale.
La sentenza è interessante perché, oltre ad affrontare il tema sempre molto complicato della presunzione di vincolo dei beni appartenenti ad enti pubblici ribadisce l'ampia discrezionalità di cui dispone il Ministero dei Beni Culturali nella valutazione della presenza o meno di interesse culturale e sostiene che la valutazione connessa ai beni appartenenti ad un ente pubblico afferisce alla verifica di un interesse culturale minore.
Andando con ordine, la vicenda da cui scaturisce la pronuncia riguarda un compendio immobiliare di proprietà della Siae che, in qualità di ente pubblico economico, intendendo procedere alla sua vendita ha chiesto l'attivazione della verifica di interesse culturale del compendio, ai sensi dell'articolo 12 del Codice dei Beni Culturali.
La verifica è terminata con la dichiarazione di vincolo, contestata dagli attuali proprietari avanti al Tar sulla base di motivazioni volte a confutare la ricostruzione ministeriale di sussistenza di effettivo interesse culturale. Il Tar ha rigettato la richiesta sulla base di molteplici argomentazioni, di cui la principale è la ampia discrezionalità della scelta dell'amministrazione. Infatti, secondo i giudici liguri, le valutazioni sottese alla dichiarazione di interesse culturale sono molto ampie, attraversano diversi campi del sapere e si basano su un apprezzamento delle qualità di un bene connotato da una grande discrezionalità tecnica.
Il giudizio che presiede alla dichiarazione di interesse culturale, e quindi all'imposizione di un vincolo, implica l'applicazione di cognizioni specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell'arte, dell'architettura, dell'archeologia e di altre discipline caratterizzate da canoni elastici e mobili e, quindi, da grandi margini di opinabilità.
Queste considerazioni quindi portano a considerare che anche beni che tradizionalmente non vengono ricondotti al novero dei beni culturali (come un frutteto, un orto o un bene rustico) possono validamente presentare un interesse culturale che non può essere escluso a priori. Per esempio, in relazione ai terreni oggetto di giudizio, l'interesse culturale nasce dal fatto che essi presentano una stretta connessione con un bene cinquecentesco (oggetto di vincolo precedentemente) sia dal punto di vista morfologico che storico testimoniale.
Questo basta a considerare la legittimità della dichiarazione di vincolo, anche in ragione del fatto che secondo il Tar la discrezionalità del Ministero in caso di beni appartenenti ad enti pubblici è anche maggiore rispetto alle valutazioni che sono condotte sui beni dei privati. Infatti, mentre per i beni del demanio o del patrimonio pubblico l'articolo 10, comma 1, lett. A), del Codice dei Beni Culturali postula la sussistenza di un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico quindi per dirla con le parole del Tar la sussistenza di un interesse semplice, per i beni di proprietà privata l'art. 10, comma 3, richiede il riscontro di un interesse particolarmente importante o eccezionale.
Questo costituirebbe, quindi, un ulteriore motivo a supporto della legittimità del decreto di vincolo la cui valutazione era chiamata ad accertare un interesse semplice data la natura giuridica della Siae.
Si ricorda, sul punto che per costante giurisprudenza la valutazione dell'amministrazione può essere censurata soltanto se la decisione risulti in contrasto con la realtà fattuale, ovvero sia irragionevole, incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico, ponendosi al di fuori della naturale ed intrinseca opinabilità del sapere che definisce il carattere culturale del bene (Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI, 04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.01.2024).
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SENTENZA
3. Tanto premesso, gli atti impugnati non risultano affetti dai vizi censurati con il I) mezzo di gravame.
Occorre rammentare che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, lett. a), e 12 del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali), tutti i beni mobili e immobili di proprietà di soggetti pubblici o di enti privati non lucrativi, realizzati da autore non più vivente ed esistenti da oltre settant’anni, sono sottoposti ad una misura di salvaguardia, consistente nell’applicazione del vincolo di tutela sino al compimento della verifica circa la sussistenza o meno di uno specifico interesse culturale (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico).
Come rilevato in dottrina, si tratta di una presunzione iuris tantum di culturalità, per cui tali beni sono provvisoriamente soggetti al sistema codicistico di protezione fino allo scrutinio ad hoc dell’interesse culturale da parte degli organi competenti, d’ufficio o su istanza degli enti proprietari: in caso di verifica positiva, il bene rimane definitivamente vincolato; diversamente, l’esito negativo dell’accertamento comporta la fuoriuscita del cespite dal regime di tutela (in argomento cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 12.02.2015, n. 769; TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 28).
3.1. Ciò posto, contrariamente a quanto argomentato da SIAE e dai signori Bo., il rustico è stato verosimilmente costruito anteriormente al 1950 ed è, pertanto, un bene ultrasettantennale, con conseguente operatività della richiamata disciplina.
In proposito, non è significativa la circostanza che l’unità immobiliare sia stata per la prima volta iscritta in catasto nel 1959, poiché in passato accadeva sovente che i piccoli fabbricati rurali non venissero accatastati al momento della loro realizzazione (v. sul punto TAR Liguria, sez. I, 18.05.2022, n. 395; TAR Liguria, sez. I, 28.09.2020, n. 642).
Per contro, dalla documentazione versata in atti emergono plurimi indizi della risalenza della costruzione ad un periodo antecedente al 1959 e, in generale, agli anni ’50:
   - nel rogito notarile di compravendita stipulato fra SIAE ed i signori Bo., all’art. 9, la procuratrice speciale della parte venditrice ha dichiarato che il manufatto è stato edificato anteriormente al 1942 (v. doc. 1 interventori);
   - nella relazione di regolarità edilizia e catastale richiamata nel prefato atto notarile l’ing. Ol., in qualità di tecnico di SIAE, ha rappresentato che il rustico è stato originariamente realizzato quale manufatto di servizio per la conduzione del fondo agricolo e, in seguito, utilizzato come dependance della villa per il personale di sorveglianza; ha aggiunto che, probabilmente, è stato eretto dopo il 1940 e che ha assunto la consistenza attuale prima del 1967 (v. produzione interventori del 10.07.2023);
   - nel 1959 Fr.Ci. era morto da tempo (essendo mancato il 20.11.1950), mentre Ro.La. aveva ottantadue anni, in quanto nata il 01.08.1877 (v. atto di donazione rep. n. 61952 notaio Ca. di Genova). Ora, appare poco plausibile che una donna ultraottuagenaria intraprenda l’edificazione di un nuovo fabbricato, viepiù se si considera che, quasi sicuramente, nel 1959 la vedova del musicista aveva già maturato la decisione di donare il compendio immobiliare a SIAE o, comunque, stava vagliando tale opzione; viceversa, è assai probabile che il manufatto sia stato accatastato in tale momento proprio per procedere alla liberalità in favore dell’ente ricorrente.
3.2. In secondo luogo, si rivela manifestamente infondato l’assunto secondo cui l’avversato decreto di vincolo sarebbe stato emanato senza accertare previamente l’interesse culturale dei beni.
Come dimostrato dall’Amministrazione resistente, infatti, il procedimento di verifica di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 è stato correttamente esperito, secondo l’iter divisato dagli artt. 40, 41 e 47 del d.p.c.m. n. 169 del 02.12.2019.
In particolare, come accennato (supra, § 2), la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio ha svolto l’istruttoria ed ha proposto alla Commissione per il patrimonio culturale della Liguria il riconoscimento dell’interesse per il terreno-frutteto lato ovest, il rustico a monte ed il terreno-orto a nord-est, esprimendosi invece in senso contrario per le due unità immobiliari facenti parte dell’edificio a schiera a ponente della villa (v. nota Soprintendente in data 03.08.2021 e relativi allegati, sub doc. 4 resistente).
La Commissione regionale ha accolto la proposta soprintendentizia (v. verbale CO.RE.PA.CU. del 04.08.2021, sub doc. 4 resistente) e, con il decreto in questa sede impugnato, il Segretario regionale del Ministero della Cultura, nella sua qualità di Presidente della predetta Commissione, ha dichiarato l’interesse culturale dei beni in parola.
3.3. Infine, la mancata inclusione delle pertinenze nella dichiarazione di interesse culturale del 2001, avente ad oggetto esclusivamente “Villa Cilea con giardino”, non configura una situazione di affidamento tutelabile.
Come si è detto, infatti, tutti i beni ultrasettantennali appartenenti ad Amministrazioni ed enti pubblici sono soggetti a protezione ex lege, che viene meno soltanto all’esito negativo della procedura di verifica dell’interesse culturale prevista dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
Dunque, poiché per i beni in discussione non era mai stata compiuta la valutazione di interesse culturale (cfr. doc. 3 resistente), il relativo potere non si è consumato: onde l’eventuale convinzione soggettiva di SIAE circa l’avvenuta maturazione di una preclusione all’imposizione del vincolo culturale costituisce il frutto di un errore di diritto, insuscettibile di fondare un legittimo affidamento.
Tale conclusione risulta viepiù avvalorata dal fatto che il decreto del 2001 è stato emanato sotto l’egida del previgente d.lgs. n. 490/1999, il quale non contemplava il meccanismo della presunzione di interesse culturale, ma si basava sulla predisposizione di elenchi descrittivi dei beni da parte degli stessi enti pubblici proprietari.
Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non solo il provvedimento del 2001 non ha escluso il rilievo culturale delle pertinenze di “Villa Cilea” (e, quindi, con l’atto del 2021 l’Amministrazione non ha compiuto alcun revirement), ma, anzi, nel primo decreto di vincolo risulta precisato che l’esplicitazione del carattere storico-artistico dell’edificio padronale veniva effettuata nelle more della compilazione, a cura di SIAE, della lista di tutti i propri beni culturali, rispondendo all’esigenza di sottoporre immediatamente a tutela la villa (all’evidente scopo di evitare che potesse “sfuggire” alla protezione, a causa di una catalogazione non esaustiva).
In altri termini, l’interesse culturale dei beni immobili in contestazione non è mai stato disconosciuto dal Ministero della Cultura e, quindi, al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 i beni medesimi sono passati in regime di tutela provvisoria, poi sfociata nel provvedimento definitivo odiernamente oppugnato (per un caso simile cfr. Cons. St., sez. VI, 08.03.2023, n. 2482).
4. Si rivelano inaccoglibili anche le doglianze mosse con il II) motivo del ricorso.
4.1. L’Amministrazione può assoggettare a tutela culturale i beni di proprietà di un ente pubblico in uno spettro di situazioni più ampio rispetto all’ipotesi di cespiti appartenenti a privati: infatti, per i beni del demanio e del patrimonio pubblico l’art. 10, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 postula la sussistenza di un “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, vale a dire di un interesse culturale, per così dire, semplice; diversamente, per quelli in proprietà privata l’art. 10, comma 3, richiede il riscontro di un interesse “particolarmente importante” o “eccezionale” (sul punto v. Cons. St., sez. VI, 08.03.2023, n. 2482, cit.).
Orbene, alla data della contestata dichiarazione di interesse culturale, SIAE era titolare del diritto dominicale sul rustico e sul podere limitrofo, avendo stipulato con il signor Bo. soltanto il contratto preliminare, che, come noto, produce effetti meramente obbligatori. Pertanto, il provvedimento di vincolo non può reputarsi sproporzionato, giacché è stato lo stesso legislatore che, nel delineare i tratti del potere conformativo attribuito all’Autorità tutoria, ha stabilito di fare scattare la tutela dei beni degli enti pubblici in presenza di un interesse culturale di minore intensità rispetto a quello prescritto per i beni privati.
4.2. Secondo l’elaborazione pretoria, la nozione di bene culturale non si presta ad una definizione tassativa e puntuale, ma costituisce un concetto aperto, il cui contenuto viene riempito dalle elaborazioni di diversi campi del sapere, afferenti alle scienze non esatte.
In ragione delle peculiarità epistemologiche insite nell’apprezzamento della qualitas culturale di un bene, il giudizio che presiede alla dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnica, poiché implica l’applicazione di cognizioni specialistiche proprie di settori scientifici della storia, dell’arte, dell’architettura, dell’archeologia e di altre discipline caratterizzate da canoni elastici e mobili e, quindi, da lati margini di opinabilità.
Ne consegue che la valutazione dell’Amministrazione può essere censurata soltanto se la decisione risulti in contrasto con la realtà fattuale, ovvero sia irragionevole, incoerente o inattendibile sotto il profilo tecnico, ponendosi al di fuori della naturale ed intrinseca opinabilità del sapere che definisce il carattere culturale del bene (in argomento cfr., ex aliis, Cons. St., sez. VI, 30.08.2023, n. 8074; Cons. St., sez. VI, 04.09.2020, n. 5357; Cons. St., sez. VI, 14.10.2015, n. 4747).
Alla stregua delle tracciate coordinate ermeneutiche, ritiene il Collegio che il giudizio dell’Amministrazione resistente circa la valenza culturale di tutti i beni facenti parte del compendio immobiliare dei Cilea (con l’unica eccezione della casa in cui viveva la governante) si basi su dati oggettivi, risponda ai criteri delle scienze storiche ed artistiche, nonché risulti ragionevole e congruo.
Invero, la relazione allegata al decreto di vincolo (doc. 3 ricorrente) illustra, con adeguato corredo motivazionale, il valore culturale della tenuta terriera composta dall’edificio principale, dai terreni pertinenziali e dal fabbricato minore a monte. In proposito, appaiono particolarmente significativi i seguenti passaggi della relazione storico-artistica:
   - la dimora nobiliare denominata “Villa Cilea” è costituita da una “massiccia struttura architettonica…a parallelepipedo”: la villa presenta un nucleo originario presumibilmente cinquecentesco, come si evince dalla presenza di volte e peducci nelle coperture delle sale, ed è stata ristrutturata ed ampliata nella seconda metà del XIX secolo; le numerose stanze sono abbellite da affreschi ottocenteschi, alcuni dei quali opera dell’importante pittore Luigi De Servi. Nella residenza varazzina, di proprietà della famiglia Lavarello dalla seconda metà del 1800, il compositore e la consorte vissero dal loro matrimonio nel 1909 fino alla morte, animando un “vivace salotto intellettuale frequentato da artisti e uomini di cultura”;
   - “i terreni di pertinenza, posti sui lati ovest, nord ed est, mantengono tra loro, e con l’edificio stesso, una strettissima connessione sia dal punto di vista morfologico (come chiaramente leggibile nel rilievo planimetrico della proprietà, che evidenza come tutte le porzioni siano ancora armonicamente tra loro collegate), che storico testimoniale (ad esempio, la presenza di una porzione residuale di sistemazione a limonaia nel terreno ad est, o il sistema di percorsi progettato per superare il dislivello con il terreno ad ovest)”;
   - anche il fabbricato di servizio, che insiste sul terreno a nord “in diretta corrispondenza visiva con la Villa”, costituisce memoria della tenuta agricola, alla cui gestione era strumentale: invero, seppure alla fine dell’Ottocento il tracciato ferroviario ha tagliato in due il fondo, “le porzioni residuali di terreno…costituiscono ancora un elemento unitario con la Villa, da preservare sia in termini di testimonianza di quel paesaggio agrario di villa ormai quasi del tutto scomparso…sia in termini di risorsa ambientale”;
   - pertanto, “la Villa, unitamente al giardino che la circonda su tre lati verso mare e ai terreni di pertinenza, nonostante i mutamenti urbanistici intervenuti nell’area e un uso, anche incongruo, in epoca recente di alcune porzioni di terreno, costituisce, nel suo complesso, un rilevante esempio di villa suburbana d’impianto ligure caratterizzata da una forte relazione con il paesaggio di mare in cui è immersa”.
Dunque, l’Autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale ha descritto le caratteristiche della villa, con le sue peculiarità architettoniche ed artistiche ed il contesto storico di riferimento, nonché la consistenza dell’intero compendio, evidenziando la connessione morfologica e funzionale tra l’edificio padronale e le altre porzioni immobiliari: l’Amministrazione ha, quindi, delineato in modo puntuale e secondo i pertinenti criteri tecnici la rilevanza ed il significato di “Villa Cilea” e delle sue pertinenze.
Per contro, non appaiono meritevoli di condivisione le critiche levate dalla ricorrente e dagli interventori, giacché:
   - il fatto che il rustico non presenti i medesimi caratteri tipologici della villa non scalfisce le considerazioni dell’organo tutorio in merito all’interesse culturale dell’intero complesso immobiliare, in quanto testimonianza storica di una tenuta ligure suburbana, degna di particolare considerazione perché fu residenza del maestro Cilea e della moglie. È parimenti irrilevante che l’area a nord-est, acquistata nel 2022 dai signori Bo., non ospitasse un parco in senso stretto (id est un vasto giardino con piante ornamentali), bensì un terreno coltivato ad ortaggi ed un lungo pergolato con vigneto, giacché, come dato atto dallo stesso perito degli interventori, la villa svolgeva anche funzione di presidio agricolo del territorio (cfr. pagg. 4 e 22 della relazione dell’arch. Be. in data 24.03.2023, sub doc. 3 interventori): donde la legittimità della decisione dell’Amministrazione di tutelare, insieme alla dimora padronale, anche le sue pertinenze, quali vestigia di un paesaggio agreste a ridosso del mare oggi introvabile;
   - rappresenta un’opinione meramente soggettiva, inammissibilmente patrocinata come alternativa alla valutazione dell’Autorità tutoria, la tesi attorea secondo cui la costruzione della ferrovia (a fine ’800) e, successivamente, la demolizione della galleria con la sovrastante terrazza (intorno al 1950), con trasformazione del sedime in una strada urbana, avrebbero comportato il venir meno dell’originario nesso tra la villa ed i cespiti a monte, i quali risulterebbero ormai suddivisi in due parti distinte e disomogenee. In realtà, appare assolutamente attendibile l’apprezzamento della resistente secondo cui il collegamento tra le suddette porzioni del compendio sia stato fisicamente conservato attraverso la passerella pedonale che mette in comunicazione la villa con l’area a settentrione (rustico e podere), come si evince dalla documentazione fotografica in atti (v. doc. 11 ricorrente, nonché le fotografie a pag. 8 della relazione dell’Amministrazione descrittiva dello stato dei luoghi e le fotografie inserite quali tavole nn. 10-11 nella relazione dell’arch. Be. in data 24.03.2023; cfr., altresì, le fotografie della proprietà Bo. a pagg. 7-8 della relazione dell’Amministrazione, raffiguranti il vialetto che attraversa il terreno piantumato con alberi ed ortaggi, costituendo traccia dell’asse del preesistente pergolato);
   - l’assunto per cui il fabbricato rurale ed il terreno non sarebbero fruiti da oltre un secolo come, rispettivamente, manufatto di servizio ed orto retrostante alla villa è smentito dall’atto notarile con cui la vedova Cilea, nel febbraio 1960, cedette gli immobili a SIAE: invero, la donazione in blocco dei beni costituenti la tenuta, con riserva dell’usufrutto non solo sulla villa ma sull’intero fondo, dimostra che, ancora a tale data, tutte le porzioni costituivano un unicum (e verosimilmente rimasero tali almeno fino alla morte della donante usufruttuaria, avvenuta nel 1970).
Infine, si rivela fuori fuoco l’argomento dell’esponente secondo cui difetterebbero i requisiti elaborati dalla giurisprudenza per qualificare gli immobili come pertinenze urbanistiche della villa, vale a dire il collegamento con l’edificio principale, la mancanza di un autonomo valore di mercato e la modestia delle dimensioni.
Infatti, la nozione urbanistico-edilizia di pertinenzialità copre un ambito assai circoscritto e, pertanto, non coincide con quella civilistica di destinazione durevole a servizio o ad ornamento del bene principale ex art. 817 cod. civ. (cfr. TAR Liguria, sez. I, 29.08.2020, n. 596), né, a fortiori, con la nozione rilevante ai fini della tutela del patrimonio culturale, che si configura ancora più lata, ai sensi dell’art. 9 Cost. (cfr. Cons. St., sez. VI, 11.11.2019, n. 7715).
E ciò a prescindere dalla circostanza che il legame strumentale ed ornamentale delle varie porzioni immobiliari con la dimora padronale, esistente al tempo in cui il luogo era abitato dai coniugi Cilea, risulta tuttora leggibile, come ben lumeggiato nella relazione storico-artistica.

PUBBLICO IMPIEGO: I compensi professionali dell’avvocato pubblico sono parte della retribuzione. I regolamenti che disciplinano l’erogazione degli onorari vanno redatti nel rispetto della legge.
La Sezione lavoro del TRIBUNALE civile di Latina, con sentenza 11.01.2024 n. 11, ha stabilito il principio di diritto secondo il quale i compensi professionali, percepiti dagli avvocati, dipendenti di una Pubblica amministrazione, non possono essere esclusi dal trattamento economico complessivo percepito in virtù del rapporto di lavoro.
Il fatto
Dinanzi al Tribunale di Latina, in funzione di giudice del lavoro, viene proposta la domanda di annullamento e/o revoca di un decreto ingiuntivo emesso dallo stesso Tribunale, con il quale è stato ingiunto al Comune di Latina di pagare in favore di un avvocato, in servizio presso l'avvocatura comunale, una somma di danaro a titolo di compensi professionali maturati per lo svolgimento delle attività defensionali in costanza di rapporto di lavoro.
Il Comune opponente ritiene di non dover corrispondere detta somma in base al vigente Regolamento dell'Avvocatura comunale in quanto i compensi professionali erano stati espressamente esclusi dalle voci che compongono il trattamento economico complessivo annuale dell'Avvocato Dirigente.
La decisione
Il Tribunale di Latina ha ritenuto che i compensi professionali, maturati dagli avvocati pubblici, non possano restare al di fuori del trattamento economico complessivo, a differenza di quanto regolamentato dal Comune datore di lavoro, la cui posizione è in contrasto con la fonte normativa di primo grado ovvero l'articolo 9 del Dl 90/2014 convertito dalla legge 114/2014.
Il decreto Renzi ha chiarito che i compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo. Tali compensi, sia per spese compensate che per spese recuperate, possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.
Il giudice del lavoro ha disapplicato il regolamento comunale contestato dall'avvocato dipendente, nella parte in cui prevede l'esclusione dei compensi professionali dal computo del trattamento annuo complessivo proprio per il netto contrasto dello stesso con il citato articolo 9 del Dl 90/2014.
Conclusioni
Il giudice del lavoro nel condividere le cadenze argomentative espresse in materia dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa secondo cui il fatto che il legislatore, all'articolo 9, comma 7, del Dl 90/2014 abbia utilizzato proprio la locuzione trattamento economico, per di più rafforzata dall'aggettivo complessivo, non lascia spazio a dubbi sul fatto che in esso vadano ricompresi anche gli onorari.
Qualora il legislatore avesse inteso far riferimento solo a una porzione del trattamento economico dell'avvocato dipendente avrebbe utilizzato una differente locuzione come trattamento economico fondamentale o fare riferimento ad altre nozioni specifiche quali quelle di retribuzione ordinaria o stipendio tabellare ovvero in alternativa avrebbe ancora potuto espressamente escludere i compensi professionali dalla nozione di trattamento economico rilevante ai fini della determinazione del tetto.
I regolamenti che disciplinano l'erogazione dei compensi professionali vanno redatti nel rispetto della legge e debbono collocarsi nel perimetro normativo ben delineato dal legislatore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.01.2024).

PUBBLICO IMPIEGO: Consulta: l’irretroattività della norma peggiorativa si estende anche ai contratti pubblici.
La Corte costituzionale ha affermato che il principio è “generale” e non vale solo per il diritto penale. Ed ha bocciato la Finanziaria 2001 nella parte in cui -retroattivamente- escludeva l’operatività delle maggiorazioni Ria dei dipendenti pubblici per il triennio 1991-1993.
Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale valore di civiltà giuridica, anche al di là della materia penale.

È questo l’importante approdo teorico cui giunge la Corte costituzionale, con la sentenza 11.01.2024 n. 4 (redattore Marco D’Alberti) affrontando il caso di una norma peggiorativa rispetto al precedente regime economico in materia di anzianità dei dipendenti pubblici.
La Consulta ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 51, comma 3, della legge 23.12.2000, n. 388, che era intervenuto, in via retroattiva, per escludere l'operatività di maggiorazioni alla retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione al triennio 1991-1993, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.
Il Consiglio di Stato, che ha poi rimesso la questione alla Consulta, doveva infatti decidere sull'appello contro la sentenza del Tar Lazio (n. 9255/2014), che aveva respinto il ricorso proposto da seicentocinquantotto dipendenti del Ministero della difesa per il riconoscimento di maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità (RIA), ai sensi dell'articolo 9, commi 4 e 5, del Dpr 17.01.1990, n. 44 maturate nel 1991, 1992 e 1993, facendo valere la proroga al 31.12.1993 disposta dalla legge 14.11.1992, n. 438.
Il Tar Lazio (sentenza n. 9255 del 2014) aveva rigettato le pretese dando atto della sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge n. 388 del 2000 che ha espressamente escluso che la proroga al 31.12.1993 dell'intera disciplina contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 potesse estendere anche il termine per la maturazione dell'anzianità di servizio ai fini dell'ottenimento della maggiorazione della RIA.
La sentenza odierna ha innanzitutto chiarito che
il controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene ancor più stringente qualora l'intervento legislativo incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un'amministrazione pubblica, essendo precluso al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio.
Al fine di verificare se l'intervento legislativo retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l'esito di giudizi pendenti, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU uno scrutinio che assicuri una particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del potere legislativo, tenendo conto delle concrete tempistiche e modalità dell'intervento del legislatore.
Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che
solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un'interferenza del legislatore su giudizi in corso e che i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile.
E, prosegue la decisione, nel caso in esame non emerge, né dai lavori preparatori, né dalle relazioni tecnica e illustrativa, alcuna ulteriore ragione giustificatrice dell'intervento legislativo retroattivo rispetto all'esigenza di assicurare un risparmio della spesa pubblica, in considerazione di orientamenti giurisprudenziali che stavano riconoscendo tutela alle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle amministrazioni pubbliche di appartenenza.
Di qui la sua illegittimità costituzionale per violazione tra l'altro dei principi della certezza del diritto e dell'equo processo, di cui agli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.
La sentenza ribadisce e rafforza la costruzione di una solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU e fra la Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo, nell'ottica di un rapporto di integrazione reciproca (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La terzietà dell'Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD).
«Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell'ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità dell'organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto
».

È quanto ricordato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nell'ordinanza 10.01.2024 n. 1016, evidenziando il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari (articoli 55 e 55-bis del Dlgs 165/2001).
In estrema sintesi, l'interpretazione dell'art. 55-bis, comma 2, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo, ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.02.2024).
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ORDINANZA
3. I due motivi, da trattare congiuntamente, per la loro stretta connessione, sono infondati e il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
3.1. La Corte territoriale si è attenuta ai principi più volte affermati in questa sede di legittimità, laddove ha osservato che «Le argomentazioni dell’appellante … configurano l’UPD come organo terzo di garanzia del pubblico dipendente secondo una prospettazione che non si riscontra nell’interpretazione di tale norma come data dalla giurisprudenza» (pag. 5 della motivazione).
In termini generali, si deve qui ricordare che «Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.
Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto
» (Cass. n. 1753/2017, ex multis).
Si aggiunga che «Il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dall’art. 55, co. 1, e 55-bis, co. 4 (ora co. 2) d.lgs. 165/2001 va riferito al principio di terzietà … senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’U.P.D.» (Cass. n. 20721/2019, ex multis).
In estrema sintesi, «l’interpretazione dell'art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici» (Cass. n. 3467/2019; conf., ex multis, Cass. n. 19672/2019).
3.2. In tale contesto, non può essere condivisa la tesi di parte ricorrente secondo cui l’indicazione dell’Ufficio I quale «ufficio competente per i procedimenti disciplinari» (contenuta nella circolare n. 11 del 09.10.2010) non avrebbe potuto essere ritenuta sufficiente quale adempimento dell’obbligo di individuazione di cui all’art. 55-bis, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Infatti, la disposizione di legge, in base alla sua ratio, come sopra riportata, non richiede la costituzione di un apposito ufficio, che si occupi esclusivamente dei procedimenti disciplinari, né l’individuazione esplicita di una determinata figura quale responsabile dell’ufficio o di altre figure quali componenti di un obbligo necessariamente collegiale.
Dalla sentenza impugnata risulta che la sanzione per cui è causa venne adottata dal Direttore dell’Ufficio I, ovverosia dalla figura di vertice dell’ufficio individuato come UPD, il che rappresenta la più ragionevole attuazione della previsione generica contenuta nell’atto di individuazione e la migliore garanzia di difesa per l’incolpato.
3.3. Allo stesso modo, la necessaria terzietà dell’UPD non può essere intesa in senso talmente rigoroso da considerare un vizio –e tanto meno un vizio a pena di nullità della sanzione– il fatto che l’atto di incolpazione sia stato emesso, in temporanea assenza del direttore dell’Ufficio I e del suo vicario, da un dirigente di grado superiore in funzione di sostituzione gerarchica.
Si tratta comunque di un soggetto non appartenente alla struttura nella quale opera il ricorrente, sicché, a prescindere da qualsiasi valutazione sulla legittimità della sostituzione, non vi è motivo di pensare –né il ricorrente ha in qualche modo allegato– che il suo intervento abbia impedito all’incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa.
3.4. Infine, non coglie nel segno la censura relativa alla pretesa non corrispondenza tra la struttura prevista per l’organo giudicante, asseritamente collegiale, e l’emissione del provvedimento disciplinare da una singola persona fisica.
Infatti, manca la necessaria premessa dell’individuazione di una norma procedimentale che prevedesse la composizione collegiale dell’organo giudicante. Mancanza cui il ricorrente pretende di rimediare desumendo la regola della collegialità dal semplice fatto (da lui allegato e non contestato dal MAECI) che alla sua audizione erano presenti tre esponenti dell’Ufficio I. Il che però evidentemente non basta per dire che le tre persone fossero tutte componenti dell’organo giudicante e che fossero presenti a tale titolo, piuttosto che con una mera funzione di assistenza al direttore dell’Ufficio I.

EDILIZIA PRIVATA: Permessi, illegittimo il ripensamento della Pa in autotutela dopo 12 mesi. Il principio emerge dalla sentenza con cui il Tar Lazio ha accolto il ricorso di un proprietario.
L’annullamento in autotutela di un provvedimento autorizzativo edilizio deve avvenire in tempi ragionevoli e, comunque, non oltre i 12 mesi
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È quanto emerge dalla sentenza 09.01.2024 n. 378 con cui è stato accolto il ricorso di una persona dal TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, contro il Comune di Montefiascone.
La vicenda ha origine quando il Comune di Montefiascone dispone l'annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all'immobile del ricorrente «in quanto tutti rilasciati in assenza di autorizzazione paesaggistica». Dal Comune anche l'ordinanza di demolizione dell'immobile e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi. C'è quindi il ricorso al Tar. 
Nella ricostruzione della vicenda si ripercorre il percorso che inizia con l'acquisto dell'immobile nel 2003 «unitamente alla concessione edilizia» del 2002 e della variante del 31 dicembre dello stesso anno «rilasciate dal Comune per la costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato residenziale ed agricolo». A marzo del 2023 il Comune notifica la comunicazione di «avvio del procedimento avente per oggetto: presunte violazioni alla normativa urbanistica edilizia». A seguire l'ordinanza e quindi il ricorso.
A sostegno delle proprie domande, il proprietario, evidenzia «che il Comune non gli aveva mai comunicato l'avvio del procedimento di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, essendosi limitato ad informarlo, con nota del 07.03.2023, solo dell'esistenza di controlli di natura edilizia ed urbanistica».
Oltre a sottolineare che «la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica avrebbe potuto condizionare, al più, l'efficacia del titolo edilizio, non potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del titolo medesimo» ha anche rimarcato che «l'annullamento d'ufficio dei precedenti titoli edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di legge previsto dall'art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza alcuna spiegazione da parte dell'amministrazione circa le eventuali ragioni del superamento di tale termine».
Per i giudici il ricorso è fondato, in particolare nella parte in cui «si censura la tardività dell'annullamento in autotutela».
«È noto infatti che, ai sensi dell'art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990 (nella sua versione vigente dal 31.07.2021 da ultimo modificata dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla L. 29.07.2021, n. 108) -scrivono i giudici-, Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo».
Risultato: «Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti titoli edilizi si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato, senza tuttavia che ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate con la medesima ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi». Ricorso accolto (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 11.01.2024).
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SENTENZA
1. Con ordinanza n. 2 del 29.03.2023, il Comune di Montefiascone disponeva l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi relativi all’immobile distinto in catasto al foglio 53, p.lla 526, e, segnatamente, della c.e. n. 51 del 13.02.1997, del p.d.c. n. 373 del 19.12.2001, del p.d.c. n. 269 del 10.10.2002, del p.d.c. n. 342 del 31.12.2002, in quanto tutti rilasciati in assenza di autorizzazione paesaggistica (ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004). Ordinava altresì la demolizione dell’immobile e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
Nella medesima ordinanza, peraltro, il Comune rilevava talune difformità (accertate nel sopralluogo del 13.07.2022) rispetto all’ultimo titolo edilizio costituito dal p.d.c. n. 342 del 31.12.2002.
2. Con ricorso notificato all’amministrazione resistente in data 05.06.2023 e depositato in data 30.06.2023, il ricorrente allegava:
   - di avere acquistato, in data 14.01.2003 (con atto a rogito del notaio Adriano Castaldi, rep. n. 6485, racc. n. 2933), da Mocini Marisa il terreno ubicato nel Comune di Montefiascone e distinto in catasto al foglio n. 53, p.lle 417 (ex 384/b), 418 (ex 384/c) e 422 (ex 385/c), unitamente alla concessione edilizia n. 269 del 10.10.2002 ed alla successiva concessione in variante n. 342 del 31.12.2002, rilasciate dal Comune per la costruzione sul terreno medesimo di un fabbricato residenziale ed agricolo;
   - che, in data 07.03.2023, il Comune di Montefiascone gli notificava una comunicazione di avvio del procedimento avente per oggetto: “presunte violazioni alla normativa urbanistica edilizia relativamente a fabbricato sito in Loc. Cerchiare distinto al N.C.E.U. Fg. 53 P.lla 526 di proprietà del Sig. Ch.Ma.”;
   - in data 29.03.2023 il Comune emetteva la suddetta ordinanza n. 2, impugnata;
   - che, in data 03.05.2023, l’arch. Vi.Bi., in qualità di tecnico-progettista, destinatario della suddetta ordinanza n. 2/2023, proponeva un’istanza di revoca dell’ordinanza medesima, sulla base dei motivi ivi indicati;
   - che, con nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023, il Comune riscontrava la suddetta richiesta di revoca, confermando l’ordinanza in questione.
Tanto premesso, chiedeva l’annullamento della suddetta ordinanza n. 2 del 29.03.2023 e della suddetta nota prot. n. 11540 dell’08.05.2023; nonché, in via subordinata, la condanna del Comune a risarcire il danno cagionatogli, determinato nella somma di € 139.644,25, oltre interessi e rivalutazione (ovvero nella diversa somma, maggiore o minore, accertata in corso di causa), a titolo di danno patrimoniale, oltre ad un’ulteriore somma corrispondente al 10% del danno patrimoniale, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., a titolo di danno non patrimoniale.
A sostegno delle proprie domande, proponeva i seguenti motivi di ricorso.

   2.1. “Violazione degli artt. 7 e 8, L. n. 241/1990. – Circa la natura discrezionale e mai vincolata dei procedimenti di autotutela. – Circa l’omessa specificazione dell’oggetto del procedimento. – Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione carente”.
Evidenziava il ricorrente che il Comune non gli aveva mai comunicato l’avvio del procedimento di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, essendosi limitato ad informarlo, con nota del 07.03.2023, solo dell’esistenza di controlli di natura edilizia ed urbanistica.
Argomentava che il Comune aveva erroneamente ritenuto di poter ridurre il provvedimento in questione ad attività vincolata, ignorando che il potere di autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale dell’amministrazione.

   2.2. “Violazione dell’art. 21-nonies, D.P.R. n. 380/2001. – Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione carente. – Violazione degli artt. 9-bis e 31, D.P.R. n. 380/2001”.
Deduceva il ricorrente che il provvedimento di autotutela era viziato dall’assenza di tutti i requisiti che condizionano il potere di annullamento d’ufficio (illegittimità del provvedimento ampliativo della sfera giuridica privata; termine ragionevole, non superiore a dodici mesi; sussistenza delle ragioni di interesse pubblico; comparazione con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati).
Argomentava, in particolare, che la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica avrebbe potuto condizionare, al più, l’efficacia del titolo edilizio, non potendo la sua assenza costituire causa di invalidità del titolo medesimo.
Illustrava, inoltre, che l’annullamento d’ufficio dei precedenti titoli edilizi era viziato per essere intervenuto successivamente al termine di legge previsto dall’art. 21-nonies L. n. 241/1990 e decorrente, nel caso di specie, dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, senza alcuna spiegazione da parte dell’amministrazione circa le eventuali ragioni del superamento di tale termine.
Evidenziava ancora che il Comune non aveva motivato circa le ragioni di interesse pubblico sottese al ritiro in autotutela, omettendo di comparare l’interesse pubblico con gli interessi dei privati destinatari del provvedimento in autotutela.
Aggiungeva che, se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata avesse realmente costituito l’obiettivo essenziale dell’azione amministrativa, il Comune avrebbe dovuto sperimentare la possibilità di sottoporre i permessi di costruire e le concessioni edilizie a valutazione paesaggistica, anziché optare per l’annullamento dei titoli edilizi.
...
6. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Ritiene in particolare il Collegio la fondatezza del secondo motivo, nella parte in cui si censura la tardività dell’annullamento in autotutela.
È noto infatti che, ai sensi dell’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990 (nella sua versione –vigente dal 31.07.2021– da ultimo modificata dall'articolo 63, co., D.L. 31.05.2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla L. 29.07.2021, n. 108), «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo».
La giurisprudenza ha anche chiarito che «
È illegittimo l'annullamento d'ufficio di un permesso di costruire in sanatoria -adottato anteriormente alla riforma dell'art. 21-nonies, l. n. 241/1990, operata dalla l. n. 124/2015- emanato oltre il termine di diciotto mesi a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione, in assenza di condotte integranti i presupposti giuridici che autorizzano il superamento di tale termine.
Infatti, il temine di diciotto mesi, se, per un verso, non può applicarsi in via retroattiva -nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 124/2015- per un altro verso, non può che cominciare a decorrere dalla entrata in vigore della nuova disposizione anche in relazione a provvedimenti emanati anteriormente. In ogni caso, quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine, la novella vale come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell'osservanza di tale regola
» (Consiglio di Stato, sez. VI, 15.06.2020, n. 3787).
Applicando analogamente al caso di specie il principio giurisprudenziale innanzi enunciato, si osserva che la novella del citato art. 21-nonies è entrata in vigore il 31.07.2021, mentre il provvedimento impugnato è stato emanato in data 21.03.2023, ben oltre il suddetto termine di 12 mesi, e senza alcuna motivazione sulle eventuali ragioni di tale superamento.
Il provvedimento di annullamento in autotutela dei suddetti titoli edilizi si appalesa pertanto illegittimo e deve essere annullato, senza tuttavia che ciò comporti alcun effetto sulle difformità, accertate con la medesima ordinanza, rispetto agli atti autorizzativi.
Tali difformità infatti restano sottoposte al regime previsto dalla legge per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità da esso.

EDILIZIA PRIVATA: La natura rigidamente vincolata dell’ordine di demolizione comporta, sul piano del quantum di motivazione richiesto, che l’amministrazione non debba esplicitare le ragioni di pubblico interesse sottese all’intervento repressivo, né compiere alcuna comparazione con l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo, infatti, la prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo determinare il radicarsi in capo al privato, il quale non è stato destinatario di alcun provvedimento favorevole, di una posizione di legittimo affidamento meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o illegittimamente trattata.
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Va disattesa la censura concernente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento dovendosi, sul punto, richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il provvedimento con il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva di titolo edilizio, “trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge”.
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3.3. Restano dunque da esaminare le doglianze relative a pretesi vizi propri del provvedimento sanzionatorio (lett. c) dei motivi di ricorso rubricata “Sui vizi propri del provvedimento impugnato”), che vanno anch’esse disattese.
3.3.1. Palesemente infondata è la prima censura, con cui il ricorrente deduce il difetto di motivazione e la violazione del principio del legittimo affidamento, per aver il Comune adottato l’ingiunzione a demolire a distanza di un lungo lasso di tempo e senza indicare “il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Vale osservare, in proposito, che la natura rigidamente vincolata dell’ordine di demolizione comporta, sul piano del quantum di motivazione richiesto, che l’amministrazione non debba esplicitare le ragioni di pubblico interesse sottese all’intervento repressivo, né compiere alcuna comparazione con l’interesse privato sacrificato e ciò anche qualora sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso (cfr., tra le moltissime, Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9, i cui principi sono stati di recente ribaditi da Ad. Plen. 11.10.2023, n. 16; Cons. St., Sez. VI, 05.01.2024, n. 236; Cons. St., Sez. VII, 02.11.2023, n. -OMISSIS-31; TAR Lazio, Sez. II-quater, 04.12.2023, n. 18165; id., 30.12.2023, n. 20019).
A fronte di un’attività edilizia posta in essere sine titulo, infatti, la prolungata inerzia dell’amministrazione non può certo determinare il radicarsi in capo al privato, il quale non è stato destinatario di alcun provvedimento favorevole, di una posizione di legittimo affidamento meritevole di tutela.
Né assume alcuna rilevanza l’eventuale diverso trattamento riservato ai proprietari di fondi limitrofi, peraltro dedotto in termini assolutamente generici, costituendo principio generale quello per cui il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere invocato per ottenere il risultato di un’equiparazione ad una situazione illegittima o illegittimamente trattata (cfr. Cons. St., Sez. VII, 28.08.2023, n. 8003; TAR Lazio, Sez. II-quater, 14.06.2021, n. 7058).
...
3.3.3. Va, infine, disattesa anche la terza censura, concernente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, dovendosi sul punto richiamare il granitico orientamento giurisprudenziale, ampiamente condiviso dalla Sezione (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. II-quater, 22.12.2023, n. 19525; id., 25.01.2023, n. 1283; id., 30.11.2022, n. 15976), che esclude la necessarietà di tale comunicazione per il provvedimento con il quale viene disposta la demolizione di un’opera priva di titolo edilizio, “trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di diposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge” (così Cons. St., Sez. VII, 21.08.2023, n. 7832; cfr. anche, ex plurimis, tra le più recenti, Cons. St., Sez. VI, 22.12.2023, n. 11137; Cons. St., Sez. VII, 12.12.2023, n. 10722) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.01.2024 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze, 1444 derogabile solo in caso di gruppi di edifici previsti in un piano particolareggiato. La Cassazione precisa che la deroga prevista dall’art. 9, comma 3, non può valere per un solo fabbricato inserito in un contesto edificato.
«Agli effetti dell'art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici previsti nella medesima zona e avente ad oggetto la realizzazione contestuale di gruppi di edifici, e cioè di una pluralità di nuovi fAbbricati, rimanendo perciò estranea a tale fattispecie l'ipotesi della realizzazione di un unico nuovo fabbricato che si sia inserito nel contesto di un isolato già edificato».
In attesa che veda la luce il nuovo Testo unico edilizia, cui sta lavorando il governo insieme ai vari portatori di interesse, la questione delle distanze legali resta, come è noto, saldamente ancorata ai paletti fissati dal Dm 1444, le cui possibilità di deroga da parte delle Regioni sono altrettanto saldamente contenute entro precisi limiti.

Con l'ordinanza 04.01.2024 n. 236 la Corte di Cassazione, Sez. II civile, è entrata nel merito di una deroga consentita dalla stessa norma statale.
Prendendo spunto da una controversia sorta in un comune calabrese, i giudici della II Sezione civile hanno colto l'occasione di chiarire la differenza tra l'inserimento di più edifici (previsti dal piano particolareggiato) e la realizzazione di un singolo fabbricato.
Il Tribunale di Reggio Calabria ha condannato la società immobiliare che aveva realizzato un edificio costruito in zona B per la violazione delle distanze legali -intimando la demolizione o l'arretramento- in quanto non riconducibile (diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente) alla deroga prevista nell'articolo 9, comma 3, del 1444.
L'appello è stato respinto dalla Corte d'appello. L'esito negativo è stato confermato dalla Corte di Cassazione.
Nella sua difesa, la società immobiliare si è ancorata alla deroga prevista al comma 3 dell'articolo 9, secondo cui «sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
La norma richiamata, spiegano i giudici della Cassazione, «riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata. Nel caso in esame, la Corte d'appello ha negato che si fosse in presenza di un gruppo di edifici inclusi in un medesimo piano particolareggiato, ovvero di costruzioni facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata».
Più chiaramente, specificano i giudici, «l'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 444/1968 contempla, quale ipotesi di deroga alle distanze minime tra fabbricati, la realizzazione contestuale di gruppi di edifici e cioè di una pluralità di nuovi edifici inseriti in piani particolareggiati o in lottizzazioni convenzionate, ipotesi estranea al caso in esame, in cui si è avuta la realizzazione di un unico nuovo edificio che si è inserito nel contesto di un isolato già edificato» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.01.2024).

APPALTI: Alle procedure di affidamento di contratti finanziati con le risorse del PNRR indette successivamente al 01.07.2023 si applica il nuovo Codice dei contratti pubblici.
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CONTRATTI pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione- Appalti PNRR-Normativa applicabile.
E’ soggetta alla disciplina di cui al d.lgs. n. 36 del 2023 la procedura di gara avviata nel mese di agosto del 2023, come è desumibile dai seguenti articoli del predetto decreto legislativo:
   - 229, comma 2, secondo cui “le disposizioni del codice, con i relativi allegati, acquistano efficacia il 01.07.2023”;
   - 226, comma 2, lett. a), il quale prevede che, “a decorrere dalla data in cui il codice acquista efficacia ai sensi dell’art. 229, comma 2, le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 50 del 2016 continuano ad applicarsi esclusivamente ai procedimenti in corso. A tal fine, per procedimenti in corso si intendono: a) le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima della data in cui il codice acquista efficacia”;
   - 225, comma 8, che stabilisce che “in relazione alle procedure di affidamento e ai contratti riguardanti investimenti pubblici, anche suddivisi in lotti, finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e dal PNC, nonché dai programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell’Unione europea, ivi comprese le infrastrutture di supporto ad essi connesse, anche se non finanziate con dette risorse, si applicano, anche dopo il 01.07.2023, le disposizioni di cui al decreto-legge n. 77 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 108 del 2021, al decreto-legge 24.02.2023, n. 13, nonché le specifiche disposizioni legislative finalizzate a semplificare e agevolare la realizzazione degli obiettivi stabiliti dal PNRR, dal PNC nonché dal Piano nazionale integrato per l'energia e il clima 2030 di cui al regolamento (UE) 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11.12.2018”.
Con particolare riferimento a tale ultima disposizione, il collegio rileva che essa si limita a stabilire la perdurante vigenza delle sole norme speciali in materia di appalti PNRR (tra cui gli artt. 47 e ss. del d. l. n. 77 del 2021) ma non anche degli istituti del d.lgs. n. 50 del 2016 in esso sporadicamente richiamati; la contraria opzione ermeneutica, seguita dalla circolare del MIT del 12/07/2023 (richiamata dalla “premessa” del disciplinare di gara), collide con il ricordato disposto del comma 2 dell’art. 226 del d.lgs. n. 36 del 2023, che sancisce l’abrogazione del d.lgs. n. 50 del 2016 a decorrere dal 01.07.2023 senza alcuna eccezione, e con il comma 5 della medesima disposizione, secondo cui “ogni richiamo in disposizioni legislative, regolamentari o amministrative vigenti al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 del 2016, o al codice dei contratti pubblici vigente alla data di entrata in vigore del codice, si intende riferito alle corrispondenti disposizioni del codice o, in mancanza, ai principi desumibili dal codice stesso”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 03.01.2024 n. 134 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La Sezione non ignora il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola documentato con riferimento alla titolarità di aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo scopo di evitare che un eccessivo allargamento della legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse.
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in discorso (i.e. di zonizzazione acustica), quindi, non si presta ad una risposta univoca, in ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato impugnato con riferimento alla classificazione acustica impressa ad un'area industriale di proprietà della ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo l'impresa programmare l'attività produttiva secondo parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la destinazione e l'utilizzo dell'area.
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una classificazione negativa, è stato affermato che, anche in materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
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5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola documentato con riferimento alla titolarità di aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo scopo di evitare che un eccessivo allargamento della legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato impugnato con riferimento alla classificazione acustica impressa ad un'area industriale di proprietà della ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo l'impresa programmare l'attività produttiva secondo parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una classificazione negativa, è stato affermato che, anche in materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301) (Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 02.01.2024 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rumore. Regolamentazione emissione dei rumori da parte dei Comuni.
L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995, n. 447, prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. a), secondo gli indirizzi determinati dalla regione di appartenenza, ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. f) …”.
La citata norma consente (e non obbliga) i Comuni, il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico, ambientale e turistico, di attuare una più specifica regolamentazione dell'emissione dei rumori, e, in questo ambito, di disciplinare l'esercizio di professioni, mestieri ed attività rumorose anche con l'istituzione di fasce orarie in cui soltanto possano essere espletati, e di prendere così in considerazione, oltre al dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità, anche gli effetti negativi di quest'ultima sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata.
La norma in commento consente e non obbliga i Comuni ad individuare una più specifica regolazione delle immissioni, fermo restano l’impossibilità di diminuire i limiti di emissione sonora prescritti dalla citata normativa
(Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza 02.01.2024 n. 42 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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5. Con il quinto motivo deduce ulteriore difetto assoluto di motivazione. Errata applicazione art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001. Ulteriore eccesso di potere.
Evidenzia che la zonizzazione era stata effettuata senza fornire alcuna motivazione, risultando insufficiente il richiamo all’art. 7, co. 6, L.R. n. 18/2001.
5.1. Ritiene il Collegio di superare il profilo di inammissibilità dell'impugnazione del Piano di zonizzazione acustica per assenza di lesività.
Ed invero, la Sezione non ignora il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione dei piani territoriali, l'interesse a ricorrere va di regola documentato con riferimento alla titolarità di aree direttamente incise dalle scelte pianificatorie: ciò allo scopo di evitare che un eccessivo allargamento della legittimazione apra la strada a forme di azione popolare non previste dall'ordinamento.
Tuttavia, anche in materia di piani urbanistici non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2004, nr. 5516).
Siffatta situazione si verifica, a fortiori, laddove siano dedotti motivi di censura tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima.
La questione dell'immediata impugnabilità del Piano in discorso, quindi, non si presta ad una risposta univoca, in ragione dell'approccio casistico ricavabile dalla giurisprudenza in materia.
In particolare in una fattispecie in cui il piano era stato impugnato con riferimento alla classificazione acustica impressa ad un'area industriale di proprietà della ricorrente è stato ravvisato l'interesse ad agire, dovendo l'impresa programmare l'attività produttiva secondo parametri che, sul piano acustico, siano coerenti con la destinazione e l'utilizzo dell'area (Cons. Stato, Sez. II, 01.06.2022, n. 4501).
In un caso di impugnazione del piano da parte di residenti le cui aree non erano tuttavia direttamente incise da una classificazione negativa, è stato affermato che, anche in materia di piani urbanistici, non è affatto escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, quando dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse, a fortiori laddove i motivi di censura siano tali da travolgere il piano nel suo complesso, in quanto involgenti l'impostazione di fondo dell'attività pianificatoria ovvero radicali difetti di istruttoria a monte dell'attività medesima (Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301).
5.2. L’appello deve essere, tuttavia, respinto.
L'onere della classificazione acustica del territorio spetta ex lege ai Comuni, che esprimono una funzione lato sensu pianificatoria, inserita in un nucleo particolarmente ampio di discrezionalità amministrativa, sicché l'ambito del sindacato del giudice amministrativo si presenta ristretto e sostanzialmente limitato ad un riscontro ab externo del rispetto dei canoni di logicità formale (Cons. Stato, Sez. IV, 11.01.2018, n. 135).
Il sindacato giurisdizionale sul piano di classificazione acustica, come per gli altri atti di pianificazione del territorio, incontra necessariamente precisi limiti al fine di non sconfinare nel merito delle scelte discrezionali adottate dall'amministrazione; tale sindacato è ammesso, infatti, nei soli casi di gravi illogicità, irrazionalità ovvero travisamenti sintomatici della sussistenza del vizio di eccesso di potere (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2009, n. 9301).
Non si tratta, quindi, di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.07.2023, n. 6451; id. Sez. III, 11.12.2020, n. 7097).
In proposito giova richiamare quanto affermato da questo Consiglio (Cons. Stato, Sez. IV, 12.12.2019, n. 8443), secondo cui in materia di zonizzazione acustica del territorio, le scelte dell'amministrazione non possono sovrapporsi meccanicamente alla pianificazione urbanistica, ma devono tener conto del disegno urbanistico voluto dal pianificatore, ovverosia delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio.
Ciò rileva sotto un duplice aspetto.
Da un lato, rileva l'interesse pubblico generale alla conservazione del disegno di governo del territorio programmato dal pianificatore, il quale riflette un ben preciso interesse della comunità ad un certo utilizzo del proprio territorio, sul quale la medesima è stanziata.
Da un altro lato, rileva l'interesse dei privati alla conservazione delle potenzialità connesse alla titolarità dei diritti sui beni immobili e derivanti dalle pregresse e già effettuate scelte di pianificazione, le quali devono poter essere attuate pro futuro, avendo una natura tipicamente programmatoria.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non può essere dato rilievo esclusivo agli usi effettivi "in atto" sul territorio, perché essi si limitano a rappresentare (staticamente) la realtà dell'uso del territorio, trascurando l'aspetto dinamico del suo governo.
Ed è su tale dinamicità che si regge, invece, la ratio della disciplina legislativa statale e di quella regionale, entrambe sostanzialmente rivolte a perseguire l'obiettivo del contemperamento tra due interessi generali: quello della pianificazione urbanistica e quello della tutela dall'inquinamento acustico.
5.3. Il Piano di cui trattasi, a pag. 22 e ss., una volta riepilogati i criteri in base ai quali si è proceduto alla zonizzazione acustica del territorio Comunale, assegna le classi acustiche alle diverse aree del territorio. Più segnatamente:
   - “le aree ricadenti nelle classi II, III e IV presentano delle caratteristiche intermedie rispetto alle aree di cui sopra (n.d.r. aree ricadenti nelle classi I e V). Sono aree prevalentemente residenziali (classe II), aree di tipo misto (classe III) aree di intensa attività umana (classe IV)”;
   - “per l’individuazione delle classi II, III e IV non è sufficiente la sola analisi dello strumento urbanistico, che non riesce a dare questo quadro completo del reale assetto del territorio delle classi II, III e IV, è quindi il risultato di una analisi di vari fattori (“analisi parametrica”) a cui si rimanda (da pag. 25 a pag. 35 del Piano di Classificazione Acustica), quali la densità abitativa, la presenza di attività produttive, la presenza di servizi, ovvero di parametri o indici i cui valori possono essere ricavati dai dati ISTAT”;
   - “attraverso questa analisi parametrica è possibile attribuire alla stessa classe acustica porzioni di territorio con caratteristiche di utilizzo assai differenti; l’attribuzione di aree ad una stessa classe acustica presuppone identità di requisiti acustici, non necessariamente identità di paramenti urbanistici. Le classi acustiche, infatti, a differenza della zona di PRG, non presentano una correlazione univoca con le destinazioni d’uso delle relative porzioni di territorio”.
Nel Piano di Classificazione Acustica, dunque, il Comune di Ponza ha tenuto conto delle peculiari aree di interesse naturalistico presenti sull’isola (si veda pag. n. 30 del Piano).
5.4. L’appellante afferma che alla Piazza Giancos non poteva essere attribuita la classe acustica III e IV (quest’ultima nel periodo estivo), in quanto trattasi di un’area che sarebbe circondata da villini residenziali, confinante con il mare e attraversata da una strada a traffico locale che peraltro viene limitato (con ordinanza comunale) nel periodo estivo.
Tuttavia, come precisato dalla Commissione Acustica nei verbali di riunione del 27.11.2014 e del 05.03.2015, l’area in argomento, è attraversata dalla viabilità principale e di collegamento sia con la località Santa Maria, sia con l’abitato della località Le Forna. Inoltre, la piazza di cui trattasi si trova a meno di 1 km dal Porto di Ponza e costituisce un luogo intensamente frequentato nel periodo estivo dai numerosi turisti che affollano l’isola in quanto situata in pieno centro urbano.
Dagli stessi verbali si evince che l’attribuzione a Piazza Giancos della classe acustica III nel periodo invernale e della classe acustica IV nel periodo estivo è stata motivata in quanto “risponde ai requisiti di equilibrio tra le esigenze di chi risiede e quelle proprie del sistema turistico locale e pertanto la classe II aree destinate ad uno prevalentemente residenziale non risulta pertinente. Inoltre l’area è attraversata dalla viabilità principale e di collegamento con la località Santa Maria, nonché con l’abitato di Le Forna. Si fa presente infine che le attività ludiche nel periodo estivo risultano regolate dalla attuale normativa su pubblici spettacoli e il rispetto della quiete pubblica”.
5.5. L’art. 6, comma 3, della l. 27/10/1995, n. 447, prevede che: “i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, hanno la facoltà di individuare limiti di esposizione al rumore inferiori a quelli determinati ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera a), secondo gli indirizzi determinati dalla regione di appartenenza, ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera f) …”.
La citata norma consente (e non obbliga) i Comuni, il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico, ambientale e turistico, di attuare una più specifica regolamentazione dell'emissione dei rumori, e, in questo ambito, di disciplinare l'esercizio di professioni, mestieri ed attività rumorose anche con l'istituzione di fasce orarie in cui soltanto possano essere espletati, e di prendere così in considerazione, oltre al dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità, anche gli effetti negativi di quest'ultima sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata (Cons. St., Sez. V, 28.02.2011, n. 1265).
Quanto sopra, fermo restando i limiti all’immissioni sonore previste dalla l. n. 447 del 1995, i quali non possono comunque essere diminuiti (Cass. civile, sez. I, 01/09/2006, n. 18953).
Non si può, pertanto, configurare la paventata violazione di legge in quanto la norma in commento consente e non obbliga i Comuni ad individuare una più specifica regolazione delle immissioni, fermo restano l’impossibilità di diminuire i limiti di emissione sonora prescritti dalla citata normativa.
5.6. Né sono stati forniti elementi per affermare che le impugnate scelte dell’amministrazione sarebbero il frutto di una ritorsione del Comune, a seguito di precedenti azioni giudiziarie intercorse tra le parti.
L’appello deve essere, pertanto, respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata e contributo di costruzione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Va evidenziato il carattere eccezionale e derogatorio delle ipotesi di concessione edilizia gratuita, a fronte del principio generale che è, invece, quello della sua onerosità, cosicché l’esenzione dal contributo concessorio riguarda ipotesi tassative e da interpretare in senso restrittivo. Per poter beneficare della esenzione dal contributo di costruzione debbono concorrere requisiti di carattere oggettivo e soggettivo.
Nel caso di specie (impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata) viene in rilievo un impianto di proprietà della società appellante, realizzato per l’esercizio di un’attività imprenditoriale, che solo indirettamente assolve anche ad una finalità di interesse generale.
Sono proprio la natura privata dell’impianto della società appellante e il fine lucrativo da questa perseguito ad evidenziare la mancanza del requisito soggettivo che la giurisprudenza ha individuato, accanto a quello oggettivo, per poter beneficiare dell’esenzione dal contributo di costruzione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2023 n. 11239 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).
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8. Con il primo motivo, la società appellante deduce: error in judicando per violazione degli artt. 16 e 17 del d.P.R. n. 380/2001, degli artt. 208 e 266 del d.lgs. n. 152/2006 e del d.lgs. n. 847/1964; omessa pronuncia; difetto di motivazione.
8.1. Dopo aver richiamato l’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001, la società appellante evidenzia che la predetta norma prevede l’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione in due ipotesi:
   a) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti;
   b) per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici.
Contesta quindi le conclusioni del giudice di prime cure che ha ritenuto che, venendo in rilievo l’ampliamento di un impianto industriale di proprietà privata, nel caso di specie mancherebbe sia il requisito soggettivo, sia il requisito della destinazione dell’opera all’utilizzo dell’intera collettività, con la conseguenza che la società non potrebbe beneficiare della esenzione dal contributo concessorio di cui all’art. 17, terzo comma, lettera c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
8.2. Sostiene che la sentenza sia viziata per essersi il giudice pronunciato extra petita.
Fa rilevare che il primo motivo di ricorso di primo grado era incentrato sulla violazione dell’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 sotto diverso profilo, in quanto l’esonero dal pagamento degli oneri è riconosciuto dal legislatore anche in favore dei privati che realizzino direttamente le opere di urbanizzazione; sul punto, invece, il Tar Lecce non si sarebbe pronunciato.
Evidenzia inoltre che nella sentenza impugnata il giudice di primo grado ha ritenuto che l’impianto della Un.Se. s.n.c. non potesse, tuttavia, essere considerato “un’opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di previsioni localizzative già contemplate dagli strumenti urbanistici, ma invece di un’opera assentita (in accoglimento di apposita istanza presentata dal soggetto privato interessato) in variante “puntuale” al Programma di Fabbricazione vigente nel Comune di San Marzano di San Giuseppe, ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. 20.10.1998 n. 447”.
Di contro, sostiene che l’impianto della Un.Se., per espressa definizione normativa, deve considerarsi un’opera di urbanizzazione.
La legge n. 847/1964 prevede, all’art. 1, lett. c), che le opere di urbanizzazione secondaria sono indicate al successivo articolo 4; detto articolo, alla lett. g), individua quale opera di urbanizzazione secondaria i centri sociali e le attrezzature culturali e sanitarie.
L’art. 266, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 (T.U. ambientale) stabilisce espressamente che “Nelle attrezzature sanitarie di cui all’articolo 4, comma 2, lettera g), della legge 29.09.1964, n. 847, sono ricomprese le opere, le costruzioni e gli impianti destinati allo smaltimento, al riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali, pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree inquinate”.
Essendo quello della appellante un impianto di recupero dei rifiuti proveniente dalla raccolta differenziata esso dovrebbe essere considerato come opera di urbanizzazione secondaria.
8.3. Richiama, altresì, l’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006, a norma del quale l’approvazione del progetto costituisce variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori.
La previsione normativa secondo la quale l’approvazione del progetto di realizzazione di un impianto di recupero e/o smaltimento rifiuti costituisca anche variante allo strumento urbanistico, troverebbe la sua ratio nella inesistenza di previsioni di piano urbanistico comunale che individuino le aree destinate alla realizzazione di impianti di recupero e/o smaltimento rifiuti.
La predetta previsione normativa permette la localizzazione dei predetti impianti anche in una zona che, secondo le previsioni urbanistiche, non la tollererebbe, subordinatamente al riscontro ed alla valutazione di compatibilità in concreto da parte dell’amministrazione.
Fa rilevare inoltre che l’impianto Un.Se. oggetto del presente giudizio non è stato approvato ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, bensì ai sensi dell’art. 208 del T.U. dell’Ambiente.
8.4. Il motivo è infondato.
8.5. L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto: “... c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato il carattere eccezionale e derogatorio delle ipotesi di concessione edilizia gratuita, a fronte del principio generale che è, invece, quello della sua onerosità, cosicché l’esenzione dal contributo concessorio riguarda ipotesi tassative e da interpretare in senso restrittivo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2921 del 2021; Sez. IV, n. 3405 del 2020; Sez. V, n. 51 del 2006).
8.6. Recentemente questa Sezione ha avuto modo di ribadire che per poter beneficare della esenzione dal contributo di costruzione debbono concorrere requisiti di carattere oggettivo e soggettivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 17.05.2023 n. 4907).
Nel caso di specie viene in rilievo un impianto di proprietà della società appellante, realizzato per l’esercizio di un’attività imprenditoriale, che solo indirettamente assolve anche ad una finalità di interesse generale.
Sono proprio la natura privata dell’impianto della società appellante e il fine lucrativo da questa perseguito ad evidenziare la mancanza del requisito soggettivo che la giurisprudenza ha individuato, accanto a quello oggettivo, per poter beneficiare dell’esenzione dal contributo di costruzione.
8.7. Gli elementi sopra richiamati impediscono di considerare un soggetto privato, quale l’odierna appellante, alla stregua di una longa manus dell’ente pubblico, anche in ragione della mancanza di un vincolo giuridico idoneo a sancire il necessario legame con l’ente istituzionalmente competente che la giurisprudenza ha individuato, ad esempio, nella presenza di un provvedimento concessorio nel caso di soggetto privato concessionario di opera pubblica.
In una fattispecie quale quella dedotta in giudizio lo sgravio sarebbe privo di giustificazione poiché il beneficio in questione se, da un lato, trova, in via generale, il suo fondamento nella meritevolezza della finalità di interesse pubblico perseguita, dall’altro, non può al contempo risolversi in una agevolazione per chi, svolgendo attività di impresa per fini di lucro, beneficerebbe in tal modo della eliminazione di un costo di produzione, conseguendo conseguentemente un maggior guadagno.
Ciò quanto meno in una ipotesi -come quella in contestazione- in cui l’opera è primariamente finalizzata a consentire una attività commerciale e, solo indirettamente, assolve ad una finalità di interesse pubblico che comunque non rappresenta la causa principale che muove il soggetto attuatore il quale riveste una posizione giuridica soggettiva contrapposta rispetto a quella del Comune.

CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglieri comunali, vietate le richieste d’accesso agli atti «esplorative».
Il diritto di visionare atti e documenti non può tradursi in strategie ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione del materiale di proprio effettivo interesse e utilità
Secondo il TAR Lombardia-Milano (Sez. I - sentenza 29.12.2023 n. 3222) il diritto del consigliere comunale di visionare atti e documenti non può tradursi in strategie ostruzionistiche: compete al richiedente la selezione del materiale di proprio effettivo interesse e utilità. Diversamente la richiesta va respinta.
Nella vicenda il consigliere aveva formulato richiesta di accesso a ben 678 documenti. E l'Amministrazione aveva rigettato la sua richiesta.
Per il consigliere il rifiuto di consegnare gli atti richiesti era ingiustificato poiché l'amministrazione non disponeva di alcuna valutazione discrezionale in ordine alla verifica della sussistenza di un suo interesse all'accesso; doveva invece prendere atto della mera circostanza che il richiedente era un consigliere comunale in carica e che intendeva esercitare il suo ruolo di controllo in pieno.
Ecco perché gli doveva essere consegnato tutto quanto richiesto. E ciò soprattutto perché i documenti in questione non risultavano pubblicati nella pagina Amministrazione Trasparente del sito web dell'ente e quindi non erano consultabili. Ma il Tar lombardo non ha condiviso il punto di vista del consigliere coinvolto.
I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. L'accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle sue funzioni.
Ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Tuttavia per il Tar milanese tali prerogative non sono assolute e vanno bilanciate con l'imprescindibile esigenza di non bloccare la macchina amministrativa.
Su queste basi se per un verso sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle sue funzioni; per altro verso compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse. Attività propedeutica connaturata alle modalità dell'accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative sebbene il diritto sia esercitato da soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata.
Né può valere la possibilità di soddisfare tale esigenza in modo semplificato mediante l'utilizzo di mezzi informatici in quanto in ogni caso sussiste il limite funzionale imposto dalla legge a tutela dell'ordinato svolgimento dei servizi pubblici (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.02.2024).
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SENTENZA
3. Venendo al merito il ricorso è infondato.
3.1 L’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, recita: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
3.2 In primo luogo occorre precisare che
secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032) l’accesso agli atti esercitato dal consigliere comunale ai sensi dell’art. 43 d.lgs. n. 267 del 2000 ha natura e caratteri diversi rispetto alle altre forme di accesso, esprimendosi in un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle sue funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
3.3 Per tali ragioni,
da un lato sul consigliere comunale non può gravare (e ciò sin da prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’istituto dell’accesso civico generalizzato) alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell’ente, attraverso i propri uffici, sull’esercizio delle sue funzioni; d’altra parte dal termine «utili», contenuto nell’articolo 43 d.lgs. n. 267 del 2000, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei Consiglieri comunali, poiché tale aggettivo comporta in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio delle funzioni.
3.4 Venendo al caso di specie, benché il Consorzio in questione, in quanto ente partecipato rientri tra gli enti dipendenti dal Comune di Monza, e quindi sia soggetto all’accesso dei consiglieri comunali, l’istanza è infondata.
Infatti
la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.08.2020 n. 5032) ha chiarito che l’unico limite all’accesso del consigliere comunale è configurabile, in termini generali, “nell’ipotesi in cui lo stesso si traduca in strategie ostruzionistiche o di paralisi dell’attività amministrativa con istanze che, a causa della loro continuità e numerosità, determinino un aggravio notevole del lavoro degli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull’attività dell’amministrazione (Cons. Stato, IV, 12.02.2013, n. 846)” (Cons. Stato, V, 02.03.2018, n. 1298)”.
Nel caso di specie
il grande numero di atti richiesti, estesi all’intera attività dell’ente, costituisce un atto di controllo generalizzato del Consorzio che fuoriesce dalle funzioni svolte dal consigliere comunale, il quale esercita l’accesso per “l’espletamento del proprio mandato”. In tale ambito rientra la possibilità di richiedere il testo integrale degli atti e documenti in possesso dell’ente, ma non rientra la possibilità di richiedere in sostanza tutti gli atti prodotti dall’ente, volendo altrimenti il consigliere sostituirsi agli organi dello stesso ente nello svolgimento dei controlli sull’ente stesso.
Compete al richiedente la selezione preventiva del materiale di proprio interesse, attività propedeutica connaturata alle modalità dell’accesso, che non può mai avere finalità solo esplorative, ancorché il diritto sia esercitato da soggetto cui la legge riconosce una legittimazione rafforzata. Pertanto, è condivisibile l’assunto posto a fondamento del contestato diniego, secondo cui il rilascio di tutte le determine e tutti i contratti prodotti dal Consorzio negli ultimi due anni si traduce in un accesso generalizzato e indiscriminato a tutta l’attività dell’ente stesso.
Né in senso opposto può valere la possibilità di soddisfare tale esigenza in modo semplificato mediante l’utilizzo di mezzi informatici, in quanto il limite imposto dalla legge non è solo funzionale all’ordinato svolgimento dei servizi ma attiene anche al corretto rapporto tra ente dipendente e componenti di un organo dell’ente vigilante.

Va rigettato da ultimo il profilo di gravame con cui si lamenta la violazione dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990 per omessa notifica del preavviso di rigetto; tanto, in applicazione della irrilevanza dell’apporto procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990.
Secondo consolidati approdi giurisprudenziali,
l’istituto partecipativo pretermesso va interpretato non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale, quando, come nella fattispecie in esame, il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Consiglio di Stato, Sez. II, n. 1081/2020).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIA casa il sindacalista che sparla sui social.
Licenziato il sindacalista che sparla dell'azienda sui social network. I post del rappresentante dei lavoratori su Facebook non hanno alcuna seria finalità divulgativa e sono inutilmente volgari: risulta escluso il legittimo diritto di critica nei confronti del datore laddove le espressioni utilizzate sono finalizzate soltanto a ledere il decoro e la reputazione dell'impresa e del suo fondatore.

Così la Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, nell'ordinanza 22.12.2023 n. 35922.
Libertà costituzionale
Diventa definitiva la decisione che ritiene sussistente la giusta causa nel recesso datoriale. Il sindacalista come lavoratore è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione dei colleghi, ma come rappresentante dei colleghi si pone su di un piano paritetico con il datore: la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori è una libertà garantita dall'articolo 39 della Costituzione e non può essere subordinata alla volontà dell'azienda.
Nessun dubbio, poi, che a ogni lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore. Ma ciò non consente di ledere l'immagine dell'azienda sul piano morale facendo riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati.
Correttezza formale
I post del sindacalista danno l'idea che in azienda si respiri un «clima torbido»: agitano lo spettro di pressioni e minacce contro chi si iscrive alla sua organizzazione, che diversamente dalle altre «non si fa corrompere». E annunciano lo showdowntutta la m. viene a galla?»).
Soprattutto contengono epiteti offensivi e frasi volgari, del tutto gratuite, nei confronti del vertice e del fondatore della società. All'epoca, poi, il profilo Facebook del lavoratore è aperto: i messaggi sono dunque visibili a tutti.
Anche l'attività sindacale incontra i limiti della correttezza formale imposti dall'esigenza di tutelare la persona umana, anch'essa garantita dalla Costituzione: il lavoratore può essere sanzionato in via disciplinare se all'impresa o ai dirigenti sono attribuite qualità apertamente disonorevoli o rivolti riferimenti denigratori non provati (articolo ItaliaOggi del 03.01.2024).

ATTI AMMINISTRATIVIIl sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario.
Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria”.
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11. Sul tema della richiesta di audizione, occorre considerare che il sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario.
12. Questa Corte, a proposito di una notifica eseguita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinaria (notifica dichiarata nulla e non inesistente) ha precisato che “con l’invio a casella e-mail ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l’indirizzo di posta certificata del destinatario” e che la “ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec non (è) sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria” (Cass. sentenza 31.05.2023 n. 15345, in motivazione pag. 7-8, § 3.5)
13. Non possono invocarsi, in relazione alla trasmissione tramite e-mail, i principi enunciati a proposito della spedizione di una raccomandata o di un telegramma (secondo cui “La produzione in giudizio di un telegramma, o di una lettera raccomandata, anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall'ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione dell'arrivo dell'atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell'art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della suddetta spedizione e sull'ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico”, Cass. ordinanza 10.01.2019 n. 511), in ragione della non equiparabilità dei sistemi di gestione dei rispettivi servizi (servizio di posta elettronica e servizio postale).
Neppure è pertinente il richiamo alle pronunce sulle comunicazioni inoltrate a mezzo telefax (secondo cui “Una volta dimostrato l'avvenuto corretto inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del destinatario, deve presumersene il conseguente ricevimento e la piena conoscenza da parte di costui, restando, pertanto, a suo carico l'onere di dedurre e dimostrare eventuali elementi idonei a confutare l'avvenuta ricezione”, v. Cass. sentenza 24.05.20198 n. 14251; n. 18679 del 2017; n. 349 del 2013), dato il diverso modo di operare di quest’ultimo meccanismo, che consente al mittente di verificare la avvenuta trasmissione con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario (in tal senso, Cass. n. 349 del 2013 cit.).
14. Difetta quindi la prova, nel caso di specie, della ricezione da parte della società della richiesta di audizione inviata tramite e-mail, risultando insufficiente la avvenuta dimostrazione dell’invio della richiesta medesima; dal che discende l’insussistenza del vizio di violazione dell’art. 7 St. lav. e dell’art. 1335 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 22.12.2023 n. 35922).

EDILIZIA PRIVATA: Ricalcolo degli oneri, termini differenti per urbanizzazione e costo di costruzione. Il Consiglio di Stato chiarisce che il termine decennale per il Comune parte in un caso dal rilascio del permesso, nell’altro dalla fine dei lavori.
Fin quando perdura il diritto del Comune di ri-conteggiare l’importo del contributo di costruzione?

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 19.12.2023 n. 11022, ritorna su un argomento molto articolato e controverso (tanto da necessitare di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria nel 2018) per chiarire che il termine di prescrizione decennale entro cui il Comune può far valere un diritto al riconteggio è diverso a seconda che si tratti della quota relativa a oneri di urbanizzazione o a quella afferente il costo di costruzione.
Ma andiamo con ordine: il contributo di costruzione è la prestazione patrimoniale imposta dalla legge a fronte del rilascio di un permesso di costruire ed è disciplinato dall'articolo 16 del Testo Unico dell'Edilizia, che lo definisce come il contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, enucleando così le due principali voci di costo che lo compongono.
Il conteggio del contributo avviene sulla base di parametri regolamentari e tabellari prestabiliti (regionali o comunali) e può essere rideterminato solo in caso di errori di calcolo da parte del Comune. Il termine per l'accertamento di eventuali errori di calcolo è di dieci anni (termine ordinario di prescrizione), decorso il quale non è più possibile richiedere una rettifica. Ma qual è il momento da cui inizia a decorrere il termine?
Il termine di dieci anni scatta quando il diritto di credito del Comune diventa esigibile, ossia può essere fatto valere e, per individuare il momento di decorrenza, occorre tenere distinte le due voci del contributo sopra indicate (oneri e costo). Infatti, la peculiarità della prescrizione connessa al contributo di costruzione sta nel fatto che sono due i momenti in cui il relativo credito diviene esigibile, essendo differenti i momenti di esigibilità della quota afferente agli oneri di urbanizzazione e di quella relativa al costo di costruzione.
La prima è regolata dal comma 2, del TUE che lo La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata: il credito è esigibile quindi al rilascio del permesso. La seconda trova la sua disciplina nell'art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001 che stabilisce la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione.
Pertanto, come affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento, la prescrizione decennale del diritto di credito, in caso di errore nel calcolo al momento del rilascio del permesso di costruire, decorre differentemente a seconda che si tratti della quota oneri o della quota costo. Nel primo caso i dieci anni vanno contati dal momento del rilascio del permesso, nel secondo dal termine di fine lavori (o in quello più breve, se la quota inerente il costo è stata versata prima).
Si tratta di due momenti che possono divergere anche di molto: infatti, la conclusione dei lavori può avvenire anche a distanza di un quinquennio (a volte anche di più, se i termini vengono prorogati) rispetto al momento del rilascio del titolo.
Si tratta quindi di valutazioni non immediate, che necessitano di analisi puntuali della storia autorizzativa di un determinato cantiere, valutando le date di comunicazione di fine lavori, se vi sono state proroghe, se sono intervenute varianti e di quale natura ecc, restando inteso che questa indagine puntuale dovrà essere eseguita solo per la seconda parte del contributo, atteso che l'identificazione del termine di decorrenza decennale è molto più semplice per la voce oneri, corrispondente alla data di rilascio del titolo (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Ricalcolo degli oneri concessori, i 10 anni per la prescrizione decorrono dalla fine lavori.
Palazzo Spada riforma una sentenza del Tar Puglia che aveva indicato invece come dies a quo il giorno del rilascio del titolo. Confermata l’irretroattività delle tariffe.
Una controversia con al centro il costo di costruzione richiesto da un Comune pugliese, relativamente al rilascio del permesso edilizio per una nuova costruzione, offre al Consiglio di Stato (Sez. IV - sentenza 19.12.2023 n. 11022) l’occasione per precisare due questioni importanti -il termine da cui decorrono i 10 anni per la prescrizione e l’irretroattività delle tariffe- rettificando le conclusioni del Tar Puglia.
La questione verte sulla rideterminazione del contributo al costo di costruzione da parte del Comune a distanza di anni dal pagamento versato dall'operatore economico e corrispondente alla somma inizialmente calcolata dall'Ente.
Nella vicenda specifica, i momenti rilevanti ai fini della valutazione del Consiglio di Stato sono i seguenti:
   - il 14.12.2006 il Comune informa l'interessato circa l'esito positivo della pratica edilizia e invita al pagamento di 14.270 euro di oneri concessori (immediatamente versati);
   - il 15.01.2007 il Comune rilascia il permesso di costruire; il 14.05.2009 il Comune rilascia un permesso di costruire in variante senza alcuna richiesta di ulteriori oneri (ritenendo che le variazioni fossero entro la fascia di esonero del 20% di modifica rispetto al progetto originario);
   - il 02.03.2017 il Comune dice che si era sbagliato nel calcolo e chiede all'interessato una integrazione di quasi 28.400 euro, calcolata in base alle delibere regionali entrate in vigore tra il 2006 e il 2010).
L'impresa impugna quest'ultimo provvedimento al Tar e avvia il contenzioso. Il Tar Puglia accoglie il ricorso dell'impresa ritenendo fondato un motivo ritenuto dirimente dai giudici, e cioè che il credito del Comune fosse caduto in prescrizione, essendo passati più di 10 anni tra la data del rilascio del permesso di costruire (15.01.2007) e la richiesta di integrazione in base al nuovo calcolo (02.03.2017).
I giudici della IV Sezione del Consiglio di Stato, contestano questa conclusione, e individuano un diverso termine
da cui far decorrere i 10 anni per la prescrizione. Il nuovo termine viene individuato nel 20.06.2009, che coincide con la data di ultimazione dei lavori.
La sentenza spiega che «il termine di prescrizione -per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001- inizia a decorrere da quando il diritto diventa definitivamente esigibile, ossia scaduti i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione, ovvero dalla comunicazione della fine dei lavori».
«In altri termini -si legge sempre nella pronuncia n. 11022/2023 del 19.12.scorso- la Sezione ritiene di potere affermare il principio per cui la prescrizione del diritto di credito sotteso alla riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il diritto diventa esigibile e pertanto il termine di prescrizione inizia a decorrere:
   i) per gli oneri urbanizzazione, dal momento in cui viene rilasciato o comunque si forma il titolo edilizio;
   ii) per il costo di costruzione, dalla comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il disposto dell'art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001
».
In conclusione, Palazzo Spada accoglie l'appello del Comune pugliese, di cui viene riconosciuto l'errore nel calcolo, sempre però nel rispetto della non retroattività delle tariffe, che vanno sempre applicate, ratione temporis, a quelle «vigenti al momento della comunicazione di fine lavori», cioè, nel caso specifico, sempre alla data del 20.06.2009 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 10.01.2024).
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SENTENZA
8. L’appello è fondato, nei sensi che seguono.
9. Il quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento in tema di contributo di costruzione e di interruzione della prescrizione è riassumibile come segue.
9.1. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 30.08.2018, n. 12, ha affermato i seguenti principi:
   a)
gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di attività autoritativa;
   b)
la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento;
   c)
l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica;
   d)
la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione nell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune.
9.2 In tema di contributo di costruzione, fatto salvo quanto si dirà appresso, la giurisprudenza amministrativa ha, inoltre, affermato che:
   a)
il dies a quo per il decorso del periodo di tempo ai fini della prescrizione decennale, coincide con la data di rilascio del titolo edilizio;
   b)
il contributo di costruzione può essere rideterminato solo in caso di errori di quantificazione (calcolo) da parte del Comune, è inoltre necessario che il ricalcolo sia effettuato secondo la tariffa vigente al momento del rilascio del permesso di costruire (Cons. Stato, sentenza n. 18/2018);
   c)
dal momento del rilascio del titolo abilitativo, il Comune ha dieci anni di tempo per accertare eventuali errori di calcolo e chiedere una integrazione del contributo;
   d)
si applica, quindi, il termine ordinario per la prescrizione, decorso il quale non è più possibile richiedere una rettifica;
   e)
il contributo di costruzione previsto dall’art. 16, comma 9, t.u., è determinato periodicamente dalle Regioni per i nuovi edifici, mentre il Comune è competente a definire il costo per i soli edifici esistenti (art. 16, comma 10, t.u.), per cui:
         i)
i costi-base fissati con delibera regionale si applicano direttamente;
         ii)
le delibere con cui i Comuni determinino i costi in misura differente da quanto deciso dalla Regione, avvalendosi di facoltà previste da leggi regionali, hanno carattere eventuale e non condizionano l’immediata vigenza e operatività del costo-base fissato dalla Regione;
         iii)
tali delibere si applicano comunque solo ai nuovi permessi, ma solo per la parte di incremento o diminuzione rispetto al costo-base fissato con atto regionale; in altri termini, nel caso di contributo di costruzione per nuove costruzioni, il principio di irretroattività delle delibere comunali sopravvenute opera sì, ma solo per il costo in aumento o in riduzione (Cons. Stato, sez. IV, n. 2821/2017).
9.3) Sul piano più strettamente normativo, vengono in rilievo, invece, le seguenti norme:
   a)
art. 2943 c.c., secondo cui la prescrizione è interrotta, oltre che dalla notificazione dell’atto con cui si inizia un giudizio o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio, anche da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore;
   b)
art. 1219 c.c., ai sensi del quale la costituzione in mora deve consistere in una intimazione o richiesta fatta per iscritto;
   c)
art. 16, comma 2, d.P.R. 380/2001 a mente del quale “La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata”;
   d)
art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001 giusta il quale “La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”.
10. Sulla scorta del prefato quadro giurisprudenziale e normativo è possibile dunque affermare che:
   a) le pretese economiche avanzate da parte appellante (afferenti il costo di costruzione) hanno consistenza di diritti soggettivi;
   b) conseguentemente, deve escludersi l’applicazione della disciplina sull’annullamento o revoca in autotutela degli atti amministrativi,
   c) tali pretese, inerenti al costo di costruzione, sono soggette alla prescrizione ordinaria decennale, allo stesso modo che per gli oneri di urbanizzazione;
   d) il legislatore garantisce che la prescrizione non opera qualora sopraggiunga una causa che faccia venire meno l'inerzia del titolare, presupposto stesso dell'istituto. È idoneo, pertanto, a interrompere la prescrizione qualsiasi atto stragiudiziale che individui la persona del debitore e contenga la richiesta scritta di adempiere (v. Corte di Cassazione, ordinanza 10.03.2022 n. 7835).
11. Nel caso di specie:
   - il permesso di costruire n. 2/2007 veniva rilasciato il 15.01.2007;
   - la società corrispondeva i relativi oneri concessori per il rilascio del suddetto titolo edilizio;
   - in data 14.05.2009, con provvedimento n. 8/2009, il comune rilasciava alla società il permesso di costruire in variante al titolo edilizio n. 2/2007;
   - con nota prot. n. 685/17 del 02.03.2017, notificata il successivo 07.03.2017, il Comune –sul presupposto che il permesso del 2007 è stato “assorbito e sostituito, mediante il rilascio alla medesima società, del successivo permesso di costruire n. 08/2009, in variante al precedente, in esecuzione del quale l’intervento edilizio è stato realizzato e completato”– richiedeva alla appellata una integrazione del costo di costruzione pari ad € 28.384,04.
Conseguentemente può affermarsi che:
   - la variante del 2009, in ragione di quanto assentito (si veda la documentazione depositata agli atti dal comune), ha natura sostanziale con le conseguenze anche in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione;
   - trattandosi di questione afferente il costo di costruzione, il termine di prescrizione –per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 2935 c.c. e 16, co. 3, d.p.r. n. 280 del 2001– inizia a decorrere da quando il diritto diventa definitivamente esigibile, ossia scaduti i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione, ovvero dalla comunicazione della fine dei lavori.
12. In altri termini, sul punto, la Sezione ritiene di potere affermare il principio per cui
la prescrizione del diritto di credito sotteso alla riscossione degli oneri concessori è decennale, con la differenza che il diritto diventa esigibile e pertanto il termine di prescrizione inizia a decorrere:
   i) per gli oneri urbanizzazione, dal momento in cui viene rilasciato o comunque si forma il titolo edilizio;
   ii) per il costo di costruzione, dalla comunicazione al comune della fine dei lavori, giusta il disposto dell’art. 16, comma 3, d.P.R. 380/2001.

13. Ebbene, nel caso di specie consta che la comunicazione di ultimazione dei lavori sia stata effettuata in data 20.06.2009, con la conseguenza che alla data del 07.03.2017 (di notifica del provvedimento di ricalcolo) il termine prescrizionale non poteva ritenersi ancora decorso.
14. Va solo soggiunto che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio
il contributo previsto dall’art. 16 t.u. è suscettibile di rideterminazione in due casi:
   a) quando intervenga la scadenza del permesso di costruire con un suo rinnovo o una variante al titolo edilizio che incrementi il carico urbanistico
(cfr. sez. IV, 27.04.2012, n. 2471; sez. IV, n. 1504/2015, cit.), come avvenuto nel caso di specie;
   b) quando, nell’adozione del provvedimento di determinazione, vi sia stato un errore nel calcolo del contributo rispetto alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al momento (cfr. sez. IV, n. 6033/2012, cit.).
Nel caso di specie non v’è dubbio che il comune sia anche incorso in un errore di calcolo con l’atto del 2009, errore che poi ha proceduto a rettificare senza aver ancora consumato il termine di prescrizione.
15. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è fondato nei limiti ora indicati e salvo quanto ora si preciserà a seguito dei motivi riproposti con la memoria di costituzione della parte appellata.

EDILIZIA PRIVATA: Abusi, sanzioni possibili anche senza parere della commissione edilizia. Lo ha precisato il Consiglio di Stato respingendo il ricorso di un proprietario.
L’omessa acquisizione del parere della commissione edilizia comunale non inficia l’adozione di provvedimenti sanzionatori di opere abusive, neppure in sede di rigetto di istanze di condono o sanatoria, atteso che tale parere non è obbligatorio. Milita in tal senso l’art. 4, comma 2, del Testo unico edilizia, che attribuisce ai comuni la «facoltà» di istituire la commissione edilizia, e che assegna ad essa il ruolo di « organo consultivo». Ciò fermo restando che l'art. del 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) del suddetto decreto non prevede l'acquisizione del parere della commissione prima dell'emissione della sanzione pecuniaria in luogo del ripristino.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la sentenza 15.12.2023 n. 10871 che ha confermato la pronuncia del Tar Veneto n. 759/2019.

L'antefatto

La ricorrente aveva proposto ricorso al Tar del Veneto contro il provvedimento con cui il Comune di Mogliano Veneto le aveva intimato, in luogo del ripristino, il pagamento della somma di 30.872,00, quale sanzione amministrativa per opere abusive realizzate su un immobile di proprietà, deducendone l'illegittimità per violazione dell'articolo 93, comma 1, ultimo periodo, della legge regionale 27.06.1985, n. 61, secondo cui: «Il provvedimento di demolizione o di irrogazione delle sanzioni è emanato dal Sindaco, rispettivamente con ordinanza o con ingiunzione, previo parere della Commissione Edilizia Comunale».
Ricorso che il Tar aveva dichiarato infondato e in parte inammissibile.
La sentenza del Consiglio di Stato
Dinanzi al Consiglio di Stato la ricorrente aveva riproposto quanto sostenuto nel primo grado di giudizio ed evidenziato che la sanzione pecuniaria non risultava correttamente commisurata al valore dell'immobile quale derivante dall'abuso. Tesi che non colto nel segno.
L'Alto Collegio ha confermato l'orientamento secondo il quale:
   - il parere reso dalla commissione edilizia sulla domanda di condono è un atto «meramente endoprocedimentale non necessario, tanto da non essere considerato, in quanto tale, oggetto di autonoma impugnazione» (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 4208 del 2016);
   - nel procedimento per la concessione in sanatoria, il parere della commissione edilizia comunale «non è obbligatorio, tenuto conto dell'assenza di una specifica previsione al riguardo e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello ordinario di rilascio della concessione edilizia
» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 6042 del 2013; cfr. di recente Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza n. 504 del 2020, che ritiene tale parere «non necessario e comunque ininfluente in mancanza dei presupposti per accedere al condono»);
   - l'articolo 4, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere facoltativa per i comuni l'istituzione della commissione edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia del territorio al quale deve sottostare la normativa regionale, con la conseguenza che la norma regionale, laddove preveda l'obbligatorietà del parere deve intendersi implicitamente abrogata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 6042 del 2013).
L'orientamento è condiviso dai Tribunali amministrativi regionali. Basta citare, inter alia, la giurisprudenza del Tar Campania- Napoli (sentenze: n. 2103/2015; n. 1399/2015; n. 17938/2010; 2010, n. 17398/2012) e del Tar Puglia-Lecce (sentenza n. 1666 del 2012), secondo cui:
   - le sanzioni per opere edilizie abusive, costituendo un atto dovuto in presenza di presupposti stabiliti dalla legge, non necessitano della preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia;
   - non è necessario il parere della commissione edilizia comunale, sia in tema di provvedimenti sanzionatori come in tema di decisioni su istanze di sanatoria (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.02.2024).
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SENTENZA
9. Con la seconda censura, gli appellanti deducono l’error in iudicando in cui sarebbe incorso il Tribunale adito, nella parte in cui ha ritenuto infondato il primo motivo ricorso, relativo alla omessa acquisizione del parere della Commissione Edilizia Comunale.
Ciò in quanto, l’art. 93 della L.R. n. 16 del 2003, vigente all’epoca dei fatti, prevedeva che qualsiasi provvedimento repressivo di abuso, fosse esso l’ordine di demolizione ovvero l’applicazione della sanzione pecuniaria, dovesse essere preceduto dal parere della Commissione Edilizia Comunale.
9.1. La doglianza è infondata.
A tale proposito è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui il parere reso dalla Commissione Edilizia sulla domanda di condono è un atto meramente endoprocedimentale non necessario, tanto da non essere considerato, in quanto tale, oggetto di autonoma impugnazione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4208 del 2016).
In ogni caso, laddove non acquisito, la mancanza dello stesso non vizia l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, neppure ai fini del rigetto di istanze di condono o sanatoria, non essendo un atto presupposto ai fini dell’adozione (Cons. Stato, sez. IV, n. 4962 del 2016).
Pertanto, nel procedimento per la concessione in sanatoria, il parere della Commissione Edilizia Comunale non è obbligatorio (essendo al più facoltativo), tenuto conto dell’assenza di una specifica previsione al riguardo e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello ordinario di rilascio della concessione edilizia, sicché la mancanza di tale parere non è censurabile (Cons. Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013; Cons. Stato, sez. VI, n. 2038 del 2012).
Né si può predicare che il giudicante abbia omesso di tenere conto della peculiarità della normativa regionale veneta, tenuto conto che l’art. 4 d.P.R. n. 380 del 2001, nel rendere per i comuni facoltativa l’istituzione della Commissione Edilizia, ha introdotto un principio fondamentale in materia di governo del territorio, al quale deve sottostare la normativa regionale, ai sensi dell’art. 117 Cost. (Cons. Stato, sez. IV, n. 4783 del 2008).
Al riguardo è già stato affermato che le norme regionali in materia devono essere interpretate in senso costituzionalmente coerente con i principi generali introdotti dal predetto Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia n. 380 (Cons. Stato, sez. IV, n. 4793 del 2008), per cui la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la norma legislativa regionale, laddove prevede l’obbligatorietà del parere della Commissione Edilizia, deve intendersi implicitamente abrogata (Cons. Stato, sez. VI, n. 6042 del 2013).
Nondimeno, l’Amministrazione ha osservato che la Commissione Edilizia Comunale, come evidenziato nella relazione del Funzionario Comunale Ing. Cu., rilasciata in ossequio all’ordinanza del TAR Veneto n. 847 del 2018, si è in effetti pronunciata in due occasioni sulla sanzione poi irrogata alla ricorrente, e nella seduta del 02.05.2002 si è espressa dando: “parere favorevole” alla sanatoria ordinaria “limitatamente alle varianti interne e spostamenti di volumetria”, mentre ha espresso “parere non favorevole per quanto riguarda l’innalzamento della struttura di copertura e della valesana, in quanto in contrasto con l’art. 11 N.T.A. P.R.G.”; la Commissione Edilizia Comunale, infatti, ha concluso “vista la perizia asseverata prodotta dalla Ditta, dalla quale si evince la compromissione della parte conforme nel caso di demolizione della parte difforme, ritiene di procedere all’irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 93 L.R. 61/1985”.

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità assoluta.
Il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici.
Esso ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
Il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica e si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.12.2023 n. 10798 - massima tratta da e link a https://lexambiente.it).

VARIEredi risarciti anche se la vittima non indossava cinture di sicurezza.
Risarcimento pieno agli eredi anche se la vittima non indossava la cintura di sicurezza al momento dell'incidente stradale. E ciò perché con ogni probabilità sarebbe morta ugualmente, anche se avesse utilizzato il dispositivo di protezione: il giudice del merito, dunque, non può ridurre il ristoro del danno patito in prima persona dai familiari del de cuius senza verificare l'effettiva incidenza che ha avuto sull'evento-morte la trasgressione della regola cautelare ascritta alla vittima.

Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 12.12.2023 n. 34625.
Accolto il ricorso di vedova, figli e nipoti della vittima: sbaglia la Corte d'appello ad accogliere in parte il gravame dell'assicurazione addebitando all'interessato il 20% della colpa nel sinistro perché non indossava la cintura. In sede penale è accertata la responsabilità dell'altro conducente per omicidio colposo, aggravato dallo stato di ebbrezza.
Trova ingresso la censura che fa leva sulla consulenza tecnica svolta dal pm nel processo penale: nello scontro l'auto della vittima si deforma al punto che l'abitacolo si contrae, rendendo «inevitabile la compressione del torace» da parte del volante; l'uomo, insomma, sarebbe deceduto «con altissima probabilità» anche indossando la cintura.
È vero: il risarcimento ai congiunti superstiti deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ascrivibile al de cuius. Ma la condotta della vittima deve risultare colposa per essere apprezzata come concausa del danno patito dagli eredi, riducendo quindi il risarcimento.
E per ritenersi tale deve aver effettivamente inciso sulla dinamica del sinistro: il che si verifica solo quando l'evento-morte è il concretizzarsi del rischio specifico che l'osservanza della regola cautelare tendeva a evitare.
Insomma: è integrata la violazione dell'art. 2054 Cc denunciata dagli eredi perché la Corte d'appello si accontenta della violazione dell'art. 172 Cds senza verificare se e quanto l'inosservanza dell'obbligo d'indossare la cintura abbia inciso sulla morte, valutando l'attendibilità delle prove utilizzate. Parola al rinvio (articolo ItaliaOggi del 05.01.2024).

APPALTI: Criterio di aggiudicazione per gli appalti con caratteristiche standardizzate e ad alta intensità di manodopera: la parola alla Corte di giustizia UE.
La V sezione del Consiglio di Stato sottopone alla valutazione pregiudiziale della Corte di giustizia UE la disciplina dettata dall’art. 95 del codice dei contratti pubblici del 2016, che vieta il criterio di aggiudicazione del minor prezzo per gli appalti ad alta intensità di manodopera, anche nell’ipotesi in cui si tratti di appalto con caratteristiche standardizzate per il quale risulti accertato, in concreto, che le istanze di tutela dei lavoratori sono state rispettate.
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Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Appalti ad alta intensità di manodopera – Contemporanea sussistenza delle caratteristiche standardizzate – Criterio di aggiudicazione – Minor prezzo – Esclusione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia UE la seguente questione pregiudiziale:
   se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché il principio euro-unitario di proporzionalità e l’art. 67, paragrafo 2, della direttiva 2014/24/UE ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 95, commi 3, lett. a), e 4, lett. b), del dlgs 18.04.2016, n. 50, nonché nell’art. 50, comma 1, del medesimo dlgs, come anche derivante dal principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 21.05.2019, n. 8, secondo la quale, in caso di appalti aventi ad oggetto servizi con caratteristiche standardizzate ed al contempo ad alta intensità di manodopera, è vietata all’amministrazione aggiudicatrice la previsione, quale criterio di aggiudicazione, di quello del minor prezzo, anche nell’ipotesi in cui la legge di gara abbia cura di prevedere il ribasso sul solo aggio o utile potenziale di impresa, con salvezza dei costi per la manodopera. (1)

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, la V sezione del Consiglio di Stato interroga la Corte di giustizia UE circa la compatibilità, con il diritto euro-unitario, della previsione nazionale, contenuta nell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, che vieta il criterio di aggiudicazione del minor prezzo per gli appalti ad alta intensità di manodopera, anche laddove si tratti di servizi con caratteristiche standardizzate (connotati, cioè, come afferma l’ordinanza in epigrafe, “da elevata ripetitività e priv[i] di elementi personalizzabili”) e anche nell’ipotesi in cui non sussistano dubbi in ordine all’effettivo raggiungimento dell’obiettivo che la norma, nell’imporre il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ha inteso perseguire (la tutela delle garanzie dei lavoratori).
La controversia portata al giudizio della V sezione è stata originata da un appalto bandito dal Ministero della difesa per il servizio di manovalanza, connessa ai trasporti, per le esigenze centrali e periferiche dell’amministrazione.
Trattandosi di servizio con caratteristiche standardizzate, il disciplinare aveva stabilito il criterio di aggiudicazione del minor prezzo (mediante ribasso sull’aggio posto a base di gara): ciò, sulla base dell’art. 95, comma 4, lettera b), del codice del 2016, a norma del quale tale criterio “può” essere utilizzato, per l’appunto, “per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera…”.
La ratio di questa previsione –come non manca di evidenziare la sezione V, con l’ordinanza in epigrafe– risiede in ragioni di economicità e speditezza nella procedura, posto che si ha a che fare con prestazioni connotate da elevata ripetitività per le quali “è difficilmente immaginabile un apporto del concorrente tale da alterare l’aspettativa a una prestazione uniforme” ed è quindi ridondante la previsione di un confronto competitivo sulla migliore qualità tecnica delle varie offerte.
Su ricorso dell’impresa seconda classificata, il Tar per il Lazio, sez. I-bis, con sentenza 11.04.2023, n. 6259, ha annullato l’intera gara, rilevando la violazione della norma menzionata, nella parte in cui essa (a seguito di integrazione introdotta con il decreto-legge n. 32 del 2019, convertito in legge n. 55 del 2019) stabilisce l’eccezione per gli appalti ad alta intensità di manodopera, imponendo dunque per questi ultimi il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, pur se in presenza delle caratteristiche standardizzate.
Nello stesso senso si pone anche la previsione del comma precedente a quello poc’anzi citato, a norma del quale (lettera a) “Sono aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo: a) i contratti relativi […] ai servizi ad alta intensità di manodopera”, come definiti art. 50, comma 1, secondo periodo, del codice stesso (“I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell'importo totale del contratto”).
Per tali contratti la stessa norma impone l’inserimento, nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, di “specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato” e pone, quale condizione indefettibile, l’applicazione dei contratti collettivi di settore: dal che si apprezza la ratio perseguita dal legislatore italiano, che è quella di prevenire facili situazioni di sfruttamento dei lavoratori proprio mediante la necessaria comparazione qualitativa delle offerte, escludendo la possibilità di aggiudicare l’appalto sulla base del solo ribasso.
   II. – L’impresa aggiudicataria, vistasi annullata l’intera gara dal Tar, ha dunque proposto appello al Consiglio di Stato, sottoponendo al giudice di secondo grado il possibile contrasto della normativa italiana con i principi del diritto UE, nella parte in cui si rende necessario il ricorso al (ben più impegnativo) criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa pur laddove l’appalto, anche se connotato da alta intensità della manodopera, risulti regolato in modo tale da non far sorgere dubbi sul rispetto delle garanzie dei lavoratori.
Il collegio accoglie favorevolmente la prospettazione della parte e solleva la relativa questione pregiudiziale, argomentando, in sintesi, quanto segue:
      a) l’art. 95, comma 4, lettera b), del d.lgs. n. 50 del 2016 stabilisce un’apposita eccezione alla generale facoltà, per l’amministrazione, di prevedere il criterio del minor prezzo per i servizi e le forniture aventi caratteristiche standardizzate: l’eccezione (come già detto) riguarda i servizi ad alta intensità di manodopera per i quali, come conferma il comma 3, lettera a), non può prescindersi dalla previsione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa;
      b) l’Adunanza plenaria, con sentenza 21.05.2019, n. 8 (in Foro it., 2019, III, 365, in Urb. appalti, 2019, 631, con nota di PAGANI, in Guida al dir., 2019, 26, 82, con nota di PONTE, ed in Riv. corte conti, 2019, 3, 294, con nota di LONGHI, nonché oggetto della News US n. 64 del 29.05.2019, alla quale si rimanda per i necessari approfondimenti), ha evidenziato che:
         b1) la ratio dell’imposizione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per gli affidamenti di servizi ad alta intensità di manodopera, è quella di perseguire gli obiettivi –preminenti, secondo la Costituzione e il diritto UE, nel settore dei contratti pubblici– di tutela del lavoro;
         b2) detti obiettivi non possono essere sacrificati alle esigenze di carattere tecnico e alle determinazioni discrezionali dell’amministrazione; di conseguenza, ancor prima che ciò fosse chiarito dal legislatore con la (di poco) successiva novella del 2019, l’Adunanza plenaria ha affermato il principio di diritto secondo cui “gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo codice”;
      c) proprio in applicazione di tale principio, nel caso di specie, il Tar per il Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla seconda classificata, annullando l’intera gara;
      d) tuttavia, nel caso di specie, l’appalto bandito dal Ministero della difesa presenta le seguenti caratteristiche:
         d1) per un verso, esso riguarda operazioni meramente materiali e di movimentazione di colli, che sono ripetitive e standardizzate, per cui non si apprezza alcuna effettiva necessità di far luogo all’acquisizione di offerte tecniche differenziate, ciò che comporterebbe un inutile aggravio della procedura di gara;
         d2) per altro verso, il ribasso in sede di offerta doveva avvenire, da parte degli offerenti, non su un prezzo base comprensivo dei costi della manodopera, quanto piuttosto, esclusivamente, sull’aggio, da calcolarsi già al netto dei costi della manodopera;
         d3) il ribasso, quindi, poteva avvenire solo sull’utile potenziale di impresa, con invarianza dei costi per la manodopera: ciò che lascia, dunque, intatte le garanzie connesse alle necessarie tutele dei lavoratori impiegati nell’appalto;
      e) nell’ordinamento UE sono rinvenibili, in proposito, i seguenti indicatori normativi:
         e1) anzitutto, vi è l’art. 67, paragrafo 2, ultimo capoverso, della direttiva 2014/24/UE, a norma del quale “Gli Stati membri possono prevedere che le amministrazioni aggiudicatrici non possano usare solo il prezzo o il costo come unico criterio di aggiudicazione o limitarne l'uso a determinate categorie di amministrazioni aggiudicatrici o a determinati tipi di appalto”;
         e2) tale previsione –osserva il collegio rimettente– andrebbe letta conformemente al principio di proporzionalità, che è un principio generale del diritto dell’Unione, secondo il quale le norme stabilite dagli Stati membri, nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni della direttiva 2014/24/UE, non dovrebbero andare oltre quanto necessario per raggiungere gli scopi perseguiti da quest’ultima;
         e3) l’obiettivo di favorire la migliore qualità delle prestazioni costituisce, parimenti, un’indicazione fondamentale del diritto UE, specialmente alla luce di quanto afferma il Considerando n. 92 della direttiva menzionata, in base al quale “Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero essere incoraggiate a scegliere criteri di aggiudicazione che consentano loro di ottenere lavori, forniture e servizi di alta qualità che rispondano al meglio alle loro necessità”;
         e4) in tale contesto, non può dimenticarsi la risoluzione del 25.10.2011, sulla modernizzazione degli appalti pubblici (2011/2048(INI)), prodromica all’approvazione delle direttive del 2014, con la quale il Parlamento europeo, pur ritenendo che “il criterio del prezzo più basso non debba più essere il criterio determinante per l’aggiudicazione di appalti e che sia necessario sostituirlo in via generale con quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa in termini di benefici economici, sociali e ambientali, tenendo conto dei costi dell’intero ciclo di vita dei beni, servizi o lavori di cui trattasi”, sottolineava, comunque, “che una simile soluzione non esclude il criterio del prezzo più basso quale criterio decisivo in caso di beni o servizi altamente standardizzati”;
      f) nel trasporre dette indicazioni nel diritto interno, il legislatore italiano ha bensì sancito il divieto di utilizzare il criterio del prezzo più basso per la specifica tipologia dei servizi ad alta intensità di manodopera (art. 95, comma 4, lettera b, del d.lgs. n. 50 del 2016), ma ciò anche nell’ipotesi in cui l’appalto presenti, al contempo, caratteristiche standardizzate, laddove cioè non rilevano gli aspetti qualitativi delle prestazioni; simile previsione, tuttavia, appare eccedere quanto necessario per conseguire gli obiettivi, prima ricordati, perseguiti dalla direttiva e si pone, pertanto, in contrasto con il principio di proporzionalità;
      g) tale ultimo principio, nel caso di specie, assume particolare pregnanza alla luce:
         g1) sia delle previsioni della legge di gara, che stabilivano come criterio di aggiudicazione quello del maggior ribasso, da calcolarsi esclusivamente sull’aggio, con salvezza dei costi per la manodopera;
         g2) sia del fatto che il rispetto delle condizioni economiche e di sicurezza del lavoro è già stato accertato dalla stazione appaltante, in sede di subprocedimento di verifica dell’anomalia delle offerte, nonché dallo stesso Giudice nazionale (essendo già stati respinti –con parallela sentenza non definitiva della medesima Sezione– i motivi, introdotti dal ricorrente fin dal primo grado, e riproposti con appello incidentale, con i quali era stata revocata in dubbio la legittimità dell’offerta dell’aggiudicataria proprio in relazione alla violazione dei minimi salariali);
      h) i vantaggi tipici, collegati alla tutela dei lavoratori, che normalmente derivano dall’impiego del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa (oggetto di indiscusso favor nella disciplina UE), appaiono pertanto ugualmente raggiunti; e ciò, proprio all’esito dell’accertamento, in sede amministrativa e giurisdizionale, che non si è avuta alcuna violazione delle tutele che devono assistere le prestazioni di lavoro;
      i) a giudizio del Collegio, pertanto, appare sproporzionato l’obbligo della previsione del criterio di aggiudicazione del miglior rapporto qualità/prezzo, non venendo in considerazione possibili aspetti di miglioramento tecnico che avrebbero potuto, in tesi, caratterizzare le offerte aventi ad oggetto prestazioni standardizzate; in definitiva, la preferenza del diritto UE per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa pare non sposarsi, nella fattispecie de qua, con le ragioni che dovrebbero sostenerlo, con la conseguenza che l’imposizione di quel criterio appare misura palesemente eccessiva, sproporzionata ed ingiustificata.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      j) nell’affermare il principio secondo cui “Gli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera ai sensi degli artt. 50, comma 1, e 95, comma 3, lett. a), del codice dei contratti pubblici sono comunque aggiudicati con il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo, quand’anche gli stessi abbiano anche caratteristiche standardizzate ai sensi del comma 4, lett. b), del medesimo codice”, poi recepito dal legislatore nazionale con le previsioni del decreto-legge n. n. 32 del 2019, come convertito), l’Adunanza plenaria, nella richiamata sentenza n. 8 del 2019, ha tra l’altro osservato che:
         j1) il ricorso a criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici basati non sul solo prezzo, e quindi non orientati in via esclusiva a fare conseguire all’amministrazione risparmi di spesa, ma idonei a selezionare le offerte anche sul piano qualitativo, può essere funzionale, tra le altre ipotesi, alla tutela delle condizioni economiche e di sicurezza del lavoro;
         j2) il ricorso a criteri in grado di valorizzare aspetti di carattere qualitativo è motivato dall’esigenza di assicurare una competizione non ristretta al solo prezzo, foriera del rischio di ribassi eccessivi e di una compressione dei costi per l’impresa aggiudicataria che possa andare a scapito delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro e dei costo per la manodopera, in contrasto con gli obiettivi di coesione sociale propri degli obiettivi di “crescita inclusiva” enunciati in sede europea;
         j3) nella medesima direzione convergono imperativi di matrice costituzionale, espressi dal principio secondo cui l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto “con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, comma 2, Cost.), finalizzato a conciliare le esigenze della crescita economica, per la quale l’intervento pubblico mediante l’affidamento di contratti d’appalto costituisce un rilevante fattore, con quelle di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e delle loro condizioni contrattuali;
         j4) il comma 3 dell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016 si pone ad un punto di convergenza di valori espressi in sede costituzionale e facoltà riconosciute a livello europeo ai legislatori nazionali, per la realizzazione dei quali nel codice dei contratti pubblici il criterio di aggiudicazione del miglior rapporto qualità/prezzo è stato elevato a criterio unico ed inderogabile di aggiudicazione per appalti di servizi in cui la componente della manodopera abbia rilievo preponderante;
      k) sui criteri di aggiudicazione nel codice appalti del 2016, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 26.04.2018, n. 4 (in Urbanistica e appalti, 2018, 6, 785, con nota di MEALE, nonché oggetto della News US in data 10.05.2018), che ha statuito, con un importante obiter dictum, quanto segue: “è noto che il d.lgs. n. 163/2006 (come anche la legislazione antecedente) si fondava sul principio dell’equiordinazione dei metodi di aggiudicazione, la cui scelta restava rimessa alla responsabile discrezionalità della stazione appaltante (art. 81, commi 1 e 2 del predetto d.lgs. 12.04.2006, n. 163) mentre il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50 [...] ha introdotto all’art. 95 una rilevante novità sistematica (sulla scorta del considerando 89 della direttiva 24/2014, laddove si afferma che l’offerta ‘economicamente’ più vantaggiosa è ‘sempre’ quella che assicura il miglior rapporto tra qualità e prezzo), esprimendo un indiscutibile favor per il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e prevedendo un ‘sistema di gerarchia’ tra i metodi di aggiudicazione”;
      l) sui criteri di aggiudicazione, in dottrina, per un’ampia ricostruzione, anche in chiave storica, delle ragioni che hanno indotto il legislatore del 2016 a considerare tassativo il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso (come eccezione, cioè, rispetto alla regola ordinaria della selezione dell’offerta che presenta il miglior rapporto qualità-prezzo), cfr.:
         l1) R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1330 ss., la quale individua tali ragioni, in particolare, nelle seguenti: “promozione delle qualità delle prestazioni, tutela dell’ambiente, esigenze sociali volte a evitare l’impiego di manodopera a basso costo o sotto costo”;
         l2) L. GILI, La nuova offerta economicamente più vantaggiosa e la discrezionalità amministrativa a più fasi, in Urbanistica e appalti, 2017, 24 ss., specificamente a commento dell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016, anche alla luce delle Linee guida n. 2 del 21.09.2016, dell’ANAC (concernenti proprio il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la connessa discrezionalità rimessa alla stazione appaltante);
      m) le richiamate Linee guida, in particolare, hanno precisato che:
         m1) per prestazioni “a caratteristiche standardizzate” devono ritenersi quelle che non sono modificabili su richiesta della stazione appaltante oppure rispondono a determinate norme nazionali, europee o internazionali;
         m2) sono ad “elevata ripetitività” quelle prestazioni che soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la continuità della prestazione;
         m3) le stesse Linee guida hanno anche precisato che la ratio delle due ipotesi di aggiudicazione al minor prezzo, di cui all’art. 95, comma 4, lettere b) e c), del codice del 2016, sarebbe quella di consentire alla stazione appaltante di evitare oneri, in termini di tempi e costi, di un confronto concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo, quando i benefici derivanti da tale confronto sono nulli o ridotti (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 05.12.2023 n. 10530 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio-assenso scatta anche se l’attività del privato non è conforme alla norma. Pure in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
Il silenzio-assenso nei confronti della Pubblica amministrazione (anche nella materia edilizia) si rafforza sempre di più e vale anche nei casi in cui l’attività del privato non sia conforme alle norme.

Con la sentenza 30.11.2023 n. 10383 della IV Sez., il Consiglio di Stato consolida la svolta operata nel 2022 (sentenza n. 5746) per cui anche in edilizia vale il silenzio-assenso previsto dall'articolo 20 della legge 241/1990 con il solo decorso del termine a disposizione della Pa per provvedere sull'istanza del privato. E questo, pur in assenza dei requisiti di validità della domanda fissati dalla legge e delle condizioni per ottenere legittimamente il provvedimento espresso.
In tale ultimo caso la Pa dovrà piuttosto adottare, in autotutela, un provvedimento di annullamento del silenzio illegittimamente formatosi osservando, tuttavia, i relativi presupposti previsti dall'articolo 21-nones della legge 241/1990 e cioè il termine massimo di dodici mesi per provvedere e soprattutto l'interesse pubblico alla rimozione di quello che è ormai un atto formatosi. Risulterebbe invece illegittimo l'atto con cui la Pa, tardivamente, ritenga l'istanza del privato priva dei requisiti di validità previsti dalla normativa di settore.
In altre parole, perché si formi il silenzio-assenso invocato, per il privato sarà sufficiente soltanto il decorso del termine assegnato all'ente dalla normativa di riferimento per determinarsi in relazione al tipo di istanza del privato, anche in presenza di una domanda non conforme a legge.
Sarà comunque necessario che l'istanza sia aderente al modello normativo astratto prefigurato dal modello normativo astratto prefigurato dal legislatore. Questo, in nome della semplificazione amministrativa e dello snellimento burocratico, ritenuti una delle cause di mancanza di certezza dei tempi per l'avvio di un'attività del privato, specie di quelle produttive. Ma anche nell'ottica del principio di leale collaborazione, legittimo affidamento e buona fede cui sono informate le relazioni tra cittadini, operatori economici e Pubblica amministrazione ai sensi dell'articolo 1, comma 2-bis, della legge 241/1990, come modificato dal decreto legge Semplificazioni 76/2020.
Insomma, il silenzio-assenso è un principio generale posto a tutela della celerità dell'azione amministrativa e della semplificazione dei rapporti con i cittadini, principio che risponde a quello di buon andamento previsto dall'articolo 97 della Costituzione, e la cui applicazione non può essere subordinata alla preventiva verifica, da parte della Pa, della ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del titolo abilitativo richiesto.
Non si tratta quindi di valutare se la domanda, in astratto, sia assentibile in quanto in possesso di tutti i requisiti ma piuttosto se la domanda possieda quel minimum di elementi essenziali per il suo esame e non rappresenti erroneamente i fatti. In tali condizioni è l'Amministrazione che deve concludere il procedimento nei tempi prefissati dalla legge.
Già in precedenza, i giudici di Palazzo Spada avevano motivato la nuova tesi sulla base di una serie di indici normativi e cioè: l'espressa previsione di cui all'articolo 21-nonies, comma 1 della legge 241/1990 dell'annullabilità d'ufficio anche nel caso in cui il «provvedimento si sia formato ai sensi dell'art. 20», che presuppone evidentemente che la violazione di legge non incide sul perfezionamento della fattispecie, bensì rileva (secondo i canoni generali) in termini di illegittimità dell'atto; l'articolo 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dal decreto-legge n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), nella parte in cui afferma che «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, [] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni», conferma che, decorso il termine, all'Amministrazione residua soltanto il potere di autotutela; l'articolo 20, comma 2-bis, prevedendo che «Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio-assenso, l'amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell'intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo», stabilisce, al fine di ovviare alle perduranti incertezze circa il regime di formazione del silenzio-assenso, che il privato ha diritto ad un'attestazione che deve dare unicamente conto dell'inutile decorso dei termini del procedimento (in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie rimaste inevase e di provvedimenti di diniego tempestivamente intervenuti); l'abrogazione dell'articolo 21, comma 2, della legge n. 241 del 1990 che assoggettava a sanzione coloro che avessero dato corso all'attività secondo il modulo del silenzio-assenso, «in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in area tutelata, sì al silenzio-assenso se c’è l’ok paesaggistico.
Il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tar Toscana censurando un comune che aveva preteso l’attivazione della conferenza di servizi.
Il proprietario di un edificio nel comune di Monte Argentario ha chiesto il rilascio del permesso di costruire per un intervento in variante a un precedente intervento già assentito. Insieme alla richiesta il proprietario ha presentato anche la relativa autorizzazione paesaggistica, ottenuta dal Comune stesso. Decorso il termine per il silenzio-assenso, il proprietario ha chiesto il rilascio della relativa attestazione (ex articolo 20 del Dpr 380).
A quel punto il Comune ha comunicato all'interessato il diniego del permesso di costruire, sostenendo che «in presenza di beni insistenti in area vincolata il silenzio-assenso non può formarsi, nemmeno nel caso in cui le autorizzazioni e i nulla osta necessari siano stati già acquisiti» e che invece si sarebbe dovuta attivare una conferenza di servizi. Da qui il ricorso al Tar da parte dell'interessato.
Il primo giudice ha accolto il ricorso e ha annullato gli atti del Comune con la pronuncia n. 79/2023. I giudici della III Sezione del Tar Toscana hanno osservato che effettivamente il comma 8 dell'articolo 20 del Dpr 380 «prevede la formazione del silenzio-assenso sulle domande di rilascio del permesso di costruire, fatti salvi i casi in cui, per la presenza di vincoli, la pratica edilizia debba essere corredata da autorizzazioni e nulla osta, per l'acquisizione dei quali si prevede l'attivazione di una conferenza di servizi ex art. 14 della l. n. 241/1990».
Tuttavia, i giudici rilevano anche che «nel caso in esame la domanda di permesso di costruire in variante presentata dal ricorrente è stata corredata da tutti i documenti prescritti dalla legge». Lo stesso richiedente, infatti, aveva ottenuto dal Comune l'autorizzazione paesaggistica «con la quale si attesta la compatibilità paesaggistica e ambientale dell'intervento con il vincolo operante sull'area».
«Non occorreva quindi acquisire alcun ulteriore atto di assenso, da parte di altre amministrazioni», conclude il Tar. Peraltro, aggiungono i giudici, «l'indizione di una conferenza di servizi, in tale contesto, non solo non avrebbe avuto alcuna utilità, ma avrebbe determinato un ingiustificato aggravamento del procedimento, in evidente contrasto con la finalità di semplificazione propria degli istituti e degli strumenti previsti dal legislatore di cui si è dato conto».
La sentenza del Tar Toscana è stata confermata anche il Consiglio di Stato -Sez. IV- che, con la sentenza 21.11.2023 n. 9969 ha respinto l'appello del Comune di Monte Argentario.
A fronte del previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, dicono i giudici di Palazzo Spada «il diniego comunale di attestazione sull'assunto della assoluta inconfigurabilità del silenzio-assenso per il solo fatto della pertinenza dell'intervento ad area soggetta a vincolo rappresenta una errata applicazione del comma 8 dell'articolo 20 del Dpr 380 e una illegittima limitazione dell'operatività dell'istituto del silenzio-assenso, che producono l'effetto abnorme di frustrare le finalità di semplificazione e di accelerazione dell'agire amministrativo alla base della stessa disposizione normativa citata, nonché le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche all'origine delle più recenti modifiche apportate ad essa ed alla legge n. 241 del 1990».
«Non può, peraltro, diversamente opinarsi -concludono i giudici- invocando sia la disciplina speciale scandita nella legge n. 47 del 1985 in materia di condono sia la dequotazione della funzione della conferenza di servizi richiamata dall'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui modulo procedimentale trova la sua ragion d'essere nella concreta necessità di acquisire assensi e nulla osta di altri enti affidatari di interessi pubblici coinvolti nell'azione amministrativa».
Particolarmente severo il giudizio sull'operato del Comune. Quest'ultimo, rilevano i giudici, «ha basato il diniego di attestazione esclusivamente sull'inapplicabilità del silenzio-assenso in presenza di vincoli, senza fare alcun cenno ad altri possibili ostacoli alla realizzazione dell'intervento di cui all'istanza di permesso in variante, come la contrarietà al regolamento comunale, mentre le eventuali ragioni di contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia avrebbero dovuto essere da esso attentamente valutate entro il termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento, rappresentando ora, per come esposte, in mancanza di qualsiasi esercizio del potere di autotutela contro il provvedimento formatosi per silentium, un'inammissibile motivazione postuma» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.11.2023).

ATTI AMMINISTRATIVI: Concorsi, diritto d’accesso alle videoregistrazioni degli orali in meeting room. In quanto documento informatico detenuto da una Pa e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere.
La nozione di documento amministrativo ai sensi della storica disciplina sull’accesso agli atti ricomprende anche le riproduzioni audio o audiovideo della prova orale di un pubblico concorso nel caso in cui siano state effettuate.

A ciò conseguendo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 17.11.2023 n. 9896 che essendo la prova orale riconducibile al procedimento selettivo, la sua riproduzione deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una Pa e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere. E senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi a oggetto un tradizionale atto o incartamento formato dalla Pa.
Per il massimo giudice amministrativo la normativa è infatti assolutamente esplicita nel riferirsi a documentazione che sia anche solo detenuta e non necessariamente compilata dalla Pa.
Peraltro, a ben vedere, le prove concorsuali orali sono certamente atti del procedimento selettivo al pari delle prove scritte; pertanto, così come è consentito l'accesso a queste ultime, allo stesso modo non si vede perché non debbano esserlo anche a quelle orali, qualora siano state videoregistrate o comunque memorizzate.
Il ricorrente in qualità di lavoratore socialmente utile della cosiddetta platea storica aveva partecipato alle prove selettive da bando. Nella vicenda il disciplinare della procedura concorsuale riservata ai Lsu aveva attribuito a un istituto in controllo pubblico il compito di assistere le amministrazioni interessate nello svolgimento delle procedure concorsuali; mettendo a disposizione delle Commissioni esaminatrici il portale delle candidature e apposite meeting room (stanze virtuali) per lo svolgimento della prova orale.
Fornendo, oltre all'assistenza per la prova, anche un manuale d'uso della procedura telematica secondo quanto previsto dal formulario tecnico della procedura selettiva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Secondo il Consiglio di Stato anche con riferimento alle riproduzioni audio e video delle prove orali, sussiste l'interesse concreto del candidato di accedervi per specifiche esigenze difensive; dovendo peraltro riconoscersi nella maggioranza dei casi l'inesistenza di motivi ostativi all'ostensione.
Su queste basi il giudice amministrativo ha pertanto consentito al ricorrente di accedere -a sue spese- a un campione significativo delle riproduzioni audio e audiovideo delle prove orali dei candidati collocati utilmente in graduatoria; che tuttavia egli stesso dovrà indicare, fino a un numero massimo di dieci prove d'esame, alle Amministrazioni intimate e detenenti la documentazione.
A giudizio del Collegio di palazzo Spada la speciale documentazione in argomento non ottenuta dall'interessato con le istanze presentate alla Pa non può essere sottratta all'accesso richiesto, sussistendo l'evidente collegamento tra l'interesse alla conoscenza del candidato che richiede la visione e la documentazione oggetto della relativa istanza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.01.2024).

EDILIZIA PRIVATA: M. Esposito, Diritto di panorama, godere di una bella vista da casa è un diritto inviolabile: ecco come puoi difenderlo e in quali casi.
Il diritto di panorama consente al proprietario dell’immobile di godere della vista panoramica dalla propria abitazione. Vediamo come funziona e quali differenze esistono rispetto al diritto di veduta.
È noto che le abitazioni che hanno una veduta panoramica sono generalmente più apprezzate, tanto da avere un valore maggiore anche sul mercato immobiliare.
In quest’ottica, il c.d. “diritto di panorama” non solo esiste, ma può essere tutelato dal proprietario dell’abitazione ogniqualvolta –soprattutto in contesti urbani– subisca delle limitazioni derivanti, ad esempio, dalla costruzione di edifici vicini o dalla presenza di alberature.
Ma andiamo con ordine.
Il nostro Codice Civile, in realtà, non riconosce espressamente il diritto di panorama: si tratta, infatti, di una figura di elaborazione giurisprudenziale.
L’origine del diritto di panorama può essere ricondotta, infatti, ad una interpretazione “estensiva” dell’art. 907 c.c. che regola il diritto di veduta, ossia il diritto del proprietario di un fondo (termine, questo, che ricomprende anche le abitazioni) di affacciarsi su quello del vicino senza incontrare ostacoli prima di una determinata distanza (c.d. distanza legale).
Viceversa, il diritto di panorama è decisamente più ampio: è il diritto di guardare verso l’orizzonte senza incontrare ostacolo alcuno in modo da avere –appunto– pieno godimento del panorama.
Il diritto di panorama, al pari del diritto di veduta, si configura come una servitù negativa.
In generale, l’art. 1027 c.c. definisce la servitù come il peso o la limitazione imposta ad un fondo, detto servente, per l’utilità di un altro fondo, detto dominante, che appartiene ad un’altra persona.
In particolare, poi, la “servitù negativa” derivante dal diritto di panorama (e di veduta) implica che il proprietario del fondo dominante ha il potere di vietare al proprietario del fondo servente la realizzazione di opere permanenti che possano pregiudicare la particolare visuale e attrattiva dell’immobile.
Come sopra accennato, il diritto di panorama è di creazione giurisprudenziale. È necessario, quindi, prendere le mosse dalle sentenze che lo hanno riconosciuto al fine di individuare i requisiti necessari per la sua esistenza.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile con la recente ordinanza 22.06.2023 n. 17922, ha ribadito che il diritto di panorama, inteso come servitù negativa, può essere acquistato
   (i) per contratto,
   (ii) per destinazione del padre di famiglia e
   (iii) per usucapione,
necessitando ai fini dell’accertamento della sua costituzione “non solo della destinazione conferita dall’originario unico proprietario o dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche della dimostrazione di opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta”.
Quindi, come ci si può tutelare in presenza di costruzioni e/o alberature che ledano il diritto di panorama?
Innanzitutto il titolare del diritto di panorama (proprietario del fondo dominante) potrà richiedere al proprietario del fondo servente di rispettare il proprio diritto, invitandolo a far cessare la turbativa (ad esempio, potando o spostando gli alberi che ostacolano il panorama).
In assenza di uno spontaneo riscontro, tuttavia, l’unica strada da intraprendere rimane quella giudiziale.
In tal senso, l’art. 1079 c.c. prevede che “il titolare della servitù può farne riconoscere in giudizio l'esistenza contro chi ne contesta l'esercizio e può far cessare gli eventuali impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino, oltre al risarcimento dei danni”.
L’onere probatorio, quindi, è posto a carico del proprietario del fondo dominante che dovrà dimostrare sia l’esistenza del diritto di panorama, sia l’esistenza sul fondo servente di opere permanenti e visibili ulteriori che pregiudicano il godimento della vista panoramica.
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Art. 1027 Codice Civile - Contenuto del diritto
Art. 1079 Codice Civile - Accertamento della servitù e altri provvedimenti di tutela
(03.02.2024 - tratto da e link a www.brocardi.it).
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ORDINANZA
3.– Con il secondo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione o falsa applicazione degli artt. 1058 e 1061 c.c. nonché dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto integrata la lesione di un non meglio specificato diritto alla vista del panorama –diritto di servitù ben distinto da quello di veduta–, pur essendo mancato, in entrambi i gradi di giudizio, qualsiasi accertamento in ordine ai fatti costitutivi di tale presunta servitù, sia quanto alla sua costituzione per contratto, sia quanto alla sua costituzione per usucapione o per destinazione del padre di famiglia.
Obietta, ancora, l’istante che, a monte, non sarebbero stati mai nemmeno allegati i fatti costitutivi di tale servitù di panorama a cura della Cu., non esistendo alcun titolo, né negoziale né di altro tipo, da cui si potesse ricavare l’esistenza di una simile servitù.
D’altronde, secondo la ricorrente, l’esistenza della servitù di panorama non si sarebbe potuta desumere dalla particolare amenità del luogo in cui si trovava la proprietà Cu., ovvero Positano, una delle più belle e caratteristiche località della costiera amalfitana.
Osserva, in ultimo, l’istante che, in ordine al ben distinto diritto di veduta, sarebbe già passata in giudicato l’affermazione circa l’inesistenza della violazione di cui all’art. 907 c.c.
3.1.– La doglianza è fondata.
Ora, la panoramicità del luogo consiste in una situazione di fatto derivante dalla bellezza dell’ambiente e dalla visuale che si gode da un certo posto, che può trovare tutela nella servitù altius non tollendi, non anche nella servitù di veduta, che garantisce il diritto affatto diverso di guardare e di affacciarsi sul fondo vicino (Cass. Sez. 2, Ordinanza 14.05.2019 n. 12793; Sez. 1, Sentenza 26.05.2017 n. 13368; Sez. 2, Sentenza n. 8518 del 31/03/2017; Sez. 2, Sentenza n. 2973 del 27/02/2012; Sez. 2, Sentenza n. 8572 del 12/04/2006).
La servitù di veduta panoramica è configurata, pertanto, quale servitù volta ad assicurare la particolare amenità del fondo dominante per la visuale di cui esso gode, con impedimento della costruzione di opere in assoluto, o oltre determinate soglie, attraverso parte o tutto il fondo servente, in ciò differenziandosi dalla servitù di veduta, che invece è compatibile con la costruzione di opere a distanza legale.
Il diritto di veduta panoramica si risolve, dunque, –secondo la giurisprudenza– in una servitù, in ragione dei casi, non aedificandi o altius non tollendi (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1206 del 13/02/1999; Sez. 2, Sentenza n. 10250 del 20/10/1997; Sez. 2, Sentenza n. 6683 del 13/06/1995).
Nondimeno, il diritto di veduta consistente nella fruizione di un piacevole panorama –che si pretende, nella fattispecie, leso dalla collocazione di una pensilina in plastica, posta sul terzo livello del fabbricato, a copertura di un sottostante balcone, con relativa turbativa del diritto di fruire della vista del panorama di Positano– esige che di esso sia previamente accertata l’esistenza.
Ebbene, la veduta panoramica può essere acquistata, oltre che in via negoziale (a titolo derivativo), anche per destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a titolo originario), necessitando, tuttavia, tali modi di costituzione non solo, a seconda dei casi, della destinazione conferita dall’originario unico proprietario o dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta.
Nella fattispecie, di tali modi di acquisto la sentenza d’appello non dà atto, sicché essa deve essere cassata.
E ciò perché l’esistenza del diritto di veduta del panorama non può essere riconosciuta, indicandone la fonte nella mera preesistenza della visuale rispetto all’opera contestata.
Ove bastasse, ai fini di ritenere validamente costituita la servitù di veduta panoramica, la mera esistenza in fatto di detta veduta, prima che l’opera contestata ne compromettesse l’esercizio, sarebbe leso il principio della tipicità dei modi di acquisto dei diritti reali.
Dovrà essere il Giudice del rinvio a verificare se sia stato o meno dimostrata in atti la legittima costituzione di tale diritto di veduta panoramica.

VARIIl figlio non va mantenuto oltre i 34 anni anche se disoccupato.
La corte fissa la «dead line» oltre la quale per nessun motivo il giovane ha diritto all'assegno da parte del genitore: non dovrà mantenerlo, infatti, oltre i 34 anni, e ciò anche se è disoccupato.

Con l'ordinanza 10.01.2023 n. 358, i giudici della Corte di Cassazione, Sez. I civile, hanno accolto il ricorso di un padre che si opponeva all'obbligo di mantenere la figlia ultraquarantenne.
Ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il giudice di merito è tenuto a valutare, con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 02.01.2024).
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MASSIMA
È principio di diritto quello secondo cui, in tema di filiazione, la maggiore età, tanto più quando è matura, implichi l'insussistenza del diritto al mantenimento.
La capacità di mantenersi e l'attitudine al lavoro sussistono sempre, in sostanza, dopo una certa età (34 anni), che è quella tipica della conclusione media di un percorso di studio anche lungo, purché proficuamente seguito, e con la tolleranza di un ragionevole tasso di tempo ancora per la ricerca di un lavoro.
Sicché, è onere del figlio maggiorenne ormai divenuto adulto provare non solo la mancanza di indipendenza economica che è la pre-condizione del diritto preteso, ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la ricerca di un lavoro
(tratta da www.ordineavvocatinapoli.it)

URBANISTICA: Osserva la Corte costituzionale come la pianificazione sia diretta, “al di là di letture minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati”.
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti climatici.
Difatti, secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
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2.2. Col secondo motivo, rubricato (“eccesso di potere per violazione, falsa, mancata e/o sviata applicazione dei principi sulla riduzione del consumo di suolo libero di cui agli artt. 1 e 2 della l.r. 28.11.2014, n. 31 – contraddittorietà tra atti amministrativi - travisamento dei fatti – difetto assoluto di istruttoria – illogicità - difetto ed erroneità della motivazione”), si deduce il travisamento dei fatti e difetto di istruttoria perché il Comune non avrebbe considerato la reale situazione effettiva delle aree, caratterizzate dalla presenza di inerti e dalla necessità di effettuare opere di bonifica.
Inoltre, il Comune avrebbe fatto erronea applicazione della L.R. n. 31/2004 e non avrebbe considerato che il consumo di suolo si determinerebbe solo nel caso di trasformazione per la prima volta di una superficie agricola, mentre l’area dei ricorrenti –in quanto compromessa– avrebbe dovuto essere considerata come “suolo già consumato”.
...
4. Parimenti infondato è il secondo motivo, con cui si deduce il travisamento dei fatti poiché, essendo l’area occupata da inerti e necessitante una bonifica, il Comune non avrebbe potuto attribuire una destinazione a verde all’area e avrebbe anzi dovuto considerarla come “suolo già consumato” ai sensi della L.R. n. 31/2004.
4.1. Come il TAR ha già avuto modo di osservare in relazione al medesimo Pgt del Comune di Milano (cfr. sentenza Sez. II, 10.01.2022, n. 45), “la Relazione al D.d.P. del P.G.T. offre esaustive spiegazioni della scelta di politica urbanistica intrapresa sul tema del contenimento del consumo del suolo e sull’incremento delle aree verdi.
In particolare, il Piano ‘non genera nuove volumetrie rispetto al PGT 2012, ma tutela 1,7 milioni di m² dalla possibile urbanizzazione attraverso il ridimensionamento delle previsioni insediative e il vincolo a destinazione agricola di 3 milioni di m² (metà delle quali sottratte a nuova edificazione), riducendo così del 4% il consumo di suolo’. L’obiettivo dell’Amministrazione è quello di ‘costruire e rafforzare reti e relazioni ambientali che, mediante politiche di risparmio di suolo e di paziente riconquista di quello già sfruttato, si insinuano tra il costruito attraverso interventi puntuali di riconnessione di spazi pubblici e privati, di riforestazione, di ‘rigenerazione ambientale’ di luoghi degradati e frammentati’ […].
Le esigenze di tutela ambientale non involgono solo il tema del consumo del suolo ma assumono anche una prospettiva più ampia mirando ‘alla riduzione e minimizzazione delle emissioni di carbonio, [al] miglioramento del drenaggio e microclima urbano, [alla] realizzazione di infrastrutture verdi con l’obiettivo di ridurre l’immissione di acque meteoriche nel sistema fognario, la mitigazione delle isole di calore e l’innalzamento degli standard abitativi agendo sull’aumento del verde urbano’ […]. L’utilizzo della pianificazione urbanistica per il raggiungimento di tali obiettivi non è, certo, un fuori d’opera
”.
4.2. Al contrario, osserva la Corte costituzionale come la pianificazione sia diretta, “al di là di letture minimalistiche”, “non solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 09.05.2018, n. 2780, 22.02.2017, n. 821 e 10.05.2012, n. 2710)” (Corte Costituzionale, sentenza 16.07.2019, n. 179).
La Corte Costituzionale ricorda, quindi, come la pianificazione serva a realizzare lo sviluppo complessivo ed armonico nel rispetto dei valori costituzionali tra i quali vi sono certamente, in linea generale, le esigenze di tutela di valori ambientali e anche di contrasto ai cambiamenti climatici, come esposto, del resto, dalla giurisprudenza della Sezione (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 29.5.2020, n. 960; id., 14.11.2020, n. 2491).
Difatti, secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656; TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 14.02.2020, n. 309).
4.3. In quest’ottica, la censura non deve essere accolta, in quanto la pianificazione si pone in linea con strategie più ampie di tutela dei valori richiamati. Infatti, lo strumento approvato prevede “la riduzione della superficie urbanizzabile da circa 3,5 mln di m² a circa 1,8 mln di m², con un risparmio di suolo pari a circa 1,7 mln di m²”.
Ciò comporta “una consistente riduzione dell’indice di consumo di suolo, che scende al 70%, quattro punti percentuali in meno rispetto alle previsioni del PGT 2012”. Tale riduzione scaturisce anche “dall’eliminazione degli ATU e dal sensibile ridimensionamento delle previsioni legate ai PA Obbligatori”.
Le linee generali del piano trovano, quindi, specifica declinazione ed attuazione con riferimento al comparto in esame, ove la presenza della “pertinenza indiretta” è funzionale alla realizzazione dell’area ecologica proprio perché volta all’acquisizione di un’area inquinata e alla sua trasformazione in area a verde fruibile, congiungendo in continuità l’area verde di collegamento tra il Parco Nord e i Giardini di Via Pedroni e il Parco di Villa Litta (in cui l’area di proprietà dei ricorrenti è rappresenta quale verde di nuova previsione nella parte inferiore del NIL Affori).
A fronte di ciò, la riconversione di aree già urbanizzate in suolo libero non può, quindi, considerarsi estranea alle ragioni su cui riposano le previsioni contenute nella L.r. n. 31/2014 in quanto le esigenze ambientali non sono preservate solo mediante il riuso del patrimonio esistente ma anche (se non a fortiori) mediante la restituzione a superficie libera di una superficie già consumata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2022 n. 2053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi, la prescrizione del reato «abbatte» l'ordine di demolizione.
L'estinzione del reato comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca dell'ordine di demolizione. Sono definibili abusi edilizi gli «interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali».
Definizione
Più precisamente, l'articolo 31 del Dpr 380 del 2001 definisce gli abusi edilizi quali gli: «interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile».
Sospensione
L'azione penale relativa alle violazioni edilizie, va detto, che rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, eventualmente, intrapresi. Il rilascio in sanatoria del permesso di costruire, infatti, estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti.
Azione penale
Per le opere abusive di cui trattasi, ad ogni buon conto, è previsto che il giudice penale, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44 del Dpr 380/2001, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
La sentenza
Ora, la Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la sentenza 12.03.2021 n. 9915, ha ribadito il principio per cui l'estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva dichiarata dal giudice dell'appello comporta come conseguenza la dichiarazione di revoca dell'ordine di demolizione impartito con la sentenza di primo grado.
Il meccanismo
Tale meccanismo si applica alle sole sentenze di condanna per il reato di cui all'articolo 44 del Testo unico edilizia, come disposto dall'articolo 31, comma 9, del citato testo normativo (in punto si veda, Corte di Cassazione 8409/2007 del 30.11.2006).
Conclusione
Nel caso trattato -in effetti, per come è dato leggere- la sentenza impugnata aveva omesso di disporre, a fronte della intervenuta estinzione del reato di cui all'articolo 44 citato, la revoca dell'ordine di demolizione e la restituzione in pristino dello stato dei luoghi.
Pe cui, a fronte di quanto sopra, il giudice di legittimità ha, in punto, annullato senza rinvio limitatamente alla mancata revoca la già menzionata misura demolitoria e disposto di conseguenza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 15.03.2021).

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